DIALOGANDO CON IL TONTO (6)
Vivere in una città di provincia, in una nazione come la nostra segnata dalla tradizione dei cento campanili, ciascuno tanto particolare da avere una sua storia, una sua cultura e una personalità davvero unica è una esperienza che merita di essere vissuta. Consente di assaporare un clima che è ben diverso da quello che si può sperimentare in una metropoli, dove il ritmo del capitale tende a omologare tutto. In fondo la media dimensione, il contatto con la periferia diffusa permette di mantenere in vita peculiarità che sono uniche. Per questo motivo io, il Tonto e i nostri altri amici continuiamo a trovare gradevole il luogo in cui viviamo, apprezziamo la possibilità di usare la bicicletta per muoverci, di scorrazzare per il centro senza correre gran pericoli passando da una piazza all’altra in una dimensione della vita che rimane nel complesso a misura di essere umano. In poche centinaia di metri si può immergersi in un mondo che ti rimanda al medioevo, con le sue chiese e le sue abitazioni addossate le une alle altre, o al rinascimento, con i suoi palazzi dalle linee perfette con grandi portoni, cortili e giochi d’acqua, o finire nell’età del regime con la sua architettura razional-imperiale, per poi trovarsi catapultati in qualche incubo postmoderno.
Certo anche nelle città di provincia molto è mutato negli ultimi decenni. Non ci sono più le vecchie taverne ed anche le trattorie più tradizionali si sono adeguate a standard dei prezzi di mercato. Poi ci sono le inevitabili inserzioni della società dello spettacolo, i concerti in piazza delle ultime tendenze che snaturano per una notte il clima della città, le manifestazioni culturali di massa, mostre o altri avvenimenti più o meno pompati per il mercato, gli spettacoli teatrali e musicali che punteggiano il calendario annuale soprattutto nei mesi dalla primavera all’autunno e che inondano la città di turisti. Ma si tratta sempre di momenti ed è possibile senza difficoltà mantenersi ai margini del mercato lasciando ad altri il piacere di vivere le “delizie” della massificazione.
C’è un solo giorno dell’anno che con il passare del tempo abbiamo iniziato a detestare. Si è passati dai lunghi anni dalla partecipazione attiva, quando scendevamo in piazza decisi a far sentire la nostra voce, a una crescente disillusione venata da disincanto fino a un vero e proprio rifiuto: si tratta del 28 maggio.
Per ogni altra città di questo paese quella del 28 maggio è una giornata come cento altre.
Per la nostra no.
Per questa città il 28 maggio è stato a lungo il giorno del lutto e della rabbia.
Il giorno di una delle più gravi “stragi di stato” dell’età repubblicana.
Un giorno non dissimile dal 12 dicembre per Milano e da qualche altra data topica degli anni a cavallo fra la fine dei ’60 e i ’70 del secolo passato. Anzi quello in cui, a differenza di quello che successe a Milano in quel 1969, allo stupore e alla paura per una inedita forma di violenza terroristica si sostituì la chiara coscienza, urlata in faccia al ceto politico, della sua corresponsabilità nella strategia della violenza che aveva come fine quella di schiacciare le forze che chiedevano un rinnovamento profondo della società.
Come per tutti gli avvenimenti che segnano l’esperienza umana e politica di una comunità il passare degli anni ha però pesato sulla memoria di quei giorni dando forma, sia pure lentamente, a una vera e propria mutazione genetica. Con il passare dei decenni, quasi senza rendercene conto, come sono diventati bianchi e radi i nostri capelli e come molti di coloro che erano presenti in quel tragico giorno in quella piazza ci hanno abbandonato, così anche il sentire di quei momenti si è affievolito e l’esito è stato una vera e propria manipolazione più o meno cosciente della storia e della memoria.
Le manifestazioni ufficiali dedicate a quella strage si sono fatte sempre più rituali: stesse presenze di ministri, stessi discorsi, stesse falsità ripetute dai palchi ben sapendo che nessun può poi chiedere una verifica. La presenza di massa si è andata lentamente riducendo, divenendo momento di una ritualità socialmente legittimata. I più manifestano perché è un’occasione per incontrarsi, per farsi vedere, per fare un selfi, per poter dire “ci sono anch’io”, o forse perché è un giorno diverso dagli altri, o più semplicemente perché l’uomo è portato a ripetere comportamenti rituali anche quando hanno perduto gran parte del loro significato …
Nel momento in cui ci siamo resi conto che tale mutamento rendeva la nostra presenza parte di uno spettacolo in cui da protagonisti, forse impotenti ma pur sempre protagonisti, eravamo diventati semplici comparse manipolate dai media e dal potere abbiamo deciso di non partecipare più.
La prima volta che abbiamo detto basta, ci siamo chiesti:
“Che fare? Val bene non partecipare ma non si può semplicemente fare come se nulla fosse successo”.
Il Tonto ha subito aggiunto:
“Perché non finire a Salò?”
Salò, la Magnifica Patria, è una cittadina rivierasca di incomparabile bellezza ma ha una piccola stimmate, essere il luogo in cui per quasi due anni ebbe sede l’ultima “capitale” del fascismo risorto dalle sue ceneri dopo l’8 settembre 1943, sulle rive del lago di Garda.
Quella del Tonto era la solita provocazione. Ovviamente mai e poi mai avremmo accettato di barattare la non partecipazione alla manifestazione in città con una gita al lago, però il problema è che le altre alternative non si presentano poi così attraenti. Le valli sono state terreno di coltura della prima ruspante forma di leghismo nostrano e più in generale l’intera provincia ha una sua profonda cultura cattolico-conservatrice che fa sentire di tanto in tanto la sua voce e rimane, nonostante tutti i fenomeni di laicizzazione, tutt’altro che trascurabile.
Insomma quella che viviamo dal punto di vista politico-sociale non è mai stata una realtà facile. Anche negli anni più forti della protesta sociale qui da noi si sono dovute scontare resistenze e un forte spirito di tradizionalismo interclassista basato sul primato dell’autorità, della dedizione al lavoro, quasi di marca calvinista, e del rispetto del potere.
Allora abbiamo deciso che per il 28 maggio avremmo, nei limiti del possibile, fatto una scelta di romitaggio per poter cercare di ragionare sul significato di un cambiamento così radicale.
Quest’anno eravamo sempre i soliti, io, il Tonto, Yogurt, il Professore, Pinocchio, il Fotografo e Cocker seduti intorno a un tavolo con davanti un piatto di spaghetti …
Il primo a dare il là è stato, come capita spesso, il Tonto che ha detto:
“Ma che stiamo a fare qui, cercando di ribadire in qualche modo la diversità di questo giorno da tutti gli altri? Non è che anche noi, pur in forma diversa, restiamo dei nostalgici … senza renderci conto che di fronte a poche migliaia che manifestano c’è un’intera città che è del tutto indifferente? Si può tranquillamente affermare che quella strategia, che troppo semplicemente abbiamo definito fin da allora come la “strategia della tensione”, ha vinto. Si è trattato di una vittoria strategica di portata epocale. La nostra generazione ha perso e con essa i giovani nati dopo gli anni settanta, i “flessibili””.
“Se è per questo ci si potrebbe chiedere – ha detto allora il Professore – se quella sconfitta non venga da lontano, ben più lontano di quel che si è soliti pensare. Ad esempio dai tempi dell’amnistia Togliatti, promulgata nel giugno 1946. Ricordo quello che scrisse tempo fa Denis Mack Smith: “… a differenza di quanto è accaduto in qualche altro paese retto in precedenza da un regime di tipo fascista, in Italia fu concessa velocemente un’amnistia valida per la maggior parte dei delitti spesso atroci compiuti nel ventennio anteriore al 1945, giacché altrimenti sarebbero state coinvolte troppe persone e forse gran parte dell’apparato statale avrebbe dovuto essere sostituito”.
“Infatti – ha aggiunto con vigore il Fotografo – le strategie basate sull’uso della manovalanza fascista, di quella dei servizi segreti, per i quali venne inventata la formula di comodo e buona per tutte le stagioni di “servizi-deviati”, e delle mafie erano già state implementate subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale e permangono come una caratteristica storica di lungo periodo della gestione del potere. Oggi sono dormienti, ma fascisti e mafiosi domani possono senza difficoltà ritornare attivi. Come dimenticare quella che fu la prima vera strage di stato: Portella della Ginestra. Il 1 maggio 1947 vennero massacrati alcuni lavoratori convenuti a festeggiare e a reclamare il loro diritto alla libertà e al lavoro. Come scordare il film Salvatore Giuliano di Francesco Rosi”.
“D’altronde questo – ha aggiunto allora Pinocchio – non è forse il paese degli insabbiamenti, delle falsificazioni, delle manipolazioni? Noi ci stupiamo ma quanti sono quelli che si indignano e che pensano con la loro testa? La gente comune è abituata a farsi convincere e strumentalizzare. Dai primi ministri della destra storica, Cavour e soci, all’inizio della storia unitaria, a Mussolini fino a Berlusconi in fondo c’è una linea di continuità che travalica ogni diversità ideologica, la chiara coscienza che gli italiani sono creduloni e che si può vendergli ogni panzana. Dalle mitologie dell’Italia imperiale di Mussolini fino alle affermazioni di D’Alema che “l’Italia è un grande paese e non ci si deve stupire dell’impegno dimostrato in questa guerra” (ovvero la guerra contro la Serbia per il Kosovo combattuta in pieno asservimento alla direttive Nato e USA) qualsiasi falsità è stata bevuta da una popolazione facile a farsi condizionare. D’altronde cosa chiedere a chi è abituato professionalmente a imbonire, censurare e manipolare? Se per la destra la falsificazione è un marchio di fabbrica come non ricordare che la sinistra, quella che si è sempre affannata ad affermare che “la verità è rivoluzionaria”, non ebbe difficoltà alcuna a censurare i Quaderni dal Carcere di Gramsci, in modo da non offendere il padrone del momento?”
“Allora il padrone – iniziò a sghignazzare il Tonto – era Stalin. Mica si scherzava …”.
“C’era però un altro pericolo per la nascente democrazia stretta fra l’abbraccio della Democrazia Cristiana e quello del Partito Comunista, un pericolo non meno grave degli altri e che è stato troppo a lungo sottovalutato. Se ne rese subito conto Amadeo Bordiga, ma oramai era emarginato e ridotto alla condizione di eretico da rifuggire, quando disse che un antifascismo istituzionalizzato: “sarebbe stato il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo”. Quello che abbiamo di fronte e che rifuggiamo è infatti proprio questo antifascismo, una politica del ricordo e dello “strazio” pubblico diventa una pratica ipocrita attraverso la quale ci hanno abituato a piangere gli assassini prezzolati insieme alle loro vittime, accomunando tutti nel grande mare della pietà e dell’interesse della riappacificazione nazionale. Magari quella a cui mirava già l’appello “ai fratelli in camicia nera” rivolta nel 1936 dai vertici del Partito Comunista ai fascisti”.
“Tu eccedi … – ha aggiunto il Professore – Certi paralleli storici appaiono per lo meno tirati per la giacchetta, però ricordo di aver sentito il massimo studioso dei servizi segreti di questo paese, il De Lutiis affermare più o meno alla lettera in tempi non sospetti: “L’alternativa è un golpe incruento, che dovrà avere caratteristiche di riforma istituzionale e venature «di sinistra». Sarà appoggiato dalla parte più moderna del mondo industriale italiano e tenderà a inserire l’Italia – priva del «pericolo comunista» – in un contesto europeo più efficiente”. Non vi pare di intravvedere in queste parole l’esito ultimo dei processo che porta dall’antifascismo di maniera degli ultimi decenni al centro sinistra di governo di questi ultimi anni? Quello ipocrita che toglie il segreto di stato dai dossier sulle stragi ma poi nei fatti nulla cambia perché diciamocelo una volta per tutte: il capitale non può e certo non accetta di processare se stesso”.
“Allora – chiese Cocker – tutto era già delineato in un quadro deterministicamente ben definito che iniziava con Fanfani ed Andreotti nei primi anni sessanta, se non con il compromesso di potere fra De Gasperi, Nenni, Togliatti, per finire con Renzi? Se è così ben poco si poteva fare … I rapporti di forza erano già tali da darci pochi spazi per realizzare uno scenario più avanzato. Al di là delle nostre intenzioni eravamo tutti comparse di una tragedia già scritta di cui eravamo oggetto mentre pensavamo o sognavamo di esserne soggetti attivi. Non abbiamo avuto neppure il privilegio pirandelliano di essere “in cerca di un autore” lo avevamo già e solo non capivamo di essere nelle sue mani”.
“In queste tue parole c’è forse una parte di verità. In quei momenti, negli anni settanta, e poi sempre peggio negli anni seguenti non si seppe andare al di là della denuncia e dell’attesa di una giustizia dello Stato che non avrebbe mai potuto soddisfare le aspettative di coloro che come noi al fascismo e alla reazione volevano opporsi.
Si è così favorito, indirettamente, un progetto di lungo periodo di revisione e creazione di un compromesso politico e storico che nelle manifestazioni istituzionali odierne e nelle scelte della Casa della Memoria, espressione della sinistra nelle sue variegate sigle, vede ancora impegnati alcuni dei protagonisti di allora.
Il passo più eclatante è quello che si è verificato nel 2012 con la decisione di implementare il progetto: Percorso della Memoria. Già l’individuazione dei promotori di questo disegno dice molto. Sono in ordine di importanza: la Casa della Memoria, il Rotary Club, il Comune di Brescia (nella figura della giunta Pdl-Lega), il Gruppo Locale Bu e Bei (anonimi signori che intendono restare tali e di cui nulla si sa di più). Il programma è stato sancito con la Delibera Comunale n° 230/2012 e infine benedetto con l’Alto Patrocinio del Presidente della Repubblica. Esso prevedeva la posa di formelle commemorative di tutte le vittime della violenza politica dal 1962, come se la storia repubblicana partisse da lì, a oggi, ordinate in semplice ordine cronologico. Il percorso si snoda, come ben sappiamo, da Piazza della Loggia, esattamente dalla Stele che ricorda la bomba, verso la salita al Castello di via Sant’Urbano.
Ecco le finalità di tanto parto, come sono espresse testualmente nella delibera: “Si ritiene che una collettività̀, desiderosa di giudicare serenamente una parentesi tragica della propria storia, debba avere il coraggio di ammettere e di ricordare il dolore pagato quale prezzo per sconfiggere la violenza di quegli anni. Questa testimonianza vuole raccogliere in un’unica espressione ciò che è affidato all’episodica rievocazione in manifestazioni deputate”.
“Si tutti le abbiamo viste e le abbiamo calpestate – ha aggiunto Pinocchio – quelle brutte mattonelle circolari con incisi dei nomi che nella maggior parte dei casi non vogliono dire proprio nulla, non richiamano nulla alla memoria comune … Poi al di là delle divergenze l’idea di creare un percorso pedonale basato sul calpestio anche se vorrebbe ricordare un’altra iniziativa del genere nota come le “le pietre d’inciampo” di fatto non fa alcun effetto e non fa inciampare proprio nessuno. Sono solo destinate alla usura del tempo …”.
“C’e un aspetto che però bisogna ricordare, quello ideologico. Nei fatti lo scopo del Percorso della Memoria è semplicemente di distorcere la realtà, di ricostruire l’immaginario comune secondo un disegno di tipo revisionistico. Si tratta di creare modelli culturali che possano diventare il fondamento di nuovi legami sociali e produrre un regime di finzione dove il fascismo viene affiancato alla sinistra in una condanna collettiva e in una ipocrita pietas per i morti unificati in un unico abbraccio al di là della loro condizione di carnefici o di vittime.
Vuoi un esempio?
Ciò che è stato realizzato è raccogliere avvicinando, nelle lapidi poste con tanta pompa, vittime e carnefici in nome di una stagione di “tolleranza e serenità” che si dice aver definitivamente superato l’epoca degli “anni di piombo”. Attraverso questa manipolazione delle coscienze, si assolvono nei fatti e si riabilitano i fascisti di ieri e di oggi. Vedere in un tratto di quattro metri le formelle con i nomi di Pinelli, di Serantini e più in alto quella di Calabresi è un modo per disinnescare simbolicamente ogni possibile consapevolezza e mistificare la storia, oltre che fare un torto a Pinelli e Serantini.
Ma tutto ciò corrisponde al disegno di coloro che allora come oggi puntando a un compromesso di potere e nei fatti altro non fanno che tradire quel disegno di emancipazione per cui sono caduti i nostri compagni di piazza Loggia. Guarda caso erano per la quasi totalità militanti dei gruppi di quella sinistra extraparlamentare che allora cercava di creare le condizioni per la realizzazione di una democrazia progressiva.
Coloro che oggi ne tengono in vita la memoria invece fanno di tutto per violare quegli ideali. Ed è per questo motivo che ci siamo dissociati dal loro disegno.
Certo ora sembrano essere loro i vincenti ma la partita è solo all’inizio e credo che noi si debba continuare a ricordare, oggi come allora, che ciò che capitò oltre quant’anni fa in quella piazza ha una sua ben precisa identità, e noi la conosciamo al di là di ogni revisionismo, infatti se: “il suo nome è Fascismo, di cognome fa Capitalismo”.
30 maggio 2016
Per approfondimenti: http://www.carmillaonline.com/2016/05/27/brescia-tu-maledetta/