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  Poesia a partire da luoghi e gente incontrata o dall’immaginario?

 

 Tabea Nineo, Ragazzo  donna e pallina, pastello 1992

Lettere ai  moltinpoesia (1): 12 febbraio 2007

di Ennio Abate

Caro S.,
queste tue poesie (ma, a memoria, anche le precedenti che lessi) si distinguono per una freddezza analitica, che a tratti diventa quasi squisita. Eppure, a volte nei versi, che si allungano verso la prosa e s’affaticano nelle subordinate, colgo – in contrasto e per voglia di dialogare – un ritmo dolce, quasi elegiaco  o toni più andanti e quasi incespicanti. (Sarà «il musichio di morte feste»?).
Non farò analisi di singole poesie, stavolta. Mi preme di più un discorso generale, perché mi hanno colpito la diversità della tua poetica dalla mia, collegabile anche alla distanza generazionale tra noi.
Io, infatti, credo di essere rimasto tra quelli che costruivano poesia partendo soprattutto da impressioni o sensazioni venute dal contatto fisico e immediato con luoghi e gente incontrata o frequentata. E solo secondariamente a partire dai libri letti o studiati. Invece, tu e altri della tua generazione, di sicuro più “americanizzata”, sembrate costruirla con  estrema naturalezza dall’immaginario, nel tuo caso quello offerto dal cinema.Sì, fonte viva per la tua scrittura poetica è proprio il cinema, anzi un suo genere: il cosiddetto horror.
Non saprei dire adesso se si tratti di una tua scelta consapevole, ma mi pare che tu ne sia stato particolarmente attratto. Forse perché quell’immaginario s’avvicina di più al contenuto inconscio che ti assilla. E fino a sostituire o a ridurre drasticamente il rapporto con  il mondo che comunemente chiamiamo “reale”.
Questa tua poetica, consapevole o meno, è quella che ricondurrei al concetto di manierismo. E devo dirti che siccome presuppone l’accettazione della equivalenza o coincidenza completa e definitiva tra mondo artificiale e mondo reale, tra finzione e verità, ne diffido. Anche se so di essere considerato un sorpassato, non invidio affatto i molti poeti giovani che ne sono attratti e la giudicano esperienza pregiata e segno della loro appartenenza orgogliosa ai “tempi nuovi”. In proposito, ricordo di aver letto anni fa un articolo di Gabriele Frasca: valorizzava al massimo il proprio lavorio poetico a partire dalla “materia massmediale”. Posizione, mi pare, vicina alla tua che dici di partire da forme artistiche già elaborate o – addirittura! – classiche.
In me resta ancora la pretesa (la chiamo così!) di partire da un mio vissuto legato a luoghi e persone, come detto, che col tempo si è trasformato in un mio ricordare, che è stato e vuole essere pre-letterario. (Non posso dire pre-cinematografico, perché di film in fondo nella mia vita non ne ho visti tanti e il fatto non mi pare trascurabile).  Posso dire che questa mia esperienza ha, cioè, preceduto e ha convissuto in modi faticosi e contraddittori con l'”acculturazione” o partecipazione al “mondo dei colti”. E, in fondo, so che essa  contiene qualcosa che devo tentare di strappare direttamente. In altri termini, “lo spunto” che per me conta di più nel fare poesia o arte viene dopo aver chiuso i libri. E, devo aggiungere,  gli occhi. Raramente, infatti, ho preso l’avvio da  scritture altrui.  E anche i miei disegni o le mie pitture li ho costruiti dopo aver per così dire chiuso gli occhi. Partendo, cioè, da uno scarabocchio  o, dall’eco vaga, lontana, di quel che avevo sedimentato  guardando riproduzioni di quadri o libri d’arte.
Un’ultima cosa. Per quel poco che mi capita di vedere in giro –  (oggi mi è arrivata – mi avranno nel loro indirizzario – Le voci della luna n. 36, novembre 2006) –  il discorso critico che si fa in tante delle attuali  riviste è squallidamente salottiero.
Un caro saluto
Ennio

Duccio Demetrio: «Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione»

NOTE DI FINE ESTATE (8)

di Donato Salzarulo

[Questa recensione fu pubblicata per la prima volta nella rubrica “Viva la Scuola” del sito “La poesia e lo Spirito”. Il libro di Duccio Demetrio rimane un’ottima lettura anche in vista delle prossime vacanze natalizie.]

A scuola scrivere è quasi sempre un dovere. Temi, esercizi, riassunti, relazioni, mappe, questionari…Tutto è finalizzato alla verifica degli apprendimenti e alla valutazione. Probabilmente non può essere che così. Una vasta quantità di scrittura ordinaria è funzionale allo studio o al lavoro. Anche qui, però, di tanto in tanto brilla la scrittura personale, quella intima, urgente, che accoglie tracce del Sé, del piacere o diletto con cui si è cercato le parole da depositare sulla pagina bianca. L’insegnante sa riconoscere il tema scritto oltre l’obbligo, l’utilità immediata, la ritualità scolastica e sociale. Facile immaginare il giudizio: «Ottimo! La traccia è stata elaborata in modo molto personale ed originale…»

Cosa fa debordare la scrittura? Cosa la fa uscire dai confini? Cosa la rende viva, interessante?… È la passione, l’amore, il desiderio di cercarsi per conoscersi meglio; la voglia di tessere il filo della propria vita e, se necessario, di darsene una nuova; di recuperare ricordi, immaginare futuri e non farsi adoratori dell’istante; è il bisogno di educare la propria sensibilità, di avere di fronte uno specchio, una confidente che può farsi amante docile, ma anche molto crudele. «Scrivere non è una professione, ma una vocazione all’infelicità» confessa Georges Simenon.

Tanti anni fa, inciampai per caso in un articolo di Roland Barthes (molte buone letture avvengono così). Elencava dieci ragioni per le quali lui immaginava di scrivere. Diventarono subito anche le mie. Spesso, da giovane, capita di mettersi totalmente nei pensieri di un altro. O, almeno, di averne l’illusione. Scrivo per un bisogno di piacere collegato al rapimento erotico, diceva Barthes. Come potevo negarlo? Non ero forse contento, soddisfatto quando pensavo di aver prodotto una bella poesia o un grande articolo? Scrivo per decentrare me stesso, la mia parola, la mia persona. Altro che narcisismo. Narciso c’entra, ma la scrittura decentra. E, infatti, sulla pagina ero io e non ero io. Medesimità e alterità. Scrivo

«per mettere in opera un “dono”, soddisfare un’attività distintiva, operare una differenza; per essere riconosciuto, gratificato, amato, contestato, contrastato; per assolvere impegni ideologici o contro-ideologici…» E così via fino al desiderio di «contribuire ad incrinare il sistema simbolico della nostra società» e a quello di produrre «sensi nuovi, ossia forze nuove, per impadronirsi delle cose in modo nuovo, per scuotere e cambiare l’asservimento dei sensi.»

Certo, tutto questo non era facile. Ma avere queste motivazioni nella pratica della propria scrittura, allora, era più che comprensibile e condivisibile. Probabilmente lo è ancora adesso. Togliersi di dosso la cappa del “sistema simbolico” cresciuto sul mercato unico e globale, la nuvola di piombo della lingua post-moderna e post-fordista non è auspicabile?… L’ultima delle dieci ragioni era questa. Scrivo, diceva il grande saggista francese:

«per eludere l’idea, l’idolo, il feticcio della Determinazione Unica, della Causa (causalità e “buona causa”) e accreditare così il valore superiore di un’attività pluralista, senza causalità, finalità né generalità, com’è appunto il testo.»

Abbastanza chiaro. Le ragioni per scrivere sono molteplici e, spesso, contraddittorie tra di loro. Non c’è una causa unica. Il testo può tradire le buone o cattive intenzioni dell’autore.

Con questo elenco in testa, ricopiato sulla prima pagina di un mio quaderno e imparato quasi a memoria, comincio a sfogliare l’ultimo libro di Duccio Demetrio: Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione. È una delle tante occasioni per confrontare ragioni e verificarle. Metterle alla prova.

Innanzitutto, perché l’ho comprato? Perché ho letto altri libri dell’autore e apprezzo il suo lavoro. Indimenticabile la sua Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé (Raffaello Cortina, 2003). Letto e riletto, l’ho consigliato e regalato ad amiche ed amici.

Duccio Demetrio è professore di filosofia dell’educazione all’Università degli Studi di Milano Bicocca. Ha lavorato per anni nel campo della formazione degli adulti (e non solo); partendo dall’ipotesi bruneriana della “mente narrativa”, utilizza gli strumenti narrativi, il raccontarsi e l’autobiografia come cura di sé, crescita educativa, potenziamento delle proprie facoltà. Insieme ad altri ha fondato la Libera Università di Autobiografia di Anghiari, di cui è direttore scientifico, proprio riconoscendo la grande importanza delle scritture “senza lettori”: diari, racconti o romanzi autobiografici, epistolari, agende, appunti; scritture prodotte da «chiunque in condizioni difficili o per nulla tali abbia trovato nello scrivere un sollievo, un’ancora di salvezza per rispondere alla disumanizzazione, all’affievolirsi della coscienza» (pag. 26-27).

Comincio, come al solito, dalla bibliografia. Ogni libro è anello di una catena di libri. É raccolta ed eco. Isola di un vasto arcipelago temporale e spaziale. Qui il più antico è Omero, citato per la sua Odissea da cui si evoca Circe. I suoi sortilegi, stratagemmi e inganni sembrano avere qualcosa a che vedere con la scrittura, in certi momenti, arte magica. E poi c’è Ovidio, quello delle Metamorfosi. I suoi racconti servono all’autore per introdurre molti capitoli: ecco all’inizio la triste storia di Eco, ninfa boschiva e delle sorgenti, costretta a ripetere all’infinito soltanto le ultime sillabe delle parole pronunciate da una persona. «Da allora, ogniqualvolta le parole ci manchino, ricorrere alla penna ne dischiude il compiuto senso.» (pag. 35); e poi la storia di Eros e Psiche, di Ermes, di Pandora, di Flora e Persefone, di Apollo, di Poro e Penia, di Arianna, di Orfeo e Euridice, di Piramo e Tisbe, di Filemone e Bauci, di Narciso, Sisifo, Atteone, Asclepio, Chirone, Ila…

I miti greci e i loro personaggi ci sono quasi tutti. Demetrio attinge ad una lunga tradizione bibliografica. Il suo intento è di ascoltare il mito, di metterlo in rapporto con la pratica della scrittura. Tanto per esemplificare: scrivere è memoria e oblio, suggeriscono Mnemosine e Lete; per Apollo è luce e ombra; ricchezza e povertà per i genitori di Eros; impazienza e lentezza per Orfeo e Euridice; ingratitudine e riconoscenza per Filemone e Bauci.

Oltre che occasione per un sintetico ripasso, gli amanti dei miti greci, potranno reinterrogarsi sulla loro natura e funzione. Citando Agamben, per Demetrio i miti occupano il

«vuoto che si spalanca fra la sensazione e il pensiero, fra la molteplicità degli individui e l’unicità dell’intelletto […] Circoscrive uno spazio in cui non pensiamo ancora, in cui il pensiero diventa possibile.» (pag. 76).

L’Agamben chiamato in causa è quello di Ninfe e lo spazio che si delinea per i miti è quello dell’immaginario. Frutto prevalentemente della tradizione orale, quando comparve la scrittura, la decima Musa, non provvide soltanto ad inventariarli e classificarli, ma aggiunse immaginario ad immaginario. Così oggi per noi non è «il linguaggio orale a risvegliare la presenza mitica, bensì la scrittura che più dell’oralità si spinge nei recessi del nostro essere, ci mette in contatto con l’inconscio.» (pag. 79).

Andando avanti, la qualità della scrittura di Demetrio appare sempre più chiara: è saggistica, ma si abbandona volentieri all’anafora, all’analogia, alla sentenza evocatrice, spiazzante, alla pronuncia aforistica. Avendo a che fare con un prisma sociale dalle molte facce (le ragioni di Barthes riappaiono tutte), la linea concettuale, argomentativa si addensa su tre costellazioni: il perché si scrive, la filosofia dello scrivere, i miti che possono entrare in relazione con questa pratica. Molte sono le perle che si possono ricavare da queste pagine.

Scrivere è un balsamo sospetto, una ferita inguaribile, un commiato. «Inutile affanno è una vita senza scrittura.» I non-scrittori, pochi o tanti che siano, sono avvertiti.

dicembre 2011

Sartre fuori moda

di Marco Gaetani

Continuo il lavoro di recupero di articoli usciti sui precedenti siti di Poliscritture (2005-2010; 2010-2013) non più accessibili on line. Oggi ripubblico questo bel saggio di Marco Gaetani. Comparve sul numero prova di Poliscritture (aprile 2005). Sartre era fuori moda allora e lo è ancor più oggi nel 2021.  Eppure resta per  me e per tanti un modello vivo e attuale: «l’ultimo dei maîtres à penser occidentali, testimonianza individuale della perdurante possibilità di esercitare la funzione critica pur entro gli scenari storicamente più asfittici – incarnazione della libertà umana così come ebbe egli stesso a teorizzarla, prova vivente di quella ineludibile apertura per cui l’individuo può sempre proiettarsi oltre la situazione che lo stringe e condiziona» (Gaetani). Un  pizzico d’orgoglio ho provato nel rileggere la prosa di Marco. Sì,  in tanti anni di poliscritture un po’ di buone teste pensanti e capaci di robusta scrittura  le abbiamo intercettate. [E. A.]

Il 2005 è anno sartriano: l’uomo che scelse di essere Jean-Paul Sartre nacque infatti a Parigi il 21 giugno del 1905. Il sistema delle ineluttabili recursività su cui si fonda ormai l’industria mediatico-istituzionale dell’”evento culturale”, quel meccanismo combinatorio brillantemente descritto qualche anno fa da Maurizio Bettini, può forse offrire – la ricorrenza scattando “oggettivamente” – se non altro un’occasione per tornare a riflettere in maniera non solitaria (ed evitando, nell’unanimismo dominante, ogni accusa di estemporanea gratuità) sulla figura del “celebrando secondo il turno calendariale” (Contini). Certo non è facile in questi casi sottrarsi alla chiacchiera, sfuggire al turbinio effimero di cui s’ingrossano le pagine degli inserti culturali. Si tratta tuttavia, per quanto possibile, di volgere a profitto l’incremento di pubblicazioni a stampa, la temporaneamente benevola disposizione dell’udienza, ed ogni altra circostanza virtualmente favorevole; di cogliere infine il pretesto dell’anniversario per qualche considerazione meno genericamente apologetica, oziosa, vacua o scandalistica. Al clima delle celebrazioni sartriane deve probabilmente qualcosa anche un recente volume, uscito negli ultimi mesi dell’anno scorso (e dunque in tempestivo anticipo sulla scadenza centenaria) per le cure di un valente studioso italiano di Sartre, Giovanni Invitto.[1]

Il libro costituisce la “trasposizione integrale della colonna sonora” di un film biografico realizzato nei primi anni settanta e uscito in Francia nel 1976; la struttura dialogata conferisce al testo un andamento fluido e divagante, da conversazione: la “voce” di Sartre si alterna con quelle dei suoi interlocutori (Simone De Beauvoir, Michel Contat, Alexandre Astruc, André Gorz, Jacques-Laurent Bost, Jacques Pouillon) e con quella “recitante” che inframmezza al dibattito passi tratti dalle opere del filosofo; l’interazione dialogica riportata mantiene così qualcosa della oralità originaria, attrae il lettore riuscendo varia eppure sostenuta, nel toccare tanto problematiche di carattere schiettamente filosofico quanto argomenti tratti dall’attualità politica dell’epoca (Cuba, la tensione tra U. S. A. e U. R. S. S., l’Algeria, il Vietnam), con le note del curatore italiano che soccorrono puntualmente a precisare, informare, fornire dettagli su quei personaggi e quelle situazioni al lettore odierno non più trasparenti; didascalie a margine del testo riferiscono infine delle immagini e dei suoni che nella pellicola costituiscono o integrano la testura audiovisiva. Non mancano, nel corso della conversazione, la rievocazione autobiografica (con alcuni aneddoti sapidi ma ad una lettura non superficiale provvisti di una loro più significativa valenza: si veda per tutti il ricordo dell’incontro con Lukács) e alcune estemporanee boutades del protagonista, degne di essere ricordate a testimonianza della vitalità di un esprit che a dispetto delle interpretazioni virate al nero dell’Esistenzialismo non si sottrae al buonumore ed alla franca risata (così càpita di raccogliere una perla di misoginia dalle labbra del niente affatto misogino Sartre: “amo molto essere con una donna perché non amo la conversazione di idee”). Il testo – collocandosi all’incrocio tra narrativa, saggio, dialogato teatrale – offre insomma un esempio di assai alta divulgazione, con l’opportunità di ripercorrere l’esperienza umana e intellettuale del pensatore parigino senza immergersi in testi dall’argomentazione teoricamente più impegnativa.

Anche sulla scorta di questo salutare pro memoria è così possibile procedere ad una rapida ricognizione dell’attualità del pensiero sartriano. Cercando di evitare i due opposti rischi: non si tratta di stabilire – tribunale dei posteri – ciò che vivo e ciò che è morto della filosofia di Sartre, e neppure di aderire ad una prospettiva invece frettolosamente totalizzante, del genere “tutto o niente”. Sartre è del resto, sicuramente, pensatore problematico e controverso per definizione, propenso ai continui rimaneggiamenti delle proprie posizioni (espressioni del tipo “oggi ritengo che…”, a lui consuete, sono molto più che una divisa di prudente saggezza, e nient’affatto riconducibili a qualsivoglia forma di scetticismo relativistico); resta tuttavia vero ciò che anche la critica a lui maggiormente avversa non manca di riconoscergli, vale a dire che alcuni nuclei di fondo della sua concezione sostanzialmente non mutarono mai (prima tra tutte le costanti, quella verità – davvero “incondizionata” – per cui vale sempre il “contatto della coscienza con se stessa”[2]). Ragione per la quale non risulta possibile isolare nel pensiero di Sartre singoli aspetti ancora vitali e fecondi e prescindere da altri invece ritenuti “invecchiati”, trascegliendo indiscriminatamente e a piacimento entro le coordinate di una teorizzazione che ha una sua forma di sistematicità.[3]

Non è meno vero, d’altra parte, che l’oggetto-Sartre non si può probabilmente assumere all’ordine del giorno nella sua interezza senza un complessivo ripensamento critico che valga se non altro a riacclimatarlo rispetto ad una situazione storica, quella contemporanea, tanto differente da quella in cui esso venne a originarsi e maturò. Egualmente, non va taciuto che la cultura occidentale – non si pensa qui soltanto alle aristocrazie intellettuali della più diversa estrazione ideologica – sembra aver risolto il dilemma volentieri rimuovendo in blocco un pensatore oggi sovente considerato inattuale, e comunque ingombrante. Sartre è davvero più che mai fuori moda, e come per l’Adorno di Fortini[4] ci si può però chiedere se almeno in Italia la voga sartriana sia stata mai davvero tale, al di là delle pose di alcuni e dell’impegno ermeneutico di un ristrettissimo numero di frequentatori in servizio effettivo e permanente. E comunque oggi, inequivocabilmente, il continente-Sartre non stimola viaggi d’esplorazione che non siano solitari; lo stesso Sartre-personaggio risulta facilmente antipatico, le sue scelte private, pubbliche, intellettuali sovente respingono; il pensiero sartriano (indubbiamente, malinconicamente “forte”) appare per sovrappiù inutilmente ostico, non concede all’interprete facili gratificazioni. Il volume curato da Invitto (del quale si raccomanda anche la bella “Nota in premessa”, che assume come titolo un lapsus “cartesiano” – “Sono dunque penso” – proferito in conversazione dal filosofo, e giustamente considerato dal curatore come altamente significativo della personalità e della concezione filosofica sartriane) permette di ricapitolare i tanti Sartre che si sono succeduti dagli anni trenta ai settanta: dal punto di vista filosofico, ecco allora il passaggio dal fenomenologo dell’immaginario e dall’indagatore della trascendenza dell’Ego all’autore del libro capitale non solo del sartrismo ma di tutto l’orientamento esistenzialistico novecentesco: con L’Etre et le Néant, in effetti, l’Esistenzialismo dimostra di potersi sottrarre nettamente ad ogni tentazione di carattere mistico-religioso, che si tratti di una prospettiva à la Jaspers o di soluzioni di matrice heideggeriana. E poi la tappa successiva al lavoro sulla ontologia fenomenologica, quella Critique de la raison dialectique che ci consegna un Sartre definitivamente affrancato dal solipsismo, e un individuo “in situazione”; senza che l’itinerario si esaurisca: il lavoro speculativo successivo alla Critique presenta un autore ancora capace di imprimere al proprio pensiero correzioni originali e sostanziali.[5]

Il mutamento ideologico di Sartre viaggia ovviamente di conserva rispetto alla sua evoluzione filosofica: basterebbe la menzione dei suoi rapporti con il marxismo, proverbialmente problematici e controversi, a restituirci l’immagine di un intellettuale che “non ha mai accettato niente senza contestare” e che “ha sempre voluto ricercare le cose per conto suo”.[6] E molto lunghi discorsi meriterebbe certo anche la produzione romanzesca e teatrale, dal celeberrimo La Nausée fino all’adattamento di Le Troiane euripidee: una produzione vasta, sicuramente diseguale ma per molti aspetti anch’essa coerente, e sulla quale il tempo (i gusti del pubblico non meno che le valutazioni dei critici) sembra avere in effetti depositato una patina difficilmente rimovibile; produzione tuttavia cui non si potrà negare il potere, oggimai raro, di restituire in profondità il clima di un’intera epoca, di rappresentarne le questioni vitali, di dare espressione ai problemi nevralgici (materiali e spirituali) per essa fronteggiati dalle coscienze individuali e politiche. Dire in breve dell’attualità di Sartre, senza aver modo di problematizzare, non è impresa possibile. Si cercherà qui di focalizzare soltanto tre aspetti rispetto ai quali il lascito sartriano può essere considerato ancor oggi prezioso. Va da sé che si tratta di tre questioni fortemente interrelate. Tornare all’esperienza, alla parola, al pensiero di Sartre tentando di farli reagire col tempo presente significa per prima cosa e soprattutto imbattersi in una figura di intellettuale che fa il suo mestiere con una estrema lucidità e coerenza. Sartre è senz’altro, lo si usa dire, una delle ultime incarnazioni dell’intellettuale classico. Ma egli dimostra di essere continuamente ben consapevole della circostanza, e delle sue conseguenze. L’intellettuale, nella interpretazione sartriana, è per definizione nodo di contraddizioni che si riconosce come tale, (auto)coscienza infelice perpetuamente in guerra con se stessa. Comunque la si pensi in proposito, fa ancora impressione constatare come il borghese Sartre resti a tutt’oggi l’unico scrittore ad essersi rifiutato di indossare la marsina per ricevere dalle mani di un re scandinavo il riconoscimento borghese per eccellenza.[7] Giova rammentare che almeno un paio di sedicenti comunisti, nell’ultimo decennio, si son guardati bene dal compiere un gesto analogo: gesto forse inutile, ma sicuramente paradigmatico di un modo tradizionale nel senso alto di interpretare la funzione storica dell’intellettuale. Gesto esemplare. Sartre ci si presenta così – con il carico delle sue contraddizioni ma soprattutto per il buon uso che seppe farne – come probabilmente l’ultimo dei maîtres à penser occidentali, testimonianza individuale della perdurante possibilità di esercitare la funzione critica pur entro gli scenari storicamente più asfittici – incarnazione della libertà umana così come ebbe egli stesso a teorizzarla, prova vivente di quella ineludibile apertura per cui l’individuo può sempre proiettarsi oltre la situazione che lo stringe e condiziona frustrando ne lo slancio teleologico. Se Sartre vivente lo si vede soprattutto, com’è fatale, in un atteggiamento militante che non ha paura, negli anni, di fiancheggiare tutte le esperienze radicali ponendosi sempre al fianco delle istanze storiche più avanzate, nel filosofo che ormai celebre non depone la convinzione per cui “ribellarsi è giusto” (e che trova pertanto “notevole”, ad esempio, una rivoluzione, quella cubana, che è anche una festa); se ciò è certamente vero, non meno vero è che la passione civile e l’engagement sartriani si compongono coerentemente rispetto alla valenza di un ben preciso dettato speculativo. Perché avere paura di entrare nel merito di un pensiero che ha suscitato – indizio importante – le ire dei comunisti come dei reazionari? Il gusto per la verità è infatti alla base di entrambe, militanza e speculazione. Proprio nella peculiarità del suo pensiero – o forse meglio di uno stile di pensiero – risiede dunque il secondo dei lasciti di Sartre di cui riaffermare l’attualità, pur anche soltanto virtuale, “seminale”. Perché, ci si può chiedere, questo idealista che seppe riconoscere l’importanza determinante dei condizionamenti storico-materiali batte in breccia i più rigorosi adepti dello scientismo marxista, e si dimostra alla lunga migliore dei tanti dogmatici che si condannano, prima o poi, a una crucciata esistenza fuori dal presente – quando non si votano inconsapevoli, fin dal principio, al destino di transfughi? Perché accade che l’“incoerenza” del borghese Sartre finisca per essere la forma più costante di fedeltà alla causa degli oppressi di tutto il mondo?

Si può rispondere: perché, soprattutto, il suo pensiero respinge ogni forma di coscienza che sia astratta dalle forme di esistenza individuali. Esso riafferma, in un’epoca in cui i diversi orientamenti di pensiero sembrarono accordarsi soltanto sulla avvenuta eclissi del soggetto, la costitutiva irriducibilità della esperienza della singola coscienza, la centralità dell’esistenza in quanto ineliminabile fondamento della conoscenza come della prassi. La verità, in Sartre, è sempre in rima profonda con la più concreta realtà: “non si comprende che quando si mette la cosa in rapporto al mondo”.[8] Riaffermare l’importanza del vissuto e del soggetto, la intransitività paradossale di un Ego che pure fonda il proprio orizzonte esperienziale aprendosi al mondo, rapportandosi storicamente agli oggetti ed agli altri, costituisce di per sé – nell’epoca della mediazione universale, dei simulacri, dello spettacolare dilagante – una specie di scandalosa provocazione. Il pensiero di Sartre invita oggi più di ieri a far propria questa prospettiva “fuori moda”, e ritrovare negli interstizi di una realtà integralmente alienata i residui margini per un pensiero e per una prassi liberi di autodeterminarsi, di scegliere senza timore il senso del mondo. L’ultima considerazione riguarda il ruolo centrale che nella concezione del pensatore francese riveste la letteratura, letteratura cui Sartre dedica notoriamente una serie di riflessioni che certo resteranno, per profondità e finezza: da Qu’est-ce que la littérature?, al Saint-Genet, al monumentale studio su Flaubert (senza trascurare il prodigioso Baudelaire), Sartre dimostra in una innumerevole sequenza di scritti una capacità di comprendere la parola letteraria che prescinde dalla pur importante teorizzazione del metodo regressivo progressivo (e che chiama forse maggiormente in causa l’altra dicotomia egualmente celebre, quella tra intellezione e comprensione).[9] Una capacità che gli deriva forse dalla infantile “nevrosi di letteratura”, da quell’equivoco tra le parole e le cose che per il fatto di essere stato dissipato con l’adolescenza (“quando ho conosciuto la contingenza, la violenza, le cose come sono”[10] non pare tuttavia immune dall’essere molto fecondamente attivato a volontà, per essere nuovamente distanziato.

La parola letteraria ha una specificità che oggi si tende facilmente a perdere di vista – quando anche i suoi più lucidi assertori tendono ad appiattirne i tratti peculiari su quelli della parola scritta/letta tout court, su questioni di mero alfabetismo percettivo-cognitivo: attestandosi su di un fronte, quello della contrapposizione tra civiltà tipografica e civiltà audiovisiva, che non è probabilmente il fronte storico principale. La parola letteraria ha infatti una valenza storico-antropologica non surrogabile, è probabilmente invenzione senza ritorno; concerne la sempre più precisa coscienza della capacità umana di conferire senso alla realtà, e di assumersi pienamente la responsabilità di tale senso: è “appello alla libertà”. Per questo “la funzione dello scrittore è di far sì che nessuno possa ignorare il mondo o possa dirsene innocente”. Lungi da ogni istanza di risarcimento, senza nostalgie per la perduta aureola, si tratta, per lo scrittore, di assumere il ruolo di portavoce di un “pubblico” di cui occorre interpretare ed esprimere pensieri ed istanze che in esso sono già presenti.[11] E del resto: “Noi consideriamo da lungo tempo che la letteratura è un fenomeno doppio, duale come si dice, cioè autore (che ora si chiama scrittore) e poi lettore. I due, messi insieme, fanno l’opera, ma occorre che il lettore faccia la sua parte”.[12] Luogo privilegiato del senso, dell’universale singolare, dell’”universale concreto”, la letterarietà assume così una rilevanza cruciale per un autore che “pensa che non ci sia nulla che non possa essere detto”[13] e che il silenzio (pare lecito aggiungere: anche quello derivante dall’eccesso di rumorosità) sia di per sé “reazionario”, in quanto degradazione e reificazione del “per sé”.[14] Ci sono autori la cui opera si lega tanto fortemente alla realtà profonda della propria epoca da correre il rischio che essa vada fuori corso non appena i caratteri di quell’epoca paiano tramontare o sbiadire: è il rischio di chi non esita a compromettersi con un presente che ha per definizione il destino della transitorietà. Sartre paga oggi con l’impopolarità anche la scelta di “prendere sulle spalle” la situazione propria e dei suoi contemporanei, nel momento in cui essa probabilmente giungeva ad un grado di incandescenza preludio di uno sprofondamento. E in effetti sono molti gli aspetti della esperienza e del pensiero di Sartre che sembrano rimandare ad una temperie paradigmaticamente moderna: il suo lavoro si incunea nel pieno del Novecento, ne recepisce le tendenze più tipiche, si rispecchia in (ed alimenta di) un tempo in cui la Modernità ci si presenta nelle sue forme già mature per il tramonto. C’è però un ulteriore aspetto, oltre ai tre già ricordati, che autorizza a far valere la lezione sartriana al di fuori della cappa plumbea della tarda modernità, e a farla reagire dentro l’attuale caleidoscopica epoca postmoderna. Si tratta precisamente della classicità di questo pensatore, di quella dimensione per cui Sartre si affianca ad autori “eterni” la cui riflessione non teme il tempo che la sopravanza, ma sempre vi s’attaglia. La tradizione francese ritrova in lui l’intellettuale di battaglia, dalla vocazione voltairiana; ma nella sua riflessione riaffiora anche quell’attitudine analitico-introspettiva che ne fa un erede nobile dei Montaigne e dei Pascal, dei Proust. Senza che i due tratti – l’engagement e l’introversione – vadano peraltro a detrimento di un rigore filosofico che pone il non accademico Sartre (il quale raccoglie così pure l’eredità di Descartes) nella tradizione più alta del pensiero speculativo europeo: suoi eterni interlocutori restano Hegel, Marx, Husserl, Bergson, Kierkegaard… Non si tratta, tuttavia, di sostenere in tal modo il valore metastorico del contributo di Sartre, magari all’insegna di un equivoco umanesimo di recupero (c’è effettivamente, come noto, anche un umanesimo sartriano, esistenzialistico: che quando non sia malinteso è forse l’unica forma ancora percorribile di umanesimo, nell’epoca del nichilismo); Sartre è un “classico” allo stesso modo in cui può esserlo un Brecht: egli attraversa il tempo viaggiando sulla cresta d’onda del (proprio) tempo. E ci raggiunge.

Note

[1] J.-P. Sartre, La mia autobiografia in un film. Una confessione, Christian Marinotti edizioni, Milano 2004. Si tratta della prima traduzione italiana del volume edito da Gallimard nel 1977 e intitolato semplicemente Sartre.

[2] Ivi, pp. 104-5.

[3] Sull’”unità” del pensiero sartriano cfr. ivi, p. 94.

[4] Il riferimento è ovviamente all’articolo pubblicato su “il manifesto” del 24 settembre 1989, ora nel secondo volume di Disobbedienze (Gli anni della sconfitta, scritti sul Manifesto 1985-1994), Roma 1996 pp. 51-5.

[5] Se ne cerchi la testimonianza nei saggi raccolti in L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la “Critique”, a c. di F. Fergnani e P. A. Rovatti, Il Saggiatore, Milano 1980.

[6] La mia autobiografia…, cit., pp. 60 e 104. Non andrebbe neppure dimenticato il rapporto – anch’esso abbastanza problematico – del sartrismo con le scienze umane, e con lo Strutturalismo in particolare (memorabile a questo proposito – e nel secondo Novecento forse accostabile soltanto, per la qualità degli ingegni contrapposti e la valenza nevralgica delle problematiche affrontate, alla ben nota controversia tra Popper e Adorno – la polemica con Lévi-Strauss su pensiero analitico e dialettico).

[7] Sull’episodio, ivi p. 135.

[8] Ivi, p. 120.

[9] Sulla riflessione sartriana intorno alla letteratura e alle arti figurative cfr. S. Briosi, Sartre critico, Zanichelli, Bologna 1981. Il volume di Briosi si segnala, oltre che per l’acutezza dell’analisi e dell’interpretazione, per la presenza di una perspicua scelta di brani d’autore.

[10] La mia autobiografia…, cit., p. 46.

[11] Ivi, p. 99.

[12] Ivi, p. 79.

[13] Lo scrittore e la sua lingua, in L’universale singolare, cit., pp. 102 e 108.

[14] La mia autobiografia…, cit., p. 78

Dentro l’immigratorio italiano

Riordinadiario 2006. Introduzione alle scritture
di Armando Tagliavento (Hermann) con intervista.

di Ennio Abate

 

Ieri sono andato a far visita ad Armando Tagliavento. Per me  è rimasto il bidello-scrittore, anche se ora è in pensione e nella vita (Armando è nato nel 1930) prima di “ficcarsi nella scuola” ha fatto il manovale, il fattorino, il disoccupato, il capomastro. Stava per diventare persino capufficio di una ditta di materiali edili ed ha sfiorato una carriera di scrittore di professione. Infatti, quando negli anni Settanta la cultura italiana ebbe un ritorno di  fiamma populista-neorealista (ricordo la letteratura “operaia”: Brugnaro, Guerrazzi, la rivista Abiti-lavoro…), Tagliavento ottenne un effimero successo come narratore: nel 1973 Feltrinelli gli  pubblicò nella collana dei Franchi narratori (patron Goffredo Fofi, che firmò la prefazione) un romanzo, Tra fascisti e germanesi. Vi narrava – con brio, spudoratezza e crudezze macabre quasi malapartiane – le sue avventure per sopravvivere durante gli scontri che insanguinarono l’Italia fra il ’43 e la liberazione.

Io l’ho conosciuto più tardi, negli anni Ottanta, all’istituto tecnico Molinari di Milano, dove appunto era bidello. L’ondata del ’68-’69, che aveva sollevato la sua esistenza assieme a quella di tanti fino alla ribalta massmediale, era da tempo esaurita e tutte quelle speranze rivoluzionarie, studentesche e operaie, affondavano nel mondo dei vinti metropolitani.

Tagliavento passava la giornata al suo tavolino, in fondo a uno dei corridoi a lui assegnato.  Leggeva o scriveva appena possibile, intrattenendosi a chiacchierare ogni tanto con gli studenti, per i quali era ancora un mito, e con qualcuno dei pochi insegnanti che lo coccolavano, l’occhio marpione pronto a scattare su studentesse e insegnanti bellocce.

Era malvisto da molti perché, chissà da quando, aveva preso a  bere di brutto, creando malumori e allarme. Qualcuno si mosse per  farlo licenziare. Feci un cartello, interessai quel che restava del sindacato nella scuola e un’amica dottoressa, che lo spalleggiò nella visita di  controllo all’ospedale militare di Baggio a cui l’avevano costretto. Rimase in servizio e arrivò alla pensione forse grazie a quella mobilitazione o forse per un sussulto di tolleranza della preside. Non senza passare però per Villa Turro, dove a suon di psichiatria – non credo basagliana – lo tirarono fuori dal suo alcoolismo cronicizzato.

Suo confidente “letterario” in quegli anni, lessi e gli commentai parte della sua incessante, fluviale e torbida produzione di scritture,  convincendomi sia del suo valore sia della difficoltà di trovare lettori che non si arrestassero di fronte alla sua foga espressionistica, barocca, persino kitsch, alla monotonia dei temi (in prevalenza porno-erotici), alle ripetitive e capricciose architetture narrative, alle trasgressioni ortografiche.

Per far risaltare il buono di quelle pagine, gli avevo suggerito di potarle da ridondanze ed eccessi, ma Tagliavento non mi ha dato mai ascolto: rivendica gelosamente il “suo” linguaggio, il “suo” stile;  e continua a giudicare un oltraggio qualsiasi aggiustamento o ripensamento. Preferisce pescare liberamente, anche arbitrariamente, sia nei bassifondi linguistici  sia nelle limpide acque  dei classici. Non crede al confronto, ma all’ispirazione, alla genialità o – detto senza moralismo e sprezzo -, alla follia inventiva. Don Chisciotte è davvero il suo modello: aristocratico, d’altri tempi o fuori dal tempo.

Ma come sono queste sue strabordanti scritture?  Esse presentano un lato onirico, visionario, sublimante  e un lato ossessivamente vitalistico. Nascono da un immaginario fortemente maschile (e maschilista). Poggiando su una base autobiografica alla quale mai ha rinunciato e che anzi continua  a coltivare nella memoria, Tagliavento porta alla luce immagini arcaiche ed elementari fortemente mitizzate, senza preoccuparsi della successione logico-temporale. E si è costruito un gusto letterario delimitato ma sicuro attraverso letture di opere della tradizione colta, popolare e di massa. Da autodidatta, in modo disordinato ma quasi eroico, specie se si pensi alle condizioni di partenza e agli ambienti  in cui è vissuto quasi sempre impermeabili al richiamo dei libri.

 Nelle sue pagine ha macinato dati delle sue esperienze con echi  soprattutto di Gadda (a livello  linguistico), Pasolini (per la tematica  “sottoproletaria” e cruda), dei  grandi romanzi (soprattutto Cervantes, Hugo e Manzoni per gli aspetti più visionari e tragici) e con   altre influenze grottesco-populiste, realistiche, fantapolitiche  o allegoriche, riferibili alla vasta gamma che va dai romanzi d’appendice ottocenteschi fino ai fumetti e al cinema di Totò. Ha succhiato cioè cultura dove poteva e l’ha rielaborata in quello che lui stesso, in questa intervista, chiama un «pot-pourri» (postmoderno potremmo aggiungere).

Sarebbe interessante, da un punto di vista storico-antropologico-sociale e non solo letterario, capire come forme culturali così eterogenee  siano filtrate in uno che ha scritto da outsider e alle prese con problemi materiali elementari di sopravvivenza e in contatto diretto con le fasce sociali più escluse. Le sue testimonianze di vita avrebbero potuto ben figurare tra le voci che Danilo Montaldi e Franco Alasia raccolsero attorno al 1960 in Milano, Corea fra gli immigrati presi nel vortice delle trasformazioni dell’Italia dal dopoguerra al boom economico.

Da quel coro di “subalterni” però Tagliavento in parte si distacca, proprio perché accanito scrittore in proprio  più che testimone orale. Nei fondali delle sue poesie e dei suoi romanzi s’incontrano, sì, squarci di vita di famiglie contadine e sottoproletarie, di caserma o di ambienti malavitosi, cioè di un tessuto sociale messo in subbuglio dal grande esodo verso l’industrializzazione. Però, lontano da ogni rappresentazione realistica,  egli  accentua nei personaggi estratti dai suoi incontri “dal vero” aspetti grotteschi, orrorifici o stregoneschi. Fino a spingersi nel fiabesco, presentandoci  eroi litigiosi e spacconi, animali parlanti e protettivi, terribili mostri e draghi, principesse bellissime e sfuggenti oppure battaglie ripetute fino all’esaurimento da poema ariostesco o paesi utopici calcati su Eldoradi alla Voltaire.

Tagliavento ci  mostra i sussulti dell’immaginario di un migrante d’origini povere e contadine alle prese con il miraggio metropolitano. E soprattutto quello erotico-sessuale dei migranti maschi, di cui ha parlato Tahar Ben Jelloun[1] in Le pareti della solitudine, ricordando come in fondo ai loro deliri ci sia «quella donna sognata che, anche se è soltanto un’immagine sulla carta patinata di una rivista», parla e tiene compagnia, alleviando e tenendo aperta   una «ferita».

Quest’immagine di donna – reale e immaginaria – è onnipresente nei romanzi e nelle poesie di Tagliavento. I bei corpi femminili suscitano nel protagonista maschile una voglia ossessiva di possederli  e peripezie tragicomiche. E in genere tutte le figure maschili, per lo più tratteggiate approssimativamente sotto l’aspetto fisico e morale, hanno per così dire una vita in pubblico ridotta, perché sempre intente a prepararsi al rituale della seduzione e del coito.

Il narratore, quando arriva a descriverlo, molto liricizzando il goloso godimento dei corpi, fa esplodere tutta una sensualità orgiastica, sadica, maschilista, ricorrendo ad una batteria inesauribile di aggettivi, iperboli, neologismi, termini bassi popolareschi o dialettali. Sia per le immagini che per il lessico  Tagliavento qui oscilla (ecco l’elemento novecentesco) fra dannunzianesimo e pasolinismo da una parte e fiabesco e sublimante dall’altra (ecco l’elemento arcaico, popolare). E in più si presenta come un Gadda plebeo soprattutto per la scelta di termini sbilenchi o strapazzati, arcaismi o chicche che, non potendo essere dotte, sono involontaria parodia del linguaggio letterario aulico.

Il piacere non è però paganamente goduto dai suoi maschili cacciatori. L’atto sessuale pur così ambito è giudicato una «porcheria» peccaminosa, una pericolosa ruberia da ladri e viene animalizzato  o spiegato come  oscura azione demonica che  sottomette tutti: vecchi e giovani, preti e laici.

A fare le spese dell’oscuro conflitto che accompagna questa ricerca del piacere però  sono soprattutto le figure femminili, ricondotte tranne qualche eccezione allo stereotipo popolaresco della femmina-vacca. Il protagonista maschile paga invece il suo pedaggio diventando preda di sensi di colpa, che lo portano alla fuga, a ravvedimenti improvvisi, moralistici e improbabili, alla morte.

Malgrado parecchie scene sembrino boccaccesche (lo sono secondo me solo a livello della descrizione dei comportamenti esteriori)  manca l’indifferenza di Boccaccio verso la morale ufficiale o la comicità  e la schiettezza di un Rabelais verso i bisogni  materiali e sessuali dei corpi. Tagliavento si dibatte tra un erotismo  sognante (a livello del profondo tutto iscritto nell’orbita del materno e del bisogno di protezione o accoglienza) e moralismo ideologico di marca cattolica.

In quel che gli resta di vita pubblica, il protagonista delle scritture di Tagliavento è invariabilmente eroe picaro, astuto e un po’ furfante. Va contro tutti ed è sottoposto a continue prove per uscire dal suo isolamento. Quando gli capita poi d’ottenere l’agognato riconoscimento del suo valore, finisce però per rifiutarlo, per ricominciare il suo vagabondaggio fino all’annullamento-punizione finale.

A differenza  infatti degli eroi delle fiabe, che sono unitari e vincitori, quello dei romanzi di Tagliavento è scisso: ora  inerme e vittima, ora spaccatutto e giustiziere; ma comunque soccombente ai suoi innumerevoli nemici, che però sono controfigure o emanazioni diaboliche di qualcosa di oscuro e ostile: il Destino.

Le peripezie che  questo impone vengono raccontate attraverso passaggi bruschi e poco motivati o troppo convenzionalmente giustificati. Il narratore inserisce così nel tessuto fiabesco più tradizionale, in apparenza ingenuo e sotto sotto orrido – stravolgendolo dunque – tremori e angosce esistenziali novecentesche. E così la storicità  contraddittoria ritorna in evidenza: Tagliavento partecipa a suo modo delle acquisizioni raffinate della letteratura alta e nel contempo non ha mai abbandonato la tradizione popolare e fiabesca  del C’era una volta.

Egli ha tentato altre volte, dopo il primo insperato successo, di pubblicare. Ma, trovate chiuse, anche per il clima culturale mutato, le porte dell’editoria che conta,  l’ha  fatto qualche volta a sue spese, vendendo («come uno straccivendolo», dice sua moglie, una proletaria casalinga che gli bada  da una vita lavorando da sarta)  fra  amici e conoscenti  qualche copia dei suoi romanzi. Forse anche per una orgogliosa e autodifensiva autosufficienza, romanzi e poesie da lui scritti sono in gran parte inediti. Ed egli ora ha quasi rinunciato a farli leggere, impegnandosi testardamente a continuare a scrivere, senza neppure più aspettarsi un qualche risarcimento.

Potrebbe essere scambiato  per un semplice grafomane. Non lo è.  A me  le sue scritture sembrano notevoli soprattutto per il gusto immediato e bizzarro nella scelta delle parole, nelle rincorse etimologiche e analogiche, nell’attenzione alle assonanze. Sono poi un esempio di letteratura prodotta in quelle condizioni di vita marginalizzate in cui si trova tuttora una buona parte dell’ex-proletariato da cui  è venuta fuori  l’odierna figura dei lavoratori più istruiti e dei precari laureati.

Quanti tra loro (e penso in particolare ai nuovi immigrati) vanno oggi producendo i loro racconti e fossero in grado di sentirsi vicini ad esponenti di quelle classi sconfitte che li hanno preceduti potrebbero trovare nelle  scritture “selvagge” di Tagliavento un loro antenato.

INTERVISTA DI ENNIO ABATE A  ARMANDO TAGLIAVENTO

Quand’è che hai cominciato a scrivere?

Il discorso di scrivere è una cosa che nella mia vita salta, zompa, balugina. Non è una cosa che mi sono prefisso. Comunque cominciò a Fondi nella zona della Ciociaria, dove sono nato, con la figlia del maestro Spirito. Avevo sei anni circa e doveva venire Mussolini o un federale, che si chiamava Amato (mi pare), a inaugurare una colonia. Mi disse: Armà, scrivi una poesia. E allora io scrissi: Viva viva il nostro duce / che con sé porta la luce / e viva il federale Amato / che di gioia ci ha colmato. Poi a una diecina d’anni cominciai a andare appresso alle cugine e allora scrissi una poesia che cominciava così: Saltano macchie, siepi e rupi / per sfamare i loro lupi /quando è notte e tutto tace / coi begli occhi di fornace / vanno in cerca del lungo bruco / eccetera. Non ricordo più  bene.

Tu che scuola hai fatto?

A Fondi avevo fatto la seconda e la terza elementare. Andavamo da un certo frate che c’insegnava a leggere e scrivere. Si chiamava  padre Giacomo. Poi non ci andammo più perché dovevamo pagarlo. Poi è venuta la guerra. E quand’è finita il paese è tutto un mucchio di polvere. Tutto bruciato, polverizzato. Non s’è trovato più un documento. Niente. Fondi è stata incenerita proprio. Ci rifugiammo nella chiesa di S. Francesco vicina al monastero. Ciascuno si arrangiava alla meglio. Poi è morta mamma. Mio padre è un essere umano che meriterebbe di essere ucciso mille volte. Prima di tutto ha caricato mamma di figli: mia madre a 33 anni ha fatto 12-13 figli. Ne sono sopravvissuti 8. Appena arrivati gli americani, noi per due o tre giorni andavamo per il paese rovistando per trovare qualcosa da mangiare. Un giorno zia Santina, la moglie di un fratello di mamma buon’anima, ci ha detto: Guarda Armà, noi usciamo. Mi raccomando  Antoniuccio. Qui c’è una bottiglietta col biberon. Ogni tanto ci date da bere. Il fratellino, di cui non abbiamo neppure una foto, dormiva dentro un tiretto del comò. Quello era il lettino suo. Noi ragazzi per andare in giro – mangiucchia di qua, rubacchia di là – l’abbiamo dimenticato. Quando siamo tornati, stava morendo.

La guerra  l’hai vissuta da vicino, vero?

Cavolo. Da una fessura  tra le rocce ho visto i marocchini violentare le donne. Uno di loro portava dei campanelli. Faceva un gesto così e si riunivano. Quando siamo sfollati, ci siamo andati a rfugiare per quasi un anno in cima al Cocoruzzo e abbiamo abitato dentro la capanna, dove c’erano prima i somari di Angellella Franco, la padrona di quel pezzo di montagna, questa ciociara. Più sopra ancora c’era la Crocetta di Campo di Mele, un altro paesetto.  Si chiamava così perché era un incrocio. Lì c’era Elvira, che veniva sempre a vendere i fichi a Fondi. Era tutto un incrocio di montagne, di vallate. Noi ragazzi ci mettevamo sulle soglie delle capanne, che erano fatte di pietre con il tetto di paglia. Ci mettevamo a vedere gli aerei che sfrecciavano nella vallata di Fondi e quasi rasentavano le nostre capanne. Per noi era un divertimento. Sotto, dove c’erano sette sorgive d’acqua, non potevamo scendere.  Qualche volta gli aerei per venire a bombardare si schiantavano vicino alle rocce. Avranno scaricato più di mille bombe. Noi le chiamavamo fasuleglie, cioè fagiolini. Se uno  volesse.. Io potrei scrivere ancora un altro libro intero sulla guerra.

Hai notato un cambiamento tra il periodo di prima e quello di dopo la guerra? Tu, la tua famiglia avevate simpatia per i fascisti o no ?

Uno non ci pensava neanche. Eravamo tutti fascisti allora.  Dicevamo: Churchille, Churcillone/ se ci esce l’America/ ci pensa il Giappone.  Dei comunisti niente, noi ragazzi non sapevamo niente. Io so solo che il primo partito che hanno fatto a Fondi  era la Lista Castello, perché c’è il Maschio come a Napoli, più piccolo però. Erano fascisti e democristiani insieme. Io a Latina ho fatto due nottate dentro perché, per avere un pezzo di pane,  insieme ad altri ragazzi vendevo senz’autorizzazione L’Unità, Rinascita, Noi donne. Da piccolo  uno che capisce?  Tu sei povero, hai bisogno di un posto di lavoro, di un letto caldo. Hai bisogno di una mamma. Noi non avevamo più niente.

Ma poi ti sei avvicinato ai comunisti fino a prendere la tessera? Perché?

Sì, io presi la prima tessera, quella della Fgci. Me l’ha firmata Berlinguer.  Lo feci per avere un’esistenza, un’identità. Io non potevo mai essere democristiano, perché ero figlio di poveri. E vedevo i comunisti vicini ai poveri.  Io non avevo casa, non avevo niente. Papà aveva una casa che aveva pagato 75 lire. Ci hanno buttato tre bombe sopra. C’era disoccupazione. Tutti erano disperati. A Fondi ci abbiamo la scalinata Santa Maria. E lì si mettevano i disoccupati. Allora tu sei esasperato contro qualsiasi forma di ricchezza. Vedessi l’arroganza di certi padroni bastardi. Cominciai a andare ai comizi, ai cortei. Dai comunisti più che un aiuto mi aspettavo una giustizia. Il lavoro per tutti, ad esempio. E poi   l’amicizia.

Ma così non ti mettevi contro altri  amici tuoi che erano fascisti?

Sempre una lotta è stata. Io sono stato sempre, diciamo, un po’ opportunista. Tutti lo siamo. Il padre di un mio amico s’è iscritto a un partito per far operare d’appendicite una sorella. I ricchi hanno sempre odiato i poveri. Io però ho sempre dato più adito [importanza] alle cose non politiche. Quando mi faceva comodo andavo anche dai preti a chiedere. Ero uno sfaticato, lassista. Non mi è mai piaciuto essere [inquadrato]. Ho fatto sempre il doppio gioco. A Milano poi sono stato  coi capelloni, ma ho votato sempre comunista. Il fatto del voto è sacro.

Ma la tua famiglia era fascista o no?

Mio padre era analfabeta. Anche lui era un opportunista. Mi diceva: nella vostra vita non fatevi mai le tessere. Era fascista, ma la tessera io non ce l’ho mai vista. Aveva un’idea e basta.  Papà era crudele. Gli uomini di prima erano tutti come lui: un bicchiere di vino, la zappa.  Però è stato in Germania. C’era andato col sindacato fascista. Ha lavorato sulla Bahn’hof, sulla ferrovia tedesca. Non poteva più tornarsene e se ne scappò. Lì ha imparato la lingua. Lui a cinema non c’è mai stato. E s’arrabbiava con chi ci andava. Diceva: vai a cinema a vedere le stesse cose che fai tu? Sono soldi sprecati. La mia era una famiglia di poveracci. Mamma sempre un po’ malaticcia.  E ‘sto lazzarone e disgraziato di mio padre. Far fare a una donna tutti quei figli!

Dopo la guerra che cosa hai fatto?

Ho vissuto  8 anni a Roma. Vi scappai con mio fratello Enio, un mezzo delinquente, uno scapestrato. Prima si è messo coi partigiani, poi coi tedeschi, poi per soldi si era messo con gli americani per andare a cercare i tedeschi. A Roma è andato ad attaccare i manifesti  al Vaticano e lo hanno sbattuto dentro a Regina Coeli per un paio di mesi.  Era amico del Gobbo del Quarticciolo, che era contro la legge. Non uccideva. Rubava per mangiare. Era un giustiziere. Aiutava i poveri e perciò alcuni lo chiamavano Zorro. Quando uno non aveva il lavoro, lui andava e  diceva: se non dai il lavoro a questo, io ti faccio fuori. Nella banda c’era lui, poi c’era Pezzancule, Pisciasotte, che l’avevano operato male e si pisciava sempre  addosso. Ci faceva parte anche mio fratello Enio. Un regista francese ci ha fatto anche un film su tutta questa storia. In quel periodo lì  io ero guaglione. C’avevamo una fame. Noi stavamo con zio Michele, figlio del patrigno di mio padre, che era impiegato all’assistenza postbellica. Lui ogni tanto prendeva in casa un nipote. Lo svezzava lì. E così ha fatto con Enio. Poi con me e man mano con altri.  Era uno zozzone. C’aveva un paio di donne e poi maltrattava la moglie, che faceva la serva al Testaccio, lavava i piatti, stirava e il marito le portava via anche quei quattro soldi che guadagnava. Mio zio aveva anche una fabbrichetta di varechina ai Parioli e io stavo al negozio con mio fratello Enio. La varechina ce la facevamo noi. C’era «la Bianca»,  «marca Bianca». Prendevamo dei vasconi e compravamo l’estratto per fare la varechina in questi vasconi. Poi coi tricicli andavamo girando per Roma. Eravamo talmente affamati, che man mano che prendevamo una lira, la rubavamo per comprarci la pizza. Mio zio diceva: prendete trenta litri di estratto per allungare la  varechina nei vasconi. E noi ne prendevamo la metà. Tutt’acqua era. Alla fine è fallito. Poi io trovai un portafoglio di un signore. Glielo riportai. E quello: che cosa vuoi? Dammi un lavoro. E allora sono finito in piazza Epiro, vicino a Cinecittà. Facevo il custode, il servotto anche degli attori. Ho conosciuto Bob Hope. Poi Enio ha buttato un gatto dentro la gabbia dell’ascensore e mi hanno cacciato  dal lavoro. Vivevo così. Poi ho preso a leggere di tutto. Salgari, ad esempio. Poi ho letto Atte, la liberta di Nerone e mi sono innamorato follemente del latino. Sono sempre stato innamorato della roba antica.

Ma come ti procuravi i libri?

Chiedevo ai vecchi. A quei tempi là  si andava in giro a raccogliere le cicche e poi le davamo ai vecchietti di Piazza del Popolo. Roma io la conosco a millimetri perché l’ho girata per tanti anni. I libri li chiedevo a chiunque. Ci avevo una faccia tosta. Facevo amicizia con uno, con un altro. Andavo a portare la varechina nelle case. Parlavo. Guagliò, di dove sei? Ero già piazzato. Avevo  14 anni ed ero molto bello e sempre a caccia di donne.

Quali libri hai letto? Quali ti hanno appassionato?

A me piace soprattutto il Don Chisciotte. Lo leggerei due volte l’anno. Tutto ho letto.

Beh, dimmi di cos’è fatto ‘sto ‘tutto’…

I promessi sposi li ho letti quattro volte. Don Chisciotte della Mancia l’ho letto in italiano e in spagnolo.  Il tuo ex collega del Molinari, Merisio, lui mi ha portato il Don Chisciotte  in spagnolo. Ho letto quasi tutto. Ad esempio I fratelli  Karamazov  di Dostoewskij. Poi il  Dictionnaire philosophique di Voltaire in francese, che adesso sto leggendo un’altra volta. Poi ho letto per 4 anni la Bibbia. Lì è un macello, un marasma. Ci sono tanti personaggi. È meravigliosa per questo. A me piace molto l’immagine dei contadini che stanno tirando l’acqua dal pozzo, quando arriva Mosè.  Va letta tutta la vita. E anche se la leggessi per mille anni, la leggerei sempre come un ameno libro di lettura. Non come un libro sacro. Ho letto tanto in francese. A me piaceva Notre Dame di Hugo, cose toste. Poi Madame Bovary di Flaubert, Balzac, Zola, Baudelaire.In italiano di Dante so dei  canti a memoria. Ho letto pure I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, il  Decamerone. Poi ho studiato inglese e anche  qualche po’ di russo. Le lingue mi sono sempre piaciute, perché mio padre è stato in Germania più di vent’anni e quando veniva, gli chiedevo di portarmi una grammatica. Sono stato sempre un po’ esaltato dalla lingua tedesca.  Stern  l’ho letta per tantissimi anni. Il tedesco l’ho portato avanti fino adesso. E in Germania ci sono andato d’estate per vacanze. Mi stavano quasi prendendo al porto a fare l’interprete di tre lingue e mi davano 6 milioni al mese. Però c’erano i bambini [figli], dovevo lasciare tutto. Ho letto pure Umberto Eco. M’ha scandalizzato. Dice più Fontamara. Cristo si è fermato ad Eboli mi dice mille volte più di Eco. E poi più leggevi e più approfondivi. Qualsiasi cosa. Cominci una frase e subito viene una rima. È come se ci fosse un dialogo. Poi come giornali leggo Settimana enigmistica, sempre quella. Sono settant’anni. Prima si chiamava NET, Nuova Enigmistica Tascabile. Io quando prendo le parole crociate, guarda qua… Io tutta la vita avrei dovuto farlo questo, ogni settimana: ritaglio le foto degli attori e l’appiccico qui, faccio un archivio.

E che ti serve avere tutti questi volti? Perché t’interessano tanto?

Niente, curiosità. Perché amo tanto la cinematografia. A Roma andavo in tre cinema gratis: Arcobaleno, Iovinelli – dove vedevo sempre Claudio Villa – e Brancaccio. Perché mio zio andava in giro a portare le pizze con la bicicletta. Mi portava con lui. E così vedevo i film senza pagare.

Ma le parole crociate perché ti appassionano?

È una rivalsa. Quando prendo la Settimana enigmistica, faccio le più difficili.

Ti appassiona lo studio dei nomi, dei dizionari, dell’enciclopedia?

Sì, sì. Perciò poi faccio tutto questo casino quando scrivo, è come un fiume, come dici tu. Mi sono insaccato, nutrito di tutto, senza fare distinzioni.

Ma le preferite di queste letture?

Don Chisciotte. Perché sono io. Pensa a Dulcinea. Quella era una contadina che sceglieva i ceci in mezzo all’aia e lui si esaltava. Secondo me, lui si sarebbe accontentato anche di una strega pur di avere vicino una donna. Aveva un animo grande. Era pazzo, no? Con la sua immaginazione rendeva bella anche una donna brutta.  Don Chisciotte era secondo me malato. Non esiste poeta contento. Come fa uno felice ad essere poeta? Se non soffri, non puoi scrivere. Il poeta è uno che vive ammollato nella sofferenza. La sofferenza mi piace. Quando non c’è sofferenza, non c’è niente.

E ne parlavi con qualcuno delle tue letture?

Con i ragazzi del Molinari. Ho fatto il bidello lì per 35 anni. In mezzo a tutta quella gente lì parlavamo di letteratura, di lingue. Ne parlavo anche con qualche professoressa. Poi ho fatto il liceo classico al serale. Quando c’era il greco e qualche materia che c’interessava, stavamo in classe. Se no, con una scusa, ce n’andavamo. Ci davamo l’appuntamento al cinema di piazza Argentina con sei, sette  studentesse. Ubriacature, sigarette… Ero esaltato. Sono stato sempre un po’ femminaro, diciamo. Ma adesso son vecchio, brutto, non ce la faccio più.

E se dovessi presentare a dei giovani I promessi sposi che gli diresti?

Beh, c’è l’arroganza di don Rodrigo che è fondamentale. Poi c’è il perdono quando sta per morire. In tutti i personaggi mi trovo io.  Anch’io sono don Rodrigo. Tutti sono don Rodrigo. Nessuno è buono. Crediamo in Dio quando ci fa comodo. Siamo opportunisti, vigliacchetti.

Ma da Roma a Milano come e quando sei arrivato?

Dopo la guerra ho fatto diciotto mesi il soldato a Como e Varese. Poi sono tornato a Fondi. Poi sono stato da una zia di Monterotondo. E lì questa qui voleva appiopparmi la figlia Adele. Si arrivò al punto che mi fecero ubriacare e mi misero la figlia a fianco nel letto. Stavano preparando persino la dote. Io non dico  niente a nessuno e di notte me la filai a Monterondo città, in una pensione di due vecchie, una più cattiva dell’altra.  Lì conobbi Peppino, che faceva il camionista e che per poco non mi metteva sotto, mentre io con altri  stavo giocando con una palla di pezza per strada. Io dovevo pagare 8 mesi a questa pensionante, ma non avevo una lira ed ero disoccupato. E quell’anno fece otto volte la neve e a Monterotondo vennero i lupi.  Peppino mi porta a casa sua. Qui una volta ad un battesimo di una vicina venne invitata una ragazza, Ersilia. Ci siamo conosciuti e con lei sono andato in Abruzzi, a Lanciano, nei pressi di Pescara. Lì mi sono sposato con lei. Poi Peppino e la sua famiglia, che mi avevano ospitato,  si trasferirono vicino Vergiate, nella zona di Varese. Siccome ci scrivevamo,  andai anch’io da loro e  feci venire Ersilia e i due bambini che intanto erano nati. Poi il fratello di questo Peppino, che faceva l’autista di un miliardario, ottenne una casa in via Brembo. E noi avemmo un locale al quarto piano di questa casa. Dopo qualche anno sono usciti due locali  al piano di sotto. Ma eravamo senza lavoro e non abbiamo potuto pagare l’affitto. È venuto l’ufficiale giudiziario, ci ha fatto il sequestro e siamo andati a finire in Via Oglio, nelle case degli sfrattati. Abbiamo fatto tre anni lì e poi abbiamo fatto la domanda per le case popolari. E così abbiamo avuto questa dove abitiamo adesso, in  Via Chiari.

Te la sei vista brutta a Milano?

Quando stavo in via Brembo – era il 1960 – andavo raccogliendo le bottiglie vecchie con un amico di Ersilia. Poi ho fatto il muratore. L’avevo fatto da sempre. Anche  a Fondi bambino zappavo l’orto. Poi mi sono iscritto all’Istituto Tecnico Svizzero, una scuola per corrispondenza, e mi hanno dato il diploma di capomastro edile. Ho lavorato in piazza Frattini, dove abbiamo fatto un quartiere. Poi mi sono ammalato. Sono stato operato d’ulcera.  E nel 1966 entrai al Molinari come bidello, dove sono restato fino alla pensione. Ma prima per quattro anni ho fatto l’impiegato amministrativo alle Macchine Edili, che allora era in viale Ortles. Mi avevano preso come telefonista.  Poi era morto il capo e volevano fare me capo di  questa ditta di  due, tremila persone. Ma un ruffiano andò a dire che avevo la tessera della CGIL  e mi cacciarono via. Così, non trovando niente, un amico di mia moglie  mi suggerì: ficcati nella scuola. Feci ‘sta domanda. Io ero invalido civile per le operazioni che avevo subito. Ero diventato proprio un fuscello. Ebbi il primo posto e arrivai al Molinari.

E in mezzo a tutti questi movimenti, quand’è che hai cominciato veramente a scrivere?

Le poesie da sempre.  A scrivere di più ho cominciato sotto le armi. Ma in effetti ho scrivere molto nelle case degli sfrattati di via Oglio. Lì ci avevo del materiale accumulato, tutto un malloppo di carte scritte a macchina, un pot-pourri. Lì scrissi il primo libro intitolato L’uomo sbagliato.

Ma Tra fascisti e  germanesi, il libro che ti pubblicò Feltrinelli nel 1973?

Feltrinelli ha messo questo titolo a un pezzo tratto da L’uomo sbagliato. La storia è andata così. Ti ricordi  Pozzolini, quel professore d’italiano toscano che era venuto anche in televisione con Enzo Tortora ed insegnava al Settimo Itis? Lesse ‘sto malloppone di 7-800 pagine. Lui curava una rivista lì da Rizzoli. E disse: portalo a Rizzoli. Rizzoli stava quasi per pubblicarlo, ma lo trovarono troppo comunista, troppo rosso. E allora Pozzolini dice: mandalo a Feltrinelli che hanno una collana Franchi narratori. Mi chiamano  alla Feltrinelli e questo dottor Tagliaferri ha preso praticamente solo un pezzo di questo libro mio e gli ha dato lui il titolo. Goffredo Fofi ci ha fatto un’introduzione. Quello è un libro che a  farci un film…Poi lì alla Feltrinelli mi  dissero loro stessi: fai un libro sulla scuola vista da un bidello; e io ho scritto Scuola serrata, ma non me l’hanno preso. Al Molinari c’era un certo Willy,  che lavorava con questo editore Ghisoni e nel 1975 mi hanno pubblicato Scuola serrata. Poi a mie spese ho pubblicato a Lanciano nel 1993 Frau Magda. L’ultima donna. Adesso non m’interessa più pubblicare. L’altro inedito che ho scritto Il gran deluso l’ho sta leggendo anche il prete di qui che mi ha detto: Tu sei furbetto. Si è accorto che sono un po’ doppiogiochista in politica.

Facciamo un attimo l’elenco preciso dei tuoi inediti…

È un bel problema, perché io comincio, poi lascio lì. Non ho mai dato un ordine. Non ho pensato neppure a scrivere la data sui libri che ho fatto rilegare.

Però un po’ d’ordine bisogna farlo. Vediamo…Dopo L’uomo sbagliato scritto tra il ‘65 e il ‘70  hai terminato Lo sbandato attorno al ’72. Poi dal 1975 all’’80 hai fatto Il gran deluso. L’ultimo comunista, mentre Dissacrazione e verità raccoglie i racconti di tutta la vita e Una vita a pezzi  (circa 260 pagine) tutte le tue poesie. Hai poi da parte – qui ben rilegati nella tua libreria – una  estrosa guida turistica, Hamburg zu fuss [Amburgo a piedi], nata dalle tue visite a quella città, e i due libri sui dialetti: un  Vocaromanzo,  cioè romanzo-vocabolario, dove analizzi le parole del dialetto di Fondi  collegandole alle vicende della tua biografia [romanzata] e un Vocabolario del dialetto abruzzese  che hai depositato nella biblioteca civica a L’Aquila.  Infine stai lavorando adesso a Gente senza faccia, che definisci un poema. Se dovessi riassumere la trama di quest’ultimo libro?

Tutti i falliti si riuniscono dentro questa capanna di paglia (mi rifaccio al tempo della guerra…) e ognuno  racconta le sue beghe e i suoi guai di una vita da barboni. Per me è un capolavoro, una specie di Decamerone che potrei intitolare anche I ragazzi del capanno.

Ma questi libri li hai fatti leggere ad altri?

Adesso non sto bene. Non ci penso neppure a farli leggere, però chi legge le mie robe le trova buone e io vado avanti a scrivere. Adesso mi sono  infervorato e sto lavorando. È tutta una trama a flash-back. Parlo di tre donne però che  alle fine è una sola ed è mia sorella Elisabetta. E io m’invento che il marito la spara. E vado avanti…

Parlami un po’ del lavoro che fai quando scrivi…

Qui è un macello. Io invento tante cose. Non mi servo delle parole che hanno scritto gli altri. Ho il mio linguaggio. Sono capriccioso, scapigliato diciamo. Scrivo come voglio. Delle date proprio non me ne curo.

I temi che mettono in moto la tua fantasia quali sono?

La guerra è fondamentale. La donna ovviamente per tutti gli uomini è il perno attorno al quale girano tutte le fantasie, perché la donna fa i figli. Poi l’amore, l’affetto. La religione niente, per me non esiste. Gli altri? Mi occorrono. Ho bisogno di tutti. I parenti? Io li sparerei. Non m’interessano, ci do poco peso.  E poi i luoghi: Fondi, Napoli. Roma no. Più i luoghi sono disastrosi più [accendono la mia fantasia].

Fai differenza tra quanto scrivi in poesia e quanto scrivi in prosa?

Bah, non penso. Per me è tutto uguale. Mi metto a scrivere lì. Io sono stato sempre di questo parere – lo dicevo anche ai ragazzi al Molinari – che se Dante avesse scritto la Divina commedia  in prosa, come ha fatto Boccaccio,  questa sarebbe davvero un capolavoro. Io insomma tengo più per la prosa. Nella poesia la rima condiziona.

Tu hai continuato per tutti questi anni a scrivere da solo, senza incoraggiamenti. Perché lo fai?

Questa è una domanda a cui non è facile rispondere…

Ti accontenti di scrivere per te?

Purtroppo che fai? Mica ti puoi imporre. È come la morte. Io certe volte ho paura della morte, di rimanere solo. Però mi dico: se gli altri muoiono, tu perché non vuoi morire? Nasciamo e muoriamo. Se uno non nasce, non muore. Tu una volta mi hai chiamato ‘scrittore clandestino’. Non mi va.

Volevo intendere irregolare, non riconosciuto…

‘Clandestino’ non mi piace, perché tiene qualcosa di delinquente. Uno che fa qualcosa contro la legge. Tu non mi fai essere famoso e io te lo faccio apposta. Io non direi ‘clandestino’. Io mi sento un innamorato della saggezza.

Hai mai pensato di ripulire, aggiustare, sintetizzare, tagliare questa tua vasta produzione scritta?

Se dovessi fare una cosa del genere, farei crollare questo castello. Meglio lasciarlo così. È uscito così dall’anima, dal cuore, dalla tua volontà. Tu desideri una cosa e la ottieni. Io quando scrivo una cosa e mi piace…. È inutile stare a cambiare.

Ma il lavoro dello scrittore non è anche quello di ripulire, aggiustare?

Non mi piace, non mi piacerebbe. Tu mi consigli di ripulire, rendere meno rozzo questo linguaggio? Io voglio mantenerlo così. Non può venire meglio. Non accetto i limiti. Al circolo dell’Arci qui sotto casa hanno messo una targhetta: ingresso riservato agli iscritti. Io non ci vado più.

Tu sei vissuto sempre in questi ambienti  proletari e sottoproletari…

Sì, mi sono messo sempre coi  poveracci, i più analfabeti, i più malati.

Ti sei trovato in mezzo a loro…

No, lo facevo apposta. Non mi piace di essere meglio degli altri. Ho paura di far male agli altri. Ad esempio, io sono capace più di un altro a scrivere, ma non glielo dico, non mi vanto.

La  differenza la vedi, ma  non vuoi metterla in risalto? Vuoi mantenerti solidale con lui?

Sì, solidale.

Ma coi bidelli del Molinari com’erano i rapporti?

Nessuno mi poteva vedere, perché ero diverso. Non perdo tempo a chiacchiere…

Eri più amico dei i ragazzi però?

Sì, ma era anche pericoloso. Si andava a mangiare e a bere in quello sgabuzzino lì. Li mandavo dal pizzicagnolo a prendere il vino per conto di Armando, un amore di vino calabrese. Quante volte eravamo ubriachi. Io nun saccio chi santo mi ha aiutato a tirare la pensione. Quante ne ho combinate!

Gennaio 2006

APPENDICE:  BRANI SCELTI

Da Tra fascisti e germanesi  ( Feltrinelli, Milano 1973, pp.69-72)

La vita sul Cocuruzzo, sebbene da cani, correva lo stesso. lo avevo tanta paura della guerra. Avevamo fame ma Antoniuccio cresceva bello come il sole. Anche se si voleva scendere al paese per procurarci del cibo, dovevamo riunirci perché sarebbe stato un suicidio esporsi alle bombe americane. Sembravamo costretti a morire di fame dentro quei tetri tuguri di paglia e sassi. Ma un mattino, l’ultimo di gennaio, sbottammo. Il cielo era accappato di nero; elefanti di nuvole gonfie d’acqua s’alzavano avvolgendo gli aranceti. Io, zio Leandro, Lu­cino, Elio e una giunta di mortidifame calammo al paese, con la speranza di trovare qualcosa da mangiare. Scen­demmo piano piano per i sinuosi sentieri che affoga­vano nel verde del monte. Zio Onorio si unì a noi. Proprio quando arrivammo ai piedi del Cocuruzzo, sci­volando sulle erbe e sopra i sassi freddi, il cielo si coprì di macchie dell’antiaerea tedesca e una squadri­glia di apparecchi incominciò a seminare bombe e pal­lottole a tutto spiano dentro le rocce e sopra i giardini d’aranci. Ci mettemmo al riparo e i tedeschi, che lungo la costa stavano all’aperto, sparirono nelle grotte. Uno  di loro, però, non fece a tempo e col fucile si mise a sparare nel cielo. Non rimase in piedi per molto e gli aerei se n’andarano vincitori versa il mare. Avvicinam­mo il tedesco, e allibiti ascaltamma le sue ultime pa­rale: “Non perderemo la guerra, il Fűhrer ha detto che abbiamo l’arma segreta, non fa nulla che voialtri italiani ci avete tradito, vinceremo lo stesso, gli americani li butteremo. a mare.” E piangeva con la mano. affondata nel buco che teneva sotta la pancia, aspettando di morire.

Giungemmo presso il paese a sera inoltrata: avevamo paura dei bombardamenti e d’essere rastrellati dai te­deschi. Erano due mesi che non ci azzardavamo a calare a Fandi. Il prablema era di entrare in paese senza che nessuna ci vedesse. Tentammo con cautela di aprirci un varco attraverso i comandi tedeschi. C’era nell’aria la natizia che i liberatori americani fossero oramai quasi alle parte, ma stentavamo a crederci; di cose allora se ne raccontavano tante. Giungemmo dentro il paese. Per i vicoli non latrava un cane, la paura ci straziava. Papà e zio Leandro ci precedevano camminando sotto gli architravi pericolanti e noi li seguivamo, sbattendo i denti per il freddo e per la fame. Poi mio padre se ne ri­tornò sul Cocuruzzo, accanto a mamma. A Fondi, le strade, i viali e le piazze, non esistevano più; il paese s’era trasformato in un immane cimitero senza croci. Percor­remmo via Vetruvio Vacca senza incontrare una traccia di vita. Non ci perdemmo d’animo, specialmente zio Leandro, il quale, vista l’impossibilità di raccattare qual­cosa da mangiare, propose di andare a vedere cosa mai era rimasto delle nostre case distrutte. Lui davanti e noi dietro, varcando come iene le macerie e i tritumi, arrivammo, stanchi e con la lingua fuori, sulle rovine della mia casa. Il ritratta di mamma e papà pendeva ancara affogato nella polvere dall’unica lembo di muro rimasto all’impiedi. Zio Leandro ebbe l’ardire di stac­carlo dal muro senza procurarsi un graffio. Ritratto alla mano, mio zio avanzava barcollani, gettando gli acchi di qua e di là, coi capelli canuti rizzati in testa come un riccio. Noi lo seguivamo al calcagno.

Non finimmo di arrivare in piazzale Portella, che ci sorprese un bombardamento. Per fortuna non c’erano mura in piedi che ci potessero crollare sopra le spalle. Ci appiattellammo panciaterra sotta il marciapiede e restammo a baciare il selciato, finché i bombardieri si allontanarono. Ci rizzammo da quella posizione e ce la squagliammo. Attraversammo il Ponticello e andammo. a piazza Cardinale. Ci imbattemmo in un certo Cazzomatto, che con la sua faccia di puttana c’invitò a an­dargli appresso promettendoci di farci guadagnare il pane. Lo seguimmo e ci condusse dentro una casa dove, frugando ben bene, trovammo un barile di ulive all’ac­qua. Poi scendemmo in cantina, dentro la quale a stento si riusciva a tenersi in piedi. La trovammo piena di botti sforacchiate dalle palottole tedesche e fasciste; era tutta allagata di vino, con sopra uno strato di moscerini che si poteva tagliare a fette. Riempimmo delle damigiane e le nascondemmo per poi portarcele sopra la montagna. In altre cantine, c’era della gente che andava tastando i muri e i pavimenti a caccia della roba murata. Facevano man bassa di tutto. Noi li guardammo e prendemmo solamente da mangiare. Ci fornimmo di fagioli e di fichisecchi, mentre gli altri rapinavano gioielli, biancheria, vini. lo nel contempo guardavo Lucino, che sturava una bottiglia di liquore e l’assaggiava, e poi apriva e assaggiava l’altra ancora, fina a sbronzarsi. A un bel momento gli cominciò a girare la testa, ma lui non capiva ragione: assaggiava e rideva come uno scemo. A Elio venne un accesso di tasse (lui ne ha sempre sofferto), Lucino faceva il matto ragionando con l’alcool e io mi lamentavo che volevo mamma. D’im­provviso, mentre carichi di mangiare e bere stavamo attraversando una lunga cantina scarrubbata, per portarci sulla strada e andarcene, passarono dei tedeschi. Ai gravi passi teutonici, sotto l’intimazione di zio Leandro, ci nascondemmo dentro le botti vuote. Elio tossì ancora e zio Leandro lo assalì con una valanga di im­properi e minacce a bassa voce. Ma nessuno ci udì. Caricammo il vino, i fagioli e le olive e finalmente par­timmo.

 

 

La Notte di Natale (1982)

E' la notte di Natale.
Va un tale
ad accattare in un bare un cartoccio di sale
per la sua zucca astrale.
Egli s'insacca nella sua mantellina sbrindellata
e ingerisce di volata
i diciassette piani del palazzo in cima al quale
tana. Egli è povero, non ha un cavolo.
Inoltre è detentore di un lercio ceffo sul quale
affiorano rimarcabili caratteristiche da farlo
da tutti reputare un rospo cornuto.
Ebbene, questo figlio di cagna, tutto impettito,
tronfio d'ignoranza e arrotolato in un palltò crivellato
di mozzichi d'incinte mignatte, squarciando lo smog
entra nella fumigosa mescita summentovata.
Egli è avvolto nelle pene nere
del mondo le più megere.
Tiene gli occhi bruciati di pianto
e s'alluma un mozzone di sigarro raccattato
perterra fuori dal bare
ai piedi della soglia di pietra di Trani.
E' la notte di Natale
e sotto i suoi fracichi, sporadici denti,
da vetusto tempo costui non mascica un tubo.

Soltanto ogni tanto ei getta i suoi occhi abbottati
di debiti nel ventre della vetrina
di una tavola calda, mirando, traverso
la lastra vetrosa, gli altri le coscie dei polli
sbranare, bicchieri ricolmi di sangue di vite
trincare, e leccarsi le dita cosparse di vermiglia
vernice di caviale.
E' la notte di Natale.
L'individuo se ne va piangendo il male
che tiene all'addome, e d'allora
non mangia, e soffre dolori di fame.
Nel bare si stiracchia, appoggia le spalle
aggobbite al termosifone
e gode un po’ di calduccio ghisoso, e un languore
gli bazzuca nel cuore dardi scagliati
da un arco baleno d'amore.
Egli guarda, adesso, le facce sgualdrine
dei giocatori di tressette, e il mozzone toscano
gli brucicchia le labbra spaccate,
tinte di morte.
Lo rimira ognora nel bare la gente
e lui pensa: "E' la notte di Natale
e il tossicoso locale
mi guarda cogli occhi alcolini."
Egli se ne frega; si muove, si raggomitola
rannicchiosamente raggomitolato sul peccoso bancone
e col suo brutto muso di cane barbone
tracanna un ponce.                                                                                                      .
Appresso si sbavacchia la bocca fetente di trinciato forte
colla manica lurcia del suo malnato cappotto                                                     .
e sfodera a sorte
dalla saccoccia delle sue brache stinte e rattoppate
cento lire ammaccate.
E ammicca al barmanne se dentro
quel bare ci fosse un juke-box da suonare.
"Bighellone abbuffato di pidocchi maledetti!
- gli sparacchiano a musincinti gli avventori
e la racchietta mogliettina del gestore -­
Il suonatore a bottoni eccolo là!
Non ci vedi? Sei strabbicco, cieco o baccalà?"
La gente del bare l'attornia, lo vuole scannare.
Menomale!
E' la notte di Natale.
E il mandrillo mugola: ”Ma come, siete stati voi a dirmi
che quel coso là non è affatto un juke-box,  bensì una cucina
a gas, allora cos’aspettate?
Su, datemi un pentolino e un ovo, ho fame!
Io colle mie cento lire volevo suonare delle canzoni!
Magari! - pensava il gringo fra sé e sé - un ovo di struzzo
scapolo al tegamino, sarebbe buono, oppure una braciola
di maiale."
E’ la notte di Natale.
Gli avventori del bare, scocciati del parlo del tale,
se ne stanno andando, quando
egli mormora: “Ma si può sapere checcazzo di mescita
è questa, che non possiede neppure un tegamino nel quale
poter cucinare quel gatto soriano
che viene adesso di qua, o qualche microsolco suonare?"
Gli scagnozzi giocosi, snudandosi fuori dal bare,
se ne vanno, quando uno chiama un altro: "Andiamocene, Peppe!
Non lo vedi? E' stato sempre così scemo e ignorante quellolà! "
E la folla, noncurante, se ne va.
E' festa.
Il tipo accatta il sale per la sua testa.
Sbocca dal locale
e, gridando, se ne va appazzato nell'interno del viale.
E' la notte di Natale.
Ei corre col cuore schiacciato nel focolaio dell'ariaccia
smogosa. Si porta dal giornalaio
e chiede un panino imbottito.
"Signore, ma lei forse è ammattito?
- gli spara l'edicoloso - E' la notte di Natale,
non posso darle, barbone, che un giornale."
Eppoi all'illuso lo vede un bambino,
che gli fa una pernacchia e gli dice: "Cretino!"
E' umiliato il tale.
"Ma questo zozzo mandrillo è proprio un deficente?"
pensa un mercenario della Polizia Stradale.
E' la notte di Natale.
Egli si diparte colle spalle gelate
e chiappa un tassì provinciale.
Mentre l'illuso non fa altro che granfare il tram
che va alla Previdenza Sociale.
E' la notte di Natale.
Il criminale azzecca ansimante i diciassette
piani del palazzo sul quale tana.
Ma non piglia l'ascensore.
Forse ha perduto la chiave,
o che non paga la pigione quell'essere astrale?
E' la notte di Natale.
Ha le labbra screpolate di voraggini di fame,
quel brutto muso di cane.
Questo tale
lo si chiappa sempre nelmentre si stende
come una maledetta scolopendra
o un porcello di Santantonio sotto il ponte
ove egli effettivamente cova il suo odio
come un serpente velenato,
il fetentone, il megalomane nato.
Cionondimanco si trova adesso sul grattacielo
e guarda dabbasso la rapa dell'animale
e le cappotte di metallo addebbitate
che scorazzano sopra la cambiale.
E' la notte di Natale.
Ridacchia come un Belzebù questo figlio di varana.
Si fabbrica una cerbottana,
colla quale,
dopo aver abbussolettate le bollette non saldate,
le bazzuca sul peccato ch'è dabbasso
e ridacchia come un Drakula.
Soffoca, sventra l'apertura della gelosìa,
ammocca la testa matta dalla bocca della casa
e scorge sulla strada il mercatante che viene a scannarlo
e a sequestrarlo corre il mobiliere
e l'altro usciere azzecca a bazzucarlo,
solo perché il tale
non pagava la cambiale.
E' la notte di Natale.
Si catenaccia nella sala capita1ista di polvere
e ragnatele
e sullo storpio tavolino traccia un (O) con un bicchiere
di vino e scribacchia sciocche poesie.
Adesso a1luca, grida ei come un disgraziatone
e violentemente molla tutto quanto giù dal finestrone
sino a riempire di elettrodomestici e di mobilio
tutto il mondo,
questo tale,
questo idiota, questo cane vagabondo.
Il tipo ha uccisi tutti,
dimodoché persona più protesta,
e solamente lui al mondo resta
a gettare gli occhi sul viale
alla notte di Natale.
Egli sta nel bare a piangere tristezza e miseria
vicino al juke-box, e ode il disco (Lo Straniero).
Finalmente muore il tale
cadendo col capo sul davanzale
e accattando il sale
per la notte di Natale.

IL BRIGANTE SILVESTRO  da Dissacrazione e verità  (raccolta inedita di  racconti, pag. 135)

Nella Selva Vetere, chiamata così per via che viene tagliata dal fiume Vetere, metatesi di Tevere, che nasce dal Monte Perito e muore nel lago di Fondi, una volta vi abitava un pastore di nome Silvestro. Aveva ventidue anni allora; giovane tozzo, brutto e analfabeta, aveva sempre il fucile retrocarico a portata di mano, se lo poneva accanto al letto quando la notte dormiva. Ca­morrista e maffioso. Anche se aveva sempre ucciso e rapinato, lui, a botto di schioppettate, faceva dire di sé: «Fino adesso ha voglia la gente di parlare, Silvestro ha ventidue anni e nessuna condanna sopra le spalle, non ha mai fatto del male a nessuno».

Lo temevano tutti. La Selva Vetere era il suo dominio; nei suoi lugubri ventidue anni aveva campato sempre di prepotenza. Era un uomo solo, errante, anche attraverso i Monti Aurunci, dietro alle sue pecore, ogni tanto ne violentava una, facendola [s]trillare come una rigazzina di primopelo. Emarginato dalla vita, egli non amava nessuno; sapeva soltanto che ogniqualvolta si piccava una cosa in testa, manteneva sempre la sua promessa fatta: «O ti piglio, o mi subisci, o ti fai subire; o mi dai la carne tua, o sennò io me la piglio». La sua famiglia era degna di lui medesimo, strafottente rapinosa, vendicativa e faidale. Costoro dominavano colla minaccia, sempre sul chivalà e sicuri, col fucile in braccio, carico e inesorabile. Erano incapaci di pensare al bene, votati al male. Capacissi­mi di rapinare e uccidere a sangue freddo, nonché di bruciare le capanne, pagliari, rozze dimore di quei poveri selvaroli.

La losca famigliaccia cantava sempre: «Se ci rompete le ossa dentro ci trovate il rancore, se ci tagliate le vene, dentro ci trovate il veleno, se ci spaccate le cervella, dentro ci trovate il delitto; se ci aprite il cuore, dentro ci trovate una pietra».

Dietro la capanna, dimora della terribile famiglia, ci stava una grotta ignorata da tutti. Un giorno però questa venne scoper­ta da un boscaiolo, certo Polo, che lo fa subito presente alla Legge: «Sì, c’era puranco un mio collega con me; abbiamo visitato la grotta, calando giù per una scala a chiocciola. Dentro a essa ci stava un letto, tre o quattro sedie, un tavolo e tante armi moderne». Silvestro non agiva mai solo, aveva con sé un’ombra, il suo angelo custode e braccio destro Bellone, giovane diciannovenne, truculento; capigliatura corvina e riccia su capoccia arietina. Naso grifagno, occhi rossi, spupillati, bocca di caprone con zanne di lupo. Alto quanto un cerro, bestiale erotico maniaco sessuale ermafroditico. Come Bellone catturava qualcuno, maschio o femmina, bambino o vecchio alla luna, li violentava con stupro. Una volta lo ficcò dietro a un vitellino redo[2] appena nato, facendolo morire dissanguato. Questo animalone si sarebbe fatto uccidere per il brigante Silvestro, il pastore invaghito della bella contadina Driade, che dimorava in una pagliara della medesima contrada della Selva Vetere. La fanciulla Driade, bella come una mela cotogna, alta, florida, sana, colle carni fresche e sode e il seno, pieno, pieno di melloniche tette, assai schiattacore.

In famiglia erano lei, il babbo, la madre, la sorellina e il fratello Gildo, ragazzo robusto, alto e bello da mettere invidia. Non molto lontano dalla loro capanna abitava lo zio Corbo, uomo austero e forte, che anche lui, purtroppo, subiva angherie, rapine e minacce dal bandito Silvestro. Ciò non ostante, quest’uomo non osò mai la­mentarsi, nè lui nè gli altri selvaroli, temendo rappresaglie dal bandito Silvestro, questo rozzo bandito camorrista, guappodicartone e mafioso. Silvestro sicché aveva il cuore in frittura per la bella contadina Driade, che di lui non voleva sapere proprio il bel resto di niente, facendo anzi capire in mille modi e maniere al giovane bandito, che le loro future nozze erano un’utopia. Intanto il bandito tutte le volte che la vedeva lavorare nei pantani, sotto il cielo azzurro di Fondi, scendeva da cavallo e la pigliava selvaggiamente:

«Vieni qua! Mi hai messo la febbre perniciosa nel sangue, ti desidero assai assai, con tutta l’anima; perché non vuoi darmela? Ebbene, allora ti sbardello sopra la terra spoglia e nuda e te lo ficco tutto quanto dentro la quadraccola. Vedrai come ce lo tengo il pistolone lungo e ciotto; ti fo addicreare una frega, ti azzaffo e affogo la zunna di saponella, ti voglio montare con tutta l’anima, come fa il mon­tone colla pecorella. Ti impre[g]nerò facendoti partorire un bel marmocchio tutto nostro. E che, sei la regina di stocazzo, tu, che non puoi fare in culo con me?»

Le ripulse della bella Driade inasprivano sempre di più l’animo di Silvestro. Siccome in ogni colluttazione che intercorre­va tra i due amanti, era sempre la femmina ad avere la meglio, data la sua consistente forza e statura, Silvestro, allora, che era una mezzasega, rispetto a lei, la minacciava con gli occhi di brage: «Ah, non molli? Nèh! Mi piglierò vendetta crudele su di te e sopra alla tua famiglia, vedrai, non finisce così, per me non è ancora notte! Non vuoi il mio amore ardente, allora io, un giorno o l’altro, come è vero Santrocco, te la faccio pagare a caro prezzo».

I due malviventi, Silvestro colla sua spalla destra Bellone, una mattina sentivano un rotolare di carretto sopra la via. Si trattava di un certo Fiore. Appena i due banditi gli arrivarono a tiro, Silvestro lo fece scendere dal mezzo. Gli chiese: «Compare Fiore, dove si trova adesso Driade?».

«Alla pagliara della zia Bortone. Ci sta pure la sorella Emma, col cugino Tommasino con lei, in tutto sono quattro cristiani».

«E indove si trova Gildo, il fratello di Driade?». «E’ andato a fare delle compere a Fondi». «E suo cugino Aristide?». «E’ allettato per malattia, compare Silvestro». «Allora puoi andare pei fatti tuoi!» gli dice il bandito «Grazie, tante, grazie anzi delle notizie che mi hai fornite, addio!»

Il Fiore, col suo carretto ripigliava la via per Fondi.

Adesso i due briganti, Silvestro e Bellone, sicuri di avere campo libero, si versarono nella Selva Vetere. «Caro Bellone!» gli diceva ora Silvestro «Gildo è ito a Fondi, a fare delle spese, un uomo man­cante; Aristide si trova a letto malato, un altro uomo di meno; Driade quindi non ha difensori di sorta, è sola; non c’è persona al mondo che la possa aiutare. La sua vecchia zia Bortone col cuginet­to Tommasino, che giacciono con lei nella pagliara, non contano. Siamo quindi gli unici dominatori del campo, i padroni, possiamo agire a nostro pieno piacimento, nessuno ci disturberà. Però sono ancora le sei, ora in cui tutti lavorano; le mandrie non sono ancora rientrate nelle stalle; i vaccari, i bufalari, sono ancora sparpagliati per la Selva Vetere. Poi, chi zappetta, chi dissoda e ricaccia i pantani, sotto questo sole che brucia, come l’anima mia, per la bellissima Driade. Se ci muoviamo adesso e ci sentono, possono accorrere a difenderli, bisogna, per questo, aspettare, ancora non è il momento. Siamo cauti! Calma, perché vendetta sia fatta; non portiamo prescia, il gatto per la fretta fece i gattini ciechi. Verso la notte spaccata i villani dormono,[nessuna] persona ci vedrà a quest’ora, tranne la Luna d’argento». «Aspettiamo allora insino alle undici, Silvé!» consiglia­va il Bellone; queste cinque ore poi so’ io come fartele passare».

I due briganti penetrarono nella grotta nascosta, dove abitava la puttana di Bellone, colla quale Silvestro si sollazzava bonobono, ficcandoglielo ripetute volte nella zunna e altrove alla presenza del suo bracciodestro Bellone. Eppoi ancora con Bellone bevvero, mangiarono, cantavano e chiavavano insieme colla scrofa, chi davanti e chi didietro simile ad accoppiamenti animaleschi.

Arrivate finalmente le undici, i due manfrini, lasciata la puttana, sazia nella grotta, pigliarono a camminare verso la capan­na nella quale dormiva Driade, la sorella Emma, la zia Bortone e il cuginetto Tommasino. Nessuno si trovava a quell’ora sveglio per la Selva Vetere, pareva che nel mondo non ci fosse più crea­tura vivente. Tutto taceva. Tale silenzio veniva rotto soltanto dal canto lugubroso degli uccelli di rapina e dal secco brusìo di qualche foglia che tombava vorticosa perterra in quell’amara notte. Si udiva però il losco rumore dei loro passi guardinghi che procedevano inverso il malaffare. I due briganti arrivarono davanti alla pagliara, la cui porta, che pareva una feritoia di casamatta, era serrata. Silvestro vi andò vicino, dopo avere fatto svegliare i quattro, prese a minacciare col suo fucile: «Allora, Driade, ti ostini ancora a non volermi?»

«No!» [s]trillava lei «Meglio la morte!»

«Ma che cosa ti ho fatto io di male? Io ti voglio solo per sposa, ti voglio bene!»

«No!» lei lo respingeva! «Uccidici piuttosto tutti e quattro!»

                «Esci fuori dalla capanna, Driade!» Silvestro cominciava a innervosirsi. «Ti voglio per moglie. Perdonami se quella volta ti ho ferita col pugnalotto!»

«No!» insisteva lei caparbia: «E’ meglio morire».

«Porco della Ma. e Dio ansemble!» bestemmiava Silvestro con assai raccapriccio. «Allora, Bellone, taglia e prepara la legna».

Il brigante tagliava frasche e l’ammucchiava intorno alla capanna. Dopo pure tronconi lignei in croce piazzava in faccia alla porta.

                Ammannito tuttoquanto perbene, Silvestro disse: «To,Bellone! Afferra questo fucile e spara qualora si avvicinasse qualchuno!».

Silvestro appiccò quindi il fuoco alla pagliara, da dove presero a uscire urla laceranti. Driade, alla quale si stavano già incendiando i panni addosso, cedeva pietosamente: «Silvestro! Sposo mio di letto, aprima [sic] la porta, spegni il fuoco; vengo fuori, esco e mi ti sposo, non bruciare pure la zia coi miei fratellini! Essi sono innocenti, non ci entrano niente coi nostri peccati».

Driade metteva la testa fuori dalla paglia della capanna, mentre Silvestro gliela respingeva dentro, dicendole:«E’ troppo tardi oramai!».

La pagliara bruciava e il fumo strozzava la gola dei quattro le cui carni venivano di già escoriandosi e brasandosi sotto la furia delle crepitanti lingue di fuoco.

Driade scongiurava. In quel mentre a un galoppo seguiva una figura oscura. «Chi è che disturba?» si chiedeva Silvestro «Tu intanto, Bellone, resta di guardia alla capanna, fino a che non è diventata un mucchio di cenere; io vo’ a vedere chi è».

Il brigante partiva, fucile spianato, pronto a uccidere. Scorgendo Gildo, fratello di Driade, che veniva da Fondi, gli alluccò: «Ma perché giungi a questa ora di notte? Sei un cazzo di ostacolo e ti frapponi come un bastone nodoso fra i miei piedi. Ma il destino si deve compiere in tutti i modi.Vattene, Gildo, da dove sei venuto, sennò ti sparo!».

Il giovane, ignaro di quelle fiamme, legava il suo cavallo, senza rendersi conto del pericolo che stava per correre. Come poi stava aprendo bocca, Silvestro gli deflagrò il primo colpo, facendo così cilecca. Gli disse allora: «Non ci fa una minchiazza, Gildo, ti metti in corriva con me? Vuoi ficcare il naso nelle mie cose? Il mio schioppo è un duebotte, l’altra cartuccia è già in canna: banghe!». Gli uccide il cane, che guaì pietosamente, con uno strascico che echeggiava per tutta la Selva Vetere. Gildo l’aveva capito che nella pagliara della zia Bortone stava morendo bruciata la sorella cogli altri innocenti. Siccome Silvestro stava ricaricando il duebotte, egli pensò:«Qua io, in tutti i modi, sono un uomo morto; loro due, Bellone armato di accetta e Silvestro di fucile. La capanna brucia, vorrei andare ad aprire la porta, per salvare mia sorella Driade cogli altri. Ma mi faranno fuori. Eppoi chi saprà mai chi fu l’artefice che aveva bruciato queste quattro anime innocenti? Quindi, l’unico testimonio sono io». Gildo eccosì monta a cavallo e corre dallo zio Corbo, che saputo del fattaccio, lo consiglia di avvertire la legge.

Compiuta la strage, mentre Driade colla zia Bortone e i due bambini finivano di carbonizzarsi nella brage della capanna, Silvestro e Bellone s’allontanavano dal focaraccio accostandosi alla dimora dello zio Corbo. Là giunti, i due banditi lo invitavano ad apparire sull’uscio. Il povero disgraziato, prendendoli colle buone, affinché suo nipote Gildo facesse a tempo ad avvertire la legge, apparve sulla porta della sua capanna, scalzo e in camicia allungo. Allora Silvestro gli scaricò il fucile addosso, facendolo cadere secco in una piscolla di sangue. Poi con Bellone si diedero alla macchia. Di lì a poco il povero Corbo moriva. Intanto erano giunti sul posto del rogo gli aiuti chiamati da Gildo, ma nulla poterono fare per le povere vittime oramai incenerite. Silvestro e Bellone vissero dapprima uniti,eppoi come videro che ciò era pericoloso, si separarono. II bandito Bellone uscì dalla Selva Vetere e Silvestro viveva nascosto nella grotta. Dopo, in seguito a delle spiate, Bellone venne catturato e giudicato. Venne condannato a tre anni di reclusione. Anche Silvestro fu giudicato dalla stessa corte in contumacia venne condannato all’ergastolo. Da quel giorno di Silvestro non si ebbero più notizie; dopo si venne a sapere che aveva vissuto tre anni nella grotta nascosta colla puttana di Bellone. Silvestro scappò in Abruzzo, qua dove cambiò due volte nome, con falsi documenti si sposava ed ebbe due figli. 21 anni dal fatto, mentre Silvestro saltava da un tetto all’altro di una casa, cadde sulla strada dabbasso, rompendosi tutte e due le gambe, infine fu catturato e morì marcio dietro alla cancella.

 Note

[1] Tahar Ben Jelloun, Le pareti della solitudine, Einaudi, Torino, 1990 e 1997, p.XVIII

[2] Redo Vitello o puledro durante il periodo di allattamento

“Un vento gentile soffia su Cologno”, ma le scarpe sono “rotte” o no?

a cura di Ennio Abate

Miseria della politica e speranza di cambiamento in un città di periferia, dove abito dal 1964. Pubblico un mio intervento critico, una mail dell’amico Donato Salzarulo, la mia replica e, in Appendice, le reazioni di vari amici e amiche su una pagina FB locale, Cologno Outside. Mi attendo approfondimenti, ma vanno bene anche ulteriori polemiche [E. A.]

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29 maggio alle ore 07:24Ennio Abate‎ aPOLISCRITTURE COLOGNOM29 maggio alle ore 07:19

SAMIZDAT COLOGNOM

SPIACE DIRLO: A COLOGNO ABBIAMO LA STUPIDITA’ AL GOVERNO E UN’OPPOSIZIONE ABBAIANTE

Succede che il sindaco uscente leghista Rocchi si fa fotografare con tanto di gonfalone cittadino bene in vista insieme ad una giornalista locale, Jacqueline Allemant, sua servizievole fan. Lui ha la mascherina d’ordinanza anti Covid-19. Lei s’è messa una mascherina-museruola con su la scritta (famigerata per chi un po’ di storia italiana del Novecento l’abbia masticata) “Boia chi molla”. E la foto compare sui social colognesi. Succede anche che, non contenta di questo, la stessa Jacqueline Allemant pubblichi un altro selfie: lei e la vicesindaco di Cologno, Tesauro, entrambe con le mascherine-museruole e il “boia chi molla” bene in vista.

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Lamentazioni (brindisine) e 5 brani da L’Arrabbìco

Brindisi, Torre dell’orologio

di Antonio Sagredo

Questi due testi di Antonio Sagredo – Lamentazioni elaborato nelle ultime settimane, L’Arrabìco, “racconto lirico-epico picaresco” inedito risalente al 1977-1981 – sono una meditazione poetico-narrativa, autonoma e indifferente al tempo storico, sulla Morte. Attingono ad un immaginario continuamente indagato – brindisino ma anche boemo (per la formazione e gli studi dell’autore-, nel quale su un piano di finzione teatrale s’impongono immagini paurose e terrorizzanti: di malattia, di rituali funebri o magici, di miserie e rivolte sociali represse nel sangue. Ci vorrebbe uno studioso di Ernesto De Martino per penetrare nei meandri di questi testi e coglierne il senso arcaico e apocalittico, che – guarda le coincidenze che la storia dispettosamente propone! – l’epidemia/pandemia da coronavirus di queste settimane sta rimettendo in moto. In mancanza di tale guida, il lettore provi ad indovinarne uno suo anche approssimativo. Pescando magari analogie con il suo di immaginario. [E. A.]

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Storia, cosmologia e fine dei tempi

di Matteo Meschiari

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Stralci:

1.

 Solo dopo due settimane di sfibrante lavoro di prelievo, trasporto, pulitura e registrazione delle tavolette, nella corte della casa della Missione cominciarono ad allinearsi ben 99 casse di tavolette predisposte per la consegna dei reperti al Museo di Aleppo. In quelle casse erano racchiusi i resti di un tesoro di documenti di ogni tipo da cui sarebbero stati ricostruiti, in decenni di futuri studi, 40 anni di storia, politica, sociale, economica, amministrativa, religiosa, di una grande città del 2350 a.C. – Ebla – che aveva aspirato senza successo a un dominio universale e di cui già intorno al 1200 a.C. si era perso ogni ricordo.

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Su Lega e leghismo

Lettera aperta del 1993 ad un compagno assessore

di Ennio Abate

Questa lettera aperta , anche se  è datata e si riferisce ad una situazione locale (Cologno Monzese), ha una sua attualità e perciò la pubblico nel mio Riordinadiario. Coglie, infatti,  in germe, in un anno che precede anche l’esperienza berlusconiana,  il fenomeno del leghismo di massa (oggi si direbbe del populismo leghista),  che  è  arrivato in quest’anno al suo apice; ma insiste pure sulla incapacità della sinistra di contrastarlo, perché troppo somigliante ad esso. Ora che si è arrivati quasi alla fine elettorale della sinistra, sarebbe il caso di capire che Troia è bruciata e non ci si può gingillare coi soliti discorsi o gridando “Al lupo! Al lupo!”. [E. A.]

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E la sciagurata rispose? Beh, sì, no…si desublimò!

La Letteratura e il Mercato

di Ennio Abate

In tre vecchie articoli apparsi su il manifesto (19,25 aprile; 3 maggio 2002) Remo Ceserani discuteva lo stato di salute della letteratura in Italia e negli altri paesi a capitalismo avanzato. Perplesso sulle sue conclusioni,  avevo scritto questo dialogo (immaginario!) fra il mio doppio e quello che,  arbitrariamente ma non troppo, parlava per Ceserani. Lo ritiro fuori da una vecchia cartella e lo dedico come omaggio polemico, sì, proprio a lui, allo studioso che ci ha lasciato alla fine dell’ottobre 2016 e che ho, malgrado il mio dissenso, sempre stimato. [E. A.]

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Su “Poemetti e Racconti in versi” di A. Éderle

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di Cristiana Fischer

A una prima lettura “Poemetti e Racconti diversi” coinvolge nell’incalzare degli argomenti, per la viva colorazione affettiva, per gli incanti descrittivi e naturalistici. Oltre questa luminosa superficie il libro mostra la sua unità di fondo: la scrittura fluida e continua, il periodare ampio, il frequente interrogarsi e catturare l’attenzione di chi legge, perché l’autore gli parla, gli descrive quello che sta vedendo (“Tre e mezzo, la discesa scende fino/a mezza costa, case nude senza uomini”), gli espone riflessioni, ricordi (“Ecco, ritorna il suono, ecco/torna il colore lo splendore”), si mostra con la sua esperienza di vita e la maturità raggiunta, la sua psicologia e filosofia. Continua la lettura di Su “Poemetti e Racconti in versi” di A. Éderle