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Sartre fuori moda

di Marco Gaetani

Continuo il lavoro di recupero di articoli usciti sui precedenti siti di Poliscritture (2005-2010; 2010-2013) non più accessibili on line. Oggi ripubblico questo bel saggio di Marco Gaetani. Comparve sul numero prova di Poliscritture (aprile 2005). Sartre era fuori moda allora e lo è ancor più oggi nel 2021.  Eppure resta per  me e per tanti un modello vivo e attuale: «l’ultimo dei maîtres à penser occidentali, testimonianza individuale della perdurante possibilità di esercitare la funzione critica pur entro gli scenari storicamente più asfittici – incarnazione della libertà umana così come ebbe egli stesso a teorizzarla, prova vivente di quella ineludibile apertura per cui l’individuo può sempre proiettarsi oltre la situazione che lo stringe e condiziona» (Gaetani). Un  pizzico d’orgoglio ho provato nel rileggere la prosa di Marco. Sì,  in tanti anni di poliscritture un po’ di buone teste pensanti e capaci di robusta scrittura  le abbiamo intercettate. [E. A.]

Il 2005 è anno sartriano: l’uomo che scelse di essere Jean-Paul Sartre nacque infatti a Parigi il 21 giugno del 1905. Il sistema delle ineluttabili recursività su cui si fonda ormai l’industria mediatico-istituzionale dell’”evento culturale”, quel meccanismo combinatorio brillantemente descritto qualche anno fa da Maurizio Bettini, può forse offrire – la ricorrenza scattando “oggettivamente” – se non altro un’occasione per tornare a riflettere in maniera non solitaria (ed evitando, nell’unanimismo dominante, ogni accusa di estemporanea gratuità) sulla figura del “celebrando secondo il turno calendariale” (Contini). Certo non è facile in questi casi sottrarsi alla chiacchiera, sfuggire al turbinio effimero di cui s’ingrossano le pagine degli inserti culturali. Si tratta tuttavia, per quanto possibile, di volgere a profitto l’incremento di pubblicazioni a stampa, la temporaneamente benevola disposizione dell’udienza, ed ogni altra circostanza virtualmente favorevole; di cogliere infine il pretesto dell’anniversario per qualche considerazione meno genericamente apologetica, oziosa, vacua o scandalistica. Al clima delle celebrazioni sartriane deve probabilmente qualcosa anche un recente volume, uscito negli ultimi mesi dell’anno scorso (e dunque in tempestivo anticipo sulla scadenza centenaria) per le cure di un valente studioso italiano di Sartre, Giovanni Invitto.[1]

Il libro costituisce la “trasposizione integrale della colonna sonora” di un film biografico realizzato nei primi anni settanta e uscito in Francia nel 1976; la struttura dialogata conferisce al testo un andamento fluido e divagante, da conversazione: la “voce” di Sartre si alterna con quelle dei suoi interlocutori (Simone De Beauvoir, Michel Contat, Alexandre Astruc, André Gorz, Jacques-Laurent Bost, Jacques Pouillon) e con quella “recitante” che inframmezza al dibattito passi tratti dalle opere del filosofo; l’interazione dialogica riportata mantiene così qualcosa della oralità originaria, attrae il lettore riuscendo varia eppure sostenuta, nel toccare tanto problematiche di carattere schiettamente filosofico quanto argomenti tratti dall’attualità politica dell’epoca (Cuba, la tensione tra U. S. A. e U. R. S. S., l’Algeria, il Vietnam), con le note del curatore italiano che soccorrono puntualmente a precisare, informare, fornire dettagli su quei personaggi e quelle situazioni al lettore odierno non più trasparenti; didascalie a margine del testo riferiscono infine delle immagini e dei suoni che nella pellicola costituiscono o integrano la testura audiovisiva. Non mancano, nel corso della conversazione, la rievocazione autobiografica (con alcuni aneddoti sapidi ma ad una lettura non superficiale provvisti di una loro più significativa valenza: si veda per tutti il ricordo dell’incontro con Lukács) e alcune estemporanee boutades del protagonista, degne di essere ricordate a testimonianza della vitalità di un esprit che a dispetto delle interpretazioni virate al nero dell’Esistenzialismo non si sottrae al buonumore ed alla franca risata (così càpita di raccogliere una perla di misoginia dalle labbra del niente affatto misogino Sartre: “amo molto essere con una donna perché non amo la conversazione di idee”). Il testo – collocandosi all’incrocio tra narrativa, saggio, dialogato teatrale – offre insomma un esempio di assai alta divulgazione, con l’opportunità di ripercorrere l’esperienza umana e intellettuale del pensatore parigino senza immergersi in testi dall’argomentazione teoricamente più impegnativa.

Anche sulla scorta di questo salutare pro memoria è così possibile procedere ad una rapida ricognizione dell’attualità del pensiero sartriano. Cercando di evitare i due opposti rischi: non si tratta di stabilire – tribunale dei posteri – ciò che vivo e ciò che è morto della filosofia di Sartre, e neppure di aderire ad una prospettiva invece frettolosamente totalizzante, del genere “tutto o niente”. Sartre è del resto, sicuramente, pensatore problematico e controverso per definizione, propenso ai continui rimaneggiamenti delle proprie posizioni (espressioni del tipo “oggi ritengo che…”, a lui consuete, sono molto più che una divisa di prudente saggezza, e nient’affatto riconducibili a qualsivoglia forma di scetticismo relativistico); resta tuttavia vero ciò che anche la critica a lui maggiormente avversa non manca di riconoscergli, vale a dire che alcuni nuclei di fondo della sua concezione sostanzialmente non mutarono mai (prima tra tutte le costanti, quella verità – davvero “incondizionata” – per cui vale sempre il “contatto della coscienza con se stessa”[2]). Ragione per la quale non risulta possibile isolare nel pensiero di Sartre singoli aspetti ancora vitali e fecondi e prescindere da altri invece ritenuti “invecchiati”, trascegliendo indiscriminatamente e a piacimento entro le coordinate di una teorizzazione che ha una sua forma di sistematicità.[3]

Non è meno vero, d’altra parte, che l’oggetto-Sartre non si può probabilmente assumere all’ordine del giorno nella sua interezza senza un complessivo ripensamento critico che valga se non altro a riacclimatarlo rispetto ad una situazione storica, quella contemporanea, tanto differente da quella in cui esso venne a originarsi e maturò. Egualmente, non va taciuto che la cultura occidentale – non si pensa qui soltanto alle aristocrazie intellettuali della più diversa estrazione ideologica – sembra aver risolto il dilemma volentieri rimuovendo in blocco un pensatore oggi sovente considerato inattuale, e comunque ingombrante. Sartre è davvero più che mai fuori moda, e come per l’Adorno di Fortini[4] ci si può però chiedere se almeno in Italia la voga sartriana sia stata mai davvero tale, al di là delle pose di alcuni e dell’impegno ermeneutico di un ristrettissimo numero di frequentatori in servizio effettivo e permanente. E comunque oggi, inequivocabilmente, il continente-Sartre non stimola viaggi d’esplorazione che non siano solitari; lo stesso Sartre-personaggio risulta facilmente antipatico, le sue scelte private, pubbliche, intellettuali sovente respingono; il pensiero sartriano (indubbiamente, malinconicamente “forte”) appare per sovrappiù inutilmente ostico, non concede all’interprete facili gratificazioni. Il volume curato da Invitto (del quale si raccomanda anche la bella “Nota in premessa”, che assume come titolo un lapsus “cartesiano” – “Sono dunque penso” – proferito in conversazione dal filosofo, e giustamente considerato dal curatore come altamente significativo della personalità e della concezione filosofica sartriane) permette di ricapitolare i tanti Sartre che si sono succeduti dagli anni trenta ai settanta: dal punto di vista filosofico, ecco allora il passaggio dal fenomenologo dell’immaginario e dall’indagatore della trascendenza dell’Ego all’autore del libro capitale non solo del sartrismo ma di tutto l’orientamento esistenzialistico novecentesco: con L’Etre et le Néant, in effetti, l’Esistenzialismo dimostra di potersi sottrarre nettamente ad ogni tentazione di carattere mistico-religioso, che si tratti di una prospettiva à la Jaspers o di soluzioni di matrice heideggeriana. E poi la tappa successiva al lavoro sulla ontologia fenomenologica, quella Critique de la raison dialectique che ci consegna un Sartre definitivamente affrancato dal solipsismo, e un individuo “in situazione”; senza che l’itinerario si esaurisca: il lavoro speculativo successivo alla Critique presenta un autore ancora capace di imprimere al proprio pensiero correzioni originali e sostanziali.[5]

Il mutamento ideologico di Sartre viaggia ovviamente di conserva rispetto alla sua evoluzione filosofica: basterebbe la menzione dei suoi rapporti con il marxismo, proverbialmente problematici e controversi, a restituirci l’immagine di un intellettuale che “non ha mai accettato niente senza contestare” e che “ha sempre voluto ricercare le cose per conto suo”.[6] E molto lunghi discorsi meriterebbe certo anche la produzione romanzesca e teatrale, dal celeberrimo La Nausée fino all’adattamento di Le Troiane euripidee: una produzione vasta, sicuramente diseguale ma per molti aspetti anch’essa coerente, e sulla quale il tempo (i gusti del pubblico non meno che le valutazioni dei critici) sembra avere in effetti depositato una patina difficilmente rimovibile; produzione tuttavia cui non si potrà negare il potere, oggimai raro, di restituire in profondità il clima di un’intera epoca, di rappresentarne le questioni vitali, di dare espressione ai problemi nevralgici (materiali e spirituali) per essa fronteggiati dalle coscienze individuali e politiche. Dire in breve dell’attualità di Sartre, senza aver modo di problematizzare, non è impresa possibile. Si cercherà qui di focalizzare soltanto tre aspetti rispetto ai quali il lascito sartriano può essere considerato ancor oggi prezioso. Va da sé che si tratta di tre questioni fortemente interrelate. Tornare all’esperienza, alla parola, al pensiero di Sartre tentando di farli reagire col tempo presente significa per prima cosa e soprattutto imbattersi in una figura di intellettuale che fa il suo mestiere con una estrema lucidità e coerenza. Sartre è senz’altro, lo si usa dire, una delle ultime incarnazioni dell’intellettuale classico. Ma egli dimostra di essere continuamente ben consapevole della circostanza, e delle sue conseguenze. L’intellettuale, nella interpretazione sartriana, è per definizione nodo di contraddizioni che si riconosce come tale, (auto)coscienza infelice perpetuamente in guerra con se stessa. Comunque la si pensi in proposito, fa ancora impressione constatare come il borghese Sartre resti a tutt’oggi l’unico scrittore ad essersi rifiutato di indossare la marsina per ricevere dalle mani di un re scandinavo il riconoscimento borghese per eccellenza.[7] Giova rammentare che almeno un paio di sedicenti comunisti, nell’ultimo decennio, si son guardati bene dal compiere un gesto analogo: gesto forse inutile, ma sicuramente paradigmatico di un modo tradizionale nel senso alto di interpretare la funzione storica dell’intellettuale. Gesto esemplare. Sartre ci si presenta così – con il carico delle sue contraddizioni ma soprattutto per il buon uso che seppe farne – come probabilmente l’ultimo dei maîtres à penser occidentali, testimonianza individuale della perdurante possibilità di esercitare la funzione critica pur entro gli scenari storicamente più asfittici – incarnazione della libertà umana così come ebbe egli stesso a teorizzarla, prova vivente di quella ineludibile apertura per cui l’individuo può sempre proiettarsi oltre la situazione che lo stringe e condiziona frustrando ne lo slancio teleologico. Se Sartre vivente lo si vede soprattutto, com’è fatale, in un atteggiamento militante che non ha paura, negli anni, di fiancheggiare tutte le esperienze radicali ponendosi sempre al fianco delle istanze storiche più avanzate, nel filosofo che ormai celebre non depone la convinzione per cui “ribellarsi è giusto” (e che trova pertanto “notevole”, ad esempio, una rivoluzione, quella cubana, che è anche una festa); se ciò è certamente vero, non meno vero è che la passione civile e l’engagement sartriani si compongono coerentemente rispetto alla valenza di un ben preciso dettato speculativo. Perché avere paura di entrare nel merito di un pensiero che ha suscitato – indizio importante – le ire dei comunisti come dei reazionari? Il gusto per la verità è infatti alla base di entrambe, militanza e speculazione. Proprio nella peculiarità del suo pensiero – o forse meglio di uno stile di pensiero – risiede dunque il secondo dei lasciti di Sartre di cui riaffermare l’attualità, pur anche soltanto virtuale, “seminale”. Perché, ci si può chiedere, questo idealista che seppe riconoscere l’importanza determinante dei condizionamenti storico-materiali batte in breccia i più rigorosi adepti dello scientismo marxista, e si dimostra alla lunga migliore dei tanti dogmatici che si condannano, prima o poi, a una crucciata esistenza fuori dal presente – quando non si votano inconsapevoli, fin dal principio, al destino di transfughi? Perché accade che l’“incoerenza” del borghese Sartre finisca per essere la forma più costante di fedeltà alla causa degli oppressi di tutto il mondo?

Si può rispondere: perché, soprattutto, il suo pensiero respinge ogni forma di coscienza che sia astratta dalle forme di esistenza individuali. Esso riafferma, in un’epoca in cui i diversi orientamenti di pensiero sembrarono accordarsi soltanto sulla avvenuta eclissi del soggetto, la costitutiva irriducibilità della esperienza della singola coscienza, la centralità dell’esistenza in quanto ineliminabile fondamento della conoscenza come della prassi. La verità, in Sartre, è sempre in rima profonda con la più concreta realtà: “non si comprende che quando si mette la cosa in rapporto al mondo”.[8] Riaffermare l’importanza del vissuto e del soggetto, la intransitività paradossale di un Ego che pure fonda il proprio orizzonte esperienziale aprendosi al mondo, rapportandosi storicamente agli oggetti ed agli altri, costituisce di per sé – nell’epoca della mediazione universale, dei simulacri, dello spettacolare dilagante – una specie di scandalosa provocazione. Il pensiero di Sartre invita oggi più di ieri a far propria questa prospettiva “fuori moda”, e ritrovare negli interstizi di una realtà integralmente alienata i residui margini per un pensiero e per una prassi liberi di autodeterminarsi, di scegliere senza timore il senso del mondo. L’ultima considerazione riguarda il ruolo centrale che nella concezione del pensatore francese riveste la letteratura, letteratura cui Sartre dedica notoriamente una serie di riflessioni che certo resteranno, per profondità e finezza: da Qu’est-ce que la littérature?, al Saint-Genet, al monumentale studio su Flaubert (senza trascurare il prodigioso Baudelaire), Sartre dimostra in una innumerevole sequenza di scritti una capacità di comprendere la parola letteraria che prescinde dalla pur importante teorizzazione del metodo regressivo progressivo (e che chiama forse maggiormente in causa l’altra dicotomia egualmente celebre, quella tra intellezione e comprensione).[9] Una capacità che gli deriva forse dalla infantile “nevrosi di letteratura”, da quell’equivoco tra le parole e le cose che per il fatto di essere stato dissipato con l’adolescenza (“quando ho conosciuto la contingenza, la violenza, le cose come sono”[10] non pare tuttavia immune dall’essere molto fecondamente attivato a volontà, per essere nuovamente distanziato.

La parola letteraria ha una specificità che oggi si tende facilmente a perdere di vista – quando anche i suoi più lucidi assertori tendono ad appiattirne i tratti peculiari su quelli della parola scritta/letta tout court, su questioni di mero alfabetismo percettivo-cognitivo: attestandosi su di un fronte, quello della contrapposizione tra civiltà tipografica e civiltà audiovisiva, che non è probabilmente il fronte storico principale. La parola letteraria ha infatti una valenza storico-antropologica non surrogabile, è probabilmente invenzione senza ritorno; concerne la sempre più precisa coscienza della capacità umana di conferire senso alla realtà, e di assumersi pienamente la responsabilità di tale senso: è “appello alla libertà”. Per questo “la funzione dello scrittore è di far sì che nessuno possa ignorare il mondo o possa dirsene innocente”. Lungi da ogni istanza di risarcimento, senza nostalgie per la perduta aureola, si tratta, per lo scrittore, di assumere il ruolo di portavoce di un “pubblico” di cui occorre interpretare ed esprimere pensieri ed istanze che in esso sono già presenti.[11] E del resto: “Noi consideriamo da lungo tempo che la letteratura è un fenomeno doppio, duale come si dice, cioè autore (che ora si chiama scrittore) e poi lettore. I due, messi insieme, fanno l’opera, ma occorre che il lettore faccia la sua parte”.[12] Luogo privilegiato del senso, dell’universale singolare, dell’”universale concreto”, la letterarietà assume così una rilevanza cruciale per un autore che “pensa che non ci sia nulla che non possa essere detto”[13] e che il silenzio (pare lecito aggiungere: anche quello derivante dall’eccesso di rumorosità) sia di per sé “reazionario”, in quanto degradazione e reificazione del “per sé”.[14] Ci sono autori la cui opera si lega tanto fortemente alla realtà profonda della propria epoca da correre il rischio che essa vada fuori corso non appena i caratteri di quell’epoca paiano tramontare o sbiadire: è il rischio di chi non esita a compromettersi con un presente che ha per definizione il destino della transitorietà. Sartre paga oggi con l’impopolarità anche la scelta di “prendere sulle spalle” la situazione propria e dei suoi contemporanei, nel momento in cui essa probabilmente giungeva ad un grado di incandescenza preludio di uno sprofondamento. E in effetti sono molti gli aspetti della esperienza e del pensiero di Sartre che sembrano rimandare ad una temperie paradigmaticamente moderna: il suo lavoro si incunea nel pieno del Novecento, ne recepisce le tendenze più tipiche, si rispecchia in (ed alimenta di) un tempo in cui la Modernità ci si presenta nelle sue forme già mature per il tramonto. C’è però un ulteriore aspetto, oltre ai tre già ricordati, che autorizza a far valere la lezione sartriana al di fuori della cappa plumbea della tarda modernità, e a farla reagire dentro l’attuale caleidoscopica epoca postmoderna. Si tratta precisamente della classicità di questo pensatore, di quella dimensione per cui Sartre si affianca ad autori “eterni” la cui riflessione non teme il tempo che la sopravanza, ma sempre vi s’attaglia. La tradizione francese ritrova in lui l’intellettuale di battaglia, dalla vocazione voltairiana; ma nella sua riflessione riaffiora anche quell’attitudine analitico-introspettiva che ne fa un erede nobile dei Montaigne e dei Pascal, dei Proust. Senza che i due tratti – l’engagement e l’introversione – vadano peraltro a detrimento di un rigore filosofico che pone il non accademico Sartre (il quale raccoglie così pure l’eredità di Descartes) nella tradizione più alta del pensiero speculativo europeo: suoi eterni interlocutori restano Hegel, Marx, Husserl, Bergson, Kierkegaard… Non si tratta, tuttavia, di sostenere in tal modo il valore metastorico del contributo di Sartre, magari all’insegna di un equivoco umanesimo di recupero (c’è effettivamente, come noto, anche un umanesimo sartriano, esistenzialistico: che quando non sia malinteso è forse l’unica forma ancora percorribile di umanesimo, nell’epoca del nichilismo); Sartre è un “classico” allo stesso modo in cui può esserlo un Brecht: egli attraversa il tempo viaggiando sulla cresta d’onda del (proprio) tempo. E ci raggiunge.

Note

[1] J.-P. Sartre, La mia autobiografia in un film. Una confessione, Christian Marinotti edizioni, Milano 2004. Si tratta della prima traduzione italiana del volume edito da Gallimard nel 1977 e intitolato semplicemente Sartre.

[2] Ivi, pp. 104-5.

[3] Sull’”unità” del pensiero sartriano cfr. ivi, p. 94.

[4] Il riferimento è ovviamente all’articolo pubblicato su “il manifesto” del 24 settembre 1989, ora nel secondo volume di Disobbedienze (Gli anni della sconfitta, scritti sul Manifesto 1985-1994), Roma 1996 pp. 51-5.

[5] Se ne cerchi la testimonianza nei saggi raccolti in L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la “Critique”, a c. di F. Fergnani e P. A. Rovatti, Il Saggiatore, Milano 1980.

[6] La mia autobiografia…, cit., pp. 60 e 104. Non andrebbe neppure dimenticato il rapporto – anch’esso abbastanza problematico – del sartrismo con le scienze umane, e con lo Strutturalismo in particolare (memorabile a questo proposito – e nel secondo Novecento forse accostabile soltanto, per la qualità degli ingegni contrapposti e la valenza nevralgica delle problematiche affrontate, alla ben nota controversia tra Popper e Adorno – la polemica con Lévi-Strauss su pensiero analitico e dialettico).

[7] Sull’episodio, ivi p. 135.

[8] Ivi, p. 120.

[9] Sulla riflessione sartriana intorno alla letteratura e alle arti figurative cfr. S. Briosi, Sartre critico, Zanichelli, Bologna 1981. Il volume di Briosi si segnala, oltre che per l’acutezza dell’analisi e dell’interpretazione, per la presenza di una perspicua scelta di brani d’autore.

[10] La mia autobiografia…, cit., p. 46.

[11] Ivi, p. 99.

[12] Ivi, p. 79.

[13] Lo scrittore e la sua lingua, in L’universale singolare, cit., pp. 102 e 108.

[14] La mia autobiografia…, cit., p. 78