Sul tragico destino del migrante. Una puntualizzazione

DIALOGANDO CON IL TONTO (10)
* Articolo e commenti in evidenza

di Giulio Toffoli

Sul tema delle migrazioni e su come intervenire per governarle e trovare soluzioni  non solo d’emergenza si discute e ci si divide da tempo. Anche qui su Poliscritture ( Cfr. qui e ora qui). Convinto che  ci sia ancora spazio  per il confronto tra posizioni diverse e  persino contrapposte e che da una discussione  portata fino in fondo, chi ad essa partecipa o ne segue l’andamento possa non solo farsi un’idea più chiara del problema ma anche decidere con più consapevolezza che fare (o non fare o lasciar fare), pubblico immediatamente questo nuovo dialogo-replica di Giulio Toffoli. [E. A.]

 

E’ il sabato in cui si conclude la manifestazione delle Mille Miglia, una delle vetrine di questa città. Sono uscito che c’era un debole solicello e ho incontrato il Tonto in piazza duomo; in pochi secondi ha incominciato a piovere e ci siamo trovati zuppi d’acqua.
“La solita pioggia – mi dice – delle Mille Miglia … Lo avevo detto che durante questa maledetta manifestazione del narcisismo-pistoni/a/gogò non si deve uscire …”.
Lo lascio protestare, entriamo in un bar e ci mettiamo nell’ultimo tavolino rimasto libero. E’ una babele di linguaggi. Tedeschi, belgi, francesi e chi sa quanti altri idiomi si intrecciano.
“Bene – dico – è proprio l’occasione per riprendere il nostro discorso sul problema delle odierne migrazioni … Leggi qui, le tue affermazioni hanno generato un’ondata di critiche”.
E’ riluttante, prende in mano il tablet con qualche remora, poi lo vedo sempre più attento.
Alla fine me lo restituisce:
“Un tema complesso come questo non può che generare opinioni differenti …”

“Sì – dico cercando di non farlo sfuggire – ma sono obiezioni che meritano una risposta. Per esempio c’è chi ha notato che l’emigrazione è anche una ricchezza, un arricchimento umano e culturale, e la tua posizione sembra invece essere di arroccamento su posizioni difensive, quasi da strapaese …”.

“Allora è bene capirci una buona volta. Il paese di cui ti ho parlato, posto quasi alle falde del Civetta era fino al 1918 sul confine fra due stati e due culture: di qui veneti, di là ladini; di qui, dal 1866, italiani e di là sudditi di Francesco Giuseppe. Due mondi non privi di rivalità ma anche con forme di osmosi e caratterizzati da una generale povertà. In particolare dalla nostra parte un mondo di emigranti. Non ne ho mai sentito uno che raccontasse di averlo fatto per diletto e pochissimi sono stati quelli che hanno trovato la “Merica”, un numero tale da contarsi sulle dita di una mano.
Per tutti è stata una dura necessità imposta dalla “amarezza di una terra” che non dava di che vivere se non di stenti. Insomma si cercava lavoro e si andava dove si sapeva di poter trovare un mercato per le proprie braccia.
Ma c’è di più. Uno fra i villaggi che compongono il paese ha uno strano nome. Invero nessuno ci faceva caso quando alla fine degli anni cinquanta mi capitava di passarci lunghi mesi, era parte del paesaggio, uno scenario consolidato. Solo di recente ci si è chiesti se Caracoi, questo il nome del villaggio, fosse un toponimo locale. C’era qualche cosa che non tornava. Basta infatti un cambiamento di qualche lettera per accorgersene. Vedi, ora te lo scrivo con un’altra grafia: Kara Köy. E’ uguale, si pronuncia nello stesso modo ma è insieme abissalmente diverso. Letteralmente vuol dire: villaggio nero. Si tratta di un toponimo turco. Allora scopriamo che intorno al cinquecento la Serenissima sul confine aveva creato una comunità di schiavoni, schiavi turchi, che servivano come forza armata in caso di azioni dal nord. Il risultato insomma di un preciso disegno politico che nel corso dei secoli si è diluito fino a perdere ogni segno di una diversa identità.
Veniamo così a sapere che nelle lontane montagne del bellunese si sono verificati inediti processi di integrazione; ma attenzione come risultato di un piano che ha saputo evitare forme di reazione violenta di rigetto”.

“Insomma – gli dico – a tuo vedere la libertà dell’individuo, la libera scelta di spostarsi è poco più che un’ideologia …”.
“Non dico questo. Per la borghesia benestante è una bandiera ma qui si parla di altro. La nostra attenzione è rivolta alle grandi migrazioni di massa, quelle degli ultimi due secoli, che sono state segnate dal duro diktat della necessità. Fra il 1860 e il 1960 emigrano qualche cosa come 26 milioni di italiani e la metà per sempre. Questa è la realtà con cui ci dobbiamo confrontare. E’ una cifra spaventosa e ti aggiungo che non si spostavano a caso ma seguendo precise direttrici, le loro mete erano la Germania, la Francia, la Svizzera e poi l’America. Andavano lì perché c’era richiesta di forza lavoro ed era un inimmaginabile calvario. Prova a leggere e a far leggere il volume Gli Italiani sono bianchi? Come l’America ha costruito la razza di J. Guglielmo e S. Salerno, è un vero campionario di sofferenze senza limiti. Quanti ad esempio sanno che fra il 1917 e il 1924 furono negli USA promulgate ben quattro leggi contro l’emigrazione italiana perché eravamo considerati poco più che i neri?
D’altronde sono erede di migranti e conosco bene le traversie che hanno vissuto”.

“Ha molto colpito la tua identificazione del Civetta con la montagna per eccellenza …”.
“Senza volerci fraintendere chiunque veda il Civetta, alla luce del sole mattutino o al tramonto e ancor meglio nelle giornate limpide in autunno, non può che riconoscere che si tratta di una montagna incomparabile. Forse la più bella dell’arco alpino.
Il mio discorso era però espressione di un itinerario esistenziale individuale.
Insomma per dirla con Sciascia: a ciascuno il suo.
Negli anni ’70 mi è spesso capitato di percorrere, all’inizio dell’estate, la strada che portava dal confine yugoslavo fino ad Edirne. Era un’unica carovana di vecchie sgangherate Mercedes, immancabilmente nere, con sul tetto una quantità incredibile di pacchi, pacchetti, valige e poi una carriola. Sì, proprio una di quelle che si usano per trasportare materiali da costruzione. All’inizio ero rimasto stupito poi tutto si è chiarito, erano emigranti turchi, quelli che lavoravano nelle grandi fabbriche del nord, che tornavano verso il loro “Civetta” con l’aspirazione di costruirsi una casa … un poco come i nostri emigranti.
Forse ha ragione chi ha scritto che c’è qualche cosa di archetipico che segna la vita di ciascuno di noi. Ci portiamo dentro la memoria delle nostre origini, ricche o povere che siano, alla faccia dei razionalismi pseudo illuministici. Ciò ovviamente non vuol dire che ci dimentichiamo delle contraddizioni sociali che costituiscono il fondamento del nostro vivere comunitario. Ma è la città, il mercato, il consumo che rendono queste contraddizioni evidenti ed esplosive. Nelle campagne e ancor di più nelle valli fino alla fine degli anni sessanta era la povertà a farla da padrona insieme all’emigrazione”.

“Spostandoci all’oggi – gli dico – ritorniamo al centro del problema: come porsi nei confronti della società multietnica che pare si venga costruendo anche da noi?”
“Le migrazioni del XIX e del XX secolo rispondevano a un imperioso bisogno di manodopera. Non si entrava in un paese senza che ci fosse una necessità. I migranti erano null’altro che braccia che servivano per rispondere in parte al bisogno di forza lavoro industriale, in parte per calmierare il mercato del lavoro e una fascia infine costituiva una specie di sottoproletariato che viveva di espedienti. Non dimentichiamo che i nostri emigranti, visti come crumiri o pericolosi sovversivi, sono stati spesso vittime di violenze, linciaggi e perfino massacri come quello delle Aigues Mortes del 1893. La loro era una vita da cani, si moriva di mina, di silicosi e di ogni altra possibile malattia professionale, quando non semplicemente per esaurimento fisico. Quello vero e non le palle di oggi … l’essere poco più che cinquantenni e aver completamente esaurito le proprie forze, ridotti a sopravvivere in attesa della fine. Se fosse possibile parlare ancora con mio nonno e raccontargli di assistenti sociali, mediatori culturali e mille altre diavolerie del genere inarcherebbe il sopracciglio e poi rimarrebbe senza parole.
Mi si dice: il mondo è mutato … Allora cerco di uscire dalle opinioni e passare ai fatti.
Dopo il fallimento delle lotte anticoloniali che hanno caratterizzato il periodo fra il 1945 e il 1989 si è verificata una ripresa di forme criminali di neocolonialismo. Certo diverse da quelle del XIX secolo ma non meno delittuose ed efferate.
Il sogno di Fanon e di Guevara si è infranto contro le dure leggi della forza.
Al mondo esiste un miliardo almeno di individui che secondo le statistiche internazionali sono letteralmente eccedenti, non servono a nulla e il loro numero tende a salire sia per la crescita demografica sia per l’impoverimento relativo.
L’Africa partecipa al mercato mondiale per un 3%, ovvero un’inezia, e le sue ricchezze sono sfruttate un poco da tutte le grandi potenze. Per contro ha una popolazione in continua e spaventosa crescita. Con questi due dati bisogna confrontarsi. Un continente alla fame e una popolazione esuberante”.

“Ed allora ti chiedono un poco tutti: che fare?”
“Mi è capitato di recente di studiare una realtà locale, quella di una delle nostre valli. Pare incredibile ma ancora negli anni ’80 da quelle terre si verificava una consistente emigrazione. Poi il fenomeno si è attenuato fin quasi a scomparire. Ora però la crisi delle attività industriali e artigianali morde di nuovo. La domanda che ci si deve porre è, a mio vedere, se abbia senso favorire l’afflusso di mano d’opera in quelle valli senza avere la possibilità di darle uno sbocco produttivo serio. Il rischio è di avere una specie di lumpenproletariat che necessariamente genererà ostilità o esplosivi conflitti sul lavoro, esattamente come capitava alla fine del XIX secolo. In questo senso non mi pare priva di ragione la richiesta di gestire politicamente i flussi di immigrazione. Chi non lo capisce e si fa portavoce di astratte teorizzazioni universalistiche corre il rischio di veder conflagrare pericolosi processi di conflittualità fra poveri e il razzismo è una brutta bestia … Inutile dire a chi si trova senza lavoro e senza prospettive che bisogna essere tutti uguali o cose del genere”.

“Non è facile gestire questi flussi … e per quelli che sono in mare che fare?” – aggiungo per concludere.
“Certamente non è facile gestire questi flussi di migranti – mi incalza il Tonto – ma è facile far esplodere guerre distruttive e innescare processi di esodo. Ne abbiamo avuto bibliche testimonianze anche recenti. In questo contesto il gioco politico dell’Occidente assume un volto criminale che si dovrebbe avere il coraggio di smascherare. Allora si vedrebbe che è proprio il nostro volto che si nasconde dietro il velo di Maia. Il volto delle nostre classi dirigenti che fomentano guerre, vendono armi, sfruttano popoli e paesi nel modo più dispotico e poi mostrano tutta la loro ipocrisia quando iniziano a cianciare di diritti umani … Si potrebbe aggiungere che è ora di smetterla con il falso umanesimo della cosiddetta sinistra che è complice del degrado delle nostre società e della distruzione di quelle del sud del mondo. Quando ci ricorderemo che non è dando sollievo a un singolo individuo che si risolve la tragedia che abbiamo di fronte ma guardando in faccia coloro che questi problemi generano e agendo di conseguenza? Gli assassini sono fra noi … ma non vogliamo vederli, corrotti come siamo dalla ipocrisia a cui ci siamo ormai adusi.
Questo non vuol evidentemente dire che si deve lasciare morire la gente che è in mare ma bisogna eliminare le ragioni che li portano a fuggire dalle loro terre.
Solo riuscendo a favorire il decollo produttivo di quelle terre e la loro autonomia sarà possibile intravvedere una soluzione al problema dell’emigrazione che riconosca la naturale alterità fra gli uomini e insieme il comune diritto di tutti a vivere senza catene. I nostri nemici sono bravi a sfruttare le sofferenze dei più e poi a salvarsi l’anima mostrandosi caritatevoli. Se ci pensi bene sono meccanismi che vengono usati da millenni. Solo liberandoci dallo sfruttamento sarà possibile eliminare quelle sofferenze, altrimenti contribuiremo a tenere in vita l’infernale meccanismo dell’emigrazione con il suo seguito di morti, cercando di liberarci l’anima con qualche gesto di pelosa carità.
Giunti a questo punto mi verrebbe naturale ripeterti, per concludere, le parole di Bertolt Brecht quando nel 1935 ebbe a dire: «Compagni, torniamo a parlare dei rapporti di proprietà»”.

52 pensieri su “Sul tragico destino del migrante. Una puntualizzazione

  1. SEGNALAZIONE

    * Né coi “buonisti” né coi “cattivisti”. Lo vado dicendo da tempo. E per costruire un’alleanza almeno tra una parte dei migranti e una parte di “noi” contro i responsabili della gestione mondiale ed europea (USA e non solo loro però) di una *globalizzazione selvaggia*. Che scatena tragedie nei paesi colpiti dalle guerre e dal neocolonialismo e l’impoverimento delle fasce basse e medie delle popolazioni nei paesi pervenuti all’industrializzazione o alla post-industrializzazione.
    L’articolo che segnalo mi pare *ad effetto*: il pistolotto dell’anonimo autore contro quanti tengono vivo « il dibattito[sulla questione delle migrazioni] che, come si sa, è il vero sale del capitalismo» si ritorce contro lui stesso); ed unilaterale specie nel titolo, dove se la prende solo coi «buonissimi», pur parlando poi di due «bigottismi». Quando poi, come soluzione, – sentite un po’! – suggerisce di « chiedere all’Europa – e magari anche alle Nazioni Unite – la costituzione di un Forum Mondiale permanente su un’emergenza che sta al nostro secolo come i totalitarismi stavano al secolo passato» svela per me la stessa ambiguità che rimprovera agli altri. Appellarsi a due burocrazie dimostratesi numerose volte e specie nello scatenare le guerre ( in Irak, in Libia, etc.) del tutto accondiscendenti ai voleri dei più potenti fa ridere. Certo la manifestazione del 20 maggio 2017 a Milano “Insieme contro i muri” «non offre soluzioni» ma sostenere che «legittima un modello di accoglienza, quello attuale» è falso. Sfilando così in tanti non ha significato appoggiare il “buonismo” ma rendere evidente che c’è una forza sociale ampia e pronta ad oltrepassare buonismo e cattivismo. [ E. A.]

    Salvate i migranti delle marce degli Uomini Buonissimi

    Pur con le più nobili intenzioni, la marcia di Milano del 20 maggio non offre soluzioni a chi vuole risolvere il problema dell’immigrazione. Anzi, legittima un modello di accoglienza, quello attuale, profondamente sbagliato. Per i migranti e per chi nelle periferie ne subisce l’arrivo
    di I Hate Milano
    http://www.linkiesta.it/it/article/2017/05/21/salvate-i-migranti-delle-marce-degli-uomini-buonissimi/34327/

    Stralci:

    1.
    Ieri, in piazza, i migranti mostravano cartelli con scritto “we are musicians” o “we want to do fashion”, eppure il sotto-testo della logica dell’accoglienza, finora, è stato il seguente: caro migrante, io ti accolgo, ma la tua unica prospettiva sarà fare un lavoro che a noi fa schifo e se sporco di calcinacci o farina oserai lamentarti, se non sarai grato, se le privazioni e la solitudine sentimentale e sessuale ti porteranno a ribellarti, allora griderò alla violazione del fantomatico “patto d’accoglienza” e con te sarò spietato.
    Se si pensa che l’accoglienza sia questa, il tutto ha una sua logica, ma deve essere chiaro che tra questo modo di pensare e lo schiavismo americano ottocentesco c’è una differenza di grado, e non di sostanza.
    Se si pensa, invece, che l’accoglienza sia altro e passi dall’uguaglianza reale di tutti i cittadini e delle possibilità esistenziali loro offerte, allora non si deve marciare: si deve spiegare, concretamente, come ciò possa avvenire.
    Peccato che di proposte concrete l’esercito di Uomini Buonissimi in marcia il 20 maggio non ne fornisca, eccetto dettagli ed equilibrismi atti a stare contemporaneamente con i centri sociali e con Minniti.
    Battersi per l’accoglienza, per questa accoglienza, è allora un’altra forma di bigottismo, identica a quello di Salvini, solo di segno opposto: anch’essa si basa sulla rinuncia, sul tapparsi gli occhi per non fare i conti con lo stato delle cose.
    Si può obiettare che nel secondo caso le intenzioni siano migliori. Sicuramente la maggior parte della gente e delle Associazioni ha intenzioni nobilissime ma, allo stesso modo, non tutti quelli che abitano in periferia o in provincia (lande sconosciuti alla sinistra in camicia e maniche arrotolate, di cui Sala rappresenta una formidabile icona) e che hanno visto il loro quartiere o il loro paese cambiare completamente nel giro di pochi anni sono dei pericolosi razzisti. Sono gente spaventata, che non vedendo futuro per sé e per i propri figli si chiede come, in questa situazione, sia possibile offrirlo a chi viene da fuori.
    Questi due bigottismi, uguali e contrari, finiscono allora per giustificarsi a vicenda

    2.
    Forze politiche responsabili lascerebbero perdere il wrestling quotidiano delle accuse e delle contro-accuse, delle manifestazioni e delle contro-manifestazioni, e si unirebbero per chiedere all’Europa – e magari anche alle Nazioni Unite – la costituzione di un Forum Mondiale permanente su un’emergenza che sta al nostro secolo come i totalitarismi stavano al secolo passato. Se nessuno lo fa è solo per tenere in vita il dibattito che, come si sa, è il vero sale del capitalismo. È il dibattito che fa vendere i giornali, che fa guardare i talk-show in TV, che fa riempire il bicchiere di vino al bar fino a tarda sera; è grazie al dibattito che si generano impressioni e commenti sui social, si guadagnano followers e – soprattutto – si lanciano e costruiscono carriere politiche. Il dibattito, insomma, produce un gigantesco valore economico, e nel peggiore dei casi fa comunque passare il tempo, scaccia la noia, fornisce un motivo per trascorrere un sabato pomeriggio all’aria aperta.

  2. SEGNALAZIONE E MIO COMMENTO

    * Sì, il buonismo è ambiguo. Sì il buonismo del PD lo è in modo sfacciato. Ma non facciamola semplice: non basta “attaccare” il suo segretario o il suo ministro dell’interno e invocare “l’alternativa”. Bisogna chiarire quale sia questa “alternativa”. E qui ci cade addosso una montagna di macerie: quelle del PCI, della ex-nuova sinistra, delle BR, etc. C’è qualcuno che le ha sgombrate o, come dopo i terremoti (a L’Aquila, ad Amatrice) stanno ancora per terra a impedire qualsiasi costruzione di una “alternativa? [ E. A.]

    Quella marcia è bellissima. Ma politicamente è un imbroglio.
    http://www.giuliocavalli.net/2017/05/21/quella-marcia-bellissima-ma-politicamente-imbroglio/

    Ma la nobilissima marcia di Milano politicamente è un imbroglio. È un imbroglio perché se si marcia contro la sottocultura alimentata dalle politiche di governo e se chi marcia è parte del gruppo dirigente allora c’è qualcosa che non torna. Passare dalla Turco-Napolitano alla Minniti-Orlando e passare dai Cpt ai Cpr per poi invocare la discesa in piazza è una truffa. Se Milano vuole essere capofila della solidarietà allora rifiuti l’applicazione del decreto Minniti, pubblicamente, ad alta voce. Se dentro il PD qualcuno pensa (giustamente) che anche tra i democratici ci sia una malsana idea di sicurezza allora attacchi frontalmente il suo segretario, il suo Ministro dell’Interno oppure esca a costruire l’alternativa.

  3. SEGNALAZIONE

    * Il contrasto *uomini o no* (Vittorini 1944) mi pare elementare ma preliminare ai ragionamenti da fare sulle migrazioni. Con tutti i dubbi che questa manifestazione di Milano del 20 maggio 2017 sia stata una rivincita e su quanto in questi decenni siamo “restati” umani. [E. A.]

    20 maggio, la rivincita dell’umano
    di Marco Revelli
    (https://ilmanifesto.it/20-maggio-la-rivincita-dellumano/)

    Si è discusso molto sulle linee di frattura che organizzano oggi il campo del conflitto politico e sociale. Quella che divide Destra e Sinistra, dichiarata da più parti obsoleta e stracca. Quella che contrappone Alto e Basso, emergente e turgida, capace di disegnare lo scenario dei nascenti populismi. Quella tra Conservazione e Innovazione, con tutto il carico di ambiguità che entrambi i termini contengono. La linea di frattura rispetto alla quale si è schierata ieri Milano (e a Milano l’Italia) è la linea che separa e contrappone Umano e Inumano. Linea d’ombra estrema, in qualche modo terminale, che conduce le comunità alle questioni ultime: essere o non essere ancora capaci di riconoscersi l’un l’altro, e il Noi nell’Altro.

    Chi ha sfilato ieri ha sentito il bisogno di dire molto semplicemente, che voleva «restare umano». Non girare lo sguardo di fronte all’immagine di un uomo che muore, di un bambino che affoga, di una donna che partorisce su una spiaggia e poi spira. Una scelta potente (con una carica di energia positiva forte), perché quando l’Umano scende in campo con tutta la sua forza, gli argomenti del Disumano svaniscono, come i fantasmi di un romanzo gotico: lo si vedeva bene ieri dove, nella «sua» Milano Matteo Salvini sembrava una misera ombra, irreale e grottesca, evocata solo da qualche cartello irridente (uno recitava + Salvati /- Salvini).

    Ma il 20 maggio milanese ha detto anche un’altra cosa. Un calmo, pacato ma fermo No all’ipocrisia politica. Alle finzioni e ai giochi doppi o tripli. I cartelli gialli con su scritto «No Minniti e Orlando» che costellavano il corteo in tutti i suoi segmenti, dalla coda alla testa, non erano espressione di una posizione «di parte». E nemmeno di una vocazione «divisiva».

    Nella loro rizomatica pervasività esprimevano un sentimento diffuso e condiviso d’intransigenza su questioni di fondo quali sono quelle dei diritti e del rispetto della vita: non si può ridurre la nuda vita a minaccia del «decoro urbano». Non si possono creare corsie veloci e preferenziali per le espulsioni a scapito dei giusti gradi di giudizio. Non si può trattare con stati canaglia e tribù affinché respingano a crepare nel deserto coloro che non si vuole veder approdare sulle nostre spiagge… Semplicemente non si può. Chi lo fa, magari di nascosto, dietro il paravento dell’ipocrisia diplomatica, si colloca sul versante del disumano.

    1. Leggo ora l’articolo di Revelli. Lo trovo un documento psicologico straordinario, un esempio di “carità telescopica” (Charles Dickens) del quale non vedevo l’eguale dai bei tempi della regina Vittoria. Vai così Revelli!

  4. Questo post sembra fare da completamento a quello precedente sulla memoria storica, nel senso che possiamo vedere come i concetti che utilizziamo oggi rispetto alla accoglienza nei confronti dei migranti di oggi hanno ben poco a che fare con le esperienze dei migranti del passato come ha evocato il Tonto (e come potrei testimoniare anch’io dalla mia terra di confine). Perfino le foto scelte da Ennio ne attestano la profonda differenza: un partire penoso ma consapevole dei rischi e delle difficoltà (la foto in bianco e nero) e una tratta forzata di novelli schiavi spinti (o sospinti) dal miraggio dell’Eldorado (la foto sotto, una galera a cielo aperto!). A vantaggio di chi? Chi i mandanti? Solo gli ‘scafisti’ irretiti dal facile lucro? O c’è ben altro?
    Come non ricordare il personaggio interpretato da Sordi nel film Il Giudizio Universale (1961), un losco figuro che a Napoli, approfittando delle indigenze post belliche delle famiglie numerose, tirava a campare procacciando bambini per ‘ricchi americani’ dietro la promessa che “andranno a stare bene”! Nessun rispetto per le proprie origini e catapultati così a cancellare la memoria storica!
    E’ questo lercio traffico a monte che fa perdere ogni dignità alle persone implicate. Dignità che non può essere ‘sanata’ soltanto con l’accoglienza (pur necessaria!): il vulnus dell’essere ritenuto un ‘oggetto’ di cui poter disporre a piacimento – anche se trattato più o meno bene – rimane, e deve essere elaborato se si vuole che venga trasformato in un processo di maturazione soggettiva e di rifiuto della mistificazione così sustanziale a questo sistema cosiddetto capitalistico, onde evitare ulteriori, future trappole!
    Le piazze, i numeri – contare quanti siamo – è solo una magra consolazione (a fronte della quale posso anche rispondere “perché no”? Non possiamo levarci proprio tutto!) per poter dribblare lo scoramento per un lavoro che oggi deve essere fatto al di fuori delle grancasse mediatiche: lì, il sistema è più attrezzato di noi per avere la meglio!
    Non posso accettare di “restare umano” (*Chi ha sfilato ieri ha sentito il bisogno di dire molto semplicemente, che voleva «restare umano*) accanto a chi poi, alla fin fine, collabora per la svendita del senso dell’umano. E ci trae i suoi vantaggi. Io, ma non posso obbligare gli altri a pensarla come me, coltivo una idea altra di “umano”.
    Mi fossi trovata a Parigi in quel gennaio del 2015, dopo l’attentato alla sede di Charlie Hebdo, non sarei andata alla “marcia repubblicana” che ha visto sfilare migliaia di proletari dietro i sedicenti eredi dei grandi valori universalistici della Rivoluzione Francese, i ‘campioni’ dei diritti umani, nemici di ogni forma di fondamentalismo e violenza: Netanyahu, Poroshenko, Cameron, Hollande, Sarkozy, Merkel, Rajoy, Davotoglu (presidente turco), Stoltembreg (segretario della Nato) e Renzi, tutti uniti al grido di Libertè, Fraternitè, Libertè.
    Ho troppo bene in mente i versi di B. Brecht : “ Al momento di marciare/molti non sanno/ che alla loro testa marcia il nemico.// La voce che li comanda/ è la voce del loro nemico.// E chi parla del nemico/ è lui stesso il nemico”.

    R.S.

  5. @ Roberto [Buffagni]

    Istintivamente prendo con le pinze la “psicologizzazione” delle questioni sociali e politiche (compresa questa dell’immigrazione). Ma, se ci si vuole inoltrare su questa strada, vorrei che si contestualizzasse questo “triangolo drammatico” di Karpman e venisse precisato chi, nel caso delle migrazioni, gioca i vari ruoli ( vittima, persecutore, salvatore); e, se possibile, per non restare su un piano accademico, cosa suggerisce questa teoria per dare una soluzione al problema.

    1. No, Ennio, io non psicologizzo. Ti faccio vedere una delle cose che fanno gli addetti alla guerra psicologica quando vogliono influenzare i conflitti, per esempio facendo leva sulle linee di faglia etniche, religiose, sociali, etc.; ma anche come agiscono le lobby per esempio omosessuali quando vogliono fare pressione per far passare provvedimenti che interessano. Nel triangolo di Karpman, la posizione di “vittima” è la posizione dominante, nel senso che è la posizione centrale in rapporto alla quale si dispongono anche il persecutore e il salvatore. L’agente di influenza piazza un gruppo sociale qualsiasi (possono essere gli immigrati, gli autoctoni, gli omosessuali, gli eterosessuali, i puffi) nel ruolo di “vittima”. Dopo di che gli altri gruppi interessati si dispongono nel ruolo di salvatore e persecutore. Il conflitto può benissimo essere reale, nel caso degli immigrati per esempio un conflitto reale con gli autoctoni (e tra le varie etnie di immigrati, e con i loro datori di lavoro, il governo, etc.) c’è; ma quando si impianta il triangolo di Karpman, l’oggetto reale del conflitto viene perso di vista molto rapidamente, in modo che l’oggetto reale del conflitto reale si allontana all’orizzonte, e subentra la rivalità mimetica, che in quanto tale tende all’escalation di suo, senza riferimento necessario all’oggetto reale del conflitto.
      Questa roba non me la sto inventando. Ne parlano tranquillamente gli studi polemologici. Il triangolo di Karpman è nato nell’ambito dell’analisi transazionale, e da questa usato per la comprensione e la soluzione delle disfunzionalità all’interno dei gruppi ristretti. Gli addetti all’ingegneria sociale e alla manipolazione della percezione, che sono legione e di solito legione accademica, hanno preso questo come tanti altri ritrovati delle scienze psicologiche, antropologiche, sociologiche, cibernetiche, e li hanno impiegati per influenzare i conflitti, soprattutto i conflitti cosiddetti “a bassa intensità”, ma non solo (per fare più guerra, non per fare più pace). Le rivoluzioni colorate si fanno così. Tu esamini quali sono le linee di faglia polemogene, e ci fai leva. La prima linea di faglia polemogena è la differenza. In un sistema, la pluralità di codici (codici=culture, etnie, lingue, etc.) è altamente polemogena. Da una soglia non prevedibile esattamente in poi, la pluralità di codici produce il caos sistemico. Se tu influenzi i vari codici, e li disponi nel triangolo di Karpman, ottieni l’equivalente della faida, cioè una conflittualità che va oltre il suo oggetto, tendenzialmente infinita. Poi vedi tu se questa brevissima analisi ti dice qualcosa anche per il presente italiano, per l’immigrazione, etc.

      1. @ Roberto [Buffagni]

        A me pare proprio che la teoria di Karpman “psicologizzi” ( riduca cioè a concetti psicologici: vittima, salvatore, persecutore) una realtà che, specie oggi, è più sfuggente che mai ( non so se “liquida” o “caotica”). Non metto in dubbio che legioni di addetti alle « scienze psicologiche, antropologiche, sociologiche, cibernetiche» usino tali concetti ( leggano la realtà secondo queste categorie), ma qual è il suo effettivo valore euristico? Ne so poco e non so dirlo, ma il fatto che funzioni per la « soluzione delle disfunzionalità all’interno dei gruppi ristretti» mi fa sospettare che non è automatico che funzioni sulle grandi dimensioni. E quindi mai direi con la tua sicurezza che «le rivoluzioni colorate si fanno così». ( Al massimo direi: “si tentano” così o “nelle cosiddette “rivoluzioni colorate” pare che alcuni attori abbiano operato secondo queste logiche suggerite da Karpman”).

        1. SEGNALAZIONE
          (per mostrare – indipendentemente da una piena condivisione delle tesi dell’articolo – quello che la teoria di Karpman cela…)

          Liquida, lacerata o solida? La società del neoliberismo in crisi
          di Carlo Galli
          (https://sinistrainrete.info/articoli-brevi/9862-carlo-galli-liquida-lacerata-o-solida-la-societa-del-neoliberismo-in-crisi.html)

          Stralcio:

          La società liquida è quella degli individui slegati, liberi da vincoli ma anche privati dei tradizionali punti di riferimento nello Stato, nei partiti, nei sindacati, nelle memorie di classe (a cui egli aveva dedicato un libro assai critico già nel 1982, riconducendole a espressione della retorica di alcune corporazioni attardate); una società amorfa, priva di forma come lo è l’acqua, in cui l’individualismo – il movimento anarchico di ogni molecola del liquido – è per così dire obbligatorio, dato il venir meno di ogni istituzione o corpo intermedio. Bauman vede che in questa condizione vanno perdute tutte le determinazioni universali della modernità – appunto lo Stato e i partiti –, in un’ultra modernità che è postmodernità, e sottolinea che questa «liquidità» è insostenibile, tanto che i singoli individui vi reagiscono cercando omologazione e omogeneizzazione in gruppi e in mode culturali o di consumo.

          È stata, questa, un’analisi molto fortunata della fenomenologia del neoliberismo, l’analisi di un sociologo che ha assecondato la tendenza «nuovista» dei nostri tempi nella loro fase ascendente, e la correlata ritrascrizione delle loro coordinate politiche: se la società è liquida, se l’unica realtà sono i singoli individui e le loro temporanee aggregazioni, allora destra e sinistra perdono di significato e diventa centrale la contrapposizione vecchio/nuovo. Anche se non esplicita, c’è molta «terza via» in questa lettura della società (e non a caso Giddens è ringraziato già in Memorie di classe), ovvero c’è molta aderenza – o almeno non c’è una chiara presa di distanza – rispetto all’autonarrazione della nuova fase del capitalismo.

          Quello che, invece, resta occultato è l’ordine dietro il disordine, il permanente dietro l’effimero, la struttura che sorregge questo apparente caos. Il modo di produzione capitalistico, insomma, da cui queste trasformazioni sono prodotte e a cui sono funzionali. La società liquida è infatti la società mobilitata dal capitalismo senza freni né argini, dal biocapitalismo che ha travolto i corpi sociali intermedi e afferra le vite intere, che nega ogni possibile alternativa, che taccia di follia o di passatismo ogni tentativo di dare alla società un ordine politico non coincidente con le compatibilità e con le esigenze del capitale. Certo, liquidità e omogeneità, individualismo e passività esistono; ma la potenza che opera dietro queste apparenze ha anche un’altra manifestazione, altrettanto e più determinante e strutturale: la disuguaglianza, il baratro della divisione sociale fra immensamente ricchi e masse che si impoveriscono. La struttura profonda della società è questa sua lacerazione, che emerge negli ultimi decenni da tutti gli indicatori in tutto l’Occidente – dall’indice di Gini alla curva dei salari e dei profitti, dalla tendenziale scomparsa dei ceti medi alla loro radicalizzazione politica – e che esplode con la crisi del neoliberismo; per comprendere la società di oggi più che sull’amorfa e liquida uguaglianza ci si deve concentrare sulla rocciosa e scoscesa disuguaglianza, sulle scogliere impervie e sui dirupi inaccessibili del dislivello economico, educativo e di potere, contro le quali si è infranta la nave dello Stato sociale.

          È questa disuguaglianza invincibile, questa ingiustizia strutturale, dapprima occultata sotto la superficie della società liquida e ora emersa nel tempo della crisi interminabile, a generare a sua volta il cosiddetto populismo, la protesta anti-establishment – che vorrebbe essere anti-sistema, ma che per debolezza d’analisi riesce a essere solo anti-casta, e che tuttavia in varie forme scuote l’Occidente. In alcuni contesti, come l’Italia, il populismo si organizza prevalentemente come previsto da Laclau, cioè per catene di equivalenze intorno a un significante vuoto (una generica antipolitica, dentro la quale trova posto, ritrascritta, ogni altra motivazione concreta); ma in altri, come la Francia (ancora in forse) e gli Usa (dove ormai i giochi sono fatti), non è il vuoto ma il pieno, il solido, a contrastare – peraltro invano – le contraddizioni del sistema. Le motivazioni anti-casta, infatti, pur presenti, qui si sostanziano di richiami a valori forti, a comunità immaginarie, a pseudo-identità escludenti, a rabbiose ricerche del capro espiatorio – la pretesa di solidità, in politica, va sempre di pari passo con la polemicità –.

          La politica della differenza viene insomma di fatto accettata: i subalterni, i perdenti, nella loro furia contro i potenti e i vincenti non riescono a fare altro che tentare di sopraffare altri segmenti deboli della società: la protesta popolare contro Wall Street intercettata da Trump (altra cosa sarebbe stata una vittoria di Sanders) ha prodotto in concreto un governo composto da militari (anche se questi sono forse, dopo tutto, i più prevedibili) e da esponenti di Goldman Sachs e del suprematismo bianco, nonché una bolla di euforia borsistica, insieme a un discorso pubblico xenofobo anti-ispanico, anti-mussulmano e «patriottico». La crisi della globalizzazione neoliberista lascia spazio a una forma di «capitalismo militarizzato», aggressivo e difensivo al contempo, gestito da élites parzialmente diverse dalle precedenti, e da culture politiche che non si sentono debitrici, neppure a parole, rispetto ai valori democratici. Una «solidità» che lascia intatta la struttura lacerata e disuguale della società proprio come faceva la «liquidità» della globalizzazione trionfante – e che anzi la peggiora –, e che come principio d’ordine sociale sostituisce l’ormai impraticabile omogeneità degli stili di vita con una presunta comunità dei valori e con l’individuazione dei loro nemici interni. La persistente subalternità dei molti è compensata non più dai consumi ma dall’offerta di una «identità» polemica.

          La sconfitta storica della sinistra ha quindi lasciato sul campo due destre – quella cosmopolitica e quella nazionalistica – e un solo modello economico, nei suoi diversi cicli e nelle sue diverse posture politiche. L’esigenza di un’alternativa ragionevole – di una nuova costruzione sociale, conflittuale ma non lacerata, ordinata ma non solida, libera ma non liquida – è più che mai all’ordine del giorno.

        2. Ennio, per influenzare i conflitti (o qualsiasi altra cosa) si opera sempre su tendenze e forze già esistenti. L’unico Creatore è il Padreterno. Anche l’arte si fa con materiali, linguaggi, etc. che esistono già. Io mica penso che se non c’era il triangolo di K. non c’erano le rivoluzioni colorate o l’immigrazione. Gilulio Cesare ha diviso le tribù della Gallia prrima di conquistarla senza triangoli.
          Questa cosa si chiama ingegneria sociale, e non è nuova (non è nuovo quasi niente). Di nuovo ci sono i metodi impiegati, la prevalenza e l’efficacia dei metodi by stealth (un secolo e mezzo di pubblicità serve pure a qualcosa) e il nuovo tipo di guerra che li mette in primo piano.

          1. Concordo. Ma intendo dire che io diffido della teoria di Karpman e non la consiglierei a quanti ( come me ed altri) devono tentare di influenzare i conflitti senza eliminare dalla riflessione ( e perciò ho segnalato l’articolo di Carlo Galli, pur non condividendolo in pieno) aspetti che Karpman *deve* trascurare. Sai bene che è più difficile ( e forse quasi impossibile) sanare le ingiustizie dei rapporti sociali che conquistare la propria Gallia!

  6. Gentile Buffagni
    Ho letto con molto interesse la tua analisi teorica che mi pare di non poco utilità. Facciamo un passo avanti e proponi la tua analisi per il caso italiano il Tonto ti sarebbe molto grato…

    1. Caro Toffoli,
      sempre per utilizzare il triangolo drammatico, pensa al problema immigrazione.
      Secondo te chi è stato messo nel ruolo di vittima? Chi nel ruolo di persecutore? Chi nel ruolo di salvatore? E perchè? Qual è il risultato? Guarda che è molto facile.

      1. Visto che è la prima volta, un percorso facilitato.

        Il problema immigrazione ha molte facce, ma la prima e più immediata è: quanti ce ne stanno? E’ una domanda rozza, ma è anche una domanda razionale. Come fai a evitare di dare una risposta? Dire che l’immigrazione è un fenomeno naturale inarrestabile come i monsoni per un po’ funziona, ma poi non funziona più, è troppo clamorosamente falso, e persino il fratello scemo del Tonto qualche volta riesce a fare due + due.
        Altra domanda rozza ma razionale: c’è disoccupazione, che gli facciamo fare a questi che vengono qui? La risposta “fanno i lavori che gli italiani non vogliono fare” per un po’ funziona, ma poi anche il fratello scemo del Tonto si rende conto che gli italiani si rifiutano di fare alcuni lavori solo perchè sono lavori di merda e sono pagati una miseria, e si rifiutano solo perchè possono (qualcun altro gli da una mano, hanno risparmi), ma quando sono finiti i soldi fanno di tutto. E allora come si fa a non rispondere?
        Altra domanda inevitabile: non c’è proprio nessun rapporto tra la presenza di immigrati mussulmani e gli attentati? Difficile rispondere di botto “no”. Come si fa a non rispondere?
        Altra domanda inesorabile: “Questi accettano salari di fame perchè ormai sono qui e non possono fare altro, non abbatteranno anche i salari nostri? Non ci sentiremo dire ‘o così o prendo un immigrato che c’è la fila?’ Come si fa a non rispondere?
        Ulteriore domanda: “A chi conviene l’immigrazione? non converrà per caso a quelli che la sostengono, o perlomeno ai loro capi?” Come si fa a non rispondere?
        Non ho finito, ma direi che basti come falsariga.

        1. Aggiunta sull’attualità. Il triangolo drammatico serve a produrre rivalità mimetica (a specchio).
          Il terrorista musulmano, eterodiretto o no, fa x morti.
          A dice: “I mussulmani sono terroristi”
          B: “Non è vero che i mussulmani sono terroristi”.
          A: “Sì, è vero che non tutti i mussulmani sono terroristi, ma i terroristi sono mussulmani”
          B: “Se i mussulmani non sono terroristi, allora devi accettare l’immigrazione, mussulmana ed altro”
          A: Ma i mussulmani sono terroristi!”
          Ad infinitum.
          Le alternative di A e B (persecutore e salvatore, rivali mimetici) sono false ENTRAMBE. Non è vero che tutti i mussulmani sono terroristi, non è vero che si deva accettare l’immigrazione di massa. Però nella rivalità mimetica le alternative sono solo 2: scontro di civiltà/invasione fino al grand remplacement.
          Visto che funziona?

  7. …credo di poter riassumere così il pensiero di Roberto Buffagni:
    non è vero che tutti i mussulmani sono terroristi, ma la loro invasione in massa determinerà un “grand remplacement” della popolazione, allora, tornando a monte, tutti i mussulmani sono come proiettili , che esplodano oppure no -mettiamoci anche donne e bambini- in quanto minacciano la nostra integrità, cultura, storia ma anche occupazione.
    Non ci sto a considerare i migranti come una perpetua minaccia. Sì, è probabile che si verificherà una metamorfosi demografica, ma andrebbe gestita e non rifiutata., per cominciare molto si dovrebbe fare ( e soprattutto non fare) nelle terre di origine dei migranti… Che ci siano dei manovratori alle spalle di tutto ciò non so, ma non possiamo prendercela con chi è manovrato come noi

    1. Cara Signora Locatelli,

      il suo riassunto del mio pensiero è sbagliato.

      Il riassunto del mio pensiero è il seguente:

      a) le dirigenze mondialiste hanno un progetto strategico molto chiaro: il reset, in vista della istituzione di un governo mondiale (non per domani, eh?). Importanti settori delle suddette dirigenze già individuano la capitale, Gerusalemme. Pregherei di non tirare in ballo il nazismo e il complotto demoplutogiudomassonico, perchè lo scrive e lo dice apertamente Jacques Attali, uno che si è inventato l’attuale presidente della Repubblica francese, insomma non marginale. Se non avete voglia di leggere i suoi libri usate internet e cercate le sue interviste dove dice esattamente questo, non mi invento niente.

      2) per fare un reset di queste proporzioni utopiche o meglio distopiche bisogna eseguire una “demolizione controllata” (espressione usata dalle suddette direzioni mondialiste, cercate e troverete) delle attuali società occidentali.

      3) per eseguire la “demolizione controllata” vanno bene sia la guerra civile su base etnico/religiosa in Europa, sia l’accoglienza tous azimuts degli immigrati in numero indefinito, sia un mix tra le due cose. Perchè “la metamorfosi demografica” di cui lei parla non si verifica con il semplice aumento delle culle diversamente colorate e la diminuzione delle culle bianche, ma è altamente polemogena (=provoca conflitti endemici ed enormi per le risorse, il potere politico, l’affermazione delle identità, e non si può “gestire” con metodi equi e solidali, guardi Israele e i palestinesi e vedrà cosa succede quando c’è un problemino di demografia).

      4)per promuovere INSIEME guerra civile su base etnico-religiosa e accoglienza indiscriminata di numero indefinito di migranti bisogna fare anzitutto una cosa: dividere le popolazioni europee in due settori, una che dice “il nostro nemico è l’Islam” e l’altra che dice “dobbiamo accogliere tutti perchè fuggono da guerra, fame, etc”.

      5) Essendo entrambe posizioni totalmente irrazionali (è assurdo e autolesionista indicare come nemico principale una religione con 1 MLD e mezzo di seguaci che NON ha un centro direttivo politico unico, è assurdo e autolesionista farsi invadere da centinaia di milioni di stranieri) per impiantarle nelle teste degli europei bisogna manipolare le loro emozioni, e impedire che si attivi la ragione.

      6) E qui viene utile la riflessione sul triangolo drammatico di Karpman. Con una intelligente gestione dei media, i mondialisti piazzano gli immigrati nella posizione della “vittima”, e di conseguenza chi si oppone all’invasione si dispone nella posizione del “persecutore”, chi vuole salvare la vittima si dispone nella posizione del “salvatore”.

      7) Però vittima, persecutore e salvatore NON sono categorie politiche, sociologiche o in genere razionali, sono categorie emotive o religiose. Così i “persecutori” si oppongono frontalmente ai “salvatori”, in uno schema a specchio tipico della rivalità mimetica (v. René Girard), e la rivalità mimetica tende SEMPRE a una escalation che perde rapidamente di vista l’oggetto del contendere (l’oggetto del contendere sarebbe, in teoria, che politiche adottare nei confronti dell’immigrazione). L’escalation mimetica porta i persecutori a tifare per la guerra civile su base etnico-religiosa: “l’Islam è il nostro nemico”, il salvatore a tifare per l’invasione totale, la “metamorfosi demografica”, il multiculturalismo fino all’ultima molecola, il grand replacement come pena del taglione delle colpe occidentali, etc.

      8) Risultato: i persecutori e i salvatori abboccano all’amo dei mondialisti, e nessuna, ripeto NESSUNA politica ragionevole nei riguardi dell’immigrazione viene MAI implementata.

      9) Mi piacerebbe che smettessimo di abboccare, tutti.

      Chiaro adesso il mio pensiero?

  8. @ Roberto [Buffagni]

    ” Risultato: i persecutori e i salvatori abboccano all’amo dei mondialisti, e nessuna, ripeto NESSUNA politica ragionevole nei riguardi dell’immigrazione viene MAI implementata.

    9) Mi piacerebbe che smettessimo di abboccare, tutti.

    Chiaro adesso il mio pensiero?”

    Appena posso, replico su questo e i precedenti commenti ( tuoi e di altri/e), ma mi preme che tu, per completare il chiarimento del tuo pensiero di sicuro “antimondialista” (per me che ti seguo su FB etc.) e per misurarci qui su Poliscritture per quel che è possibile a carte scoperte, aggiunga qualcosa di più su come sia possibile, da tuo punto di vista, non perdere di vista ” l’oggetto del contendere [che] sarebbe, in teoria, che politiche adottare nei confronti dell’immigrazione”. Insomma, la politica dei “mondialisti” è pericolosa (per “noi”). Quale politica allora proporre e praticare?

    1. La politica razionale nei riguardi dell’immigrazione, nei suoi elementi strategici (che poi possono essere applicati con mille soluzioni tattiche) è:

      1) L’immigrazione di massa, islamica o no, è anzitutto pericolosa perchè altamente polemogena. La differenza culturale, etica, religiosa, etnica, è il primo dei fattori polemogeni, in assoluto. Assimilare culturalmente masse importanti di stranieri, specie se provenienti da culture davvero differenti, è semplicemente impossibile. Si possono assimilare solo piccoli numeri. E’ in grado di integrare grandi numeri di stranieri con il modello multiculturale solo un impero che NON, ripeto NON sia fondato sulla democrazia rappresentativa a suffragio universale (Impero romano, austriaco, zarista, britannico, etc.). In uno Stato fondato sulla democrazia rappresentativa a suffragio universale è possibile integrare grandi masse di allogeni con il modello multiculturale solo ricorrendo a forme aperte o mascherate di apartheid (Sudafrica prima di Mandela, Israele di oggi), perchè se dai il voto a tutti gli immigrati legali i partiti si riconfigurano, più prima che poi, su basi etniche, e chi va al governo usa la macchina dello Stato, che è anzitutto una macchina da guerra, per gli interessi della sua etnia o della sua alleanza di etnie (v. di nuovo il Sudafrica dopo Mandela, dove i bianchi vengono massacrati impunemente in grandi numeri e stanno scappando a gambe levate, o immaginare cosa succederebbe in Israele se andasse al potere un governo palestinese e se non ci fosse Tsahal, che è reclutato su basi etnico-religiose ebraiche).

      2) Di conseguenza l’immigrazione di massa va anzitutto fermata. Fermata gradualmente, perchè fermarla di colpo è materialmente impossibile, ma va fermata.

      3) Bisogna stabilire un percorso lungo, difficile, monitorato, per la concessione della cittadinanza agli immigrati. Diventa cittadino chi almeno tendenzialmente si assimila, gli altri no. Lo ius soli facile è un suicidio, benzina sul fuoco.

      4) Fermare subito, anzitutto, il ricongiungimento familiare.

      5) Rendere la vita difficile, il più possibile, a chi organizza caporalato e lavoro nero. Ispezioni, multe, galera, aziende chiuse. Purtroppo qui andiamo nel fantasy, ma la linea da tenere è quella, diminuire il più possibile l’utilizzo della forza lavoro immigrata come esercito schiavile di riserva, lavoro legale per tutti, italiani e non italiani.

      Sul piano della politica estera, andrebbe implementata una politica mediterranea di amicizia e cooperazione con i paesi del Nordafrica, secondo il nostro antico modello; ma anche qui andiamo nel fantasy, prima bisogna disfare la UE.

  9. …”Però vittima, persecutore o salvatore NON sono categorie politiche, sociologiche o in genere razionali, sono in genere categorie emotive e religiose” (Roberto Buffagni)
    Secondo me le categorie, per stare a questa classificazione, di persecutore e salvatore possono comprendere delle componenti emotive – perchè no?- anche indotte, ma quella della vittima si riferisce soprattutto alla condizione inderogabile di chi cerca una modalità di sopravvivenza in situazione ostile e non penso possibile ignorarla…Quale politica poi praticare, questo è un problema ancora aperto

    1. Sì, signora, però lei ha presente che cosa vuole dire cercare “una modalità di sopravvivenza in situazione ostile”? Vuole dire che sei disposto se non a tutto, a quasi tutto. Non è intelligente mettersi in casa milioni di persone disposte a tutto o quasi tutto. E’ poi falso che l’alternativa che si presenta alla totalità degli immigrati sia morte o fame/emigrazione. La grande maggioranza degli immigrati viene qui pensando di migliorare le sue condizioni di vita, economiche e sociali, investendo il piccolo capitale necessario raccolto dalla famiglia, che usualmente non è povera (relativamente alle condizioni del paese di provenienza).
      Di solito vanno incontro ad amare delusioni, ma il semplice accesso al nostro residuo welfare, che naturalmente utilizzano il più possibile, gli rende tollerabile o anche conveniente accettare le condizioni di lavoro di rado decenti, costumi che non capiscono e non amano, etc. Poi le seconde e terze generazioni si sentono in diritto di pretendere “quel che hanno/sono tutti gli altri”, non lo possono avere/essere, sono sradicate, cascano nell’anomia e a volte si radicalizzano anche.

      1. Per sintetizzare: la politica razionale sull’immigrazione di massa assume come premessa metodologica che l’immigrazione di massa e lo sradicamento di cui è sintomo e causa danneggia gravemente sia chi emigra sia chi riceve gli immigrati. Poi su tutto il resto si può e si deve discutere.

  10. Sul triangolo di Karpman e di rincalzo all’allucinante previsione di Buffagni (24 maggio, 8.34) “le dirigenze mondialiste hanno un progetto strategico molto chiaro: il reset, in vista della istituzione di un governo mondiale (non per domani, eh?). Importanti settori delle suddette dirigenze già individuano la capitale, Gerusalemme”, segnalo un articolo di Maurizio Blondet sul suo blog con questo titolo questo articolo di Blondet: “governare col caos sion neocon necessità”, non accludo il link perchè con esso non viene accolto il commento.
    L’indicazione di Buffagni è in sè coerente e seduttiva, il tarlo una volta introiettato continua a lavorare, e le prove si trovano.
    Forse la brevità della vita (“non per domani, eh?”) trattiene dal preoccuparsi seriamente, nonostante le parole aperte di Attali. A meno che a medio o breve non si tema una catastrofe, e chi può si sta preparando. O non sia il Male all’attacco.

    1. Mah, cara signora Fischer, capisco che venga la voglia, ma il Male con la maiuscola lo lascerei da parte. Il progettino reset mondialista effettivamente c’è, e siccome non lo sostengono solo al manicomio meglio prestargli fede. Poi è abbastanza evidente che si tratta di un caso particolare di una cosa che abbiamo già visto, cioè di una trasposizione sul piano immanente di concetti escatologici; quando si sente parlare di “uomo nuovo” sempre lì si va a parare, che sia l’uomo nuovo del comunismo o di quello del nazismo. Questo è l’uomo nuovo liberale e illuminista DOPO comunismo, nazismo e soprattutto DOPO il cristianesimo (fine del compromesso tra liberalismo e cristianesimo, che è durato finchè è durato il comunismo). L’indicazione di Gerusalemme come capitale del governo mondiale dipende, penso, da due fattori: 1) l’ebraismo è il messianesimo secolare nella sua forma più pura, come noto gli ebrei hanno sempre atteso un Messia-Re che gli desse anzitutto la liberazione, poi la supremazia mondiale 2) Israele è l’unico esempio nella storia di uno stato istituito su base teologica ed etnica (nell’ebraismo indistinguibili) da persone che NON credevano in nessun Dio, Yahvè compreso. Ne tratta molto a lungo il profondo studioso Leo Strauss, perchè nella sua visione, tutti i grandi pensatori occidentali da Platone in poi adottano una “scrittura reticente”, cioè a dire scrivono su un piano essoterico che Dio e la metafisica esistono, costituiscono l’ordine cosmico/la gerarchia dell’essere, etc.; ma anche su piano esoterico, nel quale affermano – per i soli spiriti forti in grado di reggere alla verità, che sono i veri filosofi – l’esatto contrario, cioè che Dio non esiste, l’ordine metafisico neanche, e che sola a regnare nell’universo è la forza. Strauss è uno studioso veramente profondo, e ha avuto un importante influenza anche pratica perchè è stato il docente (a Chicago) dei principali neoconservatori americani, quelli che hanno forgiato la politica e l’ideologia USA degli ultimi vent’anni.
      Paragonando questa visione con quella mondialista che ho riassunto si capisce subito dove collimano.

      1. Entro con molto ritardo nella discussione e chiedo scusa ma, a volte non si riesce a rinunciare. Scrivere che gli ebrei “hanno sempre atteso un Messia-Re” è dal punto di vista storico un errore, a meno che non si precisi a partire da quando.
        Un saluto a tutti,
        Ezio Partesana

        1. Non sono uno studioso dell’ebraismo. Per quel che so, il termine “messia”, “unto”, si applica in origine ai re d’Israele. Verso il VI sec. a.c., in Ezechiele, iniziano le riletture delle profezie messianiche, e messia può essere anche un sacerdote. Separandosi dalla regalità, la funzione messianica può più facilmente diventare religiosa (più messia). In epoca postesilica e nel tardo giudaismo, il termine “mashiach” viene ad indicare una personalità investita di una missione divina, chiamata a realizzare una promessa di liberazione o di salvezza definitiva dai nemici di Israele. Ci sono poi, in ambito ebraico e sino ad oggi, molte e diversissime interpretazioni della figura del messia
          Se ho fatto qualche errore sarò grato delle correzioni.

          1. Quel che lei scrive è abbastanza corretto, erronea è la confusione tra le figure dei Re – e relativi battaglie politiche – e il Messia. Per farla breve- troppo breve, mi rendo conto – sino alla distruzione del secondo Tempio (70 per, a opera di Tito) ci sono pochissime, o nulle, istanze messianiche nell’ebraismo (a meno che non si voglia considerare “messianico” il patto con Dio) e invece e avvertita molto forte la necessità di rimettere ordine, diciamo così, nella comunità delle tribù. Quel che noi intendiamo come “messianismo” è piuttosto il frutto di una tarda elaborazione dei profeti così detti “posteriori”. Si potrebbe discutere a lungo sopra alcuni termini impiegati da Isaia, ma la conoscenza della lingua ebraica sarebbe allora indispensabile.
            Un saluto,
            Ezio Partesana

  11. Ho letto gli ultimi interventi, le parole di Ennio in risposta all’intervento di Rita S., le stimolanti analisi di Buffagni e gli altri interventi.
    Non credo di poter aggiungere granché a quanto ho già detto. Ma, solo per completezza, mi preme sottolineare due o tre cose.

    1- Penso che sia il caso di uscire, una buona volta, dalla falsa contrapposizione fra buoni e cattivi. Si tratta di concetti morali che poco hanno a che fare con un’analisi politica. Sono semplicemente utili a coloro che non vogliono rendere chiari i termini della questione che stiamo dibattento. Infatti i “cattivisti” sono poco più che dei miserabili politicanti, che pur interpretano in modo manipolatorio un disagio reale; i “buonisti” sono politicanti non meno corrotti che poi alla resa dei conti non sono granché diversi dai primi. Il caso della corruzione di un intero ceto politico, super partes – destri e sinistri uniti, a Roma che mangiava sulle cooperative che dovevano svolgere opera di sostegno per immigrati, profughi ecc. è talmente emblematico del caso Italia da esimerci una volta per tutte di doversi schierare. All’inizio della nostra avvenuta umana e politica, un cinquantennio fa, anno più anno meno, eravamo fieramente fuori dal coro dei politicanti, ci siamo rimasti, pur con molti tentennamenti per una vita. Dobbiamo forse ora schierarci per una insana necessità di “governare”? E poi detto fra noi cosa governeremmo?
    2- Leggo che emergerebbe fra le righe di molti di noi, e forse anche dalle mie parole, una “sfiducia nel confronto”, una incapacità a individuare possibili “alleanze”e di accettare il principio dell’”integrazione”. Partiamo dicendo che ciascuno di questi concetti è talmente complesso da richiedere di essere analizzato a fondo, cosa evidentemente che non si può fare qui. In ogni caso sappiamo per esperienza storica quanto duro sia realizzare un “confronto” fra noi ed è assolutamente ovvio che ancora più arduo è realizzarlo con chi ci è infinitamente lontano per cultura, esperienza umana e storia. La capacità di ascolto è il risultato di un faticoso e spesso penoso esercizio di mediazione che richiede sempre tempi lunghi, non ci sono ricette che consentano costruire ponti senza una paziente opera di ingegneria. Ancora più arduo credo sia ragionare di costruire “alleanze” che non siano occasionali e del tutto strumentali, come le solite manifestazioni più o meno oceaniche. Le alleanze si costruiscono sulla concreta materialità delle contraddizioni e si consolidano, anche in questo caso, con un lento lavoro. Non altrimenti i nostri emigrati hanno trovato un loro spazio quando sono riusciti, sui luoghi di lavoro, a costruire solidi rapporti di solidarietà e di fiducia con coloro che prima li vedevano come degli intrusi. Il resto è incontro occasionale che può essere utile ma non risolve mai i problemi strutturali. Infine quasi insolubile credo sia il problema della “integrazione” ed anzi ho dubbi che abbia senso parlane se con integrazione si intende acculturazione o più semplicemente assunzione di una cultura altra da parte dell’immigrato. Personalmente sono anzi convinto che questo non si possa proprio chiedere. Ciascuno è portatore di un suo sapere e tutti sono altrettanto degni di attenzione. Se mediazioni si devono realizzare sono il risultato di un lento processo di fronte al quale possiamo solo dire che l’esito è sempre imprevedibile. Facile è parlare della necessità di fondare possibili linguaggi comuni ma sappiamo bene in quante situazioni storiche tali mediazioni non si siano realizzate o abbiano realizzato ibridi non certo particolarmente commendevoli. Gli Stati Uniti sono proprio l’opposto di ciò che è auspicabile per realizzare una vita umana degna di essere vissuta.
    3- Ho però l’impressione che tutta la discussione si muova sempre su un terreno vischioso segnato dal tentativo di eludere i dati oggettivi che pesano e peseranno sul nostro futuro. Facile è stigmatizzare chi cerca di affermare/proteggere l’esistenza di uno spazio individuale che è in qualche misura irrinunciabile dicendo che questo spazio è ben poca cosa. In questo modo però si nega quel dato minimale di evidenza su cui si è costruita la società di cui siamo figli anche nei suoi aspetti più nobili. Essere “stranieri a noi stessi” appare una formula retorica che nulla risolve. Sembriamo incapaci di divincolarci da interminabili esercizi declamatori, del tutto incapaci di fare i conti con dati oggettivi che rappresentano in modo incontrovertibile la sfida che stiamo affrontano.
    Quali questi dati?
    4- Innanzitutto una crisi economica strutturale del nostro paese e in qualche misura dell’intera Europa. Stiamo vivendo, forse senza rendercene conto, processi di deindustrializzazione a cui nessuno sa e/o vuole dare una risposta. Si è verificata negli ultimi decenni una inedita e crescente riduzione della manodopera attiva, ed insieme una radicale svalutazione del lavoro. E’ una strada ormai consolidata che da Treu è arrivata a Renzi e al Job act. In più come non restare di stucco, tanto per fare un esempio, quando si scopre che per mantenere aperta la Biblioteca Nazionale di Roma si usano dei “volontari” che vengono pagati dalla solita cooperativa, più o meno fasulla, una miseria e solo se portano degli “scontrini”.
    Non solo, come attestato anche dagli ultimi dati statistici la nostra disoccupazione rimane stabile a un livello a due cifre. Ed infine l’implementazione delle nuove tecnologie apre spazi a una destrutturazione del lavoro in forme oggi difficilmente immaginabili ma che ci toccheranno nel giro dei prossimi anni.
    Ciò detto in Africa e in parte anche in Asia vi è un universo di emarginati che credono di poter trovare in Europa la soluzione dei loro problemi. L’Europa sembra ai loro occhi una specie di Eldorado.
    Il problema è spinoso perché come testimoniano autorevoli studiosi in particolare l’Africa è un vero e proprio continente in esplosione demografica e dal punto di vista dei grandi numeri coloro che muoiono nel Mediterraneo in questi anni non sono che una infima frazione di quelle masse che premono … e che in qualche modo pongono un problema ineludibile.
    Premono per cosa?
    La risposta è facile: per trovare lavoro e poter inviare alle famiglie di origine parte del proprio reddito.
    Ora, per uscire dal fumo delle teorie, mi è capitato di partecipare di recente a una pubblica discussione proprio su questo tema. Liberati da tutta una serie di falsi problemi, quali ad esempio se gli immigrati siamo o no portatori di malattie endemiche, è rimasto sul tavolo quello della loro “integrazione”. L’assistente sociale, che aveva il compito di spiegare questo aspetto, ha dottamente descritto tutte le pratiche, burocraticamente infinite, che devono essere seguite per l’ammissione dell’immigrato alle attività di sostegno e i tentativi di fargli percorrere itinerari di integrazione, tramite stage formativi. Poi però si è giunti al centro della discussione. La domanda che è stata posta era la seguente: dopo i canonici sei mesi di attività di formazione questi giovani immigrati, per i quali sono stati perfino spesi denari per fargli fare corsi di preparazione in vista di un ingresso nel mondo del lavoro, cosa fanno?
    E’ questo il nodo che mi sembra si sia soliti eludere. La risposta è stata: qualcuno trova una collocazione ma si tratta di una infima minoranza. Per i più non c’è un posto e ciò non perché si faccia sentire un latente razzismo, ci siano difficoltà di mediazione culturale ma semplicemente perché il lavoro proprio non c’è. Questo in una delle provincie più ricchi d’Italia.
    L’incontro si è chiuso su queste note, anche se dette sottovoce per non intaccare la vulgata solidaristica.
    Credo che questo e non quello dello scontro di civiltà o dei conflitti ideali sia il terreno su cui ci si deve misurare.
    Qualcuno ha scritto a ragione: possiamo forse risolvere i problemi del mondo se non siamo capaci di risolvere i nostri? Diventare sempre più poveri ci consente forse di aiutare, nel brevissimo periodo, chi povero è già. Distruggere il minimo livello di benessere che oggi abbiamo ha però come solo risultato di impedirci in futuro di solidarizzare con chi ha davvero bisogno togliendoci i mezzi per farlo.
    Questo è il nodo che dobbiamo affrontare.

    Il Tonto

    1. Concordo con il Tonto, le cose stanno così.
      Aggiungo solo che tranne una minima quota, gli immigrati che arrivano qui dall’Africa NON sono “emarginati”. Lo diventano quasi sempre qui, ma NON lo sono a casa loro. In Africa, gli emarginati veri (e anche i poveri, non solo i miserabili) li individui immediatamente dal trofismo, cioè dallo sviluppo muscolare: non solo non si sono nutriti a sufficienza loro nell’infanzia, ma non si sono nutriti a sufficienza i loro genitori. I bei ragazzoni che si vedono in giro per le strade hanno potuto sviluppare le stature e i muscoli che vediamo perchè si sono alimentati bene, sia loro che i loro genitori.
      Sono dunque, detto grossolanamente, “piccolo-medio borghesi” africani, l’equivalente dei nostri ragazzi italiani che vanno a studiare all’estero con l’aiuto di borse di studio, etc. Hanno cioè famiglie che, senza essere ricche, sono in grado di mettere insieme un capitale iniziale che per quella società è significativo. Sono occidentalizzati, sognano appunto “l’Eldorado” europeo perchè guardano la TV, perchè chi è già partito magari gli racconta balle per non fare brutta figura, e perchè chi fa parte della filiera emigrazione gli magnifica l’esodo per evidenti motivi.
      Se leggete le dichiarazioni dei vescovi africani, vedete che all’unanimità cercano di dissuadere dall’emigrazione, sia avvisando che si va a star male, sia deprecando che se ne vadano giovani relativamente ben istruiti, sani, con qualche soldo da parte, invece di darsi da fare in patria vadano a sprecarsi qui. Le “risorse” sono risorse là, qui sono gente superflua che non può che disgregarsi nella marginalità.
      Il metodo per stoppare immediatamente le partenze e porre fine allo sfruttamento del lavoro schiavile ci sarebbe: smettere di finanziare la permanenza qui degli immigrati disoccupati con il welfare. Niente accesso alla sanità se non per le emergenze, niente casa popolare, niente sussidi, niente pensioncina per il nonno, etc. Senza questa rete di sicurezza nessuno partirebbe, e chi c’è se ne tornerebbe (biglietto di ritorno gratis).

      1. Mi è appena arrivato l’ultimo numero de “Il Covile”, che tratta di antispecismo e transumanismo. Viene a proposito perchè il transumanismo è l’ideologia del mondialismo à la Attali. E’ interessante, breve e gratis: https://www.ilcovile.it/scritti/COVILE_954_Bochet_balene.pdf

        Aggiungo a quanto detto nel commento precedente che i ricchi africani, quando vengono qui, vengono a studiare all’università, come la ex ministra Kyenge, suo padre è un pezzo grosso governativo.
        Come vedete, più o meno la scala di reddito e i comportamenti migratori sono gli stessi qui e là. Da noi, i figli dei ricchi vanno a studiare all’estero, magari sin dalle superiori; i figli della piccola-media borghesia vanno a studiare all’estero dopo l’università, con l’aiuto di borse di studio, insomma del welfare; i poveri restano a casa (finchè ce l’hanno). In Africa, uguale, solo che i redditi sono più bassi rispetto ai nostri.

  12. SEGNALAZIONE
    (nell’ottica di un’attenta documentazione delle posizioni – anche di quelle che non condivido – , stralcio da un impegnativo articolo di Caracciolo questo brano che riguarda il problema dell’immigrazione visto in un’ottica geopolitica)

    Perché ci serve l’Italia
    di LUCIO CARACCIOLO (direttore di LIMES, rivista italiana di geopolitica)
    http://appelloalpopolo.it/?p=31017

    Stralcio:

    Mentre l’Europa germanica si allontana e il solco tracciato dalla linea gotica s’approfondisce, l’Africa s’avvicina. Il flusso dei migranti attraverso il Mediterraneo si dirige ormai per l’80% verso l’Italia, dopo che il patto Merkel-Erdoğan – capolavoro del metodo tedesco di spacciare per europee iniziative nazionali – ha disseccato il canale turco-greco-balcanico. Tra il 1° gennaio e il 20 aprile di quest’anno sono sbarcate dall’ex Libia in Italia quasi 37 mila persone in fuga dalla miseria e dalle guerre, provenienti soprattutto dalla Nigeria e da altri paesi dell’Africa occidentale – un decimo addirittura dal Bangladesh – oltre un quarto in più rispetto allo stesso periodo del 2016. Per la fine dell’anno gli sbarchi in Italia potrebbero superare quota 200 mila, linea rossa oltre la quale secondo il nostro governo può scattare un’emergenza sociale e di ordine pubblico difficilmente gestibile (grafici 1-3, carta 4).
    Dei tre slittamenti geopolitici che investono lo Stivale questo è il più strutturale e il meno governabile. Giacché la spinta a rischiare la vita negli esodi transmediterranei è alimentata in buona misura da fattori climatici e demografici insensibili, nel breve-medio periodo, a qualsiasi politica. In particolare, la transizione demografica ritardata – ovvero il mancato calo della fecondità femminile atteso seguire la diminuzione della mortalità – produce in diversi paesi dell’Africa subsahariana, come in Nigeria e in Niger, un surplus di popolazione giovane determinata a emigrare a qualsiasi costo. Tale fattore, incrociando la decomposizione degli Stati africani che apre formidabili vuoti di potere e alimenta le dispute fra chi ambisce a occuparli, segnala un sisma geopolitico di lunga durata.
    Fra i paesi europei, impreparati allo shock e nevrotizzati dal terrorismo jihadista, s’è perciò aperta una feroce competizione per scaricare sui vicini quella che viene percepita come minaccia esistenziale al benessere, alla coesione sociale, alla stessa identità nazionale. Sicché l’Italia si trova compressa fra la corrente migratoria da sud e la scelta dei nostri vicini settentrionali – Francia, Svizzera, Austria, con alle spalle la Germania – di inasprire i controlli alle frontiere. Risultato: il 90% di chi sbarca in Italia ci rimane. Quasi sempre allo sbando, vittima di organizzazioni criminali e di sfruttamento selvaggio, specie nelle campagne del Mezzogiorno dominate dal caporalato. L’assenza di un piano nazionale per l’integrazione degli immigrati –campo nel quale il nostro governo non intende arrischiarsi per timore dell’impopolarità – congiunta alla totale mancanza di solidarietà su scala comunitaria, genera xenofobia ed eurofobia. Derive fino a ieri impercettibili nel mainstream della nostra opinione pubblica.
    La partita decisiva, ancora una volta, la giochiamo con la Germania. Sul fronte nord: è anzitutto da Berlino che passa la possibilità di allentare il sistema di Dublino, per cui al primo Stato comunitario di ingresso (leggi: Italia e, molto meno, Grecia) tocca gestire le domande di asilo. Sul fronte sud: a differenza di Francia e Gran Bretagna, e nell’indifferenza degli Stati Uniti, la Germania è l’unica potenza euroatlantica impegnata nel contenimento del caos libico. Con esiti quasi nulli. Qui Roma impegna il massimo sforzo con il minimo risultato. Fino a convocare al Viminale una variopinta delegazione di capi locali del Fezzan – profondo Sud libico – per indurli, dietro compenso garantito anche da fondi Ue, a farsi guardiani del deserto, filtrando i corridoi migratori risalenti dal Sahel. Ma individuare nella baraonda libica chi possa fare il lavoro sporco una volta assicurato da Gheddafi è impresa disperata.
    Per l’Europa centro-settentrionale, l’Italia dovrebbe ergersi ad ultimabarriera di un sistema di dighe deputato a ostacolare o almeno deviare la pressione migratoria che sale dall’Africa. Quello che noi chiediamo ai fezzanini Berlino l’ha ottenuto dai turchi e ora l’attende dagli italiani. Le probabilità che Roma induca nei tribali del Sahara o in qualche milizia tripolitana comportamenti simili a quelli che Merkel ha strappato a Erdoğan paiono esigue. Nemmeno la revisione del regolamento di Dublino in senso a noi favorevole, su cui negoziamo con gli eurosoci, si prospetta agevole. Non è dunque da escludere che, stretta nella tenaglia nord-sud, l’Italia azzardi una fuga in avanti, passando al respingimento attivo di chi tenta di varcare il Canale di Sicilia. Fino a schierare propri soldati in Tripolitania. L’esito di tale avventura sarebbe scritto: riusciremmo a riunire contro di noi tutte le fazioni libiche, a partire da quelle che vorremmo far lavorare per noi.
    Nell’Italia della guerra fredda, che volle espungere il lemma «nazione» dal gergo ufficiale, abbiamo paradossalmente identificato interesse nazionale e nazionalismo. Il primo prevede la sobria definizione dei propri obiettivi in rapporto alle risorse disponibili e alle costellazioni geopolitiche vigenti. Il secondo è enfatico volontarismo costruito sulla rimozione dei dati di fatto su cui prima o poi s’infrangono i suoi deliri di potenza. Negli ultimi vent’anni abbiamo legittimato l’interesse nazionale, però in chiave solo retorica. Per il divertimento di amici e avversari, i quali vi hanno riconosciuto la conferma di un’antica pulsione nostrana: la narrazione come surrogato dell’azione.
    Si obietterà che il nostro deficit di statualità ci impedisce di diventare normali. È alibi. Le istituzioni italiane sono deboli e poco legittimate, certo. Ma gli italiani esistono, pur nelle loro identità multiple. E come tali vengono percepiti dagli altri popoli, molto meno attenti di noi alle vere o artefatte varietà regionali, alle declinazioni dialettali dell’autocoscienza nazionale. Chi argomenta contro l’interesse nazionale dovrebbe dimostrare che agli italiani conviene sciogliere le residue istituzioni unitarie per integrarsi in domini esterni oppure frammentarsi in staterelli «omogenei». Come tali estranei alla regola delle liberaldemocrazie occidentali, fondate almeno formalmente sullo Stato nazionale eterogeneo. Davvero conviene a lombardi e/o veneti – chiamati nell’immediato futuro a esprimersi in referendum ambiguamente autonomistici – emanciparsi dall’Italia per diventare i ticinesi della Piccola Europa che pare aggregarsi attorno alla Germania? L’ambizione dei siciliani è di costituirsi in Stato mafia indipendente? I napoletani aspirano alla repubblica del Vesuvio?
    Parrebbe più saggio irrobustire la repubblica mentre ne ridefiniamo il profilo sulla scena internazionale. Anzitutto nel nostro continente. Indulgiamo a lamentare la disgregazione dell’Unione Europea, perdendone di vista l’altra faccia: la riaggregazione – oggi informale, domani forse marcando nuovi confini – in aree d’influenza disegnate da affinità culturali, geostrategiche ed economiche. Con al centro lo Stato tedesco, semiconduttore dei flussi di potenza che strutturano i precari equilibri europei quanto restio, finora, a dotarsi di una strategia corrispondente ai suoi mezzi e alle sue responsabilità. Troppo potente per accomodarsi ancora alla riduzione a satellite americano sancita dalla sconfitta nelle due guerre mondiali e più o meno felicemente accettata dalla Bundesrepublik originaria, appunto occidentale. Troppo debole e introverso – dunque non imperiale – per federare il vasto, disomogeneo e instabile spazio comunitario. Ciò presupporrebbe mitigare la vena mercantilista e disporsi alla redistribuzione delle risorse a favore delle province più arretrate della propria sfera d’influenza. Chi lo propone in Germania fa figura d’eccentrico.

    Noi italiani non siamo sufficientemente consapevoli di quanto la tendenza a strutturare una sfera d’influenza germanica – pur ancora magmatica, non discendente da un geometrico Generalplan – e le reazioni americane a tale scenario possano incidere sul nostro paese (carta a colori 4). Fino a spaccarlo, in caso di adesione della macroregione padana al nuovo/vecchio insieme eurogermanico. O a farne terreno di scontro fra americani e tedeschi, ciascuno con i rispettivi affiliati, mentre nel Mediterraneo infuria la tempesta.
    Ecco perché ci serve l’Italia.

  13. SEGNALAZIONE

    Campagna #CulturaNonChiusura: uno scritto al giorno di autori extra-europei per coltivare bellezza con una pioggia di cultura in tutta la città!
    #ColognorEsiste #Comitato16marzo
    Campagna #CulturaNonChiusura 64

    Wole Soyinka – Nigeria

    MIGRAZIONI

    Ci sarà il sole? O la pioggia ? O nevischio?
    madido come il sorriso posticcio del doganiere?
    Dove mi vomiterà l’ultimo tunnel
    Anfibio? Nessuno sa il mio nome.
    Tante mani attendono la prima
    rimessa, a casa. Ci sarà?
    Il domani viene e va, giorni da relitti di spiaggia.
    Forse mi indosserai alghe cucite
    su falsi di stilisti, con marche invisibili:
    fabbriche in nero. O souvenir sgargianti, distanti
    ma che ci legano, manufatti migranti, rolex
    contraffatti, l’uno con l’altro, su marciapiedi
    senza volto. I tappeti invogliano ma
    nessuna scritta dice: BENVENUTI.
    Conchiglie di ciprea, coralli, scogliere di gesso
    tutti una cosa sola al margine degli elementi.
    Banchi di sabbia seguono i miei passi. Banchi di sabbia
    di deserto, di sindoni incise dal fondo marino,
    poiché alcuni se ne sono andati così, prima di ricevere
    una risposta – Ci sarà il sole?
    O la pioggia? Siamo approdati alla baia dei sogni.

  14. E’ un po’ lungo ma potete leggerlo a puntate!

    Mi sembra che dal testo di Buffagni (23.05 h. 16.53) si possano individuare due campi, che isolo con una operazione arbitraria e ‘semplificatoria’, benchè mossa da un intento ‘ss-scientifico’ (come diceva V. Gassman nel film “I soliti ignoti”).

    Il primo campo è quello in cui viene privilegiato un pensiero razionale.
    Da qui i vari passaggi dell’intervento e che cito per esteso, solo per illustrare la metodica:
    – *Dire che l’immigrazione è un fenomeno naturale inarrestabile come i monsoni per un po’ funziona, ma poi non funziona più, è troppo clamorosamente falso, e persino il fratello scemo del Tonto qualche volta riesce a fare due + due*.
    – *Altra domanda rozza ma razionale: c’è disoccupazione, che gli facciamo fare a questi che vengono qui? La risposta “fanno i lavori che gli italiani non vogliono fare” per un po’ funziona, ma poi anche il fratello scemo del Tonto si rende conto che gli italiani si rifiutano di fare alcuni lavori solo perchè sono lavori di merda e sono pagati una miseria, e si rifiutano solo perchè possono (qualcun altro gli da una mano, hanno risparmi), ma quando sono finiti i soldi fanno di tutto. E allora come si fa a non rispondere?*
    – *Altra domanda inevitabile: non c’è proprio nessun rapporto tra la presenza di immigrati mussulmani e gli attentati? Difficile rispondere di botto “no”. Come si fa a non rispondere?
    – *Altra domanda inesorabile: “Questi accettano salari di fame perchè ormai sono qui e non possono fare altro, non abbatteranno anche i salari nostri? Non ci sentiremo dire ‘o così o prendo un immigrato che c’è la fila?’ Come si fa a non rispondere?) per cui l’invito è quello di attingere alla ragionevolezza*.

    La conclusione, quindi, è quella di *attingere alla ragionevolezza*, funzione ‘superiore’ della mente, che ciò ci piaccia o meno, e a cui ci si arriva dopo attenta messa in parentesi delle istanze emotive disturbanti.

    L’altro campo, invece, è quello che è pervaso da movimenti erratici e che, con intenti altrettanto scientifici (stavolta più adeguati), si cerca di inquadrare secondo ‘leggi’. Ed è il campo in cui si muovono le ‘masse’, molto sensibili alle spinte emotive più arcaiche, attacco e fuga, ricerca del capo dominatore, o del messia ecc. ecc., secondo le dinamiche studiate fin qui rispetto a come si muovono i gruppi. E quando scrivo ‘masse’, so che semplifico una realtà più composita, così come quando si scrive l’ “elettorato”.

    Pertanto, può essere vero che, come sostiene Ennio a proposito delle primavere arabe *… mai direi con la tua sicurezza che “le rivoluzioni colorate si fanno così”. ( Al massimo direi: “si tentano” così, o “nelle cosiddette “rivoluzioni colorate” pare che alcuni attori abbiano operato secondo queste logiche suggerite da Karpman”).*

    Però, osserviamo bene il problema. Il bisogno di avere un consenso dal basso non è una novità; guardiamo indietro nella storia (e nella produzione artistica che ha cercato di rappresentarla) e ci imbattiamo nella mirabile resa che ne ha fatto Shakespeare nel suo Giulio Cesare, a proposito delle oscillazioni della plebe davanti alle orazioni funebri di Bruto e di Antonio a cadavere ancora caldo del ‘divino’ Giulio! Vi prego, andate a vedere questo pezzo: lo trovate su YouTube!
    Da lì si può capire benissimo come il disegno ‘razionale’ appartenga all’alto (in questo caso, all’abilità e all’astuzia di Antonio di contro all’idealismo ingenuo di Bruto, diventato così quello che si accollò il ‘lavoro sporco’ della congiura!), mentre si vede come al basso non esiste una strumentazione adeguata per capire il tranello dentro il quale trascina l’orazione di Antonio!
    Ad Antonio, in quel particolare contesto, non bastano soltanto i Senatori, vuole la legittimazione dal basso! Sarà il popolo a volerlo e, quindi, l’investitura avviene dal basso! Anziché Deus vult, ci sarà il populus vult!
    Abbiamo allora trovato la soluzione? Diamo il potere al popolo? No. Perché la ‘massa’ è acefala e va alla ricerca della testa. Ha bisogno della ragione, ma non può trovarla perché al suo interno ci sono molteplici ‘ragioni’. E allora? Ecco pronta la trappola ideologica della cosiddetta democrazia sotto il cui cappello tutti dovrebbero identificarsi. Perché dico ‘trappola’? Perché ognuno si illude di rinunciare a qualche cosa di sé a beneficio della comunità, e invece ciò avviene soltanto a beneficio del gruppo dominante.

    Oggi, i cambiamenti di regime, difficilmente (e sottolineo, difficilmente) possono essere portati avanti soltanto dall’alto con i cosiddetti ‘colpi di Stato’. La globalizzazione mette sotto gli occhi di tutti la violazione della libertà portata avanti in modo così palese e tutti sono chiamati ad insorgere.
    Allora c’è bisogno del cosiddetto sostegno popolare. Vi ricordate del periodo di Mani Pulite, dove anche il più ’pulito’ aveva la rogna, compresi quelli incaricati a fare pulizia? Quanti ne gioirono! Eppure ci fu una specie di ‘colpo di stato’, con l’eliminazione di alcune forze politiche che ostavano a certi disegni di dominio internazionale. Però quella fandonia di fare pulizia e chiarezza, travolse (e istupidì) la maggior parte delle persone.
    Oggi facciamo le nostre giornate del ricordo, e gli unici padri che catturano la nostra attenzione quotidiana sono quelli di Renzi e della Boschi, e ci perdiamo sul Mattarellum, il Consultellum, ecc. ecc. nonché le discussioni sui migranti sì e i migranti no… e intanto altrove si stanno muovendo di nascosto pedine a dispetto nostro e dei nostri destini.
    Proprio oggi (25.5) leggevo delle ipotesi sul perché – nonostante le regole del diritto internazionale impongano che i migranti debbano essere accompagnati al porto più vicino e sicuro per la loro incolumità – a Malta, più vicina alle coste libiche rispetto alla Sicilia, le navi ONG non attracchino con il loro carico di disperati.
    Pare che ci sia stato il tacito accordo, lo scorso anno, tra l’ex premier Renzi e il suo omologo maltese, il primo ministro Joseph Muscat, di poter cedere alle richieste dell’Italia sui diritti di sfruttamento petroliferi in cambio dell’accoglienza dei migranti a esclusivo carico delle autorità italiane.
    Bruxelles, interpellata, risponde che non ne sapeva nulla ma di fatto non smentisce.
    Non vi sembra interessante questo scambio petrolio contro immigrati? Fassino una volta esultando disse “Anche noi abbiamo una banca”; adesso possiamo dire, “Anche noi abbiamo il petrolio!”. Ma ‘noi’, chi?

    Non sono contraria, e ci mancherebbe, alle forme di solidarietà e di cooperazione (ben vengano le esperienze di Treviso o i convegni “Lavoro per migranti, lavoro per tutti”), ma non mi risolvono il problema.
    Perché il tutto dovrebbe inscriversi, come dice Toffoli, in una situazione economica che ci permette davvero di essere loro di aiuto, ben sapendo che i processo della tanto propagandata ‘integrazione’ (fumo negli occhi!) sono non solo difficili ma anche dispendiosi e lunghi. Invece assistiamo a insidiosi *processi di deindustrializzazione*
    …. * Si è verificata negli ultimi decenni una inedita e crescente riduzione della manodopera attiva, ed insieme una radicale svalutazione del lavoro. E’ una strada ormai consolidata che da Treu è arrivata a Renzi e al Job act.* (G. Toffoli, 25.5 h. 16.55). E poi prosegue: *Ed infine l’implementazione delle nuove tecnologie apre spazi a una destrutturazione del lavoro in forme oggi difficilmente immaginabili ma che ci toccheranno nel giro dei prossimi anni*.
    Dalla Silicon Valley, gli ingegneri che trattano della nuova robotizzazione, dicono chiaramente che questo andrà a creare non tanto forme crescenti di disoccupazione ma di discriminazione.

    Per inciso, le doverose forme di solidarietà si sono sempre manifestate anche tra i disastrati dei bombardamenti, nei campi di concentramento, e perfino tra combattenti che avrebbero dovuto essere ‘nemici’.
    E ciò mi sta solo a dire che dei sentimenti di partecipazione ci sono, ma non sono sufficienti. E sono soprattutto deleteri quando di questi c’è una appropriazione dall’alto, facendoli ruotare a suo pro e quindi depauperandoli del loro senso originario.
    Come il concetto di ‘società liquida’ che ha avuto così tanto successo. Ma questa ‘descrizione’ ha solo fotografato il problema, non approfondito le cause, le dinamiche profonde e che cosa queste comportano. Se noi assumiamo pedissequamente questi ‘slogan’, a liquefarci saremmo noi, dal basso, mentre nei piani alti, i punti di convergenza, quando e come i potenti decidono, vengono trovati.
    E il punto di vista dall’alto è sempre diverso da quello che c’è al basso, dove si cerca disperatamente di trovare delle forme di coagulazione per contrastare la dispersione.
    Dispersione che continuamente ci viene indotta inoculando senso di precarietà e di paura. Un paese povero è sempre più facilmente esposto alla sottomissione, soprattutto se propagandata come ‘liberazione’!

    R.S.

    1. Il consenso dal basso è indispensabile sempre, se uno non vuole saccheggiare e basta tipo Tamerlano (che poi dovrà comunque avere il consenso della sua orda, sennò saccheggia da solo).
      La differenza tra lo ieri e l’oggi, grossolanamente, è che oggi c’è il suffragio universale + mezzi di produzione del consenso mai visti prima + l’armamento nucleare strategico che rende più difficili gli scontri diretti tra grandi potenze + l’aumento esponenziale d’importanza dei metodi di guerra indiretti sui diretti.
      L’attacco principale (poi eventualmente seguito da attacco militare vero e proprio) viene sferrato sul morale del nemico, cioè sulle “menti e cuori”, sulla percezione, sulle emozioni, per impedire l’attivazione delle sue difese anzitutto interiori.
      Ecco perchè sono tanto importanti le operazioni di guerra psicologica, associate con i più tradizionali metodi di guerra coperta (corruzione di dirigenti, scandali, attacchi all’economia, sabotaggio, spionaggio nelle sue varie forme, etc.).
      Le principali difese interiori da questi attacchi sono l’equilibrio spirituale fondato su una religione, un sistema di valori radicato, etc.; e la ragione, che domina le emozioni travolgenti. La personalità “liquida” è indifesa, in balia delle “onde” emotive suscitate artificialmente dai tecnici delle psyops.

      1. Aggiungo che il povero Karpman non c’entra niente con le psyops. Lui si è limitato a individuare uno schema utile per la comprensione delle disfuzionalità relazionali all’interno di piccoli gruppi di persone, all’unico scopo di migliorarle. Poi gliel’hanno piratato.

  15. A proposito di ‘memoria’ e del fatto che al basso ci sono più stratificazioni, ecco alcuni miei pensieri in versi del lontano(?!) 2014.

    Premonizioni

    Immagina pure un campo di raccolta.
    No, non di uve o di messi,
    sodale citoyen che ancora ciucci di libertè
    égalitè. E di fraternitè non ne parliamo.
    Là dove vivono uomini tenuti da altri uomini.

    Sopra non c’è cielo ma un tendone grigio
    perché riflette il grigio che c’è giù
    grigie formiche che portano all’ammasso
    grigi cervelli dove le idee si sono disseccate
    nel monotono andirivieni, dove tira il vento.

    Ogni tanto ecco un assembramento e qualcuno
    parla, voce gracchia d’altoparlante, parole
    che perdono senso appena vengono raccolte
    e messe in cesti comuni cui la gente attinge,
    paniere sacro perché venuto da un Lassù.

    Ogni tanto si addensano fantasmi e qualcuno
    grida attenti al lupo, sagome umane si guardano attorno
    non ci sono lupi che ormai stanno già dentro
    non perchè homo homini lupus ma loro pronti
    a sbranarsi per l’eroica soddisfazione di chi sta sopra

    e conta i morti e intanto meno bocche da sfamare
    a vantaggio dei lupissimi che spartiranno più risorse.
    Ogni tanto qualche lugubre sirena avvisa che accadrà
    qualcosa, ma cosa non si sa perché il terrore senza
    oggetto e senza luogo annienta più ancora delle bombe.

    “Mamma! mormora la bambina mentre/
    gioca coi suoi balocchi, lo scivolo in piscina, il selfie
    sotto gli occhi! Quante bugie racconti per me!”
    Pallida ma non per cipria la madre vede già il futuro
    dei rinchiusi dentro il muro di progresso e civiltà.

    16.07.2014

  16. MIGRAZIONI. APPUNTI 1

    @ Rita [Simonitto]

    1.
    La situazione è tutta cambiata. Nessuna possibilità di collegare le presenti migrazioni alle migrazioni “nostre” del passato? Allora un nobile «partire penoso ma consapevole dei rischi e delle difficoltà». Oggi solo «una tratta forzata di novelli schiavi spinti (o sospinti) dal miraggio dell’Eldorado»?
    Non mi convince. Chi può dire che la medesima pena e consapevolezza dei rischi non ci sia nei migranti d’oggi? Abbiamo fatto delle inchieste? L’abbiamo accertato?

    2.
    Nel post la « foto sotto [che mostra] una galera a cielo aperto».M’è venuta in mente Ellis Island *

    *Notizie 1:
    Il porto di Ellis Island ha accolto più di 12 milioni di aspiranti cittadini statunitensi (prima della sua apertura altri 8 milioni transitarono per il Castle Garden Immigration Depot di Manhattan), che all’arrivo dovevano esibire i documenti di viaggio con le informazioni della nave che li aveva portati a New York. I Medici del Servizio Immigrazione controllavano rapidamente ciascun immigrante, contrassegnando sulla schiena con un gesso, quelli che dovevano essere sottoposti ad un ulteriore esame per accertarne le condizioni di salute (ad esempio: PG per donna incinta, K per ernia e X per problemi mentali).
    Chi superava questo primo esame, veniva poi accompagnato nella Sala dei Registri, dove erano attesi da ispettori che registravano nome, luogo di nascita, stato civile, luogo di destinazione, disponibilità di denaro, riferimenti a conoscenti già presenti nel paese, professione e precedenti penali. Ricevevano alla fine il permesso di sbarcare e venivano accompagnati al molo del traghetto per Manhattan.
    I “marchiati” venivano inviati in un’altra stanza per controlli più approfonditi. Secondo il vademecum destinato ai nuovi venuti, “i vecchi, i deformi, i ciechi, i sordomuti e tutti coloro che soffrono di malattie contagiose, aberrazioni mentali e qualsiasi altra infermità sono inesorabilmente esclusi dal suolo americano”. Tuttavia risulta che solo il due percento degli immigranti siano stati respinti. Per i ritenuti non idonei, c’era l’immediato reimbarco sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti, la quale, in base alla legislazione americana, aveva l’obbligo di riportarli al porto di provenienza.
    Il picco più alto si ebbe nel 1907 con 1.004.756 di persone approdate.
    Dal 1917, modifiche alle norme d’ingresso limitarono i flussi immigratori. Venne introdotto il test dell’alfabetismo e dal 1924 vennero approvate le quote d’ingresso: 17.000 dall’Irlanda, 7.500 dal Regno Unito, 7.400 dall’Italia e 2.700 dalla Russia. La Depressione del 1929 ridusse ulteriormente il numero degli immigrati, dai 241.700 del 1930 ai 97.000 del 1931 e 35.000 nel 1932. Contemporaneamente Ellis Island diventò anche un centro di detenzione per i rimpatri forzati: dissidenti politici, anarchici, senza denaro e senza lavoro vennero obbligati a tornare al loro paese d’origine. Gli espulsi a forza dagli Stati Uniti furono 62.000 nel 1931, 103.000 l’anno successivo e 127.000 nel 1933.
    Durante la seconda guerra mondiale vi furono detenuti cittadini giapponesi, italiani e tedeschi e il 12 novembre 1954 il Servizio Immigrazione lo chiuse definitivamente, spostando i propri uffici a Manhattan. Dopo una parziale ristrutturazione negli anni ottanta, dal 1990 ospita il Museo dell’Immigrazione.
    (https://it.wikipedia.org/wiki/Ellis_Island)

    *Notizie 2:

    Nel paradiso terrestre promesso dalle “Guide” le cose, in realtà, stavano diversamente. Subito dopo l’arrivo gli immigrati cominciavano a rendersi conto di essere giunti nell’America com’era e non come l’avevano sognata. Le immagini da paradiso terrestre di cui si erano riempiti gli occhi e la mente trovavano scarso riscontro nelle pesanti formalità burocratiche cui venivano sottoposti e, almeno negli Stati Uniti, molti erano coloro che venivano respinti specialmente perché affetti da malattie invalidanti. Quelli che venivano ammessi nel paese erano trattati, e contrattati, come a una fiera del bestiame o a un mercato degli schiavi. Inoltre, per restringere la portata delle correnti migratorie furono varati, nel tempo, provvedimenti di vario genere.
    […]Negli Stati Uniti, all’arrivo nel porto di New York, gli emigranti venivano sbarcati e costretti a Ellis Island dove i controlli erano molti e severi.
    Tutta una serie di norme operavano una prima, drastica selezione. Esse spaziavano nei più disparati campi: si veniva respinti per malattia (per esempio, i tracomatosi erano al più presto reimbarcati per il paese di origine), per indigenza estrema, per età giovanile o troppo avanzata, per stato civile (donne e orfani che non avevano nel paese chi li soccorresse e li aiutasse a trovar lavoro).
    Nel 1917, dopo averlo preannunciato per più di vent’anni, fu varato il Literacy Act, una legge sull’analfabetismo che impose un’effettiva stretta all’immigrazione e colpì tantissimi italiani specie meridionali.
    Ulteriori restrizioni si ebbero con l’approvazione delle leggi, nel 1921 e nel 1924, dette Quota Act che permettevano annualmente l’ingresso di immigrati di una qualsiasi etnia in numero molto limitato.
    . http://www.emigrati.it/Emigrazione/Emiamerica.asp
    Nel Museo dell’Emigrazione a New York ci sono ancora le valigie piene di suppellettili e di povero abbigliamento delle persone che reimbarcate per l’Italia, nella disperazione si buttavano nelle acque gelide della baia andando quasi sempre incontro alla morte.
    (http://museo.fondazionepaolocresci.it/it/sezioni/il-viaggio-e-larrivo)

    3.
    Le domande di Rita («A vantaggio di chi? Chi i mandanti? Solo gli ‘scafisti’ irretiti dal facile lucro? ») cancellano altre domande (possibili, necessarie) sulla soggettività dei migranti d’oggi e sulla loro umanità (per me, come la nostra, *in costruzione*). La sua attenzione è troppo spostata sugli strumentalizzatori, i “professionisti della tratta”. Perché? Perché non riusciamo più a ragionare sia sulla realtà degli uomini-schiavi che degli uomini- schiavisti (e scafisti) che sui complotti («O c’è ben altro?»)?

    4.
    Nella nostra critica all’ideologia rischiamo noi pure la mistificazione. Gli uomini-migranti restano “mucchio”. La loro identità/umanità resta ignota e sembra non interessarci. Viene per così dire tagliata con la sega della rimozione. Solo così rientra nelle scatolette/categorie alla Karpman : delle “vittime”; dei “salvatori”, dei “persecutori”.

    5.
    A chi giova questa logica realistica, antiumanistica e (si dice) razionale, depurata dalle «istanze emotive disturbanti»? Altre istanze,altrettanto emotive ma di segno contrario ( hobbesiano, nicciano, straussiano), hanno preso il posto di quelle “umanistiche” o “umanitarie” o “comunistiche”. E Rita chiama a sostegno anche l’arte, il cinema. E qui mi permetto un’invettiva: quel “cetomedista” bamboccione e puer aeternus di Alberto Sordi, in vita americanizzato e miliardario, mai lo citerei come Vate che svelerebbe la “verità”. Quale poi? Quella dei potenti di sempre: i furbi fottono i deboli, i poveri, la gente comune. E mai penserei che il problema loro ( e nostro) stia – ahi, Pasolini! – nel non vedersi *rispettati* nelle «proprie origini e catapultati così a cancellare la memoria storica». Sta nel rimanere poveri (materialmente e culturalmente) e nel no poter neppure più lottare per uscire dalla povertà.

    [Quanto lontano dal brillante sfottitore dei poveri Alberto Sordi il “buonista” Raf Vallone del cinema neorealista che mostrava ancora la loro resistenza:

    * Il cammino della speranza è un film del 1950 diretto da Pietro Germi, tratto dal romanzo Cuore negli abissi di Nino Di Maria.
    È stato presentato in concorso al Festival di Cannes 1951[1] e ha vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino.
    Nel corso della traversata, il gruppo viene investito da una tormenta di neve, nel corso del quale uno di loro si smarrisce e muore assiderato. Gli altri riescono a salvarsi e ad arrivare finalmente al confine francese. Quando ormai sembrano salvi, vengono intercettati da due pattuglie di doganieri, una francese e l’altra italiana, che si muovono sugli sci, ai quali appare subito evidente che si tratta di clandestini. Ma gli agenti, commossi dalle condizioni di povertà e sofferenza degli emigranti, si inteneriscono al sorriso di uno dei bambini e li lasciano proseguire senza arrestarli.]

    6.
    Rita parla di «dignità che non può essere ‘sanata’ soltanto con l’accoglienza (pur necessaria!)». Ma come si fa a definire necessaria l’accoglienza e allo stesso tempo ironizzare *esclusivamente* sui “buonisti”? Ho l’impressione che i bersagli della sua critica siano esclusivamente quelli che – bene o male – si danno da fare per aiutare i migranti o manifestano a loro favore. Capisco che non voglia confondersi con chi « alla fin fine, collabora per la svendita del senso dell’umano. E ci trae i suoi vantaggi». Ma coltivare un’idea “altra” di umano senza dire mai chi la pratichi o se sia praticabile e invece criticare indistintamente tutte le pratiche altrui, mi pare una forma di pensiero suicida. Da dove inizierà mai l’auspicato « processo di maturazione soggettiva e di rifiuto della mistificazione così sustanziale a questo sistema cosiddetto capitalistico»? Come possiamo difendere e affermare in modi concreti e visibili questa dignità (umana) o sanare « il vulnus dell’essere ritenuto un ‘oggetto’ di cui poter disporre a piacimento»? Le Ong o quelli della Caritas questo « vulnus» non riescono a sanarlo. Sia pure. Ma c’è qualcuno che fa di meglio?

    7.
    Quanto ai versi di B. Brecht : « Al momento di marciare/molti non sanno/ che alla loro testa marcia il nemico.// La voce che li comanda/ è la voce del loro nemico.// E chi parla del nemico/ è lui stesso il nemico» di una cosa sono certo: lo scopo del poeta tedesco non poteva essere quello di incoraggiare la schizzinosità in politica. Come, allora, si fa a impedire che il nemico marci alla testa di una manifestazione che vuole essere contro di lui?

    8.
    È che gli altri Rita li riduce a plebi. Che invariabilmente (nel mondo antico ed oggi) oscillano sempre davanti ai leader , sono disinformate e vogliose populisticamente di capi. E cadono nella «trappola ideologica della cosiddetta democrazia ». Ma sarà mai possibile sfuggire almeno in qualche occasione a questa trappola o destino? Non pare. Lo scontro è solo tra élites che si fanno le scarpe a vicenda e, raccontando frottole, alla gente o stupida o instupidita, fanno il bello e il cattivo tempo. Non una parola su se e come le masse possano uscire dalla stupidità (congenita o indotta?). Ogni proposta “dal basso” non risolve i problemi. Che, però, non paiono risolti neppure dalle élites o dalle denunce di qualche voce fuori dal coro delle loro politiche). E allora? Ogni analisi altrui – nel caso il citato Bauman – è superficiale. Chi parla o s’occupa di integrazione non vede che stanno deindustrializzando? Nulla pare davvero possibile se non il pianto sulle nostre umane sciagure. Ma allora noi, che non abbiamo – come le élites – l’arma nucleare e non possiamo far pesare nel conflitto i servizi segreti, i nostri strateghi e non possediamo danaro per corrompere, etc. che facciamo?

    1. Be’, intanto potreste riflettere se vi va bene l’idea di una progressiva equiparazione delle condizioni di vita e dei redditi tra italiani e migranti, in una prospettiva d’una ventina-trentina d’anni. Al rialzo (tutti come gli italiani di oggi) sarebbero d’accordo quasi tutti, ma il programma e la tendenza già in corso non è quello, ve lo dicono anche apertamente, cos’altro serve? La macchina del tempo?
      Vedete voi.

  17. …sì, servirebbe la macchina del tempo, ma per tornare indietro e capire dove NOI abbiamo incominciato a sbagliare…il segnale di una mela che è marcia dall’interno – e non sono le screpolature su una buccia non ben levigata a fare la differenza- è quello dei nostri giovani disoccupati e che ora “per gioco” arrivano a togliersi la vita, come balene spiaggiate…Come abbiamo potuto permettere questo? Non è certo l’arrivo dei migranti ad aver determinato la deriva distruttiva e autodistruttiva della nostra società….Due povertà su due facce dello stesso specchio e all’una fa ribrezzo l’altra…

  18. MIGRAZIONI. APPUNTI 2

    @ Roberto [Buffagni] Sulle sue domande “rozze” ma “razionali”.

    1.
    «Quanti ce ne stanno? ».
    Sarebbe più razionale la domanda (complementare): noi uomini “civili” quanti «dannati della terra» (poveri o emarginati) accettiamo che rimangano a fare una vita breve e infernale per permettere a un esiguo numero di ricchi o benestanti di accaparrarsi e sperperare le risorse della Terra, standosene nei loro paradisi artificiali?

    2.
    (Nessuno di noi, qui su Poliscritture, considera l’immigrazione un fatto naturale inarrestabile «come i monsoni», ma un effetto storico non imprevedibile della selvaggia globalizzazione capitalistica seguita alla fine della Guerra fredda).

    3.
    «C’è disoccupazione, che gli facciamo fare a questi che vengono qui?».

    Problema vero. E anzi decisivo, se non liquidiamo del tutto Marx e il marxismo. Le trasformazione del lavoro e la diminuzione del lavoro salariato nei paesi industrializzati o post-industriali in seguito all’informatizzazione e all’automazione sono un fenomeno epocale. Non andrebbe separato da quello delle migrazioni. Bisognerebbe chiarirsi, dunque, le idee sul vasto e contraddittorio dibattito sul cosiddetto «lavoro immateriale» o « intellettuale (il lavoro del cyborg, le reti della cooperazione, l’informatizzazione dei processi lavorativi, l’integrazione del lavoro affettivo nella produzione, ecc.) e rispondere a domande del tipo: nella società attuale (“postmoderna”) la lotta tra capitale e lavoro si è esaurita o è stata solo occultata ? Il capitale, vittorioso su un secolo di lotte operaie, resta o no, com’è scritto nel «Manifesto del Partito Comunista» di Marx ed Engels, lo «stregone che non può dominare le potenze sotterranee da lui evocate» o non più? Ogni prospettiva comunista è assolutamente irrealistica, delirante, illusoria?
    Beati quelli che hanno dato risposte argomentate. Qui, su Poliscritture, questi temi proposti nel progetto inziale della rivista dal 2005 affiorano alla spicciolata in articoli e commenti. Purtroppo scompaiono anche senza che si arrivi a posizioni chiare e condivise dai redattori e dai collaboratori.
    A me pare comunque che i migranti – questo indecifrato esercito lavorativo di riserva – arrivino da “noi” in una situazione che, proprio perché di crisi, è *in movimento* e non statica. Certo, si aggiungono ai disoccupati dell’Ialia o dell’Europa e finiscono per lo più nei circuiti del lavoro nero o precario o a volte schiavistico. E, dunque, « accettano salari di fame perché ormai sono qui e non possono fare altro». Ma – da non trascurare – è vero che *sono costretti a entrare in concorrenza* con una parte dei lavoratori autoctoni, soprattutto per la pesante sconfitta o resa dei sindacati alle politiche liberiste. Va tenuto anche presente che i salari dei “nostri” lavoratori erano stati già abbattuti e non tanto dalla concorrenza degli immigrati, ma, ad esempio, dalle scelte del governo Amato e dei sindacati ai tempi del cosiddetto «autunno nero» del 1992: «L’intesa con le parti sociali che spediva in soffitta la vecchia scala mobile venne raggiunta la sera del 31 luglio. Determinante fu il voto favorevole di Bruno Trentin, che subito dopo partì per le vacanze con la lettera di dimissioni in tasca» (http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Editrice/IlSole24Ore/2010/04/30/Economia%20e%20Lavoro/5_A.shtml).
    Per non parlare poi dei danni di Renzi e del suo jobs act. Riflettere su queste cose eviterebbe di associarsi entusiasti o dubbiosi alla odierna e tanto popolare *caccia agli untori/immigrati*.
    Ci sarebbe poi da fare il punto anche sulla ormai annosa discussione sul reddito di cittadinanza. O su altre ipotesi più “avventurose” come quella del “rifiuto del lavoro”. O su tanto altri fenomeni sconvolgenti per che era abituato al *diritto del lavoro*, come ad esempio il *lavoro gratuito* di cui ha parlato Sergio Bologna in un recente articolo(«Dal lavoro gratuito alle nuove forme di organizzazione e mutualismo» https://sinistrainrete.info/lavoro-e-sindacato/9687-sergio-bologna-gratificazione-o-sfruttamento.html).

    4.
    «Non c’è proprio nessun rapporto tra la presenza di immigrati mussulmani e gli attentati? Difficile rispondere di botto “no».

    Ma come si fa a rispondere di botto sì? Presentare come del tutto provate le presunte correlazioni tra islamismo e terrorismo o tra condizioni di emarginazione e radicalizzazione terroristica “islamica” (come fanno i più rozzi propagandisti alla «Libero», per fare un esempio ) è per me una forzatura della realtà, una sua sottomissione ai propri, rigidi, schemi ideologici. È grave riecheggiare tali manipolazioni rinunciando al pensiero critico e cedendo alla caccia agli untori-immigrati. (Vedi ora l’ articolo di Partesana appena pubblicato: https://www.poliscritture.it/2017/05/29/politica-del-nemico/). E quando Roberto aggiunge: «Sì, è vero che non tutti i mussulmani sono terroristi, ma i terroristi sono mussulmani», a me l’affermazione pare lo stesso una forzatura in senso propagandistico antislamico. Questi terroristi si dicono musulmani, ma appartengono a una frazione estrema, fondamentalista, dell’islamismo. Alla fine risulteranno le “mele marce”, gli “eretici”, di una grande religione in ebollizione? O le “ avanguardie” dell’«unica visione di una società alternativa che si oppone alle democrazia capitaliste ( Mauro Piras, su LPLC: http://www.leparoleelecose.it/?p=27755#comment-360111) » e potrebbero creare un movimento tale da abbatterle o , come dice Roberto, portare ad uno «scontro di civiltà/invasione fino al grand remplacement»?
    Nessuno però è in grado di dirlo. Questa, sì, pare una questione importante e decisiva su cui sforzarsi di pensare. Ma lo farei senza riecheggiare la propaganda antislamista e senza dare per scontato che si arrivi alla seconda soluzione. E soprattutto senza dare per scontato che l’immigrazione dai paesi arabi sia inevitabilmente l’acqua in cui nuotano o nuoteranno i pesci-terroristi del fondamentalismo islamico. «Visto che funziona?». No, non funziona affatto, perché non è detto che le due ipotesi si verificheranno nella forme in cui alcuni le stanno pensando. Può ancora intervenire la politica. Perciò mi pare più saggia e razionale la posizione di Annamaria [Locatelli]: «Sì, è probabile che si verificherà una metamorfosi demografica, ma andrebbe gestita e non rifiutata».

    5.
    «A chi conviene l’immigrazione? non converrà per caso a quelli che la sostengono, o perlomeno ai loro capi?».

    Valgono qui alcune delle obiezioni che ho mosso a Rita [Simonitto] a proposito della riduzione a “plebe” degli attori sociali di cui stiamo parlando. A meno che non si vogliano semplificare le cose ricorrendo ad un complottismo ideologico (che dai complotti reali parte per tangenti deliranti) e saltare l’analisi della dinamica conflittuale generale, privilegiando solo quella tra le élites. Che le «dirigenze mondialiste» abbiano « un progetto strategico molto chiaro: il reset, in vista della istituzione di un governo mondiale» o che pensino di realizzarlo attraverso «la “demolizione controllata”» e puntino sia sulla «guerra civile su base etnico/religiosa in Europa» sia sull’ «accoglienza tous azimuts degli immigrati in numero indefinito», vorrei ricordare che entrambe le cose non trovano conferma nell’attuale andamento reale: non siamo alla «guerra civile su base etnico/religiosa in Europa» né ad un’accoglienza illimitata. Non è detto che riusciranno certamente a realizzarlo questo loro progetto. Anche se ne parla e ne è convinto l’influente Attali. La tendenza da parte di Roberto (come per la teoria di Karpman) a dare quasi per automatico che una cosa pensata o voluta dalle élites si realizzi a me pare puro idealismo. (Ma se neppure il comunismo “pensato scientificamente” da Marx s’è realizzato!).
    Questa sua visione “caricata” dello svolgimento reale sostituisce secondo me il ragionamento mirato a trovare altre soluzioni possibili. Scrive: «Con una intelligente gestione dei media, i mondialisti piazzano gli immigrati nella posizione della “vittima”, e di conseguenza chi si oppone all’invasione si dispone nella posizione del “persecutore”, chi vuole salvare la vittima si dispone nella posizione del “salvatore”». Ma non è affatto detto che avvenga così nella *realtà*. Questo mi pare fumo ideologico che oscura la questione reale. Che a volte s’intravvede e viene posta: «l’oggetto del contendere sarebbe, in teoria, che politiche adottare nei confronti dell’immigrazione». Ma subito dopo l’ideologia torna a prevalere:« L’immigrazione di massa, islamica o no, è anzitutto pericolosa perchè altamente polemogena». Ribatterei: fosse pure «polemogena», non potrebbe portare il rapporto tra “noi” e “loro” a livelli diversi e più positivi? Perché escluderlo? Perché cogliere solo il “pericolo”?

    6.
    «Assimilare culturalmente masse importanti di stranieri, specie se provenienti da culture davvero differenti » è semplicemente impossibile? «Si possono assimilare solo piccoli numeri».

    Non credo che la soluzione buona sia l’*assimilazione*. Che è come dire autoritariamente: “ Tu di adegui alle mie leggi, alla mia lingua, alla mia cultura e stop”. Perché escludere ogni confronto/scontro tra le culture? Perché il *conflitto*, che per me porta in sé anche il confronto e non è mai un irriducibile *scontro di civiltà* nemiche in assoluto , deve essere dato per pericoloso o impossibile?
    E chi dice che la soluzione debba essere imperiale e secondo i modelli del passato («Impero romano, austriaco, zarista, britannico, etc.»)?
    O che questi processi di massa e di dimensioni globali debbano per forza svolgersi nella cornice dello «Stato fondato sulla democrazia rappresentativa a suffragio universale»? Perché lo Stato sarebbe «anzitutto una macchina da guerra, per gli interessi della sua etnia o della sua alleanza di etnie (v. di nuovo il Sudafrica dopo Mandela, dove i bianchi vengono massacrati impunemente in grandi numeri e stanno scappando a gambe levate»? ( Sarebbero tutte questioni da approfondire in ambiti seminariali, ahimè forse a noi impossibili…)

    7.
    ( A proposito, ignoro le notizie su questa fuga e su questi massacri in Sudafrica. Ho trovato solo quest’articolo, di tono per non allarmistico, che risale al 2002: La grande fuga dei bianchi http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2002/07/29/la-grande-fuga-dei-bianchi.html). Chiederei di fornire le fonti necessarie per valutare l’affermazione).

    8.
    Avevo scritto: «* Il contrasto *uomini o no* (Vittorini 1944) mi pare elementare ma preliminare ai ragionamenti da fare sulle migrazioni. Con tutti i dubbi che questa manifestazione di Milano del 20 maggio 2017 sia stata una rivincita e su quanto in questi decenni siamo “restati” umani. [E. A.] 20 maggio, la rivincita dell’umano
    di Marco Revelli (https://ilmanifesto.it/20-maggio-la-rivincita-dellumano/) (Ennio Abate 22 maggio 2017 alle 14:16 )

    Roberto ironizza sull’articolo di Marco Revelli ma la sua obiezione è fuori luogo. La «filantropia telescopica» del personaggio di Dickens (Mrs. Jellyby nel libro Casa desolata) che non riusciva a vedere nulla di più vicino dell’Africa, amava l’Africa in generale e non si curava dei propri figli, non c’entra con le cose dette da Revelli nel suo articolo né con quello che fanno nelle varie città italiane in aiuto ai migranti i centri della Caritas né – ci tengo a dirlo – con quello che in questi mesi abbiamo fatto a Cologno Monzese contro la chiusura da parte di una giunta comunale leghista della Scuola d’italiano per stranieri e il Centro interculturale donne.

    1. Caro Ennio,
      per il Sudafrica basta guardare wikipedia (!) dove persino Human Rights Watch nota “mancanza di risposte da parte del governo”. https://en.wikipedia.org/wiki/South_African_farm_attacks
      Il succo della questione è che il partito di sinistra EFF vuole confiscare le terre ai bianchi (che, sia detto per inciso, in Sudafrica sono arrivati prima dei neri) e darle ai neri, immagino anzitutto ai SUOI neri, e per facilitare il provvedimento incoraggia i bianchi ad andarsene massacrandone un bel po’. Il governo chiude un occhio perchè al governo ci sono i neri (degli altri neri, ma sempre neri), e non i bianchi.
      Gli sta bene ai sudafricani bianchi perchè sono stati cattivi? Non lo so, vedi tu. Tieni però presente che il dott. Malema non mi pare appassionato delle sfumature, gliene frega assai se il sudafricano bianco era a favore o contrario all’apartheid, se magari ha lottato con Mandela, etc. A lui pare interessi solo a) che è bianco b) che ha della terra e/o dei beni c) che quella terra e quei beni li vuole lui. Comunque è fieramente anticapitalista, Malema, dice che il capitalismo “è il diavolo”.

      Non rispondo a tutte le tue domande perchè ci facciamo sera, specie se mi chiedi cose come “perché lo Stato sarebbe ‘anzitutto una macchina da guerra’ ” : la risposta, come ben sai anche tu, è: perchè lo è sempre stato, lo Stato nasce per la sicurezza della comunità politica che lo esprime, per la difesa e per l’offesa; oppure “[l’immigrazione] fosse pure «polemogena», non potrebbe portare il rapporto tra “noi” e “loro” a livelli diversi e più positivi? Perché escluderlo? Perché cogliere solo il “pericolo”? ” Qui la risposta è, “passato di moda l’istinto di conservazione? Prima vivere, e soprattutto non farsi ammazzare come pecore, poi filosofare sul rapporto tra noi e loro, senza virgolette perchè un noi e loro esiste nella realtà, per esempio nella realtà di come si considerano loro; che sono certo uomini come noi, ma appunto perchè sono uomini come noi sono differenziati da noi da razza, cultura, costumi, affetti e interessi diversi dai nostri: il concetto “umanità” comprende le differenze tra gli uomini, o no?”.

      Io poi non do per automatico niente, certo che non basta progettare qualcosa per realizzarlo. Però è il primo passo, specie se chi progetta ha i mezzi per realizzare. Il risultato finale sarà certo imprevedibile perchè niente è scritto, ma se io sono al governo di una nazione seriamente armata e ti dico “voglio occupare la tua provincia di X” tu mi prendi sul serio o fai spallucce perchè tanto neanche il comunismo pensato scientificamente da Marx si è realizzato? Ma dai, Ennio, per favore…

  19. @ Roberto [Buffagni]

    Sulla situazione in Sudafrica, sulla quale, come ho ammesso, ero disinformato, al momento non mi pronuncio. Mi documenterò e proporrò il tema per un possibile “cantiere” di Poliscritture.

    Non sono contrariato dalle tue mancate repliche alle mie abbastanza puntuali considerazioni su tue precedenti affermazioni. Ammetto di fare e farmi molte (troppe forse) domande. Che però non richiedono necessariamente una risposta da parte tua e semmai richiamano – spero – la complessità delle questioni da affrontare ( e il mio sforzo di non sfuggirle). Ovviamente non concordo coi tuoi richiami all’«istinto di conservazione», sul ‘noi’ che già esisterebbe «nella realtà» senza se e senza ma; e sulle «differenze tra gli uomini», sicuramente esistenti ma leggibili – ed è discrimanate la scelta – in modi storici o astorici.
    Sì, è vero, bisognerebbe far sera per approfondire certi problemi e di tempo ( ma anche di voglia forse) a disposizione pare che tutti ne abbiamo poco. Ci arrangeremo!

  20. SEGNALAZIONE
    (Un ripasso su alcuni termini e il loro uso quotidiano)

    INTEGRAZIONE (INCLUSIONE/ESCLUSIONE, INTERAZIONE, ASSIMILAZIONE, MULTICULTURALISMO)
    http://www.parlarecivile.it/argomenti/immigrazione/integrazione.aspx

    Definizione
    Deriva dal latino integratio –onis. Il primo significato riportato dalla Treccani è: “ In senso generico, il fatto di integrare, di rendere intero, pieno, perfetto ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo, aggiungendo quanto è necessario o supplendo al difetto con mezzi opportuni”. Un’altra accezione è questa: “Con valore reciproco, l’integrarsi a vicenda, unione, fusione di più elementi o soggetti che si completano l’un l’altro, spesso attraverso il coordinamento dei loro mezzi, delle loro risorse, delle loro capacità”. Si parla, ad esempio, di integrazione tra Stati. Fra i tanti significati, in ambito sociale, è “l’Inserzione, incorporazione, assimilazione di un individuo, di una categoria, di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità etnica, in una società costituita (contrapposto a segregazione)”. Ad esempio: favorire o contrastare l’integrazione dei lavoratori stranieri. L’enciclopedia spiega così il termine Integrazione sociale: “Processo attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di un sistema sociale, aderendo ai valori che ne definiscono l’ordine normativo […]attraverso la trasmissione dei modelli culturali e di comportamento dominanti, cui provvedono la famiglia, la scuola e i gruppi primari”.

    Uso del termine
    “Dietro la parola integrazione c’è il concetto: questa è la nostra realtà e se vuoi ti integri. Invece noi cambiamo con gli immigrati. È più corretto parlare di interazione- dice la sociologa dell’università La Sapienza Maria Immacolata Macioti – Anche etnia è un termine che deriva dal passato coloniale, molto discusso oggi dagli studiosi. Queste parole hanno un passato di esclusione sociale”[1]. Il dibattito sull’uso di questa parola è difficile e ancora in corso. L’idea di ‘integrazione’ rimanderebbe soprattutto all’individuo che deve modificare i propri comportamenti e le proprie credenze per aderire al sistema della cultura dominante, quindi avrebbe un significato più vicino ad ‘assimilazione’ e mancherebbe l’idea dello scambio reciproco. Mentre una parola come ‘inclusione’, intesa con l’accezione anglosassone di ‘inclusion’ e di ‘inclusive’ contiene in sé il concetto di un rapporto più equo fra la persona e l’ambiente, di reciproca influenza. Non si tratta quindi di parole che sono sinonimi, perché veicolano significati differenti. In Italia, però, si parla molto di integrazione. Il presidente del Consiglio Mario Monti nel 2011 ha chiamato il fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi a fare il ministro della Cooperazione internazionale e dell’Integrazione, un nuovo ministero senza portafoglio. Esiste un Fondo europeo per l’Integrazione ( e anche uno per l’inclusione). Nelle politiche migratorie europee si insiste su questo aspetto. A livello comunitario l’integrazione è intesa come un processo. Secondo i Princìpi Fondamentali Comuni per la Politica di integrazione degli immigrati nell’UE (Documento del Consiglio dell’UE 14615/04) essa è “un processo dinamico e bilaterale di adeguamento reciproco da parte di tutti gli immigrati e di tutti i residenti degli Stati membri” che, da una parte, “implica il rispetto dei valori fondamentali dell’UE” e, dall’altra, la “salvaguardia della pratica di culture e religioni diverse” in cui è cruciale “l’accesso degli immigrati alle istituzioni nonché a beni e servizi pubblici e privati, su un piede di parità con i cittadini nazionali e in modo non discriminatorio”, e “l’interazione frequente di immigrati e cittadini degli Stati membri è un meccanismo fondamentale”. Nella più recente Agenda europea per l’integrazione dei cittadini dei paesi terzi (COM (2011) 455) si conferma che l’integrazione “è un processo evolutivo, che […] comincia dalla base […] secondo un autentico approccio dal basso, a contatto con la realtà locale”, “tramite la partecipazione”. A livello nazionale, già il Testo unico sull’immigrazione (art. 4 bis) definiva l’integrazione come “quel processo finalizzato a promuovere la convivenza dei cittadini italiani e di quelli stranieri, nel rispetto dei valori sanciti dalla Costituzione Italiana, con il reciproco impegno a partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società”.[2]
    In pratica l’integrazione si misura su una serie di fattori che sono la casa, il lavoro, la famiglia, la scuola e il welfare, la cittadinanza. L’integrazione così com’è declinata attualmente, al di là di quello che si dichiara a livello ufficiale, sembra comunque sottointendere un concetto di cittadinanza (vedi) come assimilazione, in cui i migranti devono adottare la cultura nazionale della società in cui migrano per essere accettati. Al contrario del multiculturalismo che invece consente l’appartenenza al nuovo Stato mantenendo le proprie culture. Secondo gli esperti internazionali Castles e Miller, “le politiche che negano la realtà dell’immigrazione portano all’emarginazione sociale, alla formazione di minoranze e al razzismo”. Continuano affermando che il modo migliore per prevenire i conflitti sociali è “garantire agli immigrati permanenti pieni diritti in tutti gli ambiti sociali: si tratta di rendere la cittadinanza facilmente disponibile, persino se questo può portare alla doppia cittadinanza”. E, sempre secondo gli studiosi, “al fine di far fronte alla difficile esperienza dell’insediamento in una nuova società, gli immigrati e i loro discendenti hanno bisogno delle proprie associazioni e reti sociali, così come della propria lingua e cultura”. Castles e Miller sottolineano che all’inizio degli anni Novanta l’assimilazionismo era sulla via del tramonto e le società civili democratiche si avviavano al multiculturalismo. Ma poi c’è stato un allontanamento da questo approccio a causa di due elementi: la paura del terrorismo dopo l’11 settembre e gli attacchi a Madrid e Londra; il fatto di “addossare la responsabilità alle minoranze etniche perché si riuniscono tra loro e rifiutano di integrarsi”. Così, scrivono i due autori, “Svezia, Olanda e Regno Unito hanno ribattezzato le loro politiche ponendo maggiore enfasi a integrazione, coesione sociale e fondamentali valori nazionali”. Alla fine, quello che è emerso come approccio dominante per affrontare la questione della disuguaglianza dei migranti in tutta Europa è il modello dell’integrazione individuale che si ottiene con contratti di integrazione e test di cittadinanza obbligatori. Ma, avvertono Castles e Miller, “l’assimilazione può perpetuare l’emarginazione e il conflitto” e “questa situazione in realtà riflette la ritrosia delle società ospitanti” nell’affrontare la questione “rappresentata dalle culture radicate di razzismo, eredità del colonialismo e dell’imperialismo. In un momento di tensione come la ristrutturazione economica o i conflitti interni, il razzismo può portare all’esclusione sociale, alla discriminazione e alla violenza contro le minoranze”.[3]

    Frasi fatte

    Mito: gli immigrati non vogliono integrarsi
    Realtà: Lo stereotipo di addossare la colpa agli stranieri per la mancata integrazione è stato smentito da numerosi studi e ricerche. L’integrazione è formalmente dichiarata nel nostro ordinamento, ma nella pratica si tratta di “un percorso a ostacoli” come riporta un working paper del C.I.R.S.D.I.G (Centro Interuniversitario per le ricerche sulla Sociologia del Diritto e delle Istituzioni Giuridiche)[4]. In realtà non sono i migranti a non volersi integrare, bensì, scrivono i ricercatori, “la condizione sfavorevole è ineliminabile perché aprioristicamente sancita per legge”. Le politiche per l’integrazione non raggiungono gli obiettivi perché esiste un gap, uno svantaggio che parte dalla diversa condizione giuridica dei migranti rispetto ai cittadini. Questo accade perché la legge sull’immigrazione stabilisce che la condizione di “regolare” e il suo mantenimento nel tempo costituisce la condizione sine qua non per accedere ai diritti di cittadinanza formalmente riconosciuti dall’ordinamento. “In tale modo- scrivono i ricercatori – il legislatore demarca la linea di confine, ossia le differenze, tra la condizione del cittadino così detto autoctono, nostrano, dal valore assoluto, e quella del migrante, cittadino di serie B, ossia dal valore condizionato dal possesso di determinati requisiti”. Lo svantaggio e la difficoltà di integrazione vengono sanciti per legge, stabiliti dallo Stato stesso, non dai migranti. Esistono in questo diversi livelli di esclusione/inclusione. L’esclusione totale: quando un diritto non viene riconosciuto dall’ordinamento giuridico e viene richiesta la cittadinanza italiana quale requisito necessario per il suo esercizio (es: diritto di voto) o per accedere ad un determinato beneficio di legge. L’esclusione sostanziale: quando il diritto viene riconosciuto dall’ordinamento, ma non viene applicato da chi è istituzionalmente (enti locali) preposto alla sua erogazione. Si tratta del cosiddetto “razzismo istituzionale (vedi alla voce ‘razza/razzismo’), attraverso l’adozione di regolamenti, procedure, criteri, che escludono i cittadini migranti da un beneficio o servizio particolare (ad esempio, il bonus bebè riservato alle famiglie italiane). Questa forma di discriminazione ha molti casi registrati in Italia negli ultimi anni. L’inclusione parziale: quando il diritto viene riconosciuto a livello giuridico ma in modo selettivo e non universale, ossia a condizione della sussistenza di determinati requisiti (es. la carta di soggiorno o il permesso di soggiorno valido per due anni): questo crea, all’interno della stessa popolazione migrante, una differenziazione di trattamento tra chi è in possesso di questi requisiti e chi, invece, ne è sprovvisto. L’inclusione totale: quando il diritto viene riconosciuto dall’ordinamento e ne viene garantita la fruibilità attraversopolitiche attive volte a favorirne l’esercizio e l’accesso.[5]

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    [1] È l’opinione espressa dalla nota sociologa al convegno su Immigrazione e Cittadinanza a organizzato a Palazzo San Macuto dalla Fondazione Roma Mediterraneo e dall’Aic, associazione investire in cultura, il 29 aprile 2009, riportata da Redattore Sociale.
    [2] Scheda del centro ricerche Idos su http://www.integrazionemigranti.gov.it link: http://www.integrazionemigranti.gov.it/ricerche/Documents/Idos/B%20MdL%20Integrazione%20PDF/B%20-%200%20Idos%20Integrazione%20x%20Portale%20MdL.pdf
    [3]Citazioni da Castles S., Miller M. J., L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo, Odoya Bologna 2012, pagg. 306-308
    [4] http://www.cirsdig.it/Pubblicazioni/ferrarirosso.pdf pagg.14 e seguenti
    [5] Ibidem
    Dati
    Le imprese straniere (comprensive di imprese individuali con titolari nati all’estero e di società di persone o di capitali in cui ad essere nata all’estero è oltre la metà dei soci o degli amministratori) sono 477.519, il 7,8 per cento del totale nazionale, con un aumento annuale del 5,4 per cento, nonostante il maggior costo degli interessi sui prestiti da loro fronteggiato. Si tratta di imprese che producono un valore aggiunto stimato in 7 miliardi di euro, che meriterebbero un maggiore supporto, tanto più che gli aspiranti imprenditori immigrati sono disponibili all’impegno in campi innovativi e predisposti ad attività di import/export che possono essere di beneficio tanto all’Italia quanto ai paesi di origine. E’ quanto rilevato dal Dossier Statistico Immigrazione 2013 realizzato da Idos per Unar.
    Il dossier si sofferma anche sui costi e i benefici dell’immigrazione per le casse statali. Il rapporto tra la spesa pubblica per l’immigrazione, da una parte, e i contributi previdenziali e le tasse pagate dagli immigrati, dall’altra, mostra che, anche nell’ipotesi meno favorevole di calcolo (quella della spesa pro-capite), nel 2011 gli introiti dello Stato riconducibili agli immigrati sono stati pari a 13,3 miliardi di euro, mentre le uscite sostenute per loro sono state di 11,9 miliardi, con una differenza in positivo per il sistema paese di 1,4 miliardi. “L’obiezione ricorrente secondo cui l’integrazione degli immigrati costa troppo all’Italia, quindi, non trova riscontro nell’analisi delle singole voci di spesa e nel quadro che ne deriva -sottolineano i ricercatori -. È vero, invece, che l’Italia sostiene spese di rilevante portata, più che per le politiche di integrazione, per interventi di contrasto all’irregolarità o di gestione dei flussi, in un’ottica emergenziale”.

    Fondazione Ismu – (scheda tematica) Le dimensioni dell´integrazione in Italia: gli atteggiamenti degli italiani [1]
    Nel 2011 il tema dell’immigrazione è tornato prepotentemente in primo piano anche sulla scena politica internazionale, soprattutto a causa delle rivoluzioni della primavera araba e il conseguente flusso migratorio dai paesi nordafricani verso Lampedusa. Secondo i dati dell’Osservatorio di Pavia, nel primo quadrimestre del 2011, ad esempio, l’immigrazione nei telegiornali italiani ha ricevuto un’attenzione pari al 6%, contro una media europea del 2% [2]. Nei telegiornali europei, la questione migratoria non è tematizzata in modo ansiogeno – con una media europea pari al 3,2% di tutte le notizie inerenti gli immigrati – in Italia essa ha occupato l’agenda giornalistica con notizie “allarmistiche” nel 14% dei casi.
    Sul versante internazionale, l’indagine TTI[3], ha evidenziato come gli italiani si dimostrino tra i più scettici nei confronti dell’immigrazione. Se nel 2008 più del 50% degli italiani affermava di ritenere eccessivo il numero di immigrati nel paese e l’80% si diceva preoccupato dall’immigrazione clandestina, nel 2010 la percezione degli immigrati è ulteriormente peggiorata: nel 2009 solo il 34% degli italiani riteneva che gli immigrati regolari contribuissero all’aumento della criminalità, mentre nel 2010 tale opinione viene espressa dalla netta maggioranza (56%), percentuale sostanzialmente analoga a quella relativa agli italiani convinti che gli immigrati irregolari contribuiscano ad aumentare la criminalità (57%)
    Rispetto agli adulti, la diffidenza dei giovani nei confronti degli immigrati sembra –paradossalmente – essere maggiore, come si rileva da una ricerca realizzata da GfkEurisk.
    Per circa i due terzi dei giovani intervistati – il 76% –, infatti, la presenza di stranieri immigrati nel nostro paese è ritenuta essere “numerosa” o “molto numerosa”, ma solo il 22% degli intervistati vede in maniera positiva questo fenomeno. Sono numeri più negativi di quelli riferiti agli adulti, per la maggior parte dei quali – il 71% – la presenza di stranieri nel nostro paese è “numerosa” o “molto numerosa”, ma il 35% ne ha un’opinione positiva. Non sono però tanto le differenze culturali e religiose a spaventare i giovani, ma l’aumento dell’incertezza quotidiana, dovuto primariamente alla criminalità e alla precarietà del proprio futuro, soprattutto lavorativo. Quello che sembra emergere dalle indagini condotte negli ultimi anni è come sia il senso di insicurezza percepita a influire in modo negativo sulla percezione del fenomeno migratorio: l’insicurezza per la propria incolumità – rafforzata dalla percezione di un nesso tra immigrazione e criminalità –, l’insicurezza generata dalla crisi economica e occupazionale, che vede gli immigrati quali pericolosi competitor nell’accesso ai posti di lavoro, e l’insicurezza alimentata dal declino del sistema di welfare[4].

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    [1] LE DIMENSIONI DELL’INTEGRAZIONE IN ITALIA GLI ATTEGGIAMENTI DEGLI ITALIANI di Giovanni Giulio Valtolina, dal sito http://www.integrazionemigranti.gov.it
    [2]Osservatorio di Pavia, ”Notiziabilità” della sicurezza nei telegiornali in Italia e in Europa, in Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, La sicurezza in Italia e in Europa. Significati, immagine e realtà. Indagine sulla rappresentazione sociale e mediatica della sicurezza in Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna”. Report 1/2011, Luglio 2011.

    [3] Transatlatic Trends, Transatlantic Trends: Immigration. Principali risultati 2010. (Scaricabile dal sito: http://trends.gmfus.org/immigration/doc/TTI2010.pdf).91 Tra le indagini condotte in Italia è da segnalare la ricerca realizzata dall’Eurispes

    [4] Eurispes, 23° Rapporto Italia 2011, Roma, Eurolink, 2011 e Gfk-Eurisko, Gli atteggiamenti verso l’integrazione sociale degli stranieri, rapporto di ricerca.

    Alternative consigliate

    In questo caso consigliamo, laddove possibile, di usare il termine inclusione al posto di integrazione. Ricordando che non sono sinonimi, il motivo per cui ne suggeriamo un uso più frequente è proprio per il diverso significato delle due parole, come spiegato nella scheda sull’uso del termine. Inclusione è appunto un concetto che abbraccia inclusivamente lo scambio fra le culture ed è meno ‘etnocentrico’ di integrazione, che invece guarda la questione delle disuguaglianze dei migranti da una prospettiva prettamente occidentale.
    Esempi / Casi tratti da testate giornalistiche
    Qui di seguito, un brutto esempio di editoriale di una testata nazionale che lega in modo del tutto fuorviante il tema della cittadinanza agli stranieri con quello del terrorismo e con l’Islam. Si prendono a pretesto dei casi di cronaca internazionali per suscitare nell’opinione pubblica l’equazione (del tutto falsa): immigrato (soprattutto se musulmano) = terrorista. In questo articolo è evidente come il termine integrazione con il significato di ‘assimilazione’ è stato usato ampiamente in una cornice allarmistica e collegata al tema della sicurezza, rafforzando lo stereotipo secondo cui sono gli stranieri che ‘non vogliono’ integrarsi.

    Fermiamo gli immigrati islamici
    Riesplode il terrorismo servono misure di emergenza

    Al Qaida rivendica il sequestro dei due italiani in Mauritania e l’attentato all’aereo Usa. Negli aeroporti è allarme rosso. Ma in Italia, invece di selezionare l’ingresso degli stranieri, si presenta una legge per dare la cittadinanza facile a tutti.
    (quotidiano nazionale, martedì 29 dicembre 2009)
    Imprudenti e intempestivi, alcuni campioni della fuga in avanti hanno presentato in Parlamento una legge per accorciare i tempi di concessione della cittadinanza italiana agli stranieri. La discussione, per effetto di un rinvio provvidenziale, si svolgerà a marzo. Tre mesi non sono lunghi ma sufficienti per un ravvedimento. Altrimenti ci troveremo in una situazione paradossale. Da una parte l’Italia che apre a chiun-que sia in regola con le scadenze burocratiche; dall’altra gli Stati Uniti e molti altri Paesi responsabili che applicano misure restrittive onde evítare 1’intrufolarsi di pericolosi terrori sti nel tessuto sociale, pronti a colpire a tradimento l’Occidente ospitale e scriteriato.
    C’è poco da scherzare su questa materia propriamente definita esplosiva. Nel momento in cui prevale il buonismo di quanti, a destra e a sinistra, intendono favorire I’integrazione degli stranieri (regalando loro la cittadinanza) può succedere di tutto, come insegna l’esperienza. L’integrazione non è questione di anzianità, ma di adesione ai costumi, alla civiltà, allo spirito della nazione cui si chiede di appartenere. Se un immigrato, pur lavorando, pur avendo una fissa dimora e una fedina penale intonsa, non accetta appieno la cultura del Paese in cui vive non è degno di esserne cittadino. La padronanza della lingua, la conoscenza della storia, insomma una istruzione di base non sono optional, ma requisiti obbligatori per chi aspiri ad essere italiano a ogni effetto. Siamo sicuri che tutti i musulmani li posseggano? A giudicare dal comportamento di molti di essi non si direbbe. […]
    Integrarsi Vs Delinquere è un tema clou anche in televisione.

    Adattarsi è complicato!

    Trasmissione televisiva nazionale, ottobre 2011

    Un giudice deve emettere una sentenza su questo caso: Il direttore di una stazione di servizio costringe Daro, una mamma straniera, a cambiare il suo bambino fuori dal locale. Lei chiede un risarcimento perché si sente discriminata. Il giudice le dà torto applicando le leggi vigenti. La trasmissione ha suscitato le proteste degli ascoltatori e la segnalazione del caso all’Ufficio nazionale antidiscriminazioni non per la sentenza sul caso ma perché dopo avere letto la decisione davanti alle telecamere, il giudice ha dichiarato le seguenti frasi dirette alla mamma africana: “Daro mi stia sentire: per cultura e tradizione il popolo italiano non è razzista. Chiunque viene in Italia e si vuole integrare, viene accolto a braccia aperte, Chiunque viene in Italia e pretende di delinquere, è bene che torni a casa sua”. Questa frase è stata ritenuta offensiva da chi ha fatto la segnalazione per le seguenti ragioni: a) il giudice non doveva esprimere opinione personale politica dopo la sentenza per influenzare il pubblico; b) il commento del giudice non era inerente al caso (il caso parlava di altro); c) chi sbaglia deve essere punito dalla legge italiana. “Tornare a casa sua” è vissuto come discriminatorio. Molte persone si sono sentite offese. Se uno lavora regolarmente e puo’ sbagliare non deve tornare al paese di origine ma pagare con le leggi del paese di accoglienza. Il rimpatrio coatto è previsto solo per gli irregolari. (vedi)
    Infine, un ultimo caso, in cui ancora una volta l’uso della parola ‘integrazione’ ha un forte connotato negativo. Una lite familiare viene trasformata in uno scontro fra religioni.
    IL CASO / L’INTEGRAZIONE DIFFICILE Musulmana litiga col cognato e spezza il crocifisso di casa
    Fra i due da tempo non corre buon sangue per questioni religiose. Già due mesi fa avevano avuto una violenta discussione, quando lui aveva fatto benedire la casa. La situazione è tornata a degenerare, ed è intervenuta la Polizia
    (quotidiano locale, 8 agosto 2009)
    Modena, 8 agosto 2009. Un diverbio legato alla religione è sfociato in una violenta lite fra una donna musulmana e il cognato modenese. La donna ha spezzato il crocifisso del cognato, e la lite è divenuta così accesa che è dovuta intervenire la Polizia.
    E’ accaduto ieri mattina in un’abitazione di Cittanova di Modena: pare che da tempo non corra buon sangue fra la donna (32enne originaria del Marocco) e l’uomo, che abitano in appartamenti vicini. E la religione sarebbe un motivo di forte contrasto: a giugno la donna si era infuriata, quando il cognato aveva permesso a un sacerdote di impartire la benedizione alla casa, e già allora si era reso necessario l’intervento della Polizia.
    Ieri mattina un nuovo diverbio: la donna marocchina ha spezzato il crocifisso appeso al muro esterno della casa, ha aggredito il fratello del marito, e lo ha graffiato. Il cognato della donna sta valutando se sporgere denuncia.

    Sul sito internet della testata sono stati pubblicati molti commenti razzisti sotto questa notizia.

  21. @ Ennio

    Prima di addentrarmi nel merito degli appunti di Ennio, volevo rispondere al suo ultimo quesito:
    * Ma allora noi, che non abbiamo – come le élites – l’arma nucleare e non possiamo far pesare nel conflitto i servizi segreti, i nostri strateghi e non possediamo danaro per corrompere, etc. che facciamo?*
    Oltre che essere buffa questa domanda ci dà da pensare. Vale a dire: siccome noi non abbiamo la ‘loro strumentazione’ (arma nucleare, strateghi del capitale, denaro per corrompere) che facciamo? Piangiamo unendoci al pianto dei diseredati o diventiamo corruttibili? O c’è anche una terza strada, quella di poter fare delle ipotesi soggette sempre a stretta verifica dei fatti?
    Altrimenti, se non piangiamo, dovremmo diventare come loro però più buoni, ovviamente perché ‘noi’ siamo più umani, per definizione, e quindi saremmo in grado di operare per il meglio. E allora via con il progetto della ‘sinistra al potere’, con le ‘sue banche’ (cooperative non più sufficienti, e quindi i suoi denari e i suoi sfruttamenti, “ma è il Capitale, bellezza!”), i ‘suoi’ intrallazzi (ovviamente a fin di bene) ma, soprattutto, i suoi maestri di pensiero i quali, dalle file delle varie frange ultrarivoluzionarie e dietro scambi e intrallazzi con il cosiddetto ‘nemico di classe’, si sono accomodati su scranni molto ben pagati (nomi non ne faccio perché molti sono ben noti, soprattutto al pubblico dei media, giornali e TV).
    D’altronde, Ennio parla chiaro, quando a proposito dei versi di Brecht da me citati, commenta così: * lo scopo del poeta tedesco non poteva essere quello di incoraggiare la schizzinosità in politica*. Non ho capito: bisogna o no essere schizzinosi e che senso diamo alla schizzinosità? Già. Perché in politica bisogna pur fare alleanze! Certo. Non lo diceva anche Mao? O lo stesso Lenin? Sì, ma da che pulpito e con quale ben diversa situazione oggettiva! Mentre vediamo oggi palesarsi quello che alcuni (ovviamente sbeffeggiati all’epoca) sostenevano in tempi non sospetti: la santa alleanza Renzi Berlusconi. Mi si dirà, “ma è per il bene del paese!”. E poi vincerà il PD e Forza Italia farà da vassallo. Ma va là! Credo di più a quello che dichiarò Gianni Agnelli a proposito del governo D’Alema: i miei interessi di destra vengono portati avanti meglio dalla sinistra.
    Che fare? Proiettiamoci in avanti come ironicamente propone Buffagni oppure tuffiamoci indietro come propone tristemente Annamaria (Locatelli)?

    Ma veniamo ai punti.

    1. e 2.
    Utilizzavo le foto non come una mera riproduzione della realtà, ma come uno strumento per leggere un aspetto parziale di realtà.
    Quindi nessuna contrapposizione tra *nobiltà* (questo termine non l’ho utilizzato io) e penosa consapevolezza da una parte e tratta degli schiavi dall’altra. A quei tempi, oltretutto, c’erano differenze che regolavano il flusso migratorio, vale a dire coloro che venivano imbarcati ‘su contratto’ (più o meno capestro) e inviati nell’America meridionale, Argentina, per la maggior parte. Oppure come la tratta, sempre su commissione da parte di facoltosi americani, di bambini appartenenti a famiglie numerose e del cui destino poi importava poco a chicchessia, e questo tipo di tratta era inerente al laido personaggio rappresentato da Sordi nel film citato. E su Sordi tornerò dopo.
    E invece coloro che partivano allo sbaraglio il più delle volte irretiti da speculatori che dietro compenso promettevano un futuro. E allora il controllo, così come avveniva al mercato degli schiavi e quindi con tutto l’orrore dell’essere trattati come carne da macello, c’era allo sbarco. Ellis Island era il prototipo e l’avamposto per detta crudele selezione.
    La penosa consapevolezza, come io l’ho chiamata, era legata alla comprensione che esiste un fragile equilibrio tra diritti e doveri, che il rispetto tuo e il rispetto dell’altro è molto difficile da mantenere e che comunque va ricercato anche se, temporaneamente, si è costretti a chinare la testa. Oggi, questa consapevolezza non c’è: esiste solo un mondo di diritti, il mondo della protesta, il mondo del ‘vaffa’ e i migranti arrivano già inibiti al considerare che esistono anche dei doveri. Perché è questo il mondo che gli proponiamo. Nessuno gli fa capire che l’assistenza non appartiene esclusivamente ad un loro diritto, ma è l’espressione di un atto di reciprocità, di riconoscimento del reciproco statuto.

    3. e 4. La soggettività dei migranti?
    Ennio mi dice che io non tengo conto della * soggettività dei migranti d’oggi e sulla loro umanità (per me, come la nostra, *in costruzione*). Gli uomini-migranti restano “mucchio”. La loro identità/umanità resta ignota e sembra non interessarci.*
    Io posso utilizzare il concetto di ‘soggettività’ nel modo in cui lo concepisce Ennio soltanto se lo metto a confronto con un’altra ‘soggettività’, altrettanto generalizzata per esigenze di analisi.
    La classe operaia di fronte alla classe borghese, ad esempio.
    Posso parlare della soggettività delle pere rispetto a quella delle mele.
    E utilizzo detta soggettività per dire, ad esempio, “Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere!”.
    Ma poi all’interno delle pere ci sono delle differenze di qualità non indifferenti e che possono contraddire il detto sopra citato, per cui il formaggio non rende bene con tutte.
    E sento abusivo e fuorviante il parallelo indifferenziato tra la nostra umanità e la loro, ambedue in costruzione. Che ci sia la necessità alla crescita, questo è vero, non si finisce mai. A condizione però che riconosciamo le differenze di grado, di livello: genitore e bambino sono sì due ‘soggetti’, ambedue in evoluzione, ma di livello diverso, altrimenti potrei mettere, a pieno titolo di soggettività, una pistola carica nelle mani di un bambino!
    La soggettività si acquisisce, non è un dono del cielo, è un lavoro che parte dal capire che c’è una differenza tra me e non me, fra essere onnipotenti (= tutto e subito) e essere umani, con dei limiti. Così mi costituisco come soggetto, con una mia identità, pur sempre in evoluzione. Ma non tutti si ‘soggettivizzano’ allo stesso modo, non è una legge di natura! E, quindi, ci sono delle resistenze!
    Per cui i termini di plebe o massa, per me non hanno nessun portato dispregiativo, ma indicano la condizione di un insieme magmatico (= liquido?) acefalo che va alla ricerca di una testa. Da osannare prima o da uccidere, poi, ma intanto quello è il suo movimento di base. Per questo l’individuo ha vita difficile se pensa con la sua di testa e non si piega all’onda della massa!

    6. *Come possiamo difendere e affermare in modi concreti e visibili questa dignità (umana) o sanare « il vulnus dell’essere ritenuto un ‘oggetto’ di cui poter disporre a piacimento»? Le Ong o quelli della Caritas questo « vulnus» non riescono a sanarlo. Sia pure. Ma c’è qualcuno che fa di meglio?*

    Si può sempre fare di meglio a condizione che si capisca qual è il termine di paragone per definirlo, e pertanto capire il senso di quello che viene portato avanti attraverso queste forme di assistenzialismo.
    Il concetto di dignità, come quello di soggettività, si apprende attraverso l’esperienza e, non a caso, almeno nel nostro credo religioso, abbiamo avuto bisogno dei Comandamenti per entrarne in contatto. E altre religioni possono avere un concetto di dignità del tutto diverso dal nostro.
    Io (nonché la mia famiglia di sfollati dalla guerra), nella mia esperienza infantile, ho sperimentato il sapore delle caritatevoli minestre e il relativo prezzo da pagare. Allora i fornitori si chiamavano Dame di San Vincenzo che gestivano i pacchi UNRA, diversamente distribuiti ai poveri di serie A, futuri fornitori di voti, e ai poveri di serie B, il cui rispetto della dignità era condizionato all’assunzione di una certa visione del mondo. Mio padre chiedeva lavoro e non assistenza, ma, in quanto facinoroso (!) comunista, gli si poteva solo (!) passare l’assistenza. Mia madre, dal canto suo, pur propendendo per una visione religiosa, non poteva trovare lavoro poiché segnata dalla sua scelta matrimoniale e io… beh, lasciamo perdere!
    La carità pelosa – che serve a mantenere le persone nell’indigenza per poterle governare meglio (però poi si critica il concetto di sottomissione felice di Houellebecq!) – significa trattarle come oggetti, producendo un vulnus insanabile e che si perpetua ad ogni situazione di bisogno. E la spinta al polemos si insinua anche attraverso queste ferite!
    Non voglio fare generalizzazioni a partire dalla mia esperienza. Certo che da lì ho imparato a pormi delle domande, prima fra tutte il “cui prodest?”
    Poi a capire che la dignità va difesa, ma non per tutelare lo spirito di sopravvivenza (perché facilmente ciò si presta alle battute sarcastiche di egoismo et similia, e nemmeno alle posizioni aut aut, ‘mors tua vita mea’), ma perché la dignità è ciò che rende la vita meritevole di tale nome, ed è dunque qualche cosa che IO devo difendere in prima persona perché nessun altro lo farà per me.
    Ennio quando scrive “Che pericolo c’è” non si rende conto che il pericolo esiste quando si assume un atteggiamento disinvolto, quando non ci sono confini e limiti e si pensa che tutto è gestibile, basta volerlo.
    Quando l’ “Assimilazione” viene vissuta come imposizione autoritaria (Ennio 30.05 h. 12.44): *Non credo che la soluzione buona sia l’*assimilazione*. Che è come dire autoritariamente: “Tu di adegui alle mie leggi, alla mia lingua, alla mia cultura e stop”. Perché escludere ogni confronto/scontro tra le culture? Perché il *conflitto*, che per me porta in sé anche il confronto e non è mai un irriducibile *scontro di civiltà* nemiche in assoluto , deve essere dato per pericoloso o impossibile?*
    E’ questa confusione tra diversi livelli di mio e non-mio, questa idea distorta di un conflitto che si trincera dietro un dare per scontato che si tratti davvero di un confronto/scontro tra le culture e che, di fatto, maschera una difficoltà ad imporre regole e confini, a dire di no alle imposizioni che ci vengono imposte da un esterno più potente: è tutto questo che mi fa paura e quindi mi porta a subodorare che davvero un pericolo c’è. Quello di non contatto con la realtà.
    Dire * Tu di adegui alle mie leggi, alla mia lingua, alla mia cultura*, e ciò finché tu partecipi di questa comunità, è il basilare discorso che un genitore deve fare al figlio adolescente che vorrebbe invece legittimare le sue visioni libertarie.
    Le regole sono fatte non soltanto per rompere le scatole ma servono anche come protezione. Abbiamo visto a che cosa ci ha portato un mondo senza regole.

    Fare di meglio significa fare il possibile per riportare le persone nei loro luoghi di origine anziché spopolarli, e renderle artefici del loro futuro e non deprivandole imponendo loro il nostro modello! Mi si può obiettare che non si può fare questo perché nei loro paesi c’è la guerra: ma possibile che Grandi Potenze, che hanno fatto il bello e il cattivo tempo in quei paesi, distruggendo e massacrando, adesso si arrendano come pischelli davanti a quegli stessi capetti la cui ascesa è stata foraggiata da loro? C’è qualche cosa, più di qualche cosa, che non torna!
    Mi ricordo al tempo del terremoto del Friuli: ci furono dei sindaci che dissero “prima le fabbriche”, per evitare che la manodopera andasse all’estero, “e poi le chiese”; altri che invece sostenevano l’assistenza a pioggia e soprattutto la priorità della ricostruzione delle chiese, per dare conforto agli animi esulcerati. Certo, con le fabbriche, il sistema di corruzione avrebbe trovato di che espandersi, questo era il fantasma che veniva ventilato: in alcuni luoghi fu contenuto, in altri no. Ma la Regione andò avanti con il suo progetto con delle ricostruzioni mirabili (incluse poi anche le chiese!) che fecero (e fanno) onore allo sforzo impegnato, al punto da essere citato come ‘modello Friuli’.

    7. A proposito di Sordi (non mi interessa se ha fatto soldi, non credo li abbia fatti svendendo un suo credo che sappiamo bene quale fosse. Il punto sta lì: molti artisti, invece, li hanno fatti i soldi, ma svendendosi al migliore offerente!).
    Ci è stato detto peste e corna sui film dei cosiddetti ‘telefoni bianchi’ onde screditare la produzione cinematografica fascista. Mentre, vedendoli oggi, con lo sguardo scevro da ideologie, vediamo che molti di questi non solo erano fatti bene e non erano propagandistici come si voleva far intendere, ma davano espressione a quegli strati sociali che si trovarono disposti a “credere, obbedire, combattere”. Ma c’era ancora un pensiero di Nazione.
    Mentre i successivi personaggi di Sordi hanno rappresentato l’Italia post bellica, la sua americanizzazione/colonizzazione, e come questa avesse toccato le parti più infami dell’animo umano, quelle disposte a svendere tutto per un po’ di benessere. Ci siamo appunto ridotti a puer felici, scivolando a pie’ pari in quel dominio culturale all’americana che recita: puoi distruggere pure, oggi, tanto dopo tutto verrà riparato!
    E così, di guerra in guerra; di distruzione in distruzione!
    Quanto al film, “Il cammino della speranza” che tutti dovrebbero vedere, ci fa capire come la solidarietà, appunto, si forma e cresce anche a partire da certi stimoli, che possono essere raccolti oppure no. E ciò può accadere negli incontri fra singoli, individui, in cui si riconosce una passione comune. E non può essere estesa, generalizzandola, a tutti.

    8. Quanto all’analisi di Bauman (Ennio sembra farmi il verso dicendo: *Ogni analisi altrui – nel caso il citato Bauman – è superficiale*), io volevo solo sottolineare che il concetto di “società liquida” sembra valere più se lo applichiamo verso il basso (quale differenza poi ci stia rispetto alla mia descrizione sulla ‘massa informe’, non la vedo proprio! Però, Bauman dixit, lunga vita a Bauman!). Ma, ai piani alti ci sono dei nuclei di potere i quali, pur essendo al giorno d’oggi anch’essi confusi e disorientati da una crisi da essi stessi prodotta, sanno bene come manovrare a loro pro la liquidità del basso e, anzi, favorendo questo bailamme di genti, rendono più difficili le possibili coagulazioni contro di essi. Anche per queste ragioni (dico ‘anche’, perché non sono un analista geostrategico) Trump disorienta con la sua imprevedibilità le élites che sono state al comando fin’ora e che non hanno nessuna intenzione di cedergli il passo, così che lui è costretto ad attaccare il loro voler mantenere (reazionariamente, altro che democrazia) lo status quo.
    Non sono una sostenitrice di Trump, ci mancherebbe, ma seguo curiosa tutti quei movimenti che da più parti vengono fatti per destabilizzarlo e inficiare la sua elezione. Perché mai tutto questo spiegamento massiccio di forze contro la sua politica? Cui prodest?

    Ciò che mi angustia maggiormente e che tutti chiedono a gran voce: “ma allora che cosa possiamo fare”? Mentre la cosa che si potrebbe fare in primis – e sarebbe quella di non credere alla fandonie che ci vengono propinate -, non viene fatta.
    E cercare di pensare con la propria testa – per quanto essa stessa non sia pulita del tutto dalle ideologie – sarebbe già il primo passo per poter progettare di fare qualche cosa.

    R.S.

    P.s. Questo commento è stato scritto prima che venisse postato l’ultimo intervento di Ennio (01.06 h. 11.40) e a cui mi auguro di poter rispondere non appena mi sarà possibile non solo leggerlo ma anche metabolizzarlo.
    Posso dire solo una cosa a proposito dell’integrazione, operazione molto complessa che fa parte del nostro iter di crescita e a cui arriviamo con fatica, dopo essere passati attraverso i vari livelli di assecondamento mimetico (l’imitazione), l’adattamento passivo, l’obbedire per amore dell’altro, nonché i vari processi di proiezione e introiezione tra ciò che riconosco e accetto, e ciò che non riconosco e respingo, fino al costituirsi di una identità, ancora parziale, e che andrà ampliata attraverso le successive varie esperienze. Una identità che andrà a presupporre una struttura, dotata di limiti e confini, supportata da valori condivisi. Fintantoché non si dà questa base identitaria, che permetterà poi le varie integrazioni, tutto si giocherà nei termini di invasione, sopraffazione, imposizione violenta di modelli. Se io non so difendere casa mia perché ho paura di sembrare matusa, poco aperto al nuovo che avanza, troppo legato alla ‘proprietà’ mentre questa dovrebbe essere bene di tutti, come posso far capire ad altri che devono invece difendere i loro spazi e formarsi come individui?
    Altrimenti faranno parte della massa informe, della parte ‘liquida’ della società, incanalata, irreggimentata ma senza voce in capitolo?

    R.S.

  22. …è vero tutti stiamo o tentiamo di svilupparci in un percorso che non ha mai fine: a livelli, se vuoi diversi in grado, di consapevolezza, di maturazione dell’autonomia di giudizio e di libertà, di identità…ma secondo me, invece. la dignità, che è davvero la caratteristica più importante dell’essere umano ( ma anche animale in genere) non ha né livelli, né gradi ed è importante riconoscercela e riconoscerla. Più un esercizio del sentimento che della ragione…

  23. …vorrei soffermarmi sulle due foto d’apertura…La prima mostra i nostri padri o nonni che, affaticati ma eretti e con le scarpe nella neve, trasportano pesanti bagagli di cartone sino alla grande nave che li porterà oltreoceano…Di loro si immaginano: paure, promesse, ricordi, speranze…
    Commento: tutto (o quasi) è perduto fuorchè l’onore (la dignità, credo)…e ce l’hanno poi dimostrato…
    La seconda foto mostra persone del nostro tempo stipate sul fianco di una nave: stanno serrate le une alle altre per terra, senza lo spazio per allungare le gambe…Salvate da un naufragio, non possiedono nulla, ma solo perchè vive, di loro si immaginano: paure, promesse, ricordi, speranze…
    Ugualmente di loro si può dire: tutto è perduto fuorchè l’onore (la dignità)
    Non sono così ingenua da pensare che incontri reciprocamente “distanti” non possano generare problemi ma se si riconosce la pari dignità passettino dopo passettino…

    1. MIGRAZIONI. APPUNTI 2

      Caro Ennio,
      OK, rispondo.

      1) ENNIO: @ Roberto [Buffagni] Sulle sue domande “rozze” ma “razionali”.
      «Quanti ce ne stanno? ».
      Sarebbe più razionale la domanda (complementare): noi uomini “civili” quanti «dannati della terra» (poveri o emarginati) accettiamo che rimangano a fare una vita breve e infernale per permettere a un esiguo numero di ricchi o benestanti di accaparrarsi e sperperare le risorse della Terra, standosene nei loro paradisi artificiali?

      IO: Risposta: fino a quando non diventeremo capaci di dare “a ciascuno secondo i suoi bisogni” e chiedere “a ciascuno secondo le sue capacità”, cioè mai. I più forti e più ricchi non regaleranno mai le loro conquiste ai più deboli e più poveri, perché “nessuno è buono”, Gesù compreso (Mt 19,17; Mc 10,18; Lc 18,19). Poi sono possibili compromessi ed equilibri più umani e meno umani, più equi e meno equi tra più forti e più deboli, in un ventaglio di possibilità che va dall’incredibilmente orrendo al più che accettabile e buono. Chi ti dice di essere buono (anche la tua vocina interiore) e di voler fare l’interesse dell’umanità, e segnatamente della sua porzione più debole e povera, ti mente e fa più danni a te e a tutti, più deboli compresi, di chi persegue anzitutto il suo interesse. Diversamente formulato: se uno si sente all’altezza, per esempio se è un fondatore di religione o un grande filosofo, può pensare e parlare a nome dell’umanità. Se invece uno vuole AGIRE POLITICAMENTE a nome dell’umanità, è un illuso o un bugiardo.
      Ora, caro Ennio, domandati per un momento dove sta il TUO interesse, quello dei tuoi figli, dei tuoi nipoti, delle persone che ti sono care, se lo ritieni opportuno anche quello dei tuoi compatrioti; e a partire da QUESTO interesse, che conosci o almeno puoi conoscere, prova a chiederti anche quale posizione prendere sulla questione “immigrazione”. Starai meglio o peggio, materialmente o moralmente, se continuano a piovere in Italia alcune centinaia di migliaia di immigrati all’anno? Io la domanda me la sono posta, e mi sono risposto “peggio”. Non ne ho tratto la conseguenza che bisogna sterminare gli immigrati o nuclearizzare l’Africa, ma ne ho tratto la conseguenza che l’immigrazione va anzitutto limitata e se possibile fermata al più presto. Sul “come” si discute, non c’è una risposta preconfezionata. Se invece ti rispondi “meglio”, la discussione finisce qui.

      2) ENNIO: [Immigrati come esercito industriale di riserva, disoccupazione] Problema vero. E anzi decisivo, se non liquidiamo del tutto Marx e il marxismo. …Ogni prospettiva comunista è assolutamente irrealistica, delirante, illusoria?…

      IO:Secondo me la prospettiva comunista era irrealistica e illusoria (non delirante) anche prima dell’immigrazione di massa, è irrealistica e illusoria in sé e per sé. Ma se tu invece la ritieni possibile, pensi che l’immigrazione di massa possa renderla più realizzabile? E allora come mai a promuovere l’immigrazione di massa sono proprio i grandi capitalisti e il loro personale di servizio? Dici che si sbagliano, che senza saperlo si stanno scavando la fossa? Questa cosa la dice, certo articolandola un po’ meglio, Toni Negri. Secondo me è una sciocchezza epocale, ma certo mi posso sbagliare.

      3) ENNIO: «Non c’è proprio nessun rapporto tra la presenza di immigrati mussulmani e gli attentati? Difficile rispondere di botto “no». Ma come si fa a rispondere di botto sì? … Perciò mi pare più saggia e razionale la posizione di Annamaria [Locatelli]: «Sì, è probabile che si verificherà una metamorfosi demografica, ma andrebbe gestita e non rifiutata».

      IO: Si risponde di botto di sì perché a) senza immigrazione di massa mussulmana le eventuali minoranze jihadiste non sarebbero minoranze ma commandos inviati dall’estero e sarebbero immediatamente isolate e sconfitte, esattamente come furono immediatamente isolate e sconfitte le minoranze brigatiste quando rifluì il movimento politico che, pur senza condividerne i metodi, guardava a loro come “compagni che sbagliano”, o semplicemente esitava, per contiguità ideologica o paura, a denunciarli alla polizia. Senza popolazione cattolica in Irlanda del Nord, niente IRA: chiaro il concetto? Senza acqua, niente pesci, come diceva il presidente Mao. b) Come già dicevo alla signora Locatelli, le “metamorfosi demografiche” non sono un mero aumento di culle colorate e diminuzione di culle bianche: aprono conflitti enormi, e tendenzialmente insolubili; è a questo proposito che tiravo in ballo Israele e il Sudafrica, dove i conflitti hanno all’origine proprio una “metamorfosi demografica”. Se in Israele e in Sudafrica i palestinesi e i neri fossero una minoranza della popolazione generale e presentassero una dinamica demografica non superiore a quella di ebrei e bianchi, la loro integrazione a pieno titolo nelle società israeliana e sudafricana porrebbe problemi insignificanti rispetto a quel ch’è accaduto e accade nella realtà data.
      Già che ci siamo, segnalo un paradosso storico interessante. In Francia, al tempo della lotta di liberazione algerina, gli universalisti che volevano “gestire la metamorfosi demografica” che avrebbe provocato la permanenza dell’Algeria nell’impero francese (10 MLN di algerini che diventano francesi a tutti gli effetti, con diritto di cittadinanza, voto, etc.: il loro progetto era questo) erano proprio i “fascisti” dell’OAS, quelli che tentarono il colpo di Stato contro De Gaulle. Il quale antifascista De Gaulle, invece, nonostante la Francia avesse SCONFITTO sul piano militare la resistenza algerina, concesse l’indipendenza agli algerini perché sapeva che è IMPOSSIBILE integrare in una nazione popoli interi in condizioni di parità giuridica e istituzionale: specie se il popolo da includere ha una dinamica demografica più alta del popolo includente.
      Più razionale l’OAS e o De Gaulle? Secondo me De Gaulle.

      4) ENNIO: «A chi conviene l’immigrazione? non converrà per caso a quelli che la sostengono, o perlomeno ai loro capi?».
      [Buffagni] Scrive: «Con una intelligente gestione dei media, i mondialisti piazzano gli immigrati nella posizione della “vittima”, e di conseguenza chi si oppone all’invasione si dispone nella posizione del “persecutore”, chi vuole salvare la vittima si dispone nella posizione del “salvatore”». Ma non è affatto detto che avvenga così nella *realtà*. Questo mi pare fumo ideologico che oscura la questione reale. Che a volte s’intravvede e viene posta: «l’oggetto del contendere sarebbe, in teoria, che politiche adottare nei confronti dell’immigrazione». Ma subito dopo l’ideologia torna a prevalere:« L’immigrazione di massa, islamica o no, è anzitutto pericolosa perché altamente polemogena». Ribatterei: fosse pure «polemogena», non potrebbe portare il rapporto tra “noi” e “loro” a livelli diversi e più positivi? Perché escluderlo? Perché cogliere solo il “pericolo”?

      IO: a) il triangolo di Karpman, con vittima salvatore persecutore, usato dai media mondialisti, NON è la realtà, è una manipolazione della realtà che ha effetti sulla realtà, e l’effetto sulla realtà è appunto spargere “fumo ideologico” che oscura la questione reale. Non sono io che ci casco, riporto il fatto che ci casca tanta gente.
      b) Perché escludere che la guerra civile ad alta o bassa intensità o più in generale il caos “possa portare il rapporto tra ‘noi’ e ‘loro’ a livelli diversi e più positivi?” In effetti non si può escludere. Se vedi che la tua casa sta prendendo fuoco, perché escludere che dopo l’incendio, essa non sarà ricostruita più bella e più splendente che pria? E che i suoi nuovi abitanti saranno più belli, più buoni, più cordiali e più umani? Non si può escludere. Io però se la casa fosse mia chiamerei i pompieri. Tu?
      c) Domanda: perché apporre le virgolette a noi” e “loro”? Ti senti ghanese o maghrebino? Secondo te i ghanesi o i maghrebini si sentono italiani? O secondo te essere italiani, ghanesi o maghrebini sono dettagli irrilevanti rispetto alla comune appartenenza alla specie umana? In questo caso, ti segnalo che devi fare encore un effort, perché nell’ideologia mondialista stanno guadagnando posizioni gli antispecisti, secondo i quali questa tua posizione antropocentrica è razzista, e non c’è alcuna differenza rilevante tra specie umana, specie animali, vegetali e minerali (regno minerale = robot, ti informo che ci sono già i giuristi che lavorano ai “diritti dei robot”): l’unico punto di vista rilevante è quello dell’ecosistema nel suo complesso, senza privilegiare nessuna specie o nessun regno sull’altra. Certo, per implementare questa posizione un po’ estremista bisogna mettere in riga la specie umana, che inquina, brucia risorse, spadroneggia sulle altre specie e schiavizza i robot. Si tratta di “gestire una metamorfosi demografica” facendo fuori e/o impedendo che nascano alcuni miliardi di esseri umani, ma non vorremo essere razzisti, vero? e fare la bua a Mamma Gaia che è tanto buona.

      5) ENNIO: «Assimilare culturalmente masse importanti di stranieri, specie se provenienti da culture davvero differenti » è semplicemente impossibile? «Si possono assimilare solo piccoli numeri».
      Non credo che la soluzione buona sia l’*assimilazione*. Che è come dire autoritariamente: “ Tu di adegui alle mie leggi, alla mia lingua, alla mia cultura e stop”. Perché escludere ogni confronto/scontro tra le culture? Perché il *conflitto*, che per me porta in sé anche il confronto e non è mai un irriducibile *scontro di civiltà* nemiche in assoluto , deve essere dato per pericoloso o impossibile?

      IO: “Perché escludere ogni confronto/scontro tra culture?” Io non lo escludo per niente, anzi lo vedo e ne prevedo gli sviluppi (più conflitto). Solo che vedi, Ennio: negli scontri tra culture, che non avvengono solo nelle aule delle università, ci si fa molto male. Poi da questo male possono venire anche tanti beni (si impara reciprocamente qualcosa di nuovo su di sé e sull’altro, etc.). Ma in un conflitto, io anzitutto mi chiederei: quanto ci costa, in vite umane, danni materiali, etc.? Chi vince? L’assimilazione non è “buona”, ed è certo autoritaria, ma riduce al minimo il conflitto.

      6) ENNIO: E chi dice che la soluzione debba essere imperiale e secondo i modelli del passato («Impero romano, austriaco, zarista, britannico, etc.»)?O che questi processi di massa e di dimensioni globali debbano per forza svolgersi nella cornice dello «Stato fondato sulla democrazia rappresentativa a suffragio universale»?

      IO: In uno Stato, o tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge e godono degli stessi diritti politici attivi e passivi indipendentemente da razza, religione, etc., o no. Negli imperi del passato, no; negli Stati occidentali moderni, sì. La formula politica legittimante gli Stati occidentali è la democrazia rappresentativa a suffragio universale, e non può essere mutata senza rivolgimenti epocali. Alla cornice giuridico-istituzionale “tutti eguali davanti alla legge + democrazia rappresentativa a suffragio universale” deve corrispondere una omogeneità culturale ed etica sostanziale, che gli studiosi chiamano “idem sentire”; senza idem sentire la lealtà politica primaria dei cittadini NON va alla comunità politica e al suo sistema istituzionale vigente, ma ad altro (etnia, religione, tribù, etc.). In questo caso, ai normali conflitti che dividono i cittadini (classe sociale, città e campagna, interessi di ceto e di gruppo, etc.) si aggiungono conflitti molto più profondi e molto più difficili da comporre, quali appunto i razziali, religiosi, tribali. Le comunità ordinate conforme a razza, religione, tribù, utilizzeranno gli strumenti politici disponibili nelle democrazie rappresentative a suffragio universale per acquistare potere, e se giungono al governo implementeranno le loro politiche, che con la democrazia rappresentativa a suffragio universale sono incompatibili. Vedi per esempio dopo la recente rivoluzione colorata in Egitto: vanno regolarmente al governo, vincendo le elezioni, i Fratelli Mussulmani, appena insediati cominciano ad applicare la Sharia, colpo di Stato delle FFAA. La stessa identica cosa è capitata in Algeria pochi anni fa: il FIS vince le elezioni, si rimbocca le manica per impiantare uno Stato teocratico, guerra civile terrificante, vince l’esercito.
      Ti rinvio all’esempio Algeria francese che ho portato più sopra.

  24. SEGNALAZIONE

    Renzi contro il multiculturalismo, la campagna elettorale si giocherà sugli immigrati
    di Alessandro Franzi
    http://www.linkiesta.it/it/article/2017/06/28/renzi-contro-il-multiculturalismo-la-campagna-elettorale-si-giochera-s/34743/

    Stralci:

    Non ci si gira più attorno. Sarà il tema dell’immigrazione a dominare lo scontro politico nella prossima campagna elettorale. Insieme al tema Europa. E’ passato in secondo piano rispetto al gioco delle figurine della sinistra, che ha riportato sul palcoscenico persino Romano Prodi. Ma anche Matteo Renzi, all’indomani della debacle alle Comunali, ha preso una posizione più netta su un argomento che in questi anni era stato lasciato soprattutto alle destre: il segretario del Pd ha sostenuto che la prospettiva dell’Italia non potrà probabilmente essere il multiculturalismo. Lo ha detto parlando all’Ispi, l’Istituto di politica internazionale di Milano, le cui stanze affrescate dal Tiepolo invitano a pesare le parole, dosare i pensieri, contenere la verve politica. “Se non hai un’identità, non integri, sei invaso”, ha scandito Renzi di fianco al direttore della Stampa, Maurizio Molinari, che presentava il suo libro sul ritorno delle tribù.
    La scelta della parola invasione è un salto terminologico, se pronunciata a sinistra. Renzi ha detto che non vuole rinunciare alla legge per lo ius soli, che probabilmente ha pesato sul ritorno di molti elettori verso il centrodestra: “Non si può negare la cittadinanza italiana a chi è nato qui e ha fatto le scuole qui e si sente italiano”. Nemmeno se lo suggeriscono i sondaggi. Ma l’ex premier ha aggiunto un passaggio chiave al suo discorso: davanti ai nuovi sbarchi di migranti dal Mediterraneo ormai “i numeri non sono sostenibili”. E, quindi, “è un dovere prendere atto che l’opinione pubblica è esasperata”. “I nostri figli staranno in una società sicuramente multietnica, ma io non so se sperare anche multiculturale – la conclusione di Renzi -. Nel senso che ho voglia dell’incontro con le culture altrui ma voglio difende la cultura che anima questo territorio. La sinistra deve prendere atto che la parola identità è bella e positiva e non è il contrario della parola integrazione. L’identità è anzi il presupposto dell’integrazione”.

    2.
    E’ un fatto, però, che il discorso di Milano di Renzi sta chiudendo il cerchio sul tema dell’immigrazione: tutti i leader dei principali partiti che si sfideranno alle elezioni Politiche in arrivo entro la primavera hanno assunto posizioni rigorose in materia di accoglienza. E questo non potrà far altro che dividere ancora di più il leader Dem dalla sinistra che non si fida di lui e che il mese scorso era in corteo sempre a Milano contro i muri e per dare diritti pieni agli immigrati. Senza se e senza ma.

    Inutile, quasi, citare il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, che da tre anni e mezzo lo ripete: a suo avviso è “in corso un’invasione organizzata e finanziata per sostituire gli italiani con gli stranieri”. Per Salvini, “non c’è più posto in Italia” per nuovi arrivi. E nemmeno per lo ius soli. Silvio Berlusconi ha posizioni meno roboanti, tiene un profilo più moderato e non deve discostarsi troppo dai suoi alleati europei, i Popolari di Angela Merkel. Ma anche il leader di Forza Italia ha consolidato da tempo una sua linea: diritti solo se i doveri sono rispettati. “Prima di parlare di ius soli in Italia – ha detto per esempio Berlusconi nei giorni scorsi -, bisognerebbe gestire con ordine il fenomeno migratorio che ci sta travolgendo soprattutto in questi quattro anni con governi non eletti dagli italiani. Noi gli sbarchi li avevamo sostanzialmente azzerati”. Anche il Movimento 5 Stelle è sulla linea dei diritti-doveri. Ma ha alzato i toni proprio come Renzi all’indomani del pessimo risultato al primo turno delle Comunali. Il sindaco di Roma, Virginia Raggi, ha chiesto al ministro Minniti “una moratoria sui nuovi arrivi”, sostenendo che di fronte all’aumento dei flussi di migranti “è rischioso ipotizzare ulteriori strutture di accoglienza” nella Capitale.

  25. Riporto lo stralcio da Alessandro Franzi: “Lo ha detto (Renzi) parlando all’Ispi, l’Istituto di politica internazionale di Milano, le cui stanze affrescate dal Tiepolo invitano a pesare le parole, dosare i pensieri, contenere la verve politica. “Se non hai un’identità, non integri, sei invaso”, ha scandito Renzi di fianco al direttore della Stampa, Maurizio Molinari, che presentava il suo libro sul ritorno delle tribù.
    La scelta della parola invasione è un salto terminologico, se pronunciata a sinistra.”

    Ma quale sinistra? Ecco le parole di Giorgio Galli: “Il Pd non è più percepito, come era stato per decenni il Pci, come un partito che difende i deboli, gli operai, i non privilegiati, ma al contrario come il partito amico dei banchieri”.
    E più avanti: “Mentre gli italiani andavano stancamente alle urne, il ministro Padoan faceva una conferenza stampa per annunciare che il governo stanziava miliardi di euro per le banche in default”.

    A parte la frettolosità di Galli nel definire il Pci come paladino dei deboli, come se fosse stato così fin dall’inizio (era invece un Partito che si proponeva una trasformazione radicale della società prima di vendere l’anima al diavolo del trasformismo) mi permetto di auto citare un mio intervento a proposito di identità, integrazione e sopraffazione fatto su questo post (R.S. 1.06 h. 14.44): * Una identità che andrà a presupporre una struttura, dotata di limiti e confini, supportata da valori condivisi. Fintantochè non si dà questa base identitaria, che permetterà poi le varie integrazioni, tutto si giocherà nei termini di invasione, sopraffazione, imposizione violenta di modelli. Se io non so difendere casa mia perché ho paura di sembrare matusa, poco aperto al nuovo che avanza, troppo legato alla ‘proprietà’ mentre questa dovrebbe essere bene di tutti, come posso far capire ad altri che devono invece difendere i loro spazi e formarsi come individui?*.
    Che Renzi mi abbia copiato? Che legga Poliscritture? Ne dubito.
    Il discorso di Renzi, poiché sta percependo la brutta aria che tira (persino i migranti stessi a Cara si sono ribellati all’idea di accoglierne altri e minacciano sommosse – notizia, questa, presente questa mattina su Google News e adesso tolta, introvabile! – ), viene dunque fatto per i suoi sporchi fini politici, al pari di quanto ha fatto Gentiloni quando ad un recente incontro fra Grandi, citando il nodo delle Ong, ha spiegato che quelle vanno a prendere i migranti in acque libiche e li portano automaticamente in Italia. Macchiandosi ambedue dell’infamia della “menzogna tripla”, il massimo della falsità. Perché la “Menzogna tripla, che inganna a morte, è quella di chi mente e inganna dicendo la verità” (Vincenzo Cerami, “La lepre”, Einaudi, p. 16).
    Tralascio, per carità di Patria (se esiste ancora quel concetto!) lo sproloquio di Matteo Salvini quando afferma che è *in corso un’invasione organizzata e finanziata per sostituire gli italiani con gli stranieri*, ma volevo solo fare una considerazione a proposito dell’idea del ‘multiculturalismo’: un modello culturale che pretenda di essere valido per tutti perde necessariamente di vigore e intensità per cui tutto diventa annacquato.

    R.S.

  26. …secondo me, il cammino di una società multietnica non può essere che verso una società multiculturale dove la difesa della identità sia paritaria e “lo spazio sacro” diventi appannaggio di tutti…Con questo non penso che a una cultura si dovrebbe sostituire un’altra , “Sottomissione”, ma che culture e ibridi di culture vadano progressivamente evolvendosi verso ciò che ancora non sappiamo. Certo se poi nei rapporti intervengono la forza del sopruso e quella delle armi, cosa oggi frequentissima, allora il cammino non potrà che essere tortuoso e pieno di ritorni…Un movimento potrebbe imprimere una spinta nelle direzione giusta, forse più movimenti in rete

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