La vita non ha paracadute

gnocca

di Roberto Bugliani

Se si fosse messo a rincorrere tutti coloro che gli passavano avanti nel gran circuito della vita malgrado avessero minori qualità di lui, ma incomparabilmente più di lui lo sprint grintoso e la capacità di farsi largo a gomitate, Settimo sarebbe diventato un redivivo Mennea e avrebbe finito i suoi giorni col petto della giacca ricoperto di medaglie come un eroe nazionale. Invece non degnava d’uno sguardo coloro che lo superavano con piglio agonistico e seguitava ad andare verso il suo tramonto a passo modesto, nella misurata compostezza di giorni sempre-uguali, allineati sul tavolo della vita come tante fotocopie. Forse perché era troppo schivo per accettare le loro sfide, o forse perché d’andature non ne conosceva altre.
Ma da quando Settimo aveva incontrato casualmente Ivanka le cose avevano preso una piega inaspettata. E lui s’era fiondato al suo inseguimento come un paraplegico miracolato, vincendo tutte le remore e le abitudini che lo tenevano impastoiato nel suo asfissiante tran tran di mattina-e-sera con la forza sovrumana del suo amore. Ma andiamo con ordine, come vogliono le storie metropolitane, che compensano in tal modo il disordine caotico delle loro topografie.
Prima d’incontrare Ivanka, le strade cittadine che Settimo affrontava per le insulse necessità quotidiane possedevano ai suoi occhi l’aspetto raccapricciante di tunnel più lunghi d’un incubo, e la luce meridiana del sole allo zenit che le incendiava gli appariva una foschia lattiginosa che si sdraiava triste e pigra sull’asfalto. Nulla di più d’uno scherzo balordo era per lui la vita, e la sfangava come un osceno intervallo tra due nulla, in cui genitori che non sapeva se considerarli più egoisti o scriteriati lo avevano cacciato senza prendersi la briga d’ascoltare prima il suo parere al riguardo. Anche i rapporti col prossimo non erano certo migliori di quelli che intratteneva con il suo io, e si limitava ad affidare a raffiche di monosillabi, che s’elevavano come rutti al cielo bleso d’una comunicazione negata accompagnati da energiche scrollate di spalle, le sue opinioni sui grandi temi dell’essere e del mondo le volte in cui venivano sollecitate con querula insistenza dal panettiere o dal fruttivendolo sotto casa in vena di filosofeggiare, forse perché avevano appena terminato di leggere il loro primo libro senza figure, o forse perché la notte precedente s’erano rigirati insonni nel letto fino all’alba, e il défilé delle eterne domande sul chisiamodadoveveniamodoveandiamo aveva fatto inutimente su e giù per ore nel loro cervello più buio del buio che li circondava.
Ma Ivanka sprizzava energia positiva da tutti i pori della pelle e Settimo aveva subito scorto in lei l’omega in grado d’imprimere una svolta radicale alla sua alfa senza alfabeto. Perciò s’era messo a seguirla di buzzo buono, mentre la città, quella sua città anonima e codina che disprezzava da sempre, come per magia aveva cominciato a pulsare di vitalità e d’allegria di concerto col suo cuore. Ivanka era la vita, la vita vera che s’affacciava luminosa dal balcone al quarto piano d’un austero palazzo ottocentesco, scuotendo coperte e tappeti per liberarli dal polveroso torpore notturno con la solerzia d’una cameriera ventenne.
Ivanka avrebbe potuto chiamarsi benissimo Jessica, Deborah o Samantha, come tante ragazze d’oggi vittime delle fisime esterofile dei loro genitori, ma lui sentiva dentro di sé che era lei, e lei sola, Ivanka la provvida, Ivanka la gloriosa, Ivanka la dea (e Ivanka la gnocca, perché tale era, anche se Settimo preferiva metterla sullo spirituale), la novella Arianna che avrebbe consegnato alle sue dita supplici il filo in grado di guidarlo fuori a riveder la luce dall’oscuro frattale d’inconsistenza e d’abbandono in cui s’era smarrito non ricordava da quando.
Tutto questo avrebbe potuto succedere, anzi sarebbe certamente successo se il neonato sentimento di speranza d’un radioso futuro a due che emise i suoi fervidi vagiti nel cuore di Settimo avesse avuto la possibilità di crescere e svilupparsi fino alla sua immancabile conclusione in una graziosa chiesetta di campagna che lui ricordava da bambino quando si recava alla messa domenicale portatovi dalla madre, senza venire annichilito nella culla dal diabolico architetto d’infamie che ha nome destino.
Perché Ivanka, gemma d’una terra montagnosa aspra e dura e perla d’un mare che stagnava febbroso davanti al suo villaggio di pescatori, aveva per madrina la clandestinità e per nemico un questore in pensione che abitava nell’appartamento accanto a quello dove lei prestava servizio da un mese, alla cui mano pelosa infilata a forza tra le cosce si sottrasse una sera che il vecchio buzzurro, particolarmente infoiato, l’aveva attesa rincasare nel pianerottolo in ombra, e lei gli aveva piantato in faccia le unghie laccate di viola lasciandogli sulle guance dei graffi profondi come trincee. Cosicché dal giorno in cui, durante uno dei suoi abituali appostamenti amorosi, Settimo vide un maresciallo dei carabinieri nell’esercizio delle sue funzioni suonare al citofono dell’interno 12 del palazzo signorile di viale Antenore Ferrari, la sua dolce Ivanka non s’affacciò più al terrazzo del quarto piano distribuendo ghirlande di sorrisi ai gabbiani in volo, e il baratro dell’assenza inghiottì l’incanto femmineo delle sue mosse civettuole. Le mani nivee e morbide d’Ivanka impegnate a stendere i panni col busto proteso oltre la ringhiera a rivelare malizioso le coppe dei seni stupendi, la figura snella e procace della ragazza circonfusa di luce mattutina che con gesti vezzosi liberava le piantine di gerani da inestetiche foglioline rinsecchite, il chiacchiericcio amabile dei suoi tacchi sulle luccicanti piastrelle del terrazzo mentre rientrava col cesto traboccante di biancheria asciugata dal sole primaverile che le imbiondiva i capelli come spighe di grano, svanirono nell’atroce dissolvenza d’un sogno a occhi aperti.
Settimo non vide Ivanka uscire la notte stessa dal portone del palazzo gentilizio intarsiato d’immagini floreali e incrostato di smog per evitare il rimpatrio forzato in quel suo paese miserabile e ostile da dove un anno o un secolo prima era fuggita prendendo un aereo di linea che la depositò in Italia, ma immaginò comunque la ragazza scivolare furtiva nella caliginosa infilata di rododendri e magnolie del viale per consegnarsi a un domani oscuro e angusto come la cella d’una prigione, dove la bellezza d’Ivanka la clandestina si sarebbe trasformata implacabilmente nel carnefice delle sue attese in un futuro che valesse la pena vivere. Quali ardenti bocche giovanili (ma non la sua!) le avrebbero sussurrato all’orecchio parole d’amore, o quali mani senili, più viscide e rapaci di quelle del suo delatore, le avrebbero carpito la sua dignità? A questo pensiero il corpo di Settimo fu scosso da violenti spasmi, e lui sentì l’artiglio della gelosia straziargli le viscere. Senza ribellarsi, come una vittima predestinata, cedette alla cupa inedia degli sconfitti, e accettò con fatalismo il verdetto che gli veniva da una vocetta stridula dentro di lui: nessun sentimento profondo più avrebbe fatto battere all’impazzata il suo cuore impietrito, mai più! Quindi, come un vecchio seduto sulla panchina d’un giardino pubblico, si trovò a sbavare ricordi impotenti e spuri, disputando ai piccioni le briciole del suo dolore smisurato cadute a terra in forma di lacrime.
Ma se il giorno successivo alla visita del maresciallo Settimo non fosse stato costretto a rimanere a casa debilitato da un noiosissimo disturbo gastro-intestinale dovuto sicuramente al branzino avariato rifilatogli dal pescivendolo stufo di vedersi davanti quel cliente presuntuoso dalla faccia patibolare che snobbava i suoi tentativi amichevoli di conversazione con grugniti degni d’un maiale al mattatoio, e ne fosse uscito per dirigersi, come era solito fare, verso l’abitazione della sua amata, giunto nei pressi e incuriosito dal silenzio attonito del capannello di persone davanti al palazzo, facendosi largo avrebbe visto con raccapriccio un corpo spezzato e disarticolato come un burattino senza fili, che lo fissava senza vederlo coi suoi occhi color paglia.
O se il giorno dopo, rimessosi dalla sua indisposizione, avesse almeno letto la cronaca locale d’uno qualsiasi dei quotidiani che lui si rifiutava di comprare per non finanziare la menzogna, avrebbe appreso la notizia d’un curioso incidente che per il giornalista estensore dell’articolo valeva unicamente come ennesima testimonianza della beffarda crudeltà del caso, mentre per lui sarebbe stata la dimostrazione matematica che alla vita non è data una seconda possibilità che la rimetta in gioco, e che cominciare a suggerla fuori tempo massimo con l’avidità d’una sanguisuga non era concesso gratuitamente, così che il conto gli era stato presentato dalla circostanziata dinamica della caduta d’una molletta sfuggita alla presa della mano svagata e, appresso a questa, il calzino che reggeva, mentre un braccio, poi il busto, si protendevano istintivi e improvvidi nel vuoto.

3 pensieri su “La vita non ha paracadute

  1. …quel tonfo della bellezza che, come un’eco prolungata, ci accompagna di vita in vita e, se ci riferiamo alla Storia, di epoca in epoca…Eppure aggiungerei ancora un ciocco al fuoco morente della speranza( non fateci caso, ormai é diventato quasi un tic per me). “Alla vita non é data una seconda possibilità che la rimetta in gioco…”, certo se rimaniamo ancorati ai nostri schemi rigidi e vorremmo veder realizzata quella cosa, proprio quella cosa, ma se cambiamo registro e, ad esempio, dal giorno dopo il protagonista del racconto si mettesse a parlare con interesse al panettiere, al fruttivendolo, nonchè al pescivendolo, scoprendo che anche loro hanno visto precipitare la loro Ivanka, chissà magari si aprirebbero nuovi orizzonti…Forse si discuterebbe insieme su come fornire un paracadute a Ivanka

  2. Cara Annamaria,
    apprezzo quanto hai scritto per lasciare la porta aperta alla speranza, ma né Ivanka né Settimo potranno mai avere un paracadute: Settimo s’era già schiodato dalle sue abitudini, e un’altra possibilità la vita non l’ha data. Per semplificare, cito quanto ha scritto Denis de Rougemont nell'”Amore e l’Occidente”, traendo la sua citazione dal “Tristano e Isotta” di Joseph Bédier:
    “L’amore felice non ha storia. Romanzi ne ha dati solo l’amore mortale, cioè l’amore minacciato e condannato dalla vita stessa”.

  3. …grazie Roberto, sono assolutamente d’accordo, non esiste “…e vissero felici e contenti”, se mai facciamo sempre rimbalzare la palla dell’amore nel futuro. A qualcuno forse un giorno succederà di raccoglierla( sperando in una mutazione genetica)…Noi teniamo acceso solo un piccolo focherello, dagli spazi del futuro chi sa mai che qualcuno non lo avvisti…e ci allunghi una mano

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *