Poesia come gadget

Diversi del Corsera

di Marco Gaetani

Il «Corriere della Sera» manda in edicola una serie di volumetti di poesia. La collana, «diVERSI», propone ogni settimana piccole antologie dedicate ciascuna a un poeta. Si va da Leopardi (che nel Marzo scorso ha aperto la collezione) a Borges, da Baudelaire a Catullo, da Kavafis a Dickinson, da Montale a Szymborska – per un totale di trentacinque uscite. Come si vede, autori di ogni tempo e cultura.
Ci si può chiedere perché un grande gruppo editoriale (in questo caso RCS), in un paese come il nostro e in un momento storico come quello presente, decida d’investire nella produzione e nella distribuzione di volumi di poesia. Si deve pensare che oggi, in Italia, esista un’effettiva domanda di poesia, che la poesia abbia attualmente un mercato, da cui potersi ripromettere dei profitti?
Una prima osservazione da avanzare subito, per quanto brutale, è che l’industria culturale – nello specifico quella editoriale – si rivolge a un mercato di lettori (reali o potenziali) sempre più segmentato, oltre che risicatissimo; all’interno di questo mercato ci si sforza di occupare anche le nicchie più minuscole e in apparenza marginali, ‘coprendo’ in tal modo tutto lo spettro della possibile domanda. Da questo punto di vista, meramente economicistico, non c’è molta differenza (se non probabilmente nella tiratura) tra una collezione di poesia, una di fumetti, un’enciclopedia di cucina, una collana di CD o DVD, un corso di lingua o un album di figurine. Si tratta semplicemente d’intercettare (stimolare, produrre) i ‘bisogni culturali’ di ogni potenziale acquirente. L’effetto complessivo – all’interno di un’offerta che per essere completa risulta estremamente variegata – è naturalmente quello di appiattire tutto, di neutralizzare implicitamente ogni differenza e ogni valore. In nome della libertà di scelta, dell’ostentato rispetto per la pluralità dei gusti, in omaggio apparente agli interessi e alle inclinazioni individuali, Rilke vale il cabarettista alla moda, la biografia dell’ultima vedette televisiva la saggistica più impegnata, l’‘instant book’ scandalistico il catalogo della mostra di Antonello, la Shoah Barbapapà.
Disgregato ogni ordine di valori – non solo estetici –, crollate le agenzie socialmente deputate a stabilire e tramandare rango e gerarchie all’interno della cultura comune, l’individuo ridotto a consumatore si trova solo di fronte (o meglio in mezzo) al forsennato turbinio mercantile, in balia di se stesso – dei propri impulsi, di una storia personale sovente alienata – e quotidianamente bersagliato da mille appelli all’acquisto. Chi non ha fine ultimo se non quello di vendere la propria mercanzia si guarda bene dall’offrire anche minimi strumenti di orientamento, di valutazione – bussole, curve di livello. Si limita a rassicurare sul fatto che ciascuno debba seguire narcisisticamente il proprio ego, assecondare il proprio desiderio, senza perplessità o anacronistici sensi di colpa.
La poesia non fa eccezione: è una merce che periodicamente ritorna sui banchi del mercato (e infatti non è la prima volta che un grande quotidiano, e lo stesso «Corriere», ne offre ai suoi lettori un’intera collezione), nella speranza che possa quanto meno incuriosire, interessare, attrarre.

Si vorrebbe contribuire a confutare la tesi di quanti (più o meno scoperti apologeti del mercato) ritengono un’iniziativa come quella del «Corriere» per principio positiva; perché – questi in genere, e in breve, gli argomenti addotti – «se non altro» permetterebbe a persone che probabilmente mai avrebbero potuto farlo di accostarsi alla poesia, di scoprirla e forse anche di apprezzarla.
Va detto, intanto, che in una collana come quella proposta oggi dal «Corriere della Sera» già la scelta degli autori da includervi non è certo casuale. Si deve, verosimilmente, non solo e non tanto al curatore (Nicola Crocetti) ma a professionisti del marketing; è effettuata, altrettanto verosimilmente, in base a una mescolanza di considerazioni puramente logistico-commerciali (disponibilità dei diritti d’autore, delle traduzioni, ecc.), valutazioni strategiche (popolarità di taluni autori presso il target di riferimento, mode più o meno durature, memoria scolastica, ecc.) ed esigenze estrinseche d’ogni natura. Anche i criteri che hanno guidato la selezione dei testi da includere in ciascun volumetto andrebbero indagati con attenzione, induttivamente. L’insieme di tali scelte, infatti, incide sull’idea stessa di poesia che il pubblico degli acquirenti – o dei semplici interessati o curiosi, ‘esposti’ mediaticamente all’iniziativa – finisce col ritenere. Si assiste insomma a una sorta di canonizzazione commerciale.
Ci avviciniamo così al punto che forse più di tutti ci preme toccare, e su cui torneremo rapidamente in conclusione. In una collana come quella del «Corriere» la figura del critico risulta quasi completamente scomparsa. L’opera di mediazione che lo studioso di letteratura tradizionalmente svolgeva – presentando l’opera, introducendone la lettura, accompagnandola da apparati filologici e note interpretative – è divenuta superflua. Appena qualche riga a mo’ d’introduzione e una telegrafica nota sull’autore, in fondo al volumetto. La poesia, ormai, viene offerta a una lettura selvaggia. Si presuppone che ciascuno possa accostarvisi (e, soprattutto, «goderne») senza alcuna preparazione, senza nessuna competenza, senza adeguato strumentario.
C’è – dietro questo modo apparentemente democratico di presentare un testo al contrario non facilmente fruibile, com’è sempre quello poetico – una scaltra consapevolezza. Si sa cioè fin troppo bene che l’opera, per quello che essa veramente è o vuole essere, in realtà non verrà mai – non potrà mai essere – autenticamente fruita da un lettore medio per il quale è divenuta di fatto, per varie ragioni, inavvicinabile, proibitiva. Non è allora tale opera, propriamente, non sono davvero i testi poetici antologizzati in ogni libriccino, a essere l’oggetto primario dell’allettamento al consumo. Autentico depositario del senso non è il tessuto verbale in cui ogni poesia sempre s’incarna, ma in prima istanza la merce, l’oggetto-libro. Con l’alveo d’immaginario in cui esso viene strategicamente deposto, e che lo integra irrinunciabilmente. A contare assai di più, a valere quasi esclusivamente, è una certa ben precisa idea di poesia che l’operazione editoriale s’incarica di formulare e veicolare attraverso sofisticate scelte comunicative, coinvolgenti tanto il ‘prodotto’ quanto la sua commercializzazione (come si sa l’uno e l’altra, nell’attuale stadio del capitalismo, reciprocamente indistinguibili).
Nell’elaborazione di questo immaginario – ideologicamente marcato – sulla poesia, la confezione, il ‘packaging’, costituisce un elemento decisivo. I volumetti proposti dal «Corriere» (e il confronto con operazioni simili presentate in passato, dallo stesso giornale o da altre testate, può riuscire illuminante rispetto ai progressi nel frattempo compiuti in termini di design editoriale e di produzione industriale dell’immaginario) sono in realtà altrettanti coloratissimi taccuini decorati. I grafici incaricati di ‘rinfrescare’ merce giacente in magazzino talora da molti decenni, di rivitalizzarla e renderla appetibile per un mercato sempre più esigente ed emotivo, hanno elaborato soluzioni non prive di eleganza e originalità. Il risultato complessivo, per chi contempli nel ‘piano dell’opera’ le copertine già disponibili, è decisamente ‘cool’, con un notevole effetto di varietà nell’omogeneità – il valore-base di quell’istinto del collezionista che si vuole evidentemente solleticare più di ogni cosa: la poesia ridotta a ‘collezionabile’.
La sobrietà elegante e sovente monocroma di molte edizioni di poesia, specie novecentesche, è ben lontana dalla collana «diVERSI» – un’intera civiltà tipografica è in essa completamente obliterata. I volumetti del «Corriere» quasi perdono l’aspetto di veri e propri libri, e nel formato come in taluni dettagli (gli angoli arrotondati, per esempio) si avvicinano piuttosto a certe agende e taccuini di gran moda, specie tra i più giovani. Proprio a un pubblico giovanile – o di «giovani adulti», come usano dire ora gli analisti di mercato – la collana sembra appunto particolarmente ammiccare, col proposito non troppo velato di proporre la poesia come forma di espressione non obsoleta, per nulla paludata, non più ingrommata dalle pastoie scolastiche. La poesia al contrario è cosa contemporanea, attualissima: nel senso naturalmente di ‘dinamica’, giovanile, finanche ‘glamour’. Il design editoriale, di per se stesso, non solo suggerisce per essa modalità e tempi di consumo non convenzionali (in viaggio, en plein air, in-ogni-momento-della-giornata), ma soprattutto qualifica il libro di poesia alla stregua di uno dei tanti gadgets che oggi sono chiamati, prima ancora che a estrinsecare un loro precipuo valore d’uso, a marcare uno stile individuale, a rappresentare un accessorio personale tra gli altri: statement inteso a definire la personalità del possessore, marchio per l’ostentazione sociale e relazionale di uno ‘stile’.
Va sottolineato inoltre che all’intervento volto a semantizzare direttamente il prodotto, la merce-libro, si congiunge, l’intera campagna promozionale a sostegno dell’iniziativa: il supporto mediatico, con l’irrinunciabile supplemento/rinforzo d’immaginario che fornisce, è parte integrante della merce, la costituisce come oggetto-del-desiderio. Anche la collana «diVERSI» (etichetta, quest’ultima, peraltro già pregna di ben precise prescrizioni ideologiche, che i testi disseminati da sagaci copywriter s’incaricano di rassodare) viene accompagnata da quella che sarebbe improprio definire, semplicemente, una campagna pubblicitaria. Dal momento che si tratta, più conseguentemente, di una strategia di comunicazione complessa, avvolgente (e multimediale: stampa, web, televisione), che integra il prodotto, s’incorpora alla merce, ne partecipa intimamente (probabile che i ‘creativi’ del milanese studio Dispari si siano incaricati di curare e, soprattutto, di coordinare tutti gli aspetti dell’operazione).
Servirebbe un’indagine accurata, di carattere non meramente sociologico, per cercare di comprendere – attraverso una minuziosa disamina del materiale testuale (ibrido, multi-codico) prodotto attorno all’ultima collana di poesia del «Corriere» – l’universo cognitivo, assiologico, finanche patemico, evocato/attivato – attorno alla poesia e forse anche alle singole personalità dei poeti – grazie agli strumenti del contemporaneo marketing multimediale integrato. Un simile studio potrebbe sortire risultati non banali circa la vita storica della poesia nel nostro tempo.
Vita – può facilmente ipotizzarsi – per gran parte apparente, fantasmatica. Nel momento in cui l’istruzione pubblica implode e s’immerda, e regrediscono largamente le abilità logico-linguistiche basilari; mentre l’esperienza umana stessa si depaupera e si adultera, si estingue nei termini in cui ci era più familiare – la poesia resta per la quasi generalità degli individui un oggetto anacronistico e muto. Ben pochi – tanto meno tra le generazioni più giovani – potrebbero oggi accostarsi a un Leopardi o a un Montale senza il supporto e la mediazione di un interprete speciale, non disponendo di un’intera e coerente pedagogia sociale.
Iniziative editoriali come quella del «Corriere della Sera», oggi, hanno ben poco in comune con operazioni apparentemente analoghe, risalenti – nel nostro paese – soprattutto agli anni Sessanta-Settanta (dispense, opere a fascicoli, enciclopedie, ecc.), cui può essere effettivamente riconosciuta una qualche portata positiva – in termini di prima acculturazione per ampli strati sociali, ad esempio. Perché distribuire poesia, in una società che costantemente le nega ogni valore, che non ne promuove la conoscenza effettiva, che ne mortifica lo studio, che non riconosce tempi e modi di vita necessari a una sua comprensione reale, è esattamente come non farlo. O forse peggio – se si conviene che, in generale, sia meglio omettere che mistificare.

*Nota

Una versione lievemente differente di questo scritto apparirà nella rivista “GenerAzioni”. Si ringrazia l’editore Milella di Lecce per averne consentito qui la pubblicazione.

23 pensieri su “Poesia come gadget

  1. Un’operazione biecamente divulgativa e commerciale, che però andrebbe apprezzata. Peccato non inserire fotografie degli autori con criteri da rivista, di puro intrattenimento. Chi legge poesia non ha bisogno di troppe cerimonie, sa come approfondire se necessario. Quanto all’assenza di critica, faccio notare che accade anche a teatro o al cinema: si alza il sipario e lo spettatore si trova subito nell’opera. Accade anche coi dipinti e le opere pubbliche. I classici della poesia sono già stati ampiamente sdoganati dalla critica, reggono l’urto col pubblico impreparato. Inoltre, proponendo poesia come genere, indirettamente si dà una mano anche ai poeti contemporanei: non credo vada a tutti i poeti di scrivere solo per l’élite.

    1. Sostanzialmente d’accordo con entrambi. Nel senso che è una furba operazione commerciale, ma che non creerà (solo) danni.

      Vero quello che scrivi tu, Ennio:* analisi ineccepibile. Ma colgo in pieno il punto di vista di Mayoor: il solo fatto che venga messa a disposizione di una larga fetta di pubblico della poesia di qualità, in Italia dovrebbe essere salutato con applausi.

      E sarà poi la poesia a scegliersi i suoi lettori: quando si parla di qualità – élite o non élite – la qualità stessa è la miglior barriera contro chi non saprebbe apprezzare il lavoro dell’artista.

      * Nota di E.A.
      L’articolo è di Marco Gaetani….

  2. Sono d’accordo su quasi tutto quello che scrive Marco Gaetani, ma non su due aspetti del «clima» del suo scritto: il primo è l’aver caricato l’operazione del «Corriere» di valenze ideologiche troppo forti, a cui quasi certamente il «Corriere» non ha mai pensato. Il secondo è il giudizio negativo troppo crudo. In entrambi i casi Gaetani ha ragione, ma esagera nelle sue ragioni andando oltre il bersaglio.
    Di fatto, a me sembra, il «Corriere», in maniera direi grossolana per molti aspetti, e non così intelligente come sembra, si limita a riciclare materiale che ormai possiede in un’operazione praticamente a costo zero (il costo di produzione di un volumetto del genere non supera un euro e, venduto a euro 5,90, pur calcolando i costi della distribuzione, delle rese da macerare e d’altro, consente un buon margine di profitto). Il materiale è tratto per intero da una precedente collana di poesia pubblicata dal «Corriere» (collana «La grande poesia», 32 volumi editi nel 2004), i cui volumi a loro volta derivavano in gran parte da precedenti edizioni della RCS Libri, in particolare dalla collana economica BUR nelle sue diverse varianti ed edizioni). Si può notare che, passando da una collana all’altra, l’apparato critico è diminuito fino a scomparire del tutto e il contenuto si è antologizzato (nessuna delle raccolte di poesia edite in «diVersi» è opera completa). Operazioni simili però sono abbastanza frequenti e, con minore o maggiore dignità dal punto di vista della completezza dei testi, non riguardano solo la poesia ma anche la narrativa e la saggistica. Lo stesso «Corriere» anni fa ha distribuito in edicola 50 volumi della collana «I grandi romanzieri» e decine e decine di volumi d’arte, di storia e d’altro. Ora, contemporaneamente alla collanina di poesia, distribuisce una collana di volumetti di storia (40 uscite previste) e una di monografie letterarie (su licenza della Salerno Editrice, 30 uscite previste, da Dante a Primo Levi), oltre a quelle di fumetti, di DVD di cinema, di CD musicali ecc. Per tornare alla poesia, già nel passato, circa quindici anni fa, i Fratelli Fabbri hanno distribuito in edicola quasi cento volumetti di classici italiani e stranieri e in seguito le iniziative si sono moltiplicate e in pratica non c’è grande quotidiano che non abbia la sua produzione per edicola («La Repubblica» ha sfornato decine di libri di poesia fra i quali una storia antologica di una diecina di volumi; «Il Sole 24 Ore» ha seguito a ruota ecc.)
    Tuttavia è un fenomeno solo parzialmente nuovo. Di nuovo ha infatti l’abbinata produttiva con un quotidiano (organizzazione verticale), la distribuzione in edicola e la copertura di ampie fette di mercato con un’offerta diversificata per tipo, gusti e materie (organizzazione orizzontale). Per il resto, cioè la produzione di libri a basso prezzo e il riciclo di materiali già in disponibilità dell’editore a costo zero o quasi, vi è una tradizione secolare che incomincia con Aldo Manuzio ai primi del Cinquecento. Che cos’erano, infatti, le cinquecentine di testi classici, senza note, in formato tascabile e a un costo (relativamente ai tempi) stracciato che il Manuzio pubblicava, se non l’equivalente delle odierne edizioni economiche? Risalendo nei secoli troviamo costantemente edizioni con questi caratteri: stampa povera, prezzo bassissimo, poca cura dal punto di vista critico; che convivono con le edizioni di maggior pregio. Questa linea editoriale è stata più volte utilizzata anche con intenti militanti di cultura popolare (si pensi alle edizioni popolari che uscivano a Sesto San Giovanni, alle edizioni Bietti, alla collana universale della Sonzogno ecc., tutte fra fine Ottocento e primi decenni del Novecento). Le differenze e l’aggiornamento ci sono, e notevoli, ma più dipendenti dalle mutate condizioni produttive e di mercato che da particolari strategie ideologiche.
    Un altro aspetto che a mio parere va sottolineato a proposito della distribuzione in edicola (il che vuol dire, si badi bene, con tirature superiori alle diecimila copie [fino alle due o trecentomila], perché altrimenti la distribuzione non copre le spese) è vedere – e ciò mi sembra positivo – come la cultura “alta” (sia pure, spesso, impoverita dalla scarsa cura critica dei testi e dalla stampa poco solida e poco elegante) abbia in qualche misura sostituito gli unici libri in precedenza distribuiti in edicola, cioè i romanzi di genere (gialli, rosa, fantascienza, western, ecc.).
    Si tratta, concluderei, di un fenomeno editoriale (come quello della stampa popolare e sentimentale di cui l’editore Cino Del Duca fu uno dei maggiori a livello europeo, nei decenni fra il 1930 e il 1970) che richiede bassi investimenti (perché prevale il riciclo) e un alto livello di profitto. Non vi sono investimenti a livello di ricerca, di pagamento di diritti d’autore e di innovazioni tipografiche, e basso è anche il rischio della mancata vendita, perché, dopo i primi numeri di ogni collana, in pratica si stampa solo ciò che si vende davvero e che viene calcolato con un’esattezza vicina al 90% in base alla quantità di venduto delle uscite precedenti. Non ci sono spese di magazzino e la gestione degli arretrati è limitata al minimo e solo relativa a uno o due mesi indietro.
    Sarebbe interessante affrontare il discorso dal punto di vista degli acquirenti: in quanti leggono davvero i libri che comperano in edicola? Quanto di essi capiscono e utilizzano ciò che leggono? Ma su ciò abbiamo pochi dati. Ad ogni modo i libri, e in particolare i classici di poesia, non credo che possano far male.

  3. “Sono d’accordo su quasi tutto quello che scrive Marco Gaetani, ma non su due aspetti del «clima» del suo scritto: il primo è l’aver caricato
    l’operazione del «Corriere» di valenze ideologiche troppo forti, a cui
    quasi certamente il «Corriere» non ha mai pensato. Il secondo è il
    giudizio negativo troppo crudo. In entrambi i casi Gaetani ha ragione, ma esagera nelle sue ragioni andando oltre il bersaglio.” (Aguzzi)

    Non capisco perché Gaetani sarebbe andato “oltre il bersaglio” o perché l’ideologia per funzionare dovrebbe essere stata pensata dal ‘Corriere della sera’ o perché il giudizio negativo sarebbe “troppo crudo”… E’ o non è un’operazione solo commerciale, che non tiene conto del degrado culturale in cui siamo caduti e non lo smuove ma alimenta, facendo sentire colti e sensibili alla poesia gli acquirenti di questi libricini, la “dittatura dell’ignoranza” (Majorino) in alto e in basso ?

    1. E’ un’operazione commerciale, che non tiene (quasi) conto del degrado culturale, ecc. “Quasi”, perché se no avrebbero rieditato Liala, o realizzato una collana con le memorie dei nostri amati politici, da Napolitano a Renzi.

      Insomma, finché si distribuisce poesia di qualità, non mi pare che ci sia da strapparsi i capelli. Alla fine chi vorrà restare ignorante, si prenderà il C.d.S. e lascerà lì il libro; mentre magari a qualcuno inizia la curiosità proprio da quello. E magari la prossima volta si cerca un’edizione con le note critiche, per capirne un po’ di più.

      Intendo dire: non che ci sia da fare un monumento al Corriere, abbiamo capito che dietro c’è comunque l’intenzione di catturare qualche lettore per il quotidiano, rivestendosi di un’aura “colta”: ma non saranno operazioni come queste che affosseranno la cultura italiana. Anche perché, come ho scritto nel commento precedente (e qui ne approfitto per scusarmi con Gaetani), la cultura sa difendersi benissimo da sola. Sa di essere appannaggio di una minoranza e di tutto il resto poco si cura…

    2. «Oltre il bersaglio» perché carica l’operazione del «Corriere» di valenze negative e di pianificazione (e consapevolezza) ideologica che, a mio parere, non ha, o non ha comunque nella misura attribuitagli. L’ideologia c’è comunque, visto che una delle sue tante possibili definizioni è quella di insieme di idee e atteggiamenti con i quali si affronta e interpreta il mondo, ma una cosa è un progetto che mira a particolari effetti persuasivi (ideologici) e altra cosa è un’ operazione commerciale che mira solo a vendere e guadagnare. Quindi a persuadere nel senso del consumo, non in quello di particolari idee, politiche o di altro tipo.
      Che l’operazione sia meramente commerciale è del tutto evidente. Ma mi chiedo: che altro ci si può aspettare da un’azienda? da una attività imprenditoriale? Il problema, a mio parere, non sta nel fatto che un’iniziativa sia solo commerciale, perché è ovvio che un commerciante fa iniziative commerciali, ed è giusto così. Ma sta nel valutare se l’iniziativa, dal punto di vista legittimo dell’imprenditore, risponda a una domanda del pubblico, o no; e se vi risponde, se lo fa in modo interessante, innovativo, e in definitiva in modo positivo e apprezzabile oppure no.
      Non vorrei che in altro modo i giudizi negativi (esageratamente negativi) nascessero anche da una più o meno nascosta volontà di censura, come ai vecchi tempi (ma poi non tanto vecchi), o da un’errata prospettiva culturale, quando la stampa cattolica e comunista stranamente d’accordo consideravano negativa e censuravano pressoché tutta la stampa popolare, dai periodici femminili ai fumetti. Oggi, alcuni di quei fumetti accusati di rovinare la gioventù e fomentare il crimine, sono considerati – giustamente – dei “classici” e letti in modo positivo. Quelle accuse – cattoliche e comuniste – andavano ben oltre il bersaglio, e sbagliavano. E oggi sono sinonimo di conservatorismo, non certo di capacità di interpretare i nuovi fenomeni culturali.
      La stampa indirizzata a un pubblico vasto, e perciò “popolare”, fa il suo mestiere. Non è causa del degrado, ma semmai, in qualche caso, specchio del degrado. Ma il termine stesso di “degrado” mi sa di considerazione elitaria e carica di aspettative ideologiche (queste sì consapevoli e riferite a particolari idee), estranee al significato della stampa popolare, quando questa coincide con iniziative commerciali (e non meramente propagandistiche e finanziariamente in perdita). In proposito penso che la situazione odierna di “degrado” non sia peggiore di quelle del passato. Anzi, è migliore. La cultura è sicuramente più diffusa, anche se meno politicizzata rispetto agli anni Settanta. E il fatto che il «Corriere della Sera» venda a decine di migliaia di copie opere di poesia (ad esempio, la collana dedicata ad Alda Merini nel 2015, che ha pubblicato in 16 volumetti tutta l’opera della poetessa milanese) non mi sembra poi un male, nonostante che si tratti sicuramente di iniziative puramente commerciali (e mediatiche, non di critica letteraria). Il commercio e l’imprenditoria hanno in sé anche valenze culturali che bisogna capire per quel che sono, non esorcizzarle accusandole come se il commercio avesse sempre e comunque solo un valore negativo. Cino Del Duca ha fatto i soldi con riviste femminili, televisive, fumetti e romanzi rosa, ma ha però fornito letture a oltre dieci milioni di persone (solo in Italia, in Francia anche di più) che altrimenti non avrebbero letto niente. Ha inoltre gestito anche quotidiani (ha contribuito alla creazione de “Il Giorno” di Baldacci, per esempio) e ha prodotto film di Antonioni e di Pasolini e di tanti altri. Col suo patrimonio ha creato premi letterari, ha distribuito borse di studio, ha creato (la moglie, dopo la morte di Cino) una fondazione che è fra le più ricche e culturalmente attive (e qui si parla di alta, altissima cultura) in Francia. Il mondo del commercio e dell’imprenditoria è ben più complesso di quanto appare dalle generiche accuse di parte della sinistra. Lo stesso si può dire di Mondadori e di Rizzoli, che hanno sempre curato sia la stampa popolare sia i libri di alta cultura.
      Ma poi, infine, non dimentichiamoci che la moda degli allegati al quotidiano è stata lanciata da «l’Unità» ai tempi di Veltroni, partendo dalla ristampa degli album delle figurine Panini (calciatori), di collane di romanzi gialli e anche di classici italiani e stranieri (senza apparato critico, salvo una breve introduzione). Erano iniziative solo commerciali e solo degradanti? Credo di no. Gli aspetti negativi certamente non mancano, ma chi vede solo questi è, mi sembra, malato della sindrome del rifiuto della modernità, come i nemici dei fumetti degli anni dai Quaranta ai Sessanta e parte dei Settanta.
      Una considerazione finale, e non mi si risponda di giocare sporco, riguarda la constatazione di come tutti i regimi autoritari siano sempre stati contrari alla stampa popolare indipendente. I fumetti, ad esempio, molto venduti negli Usa, furono ostacolati e rigidamente controllati sia dal fascismo, sia dal nazismo, sia dallo stalinismo. Ma non solo i fumetti, persino le edizioni popolari dei classici (salvo qualche classico particolare o le edizioni scolastiche purgate). È noto, a chi ha viaggiato in Europa e nei Paesi dell’Est prima del 1989, che persino certe opere di Marx e di Lenin (oltre ai tanti classici del marxismo eterodosso, dalla Luxemburg a Trockij ecc.) erano in vendita nelle librerie italiane, francesi e persino nella Spagna di Franco, a cura di editori commerciali, ma non si trovavano in Urss o in Bulgaria e dintorni.

      1. A l bel commento di Luciano Aguzzi vorrei aggiungere, che se ci avessero ragionato un po’ su, forse l’avrebbero potuto far meglio; che so… qual’è la
        reason why? Sta tutta nella grande promessa ” diVersi”? Ragionandoci non è male – qui c’è lo zampino di qualche buon copywriter. E’ commerciale a mille. Solo troppo sussurrato: essere diVersi andrebbe mostrato con maggior provocazione. La butto lì: un primo piano di Salvini col le orecchie da asino. Oppure una copertina in cartone traforato, abbastanza grande affinché chiunque possa metterci la faccia. No, è più probabile che i cosiddetti creativi abbiano pensato: ma che minchia di provocazione sarebbe quella di pubblicare per l’ennesima volta Quasimodo?

  4. AH, LA KULTURA CHE DI NULLA SI CURA!

    Per un’analogia tra quel che succede alla poesia e quel che succede all’università e per verificare quanto «la cultura sa difendersi benissimo da sola. Sa di essere appannaggio di una minoranza e di tutto il resto poco si cura» (Rizzi), date un’occhiata a questa testimonianza di Federico Bertoni (http://www.leparoleelecose.it/?p=22839#more-22839). Che si potrebbe intitolare anch’essa quasi “università come gadget”.
    Ecco uno stralcio:

    E quando sono riuscito a intrufolarmi nel castello, alla svolta del millennio, ho visto che gli interni erano assai meno fascinosi delle torri merlate visibili in facciata, piene di crepe ma ancora slanciate verso il cielo: mucchi di ciarpame, scartoffie, robaccia, caricature del dipendente pubblico imboscato, studiosi mediocri cooptati con l’ope legis, vecchi tromboni che concionavano in cattedra senza capire che l’edificio stava crollando. Certo qualcosa bisognava cambiare. Non per la gloria del solito ministro iperattivo ma perché erano cambiati gli studenti, le tecnologie, le enciclopedie, gli orizzonti condivisi, le modalità di relazione, i modelli di sapere e molte altre cose. Però non così. Non con questo fanatismo ideologico. Non con questa idiozia.
    […]
    Il secondo errore attiene invece a quel volatile insieme di giudizi, abitudini e rappresentazioni psichiche che chiamiamo mentalità, e che a dispetto del nome produce effetti rilevanti sulla vita pratica e materiale. Ho intuito subito che l’interpretazione della maggior parte dei docenti collimava con il vizio ideologico del 3+2: una base larga, in cui fare il lavoro sporco e giocare inevitabilmente (?) al ribasso, riducendo e banalizzando i programmi, trattando gli studenti come mandrie al pascolo, e un vertice elitario a cui riservare il distillato del proprio sapere e attività più selezionate e gratificanti come seminari, ricerche individuali o percorsi personalizzati. Quando sentivo scattare questa trappola mentale cercavo inutilmente di sfuggire; e dicevo: colleghi, stiamo attenti, gli studenti della laurea magistrale non piovono dalla luna ma sono i nostri stessi studenti del triennio, solo più vecchi di un anno. Li abbiamo laureati noi. Se li alleviamo come somari non potranno volare. Se non investiamo innanzitutto sul livello più basso non andremo da nessuna parte. Ma allora ero giovane e ingenuo. Non capivo che la finalità intrinseca del sistema, voluto e istituito da un ministro di sinistra, era esattamente questa: divaricare i livelli, contrapporre massa e qualità, rinsaldare i privilegi di origine e classe, e in fin dei conti smantellare quel confuso ma glorioso progetto di emancipazione sociale che l’Italia repubblicana aveva tentato di realizzare, anche e soprattutto attraverso l’università, fedele all’articolo 3 della Costituzione. Ma quel progetto era fallito, e gli anni successivi l’avrebbero ribadito a oltranza. Il Sessantotto era lontano come il Giurassico. Stava iniziando l’era dell’Eccellenza.

    1. Ti garantisco, Ennio, che la Cultura (almeno quella senza la K) si difende benissimo da sola; e proprio per questo non si trova molto spesso nelle Università, almeno quelle italiane: tale fu la mia esperienza nei confronti dell’IUAV tra gli Anni Settanta e Ottanta. Fermo restando che di insegnanti universitari bravi, comunque ce ne sono.

      Sul fatto che “di nulla si curi”, forse il discorso sarebbe lungo: sintetizzando, la Cultura (sempre quella senza K) fa parte del concetto di qualità della vita. Per cui si potrebbe rovesciare il problema: chi non ne ha si cura di poco o nulla, mandando a ramengo la qualità della vita; propria e – purtroppo – anche quella altrui.

  5. Una collana che sa di monumento funebre, come per i nati dopo il ’45 e a memoria per quelli che verranno; con colori da caramella, così sembra, ma tanto valeva mettere in copertina un flower di Warhol . Come andare a Palazzo Reale per l’ennesima mostra su Picasso. O Michelangelo. Ma, artisticamente, ne siamo davvero fuori? Non credo proprio. Ancora molti poeti praticano il riciclo.

  6. POESIA E MERCE-POESIA

    @ Aguzzi

    Beh, in fondo fai una piatta apologia del capitalismo “modernizzatore” e persino “benefattore” e gli errori di chi pareva ad esso opporsi (la sinistra d’ancien e di nouveau regime) rendono il tuo discorso pieno di buon senso e di saggezza del poi.
    Comunque, ecco le mie obiezioni:

    1.
    Non è vero che « una cosa è un progetto che mira a particolari effetti persuasivi (ideologici) e altra cosa è un’ operazione commerciale che mira solo a vendere e guadagnare». Il commercio, come qualsiasi altra pratica umana, non è operazione neutra; e cambia di segno nel tempo: quello prima del capitalismo non è la stessa cosa del commercio che si svolge quando il capitalismo si afferma o è (oggi) maturissimo. Se prendessi sul serio Gaetani quando nel suo articolo sostiene che, oggi, in regime di industria culturale (capitalistica, aggiungo io), «non c’è molta differenza (se non probabilmente nella tiratura) tra una collezione di poesia, una di fumetti, un’enciclopedia di cucina, una collana di CD o DVD, un corso di lingua o un album di figurine», si capirebbe che l’effetto ideologico viene lo stesso ottenuto da quella che tu presenti come mera «operazione commerciale»; e consiste proprio nel convincere la gente che è cosa giusta o non cattiva «appiattire tutto, […] neutralizzare implicitamente ogni differenza e ogni valore». È qui che sta per me il *degrado* che tu non vedi o fingi di non vedere più. E che è, sì, un degrado rispetto alla cultura diffusa negli anni Settanta, che era più «politicizzata», ma è soprattutto degrado di una prospettiva che mirava ad un uso attivo e costruttivo dell’arte e della poesia da parte dei *molti*; e voleva spazzar via proprio questo consumismo che ora ci ha seppellito e che regala ogni tanto un surrogato di poesia a un pubblico (noi compresi!) sempre più diseducato e condizionato dalla pubblicità, dalla propaganda e dai sempre rinnovati “miti d’oggi” a botta di miliardi d’investimenti. No, non c’è neppure più bisogno di imporre la commercializzazione accompagnandola cn la grancassa di messaggi esplicitamente ideologici o politici. L’elemento ideologico-politico è già incorporato nell’oggetto-merce o nel libro-merce; ed è corroborato dal contesto socio-cultural-politico del tutto omologo alla Mentalità imprenditoriale.

    2.
    Il fatto, dunque, che la poesia (o la cultura più in generale) sia venduta come merce non scandalizza più nessuno. Resta il fatto che essa è altra cosa dalla poesia che veniva usufruita (o “goduta”) prima della sua sottomissione quasi completa all’industria culturale. Come una riproduzione del Partenone o di Rembrandt sono altra cosa rispetto agli originali. La differenza può sembrare piccola o irrilevante, ma è decisiva. Perché, malgrado tutte le nostre buone intenzioni, i bei discorsi, gli entusiasmi per la “democratizzazione” dei saperi o dei “beni culturali”, quello che guardiamo, tocchiamo, interroghiamo è soprattutto *merce* o – se vogliamo essere accomodanti e di bocca buona – *poesia mista a merce*, *merce con un aroma di poesia*, *surrogato di poesia*. E, dunque, quella che era la funzione principale della poesia (di educazione alla Bellezza, alla Virtù, alla Libertà, alla Umanità o insomma ai Valori ritenuti Assoluti in questa o quell’epoca) non esiste più. Acquistando i librettini dell’azienda «Corriere della sera» il popolo-lettore non s’accosta di più o s’impossessa della poesia, non si trasforma, non “cresce”, non “matura”, non diventa *moltinpoesia* nel senso positivo che ho cercato di chiarire nella nostra precedente e controversa discussione (qui: https://www.poliscritture.it/2016/03/27/molti-in-poesia/ ) ma resta *consumatore* di una poesia mercificata, che ha perso il suo valore anche minimo di liberazione o di stimolo a «egregie cose». Si potrebbe dire che anche il *consumatore*, malgrado la posizione supina di fronte all’Industria culturale, invoca ancora confusamente e appassionatamente *poesia* ( magari anche affannandosi a scriverne), ma non sapendo bene più cosa fu, a cosa sia ridotta oggi e cosa veramente cerca ancora quando si trova tra le mani, come ho detto, solo una *merce* o * poesia mista a merce*, *merce con un aroma di poesia*, *surrogato di poesia*, ecc. Chi s’accontenta gode? Ma che godimento è?

    3.
    Certo, questo passa il convento o l’azienda (oggi capitalista), ma è una miseria rispetto a quello che confusamente si vorrebbe; e forse si potrebbe ancora ottenere rifiutandosi di cedere alle proposte di *questo* convento o di *questo* tipo di industria culturale. Quando scrivi: «Che l’operazione sia meramente commerciale è del tutto evidente. Ma mi chiedo: che altro ci si può aspettare da un’azienda? da una attività imprenditoriale?», la tua stessa retorica domanda è la prova della rassegnazione e dell’adattamento (secondo me servile, mi scuserai dell’espressione…) all’esistente. Per te non è pensabile altra soluzione che questa. E, infatti, eludi la questione ponendo un problema, che a me pare falsato: l’iniziativa dell’imprenditore «Corriere della sera» risponde o no a una «domanda del pubblico»? e lo fa «in modo interessante, innovativo, e in definitiva in modo positivo e apprezzabile oppure no»? Ma io mi farei ben altre domande: qual è veramente la «domanda del pubblico»? chi l’ha definita e quali strumenti ha usato per farla emergere? e qual è oggi il pubblico concreto a cui si rivolge la proposta del «Corrriere della sera»? quale autonomia di scegliere ha questo pubblico? com’è stato modellato nel tempo dall’industria culturale? sulla base di quale criterio tu valuti se il modo con cui il «Corriere della sera» propone “poesia” è interessante, innovativo apprezzabile?

    4.
    No, le critiche di Gaetani (e le mie) non nascono da « una più o meno nascosta volontà di censura». È inaccettabile e troppo facile il giochino di agitare i fantasmi del moralismo della Chiesa e del PCI togliattiano. Se rifletti bene, la prima, vera e potente censura la fa proprio il «Corriere della sera» che, mirando esclusivamente o soprattutto al guadagno, *censura* qualsiasi altra possibilità; anche quella minima – ventilata ad es. da Gaetani – di proporre un’opera divulgativa della poesia criticamente e razionalmente fondata, che sarebbe giudicata subito troppo costosa. Non dico di ispirarsi alla educazione estetica alla Schiller o al Lukàcs che teorizzava un proletariato capace di ereditare con la sua lotta il meglio della grande cultura della borghesia in ascesa, ma appunto solo altre possibilità pensabili al di fuori del cappio della commercializzazione e del profitto che ci soffoca. Chiediti come mai ti sia venuta in mente che si possa criticare l’operazione commerciale del «Corriere della sera» soltanto rispolverando le posizioni più rozze della stampa cattolica e comunista degli anni Cinquanta o giù di lì. O soltanto da una posizione elitaria o aristocratica ( alla Montale). Benjamin e Brecht discussero bene questa problematica in altra ottica e sarebbero – con i necessari aggiornamenti – dei riferimenti ben più validi.

    5.

    No –tranquillo! – il Corsera non vende « decine di migliaia di copie di opere di poesia (ad esempio, la collana dedicata ad Alda Merini nel 2015, che ha pubblicato in 16 volumetti tutta l’opera della poetessa milanese». Vende il *gadget poesia*, vende *Merini gadget*. Qui la subdola operazione di contrabbando – che sia spontanea o meditata è del tutto secondario per quanto detto prima sulla incorporazione dell’ideologia nella pratica stessa aziendale – che Gaetani cerca di smascherare e che tu cerchi di occultare. «Non ti sembra poi un male» questa mercificazione della poesia o di una poetessa? A me, che voglio la poesia ( anzi un certo tipo di poesia) e non la *merce-poesia*, sì. E ti sfido a dimostrare quali siano le «valenze culturali» dell’operazione. Gaetani le ha negate, le ha smascherate. Tu, confonendo poesia e mercificazione, accettando questa commistione, fai passare per poesia e per cultura il suo surrogato di massa.

    7.
    Appunto, Cino Del Duca «ha fatto i soldi» fornendo «letture a oltre dieci milioni di persone (solo in Italia, in Francia anche di più)». Ma che tipo di letture? E chi ti dice che questi milioni di persone «altrimenti non avrebbero letto niente»? Se non fossero state tempestate dalla propaganda e dal miraggio di farsi una cultura leggendo le cose facili e evasive e sciocche o semplicemente distraenti che il potere economico di Cino Del Duca ( o oggi della TV o del Web) aveva la possibilità di imporgli e facendo leva su un bisogno generico di poesia e di cultura, che appunto quelle sue proposte non maturavano ma affossavano, avrebbero letto altro o magari fatto anche altro nella vita.

    8.
    Ah, sì, Cino del Duca era così bravo e illuminato e ovviamente «complesso» che, oltre a far soldi, vendendo alle masse cultura di massa (per farle restare masse manipolabili), poteva stornare anche qualche miliardo per accontentare una fetta di pubblico più esigente o colto o raffinato, magari “di sinistra”; e finanziare di tanto in tanto un film di Pasolini e Antonioni. E cioè tirare dalla sua parte anche intellettuali pensanti ma pronti a compromettersi o a tentare – speriamo che sia andata così – la via dell’essere «astuti come colombe» (Fortini) nei salotti bene all’ombra del Palazzo.O offrire persino borse di studio e premi agli intellettuali “meritevoli”. E così Mondadori e Rizzoli. Oh, sì: divide et impera. Stampa popolare da una parte e alta cultura dall’altra. Bello accomodarsi in quei luoghi e lasciar perdere le “cazzate marxiste” (Cfr. citazione da «I Quaderni di Italo IV» che ho anticipato qui: https://www.poliscritture.it/2016/03/27/molti-in-poesia/#comment-28323).

    9.
    E che l’Unità dei tempi di Veltroni (non di Gramsci!) abbia finito per adeguarsi (come l’Urss al liberìsmo…) alla legge del profitto e alla mercificazione della cultura,che oggi è obbligatoriamente «senza apparato critico, salvo una breve introduzione», per te è segno di rinsavimento, per me di tradimento o di adattamento – ripeto – servile. No, nel criticare queste operazioni non c’è nessuna «sindrome del rifiuto della modernità». Si tratta di semplice *protezione delle nostre verità*, della *nostra memoria* e magari di un’altra possibile modernità. Quelli che tu sbeffeggi come «nemici dei fumetti degli anni dai Quaranta ai Sessanta e parte dei Settanta», forse sotto la patina di conservatorismo cattolico o comunista avevano un altro bisogno che purtroppo non ha potuto affermarsi e maturare. Per me non erano affatto «nemici dei fumetti» – un genere come un altro di comunicazione e di arte – ma forse dell’«uso capitalistico del fumetto», dell’uso del fumetto come cavallo di troia, di colonizzazione, di americanizzazione.

    10.
    «Tutti i regimi autoritari [sono] sempre stati contrari alla stampa popolare indipendente». Ma ti sei chiesto se era stampa popolare veramente indipendente quella di Cino del Duca o lo è adesso quella del «Corriere della sera» oggi? Di quale indipendenza parliamo? « Certe opere di Marx e di Lenin (oltre ai tanti classici del marxismo eterodosso, dalla Luxemburg a Trockij». Ma non vedi che qui circola di tutto solo perché appunto il messaggio rivoluzionario o eversivo è stato preventivamente sterilizzato?

  7. SEGNALAZIONE

    Musica e società oggi
    di Marco Gatto

    Anche se il saggio parla di musica segnalo questi passaggi in sintonia con l’articolo di Marco Gaetani e con alcune delle critiche che ho mosso a L. Aguzzi nel commento precedente. [E. A.]

    «Siamo condannati, per dirla con il vocabolario più alla moda della teoria culturale, ai gadget?»

    Stralcio:

    Discorrere dunque […] del “sapere” come categoria che riassume il paradigma umanistico cui prima accennavamo e che è sottoposta oggi a una dura prova di sopravvivenza – significa anzitutto fare i conti con un’epoca in cui, mutati i modi di socializzazione, mutano le abitudini di produzione e consumo dell’arte. Sarebbe piuttosto sbrigativo lamentare che non si sappia più leggere Dostoevskij o ascoltare Beethoven; più produttivo, sul piano della comprensione, è chiedersi se quei nomi rimandano oggi a un qualche valore sociale da spendere sul piano della crescita collettiva o se tale investimento non sia proprio figura di quest’ultimo termine mercantilistico: in fondo, i grandi *happening* culturali che promuovono la lettura ad alta voce de *L’idiota* o le grandi sfilate orchestrali in cui si esegue la *Nona*, assumono ben presto la parvenza di un’occasione cultuale deprivata del suo reale valore simbolico (e dunque della sua funzione sociale di comunicazione del sapere); e non a caso convivono con la musica d’ambiente e con la musica pubblicitaria (Mozart come sottofondo ideale prima dell’imbarco in aeroporto; Prokofiev come *sponsor* di un marchio di profumi), senza che ciò generi problema o contraddizione. Siamo condannati, per dirla con il vocabolario più alla moda della teoria culturale, ai *gadget*? Siamo cioè condannati alla perdita del senso estetico, a non saper più distinguere tra il rosso e il nero, tra il vero e il falso? E possiamo guardare alla “cultura” solo come a un gingillo da indossare nel fine settimana, solo come a un simbolo di appartenenza sociale, al pari di tant’altra merce? In un mondo sempre più falsamente laicizzato, la religiosità si è impadronita anche dell’arte, nelle forme di un mantenimento tribale che assicura visibilità e sicurezza a una media borghesia sempre più ignorante. In ciò Adorno è maestro indiscusso di chiaroveggenza: la paralisi della classe sociale borghese, di cui la reificazione espressiva di certe avanguardie è figura, esibisce il frutto di una dissoluzione permanente della capacità simbolica, che al contrario caratterizzerebbe, almeno in via teorica, una società matura e adulta. La nostra, invece – come ha dimostrato la psicoanalisi contemporanea più attenta alle dinamiche sociali –, è una società in tutto e per tutto adolescenziale, incapace di stabilire regole, limiti, modelli.
    […]
    Ora, l’ipertrofia della cultura – il fatto, detto in soldoni, che ognuno per esistere sia chiamato oggi a esprimersi, secondo un neodannunzianesimo tutt’altro che innocente – produce sostanzialmente un uso controllato e amministrato della cultura stessa, e il conseguente svuotamento di quei valori che tradizionalmente la modernità ha attribuito al sapere. Anche di fronte a prodotti culturali carichi di potenziale critico, l’egemonia totalizzante acquisita dal dogma dell’espressività – a cui potremmo associare il diritto all’estetizzazione – agisce in modo corrosivo: non permette al senso critico di fuoriuscire dall’opera, cosicché le merci culturali, anche quando esibiscono il loro potenziale antagonistico, si muovono come confermative rispetto all’esistente. È la scomparsa della critica; è la scomparsa della dialettica.

    (da http://www.ilponterivista.com/blog/2016/05/06/musica-societa-oggi/#more-1514)

    1. @ Ennio Abate 6 maggio 2016 alle 23:54
      SEGNALAZIONE
      Musica e società oggi
      di Marco Gatto
      “A partire dall’educazione estetica, che ha bisogno, specie nel caso della musica, di una trasformazione politico-istituzionale evidente, prima che – per fare un esempio – i nostri conservatori si mutino in accademie delle spettacolo o in avamposti della televisione.”

      Trovo condivisibili diverse idee espresse da Marco Gatto. Sulle difficoltà di comunicazione dell’attuale musica “seria” mi ero espresso in in un dibattito sui Moltinpoesia “Ogni tanto mi costringo ad ascoltare musica dodecafonica, seriale, concreta e altre bizzarre sperimentazioni. Devo dire che questo tipo di musica mi lascia freddo come un ghiacciolo sia in senso emotivo che intellettuale. Capisco che un artista senta l’esigenza di andare oltre i propri predecessori e quindi deve sperimentare, è più che giusto è doveroso. Purtroppo però bisogna ammettere che, allo stato attuale, queste sperimentazioni hanno prodotto risultati insoddisfacenti. La totalità del pubblico, parlo di quasi tutti gli abitanti della terra, queste cose non le considera musica. C’è da chiedersi allora a che serve un’arte che si parla addosso? Mi pare che gli unici sbocchi per questo tipo di musicisti siano i colleghi, nelle chiuse Accademie e Conservatori…Ho ascoltato Berg e Nono. Che le devo dire? Io preferisco ascoltare, ad esempio, un David Bowie. Lo trovo più vitale, più fantasioso. Guai ai musicisti che s’innamorano delle loro teorie scritte e non tengono conto del risultato sonoro!”

      Nel suo articolo però Marco Gatto non cita mai la musica pop, rock, jazz. Ciò mi fa pensare che per lui questi generi musicali non siano vera musica ma “roba” di consumo, di spettacolo. E la sua frase surriportata mi sembra confermare indirettamente questa sua posizione su cui non concordo per niente. Secondo me invece i Conservatori sono troppo conservatori e hanno perso il contatto con la maggioranza del pubblico. E poi non è proprio nei Conservatori che si annidano le avanguardie musicali più autoreferenziali? Perché allora egli teme che “si mutino in accademie delle spettacolo o in avamposti della televisione”? Per me non corrono questo pericolo. Ma è un difetto non un pregio.

  8. SEGNALAZIONE
    (dalla bacheca di Nicola Corda)

    Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino ad allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore.

    (K. Marx, Miseria della Filosofia)

    Marx da Nicola Corda

    1. Un Borges da 5 euro!
      Ma non siamo al tempo della riproducibilità dell’opera d’arte? Quando ne scrisse Benjamin erano fotocopie…

      1. @ Ricotta

        Marx che parla di Proudhon. Vedi qui:

        Ecco un esempio del “metodo storico e descrittivo” [I, p. 30] di Proudhon il quale ostenta un orgoglioso disprezzo per il “metodo storico e descrittivo” degli Adam Smith e dei Ricardo.

        Lo scambio ha una propria storia; è passato per diverse fasi.

        Vi fu un tempo, il medioevo, in cui non si scambiava che il superfluo, l’eccedente della produzione sul consumo.

        Vi fu anche un tempo in cui non solo il superfluo ma tutti i prodotti, tutta la realtà industriale erano divenuti commercio; un tempo in cui tutta la produzione dipendeva dallo scambio. Come spiegare questa seconda fase dello scambio, il valore di scambio elevato al quadrato?

        Proudhon potrebbe avere pronta una risposta: potete supporre che un uomo abbia “proposto ad altri uomini, suoi collaboratori in funzioni diverse” di elevare al quadrato il valore di scambio.

        Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtú, amore, opinione, scienza, coscienza, ecc. – tutto divenne commercio. È il tempo della corruzione generale, della venalità universale, o, per parlare in termini di economia politica, il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore.

        Come spiegare ora questa nuova ed ultima fase dello scambio, il valore di scambio elevato al cubo?

        Proudhon avrebbe pronta una risposta. Potete supporre che una persona abbia “proposto ad altre persone, suoi collaboratori in funzioni diverse”, di fare della virtù, dell’amore, ecc. un valore venale, di elevare il valore di scambio alla sua terza potenza.

        Si vede bene: il “metodo storico e descrittivo” di Proudhon è buono a tutto, risponde a tutto, spiega tutto. Se si tratta di spiegare storicamente la “genesi di una idea economica” egli suppone un uomo che abbia proposto ad altri uomini, suoi collaboratori in funzioni diverse, di determinare questa “genesi”, e tutto è a posto.

        Nel testo, inoltre, le frasi di Proudhon sono virgolettate e con l’indicazione delle pagine.

        (da https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1847/miseria-filosofia/capitolo1.htm)

  9. Sono appena tornato da un lungo viaggio (reale) che ti trovo questa bella discussione su un argomento che mi interessa molto.
    La segreteria telefonica è piena di messaggi di scocciatori che chiedono sempre qualcosa senza mai dare. Li cancello. Mi leggo l’articolo di Marco Gaetani e i 14 commenti. E’ stato detto molto, forse tutto. E sono pure d’accordo sulla quasi totalità delle riflessioni. A questo punto io posso solo portare la mia testimonianza come lettore di poesie. Credo di potermi definire un lettore “medio”. In verità il termine, usatissimo anche in altri contesti, non ho mai saputo cosa davvero significasse. C’è un’indagine statistica con tanto di media, varianza e test di verosimiglianza alla base? Davvero gli editori li commissionano o sono i ricercatori di statistica che li fanno abitualmente per studio? Mi piacerebbe saperlo. Comunque la curiosità mi ha spinto ad andare in edicola per vedere se riuscivo a prendere qualche numero di questa collana. In realtà avevo già visto la pubblicità in tv ma me ne ero disinteressato in quanto ero rimasto parzialmente deluso da una precedente collana di poesia dello stesso quotidiano: Un secolo di poesia. La delusione nasceva dalla mancanza di un adeguato apparato critico (apparati filologici e note interpretative, come scrive Gaetani) che mi permettesse di capire davvero le poesie di certi poeti. Insomma certi poeti io non li capisco e mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse le loro poesie. Certo se facessi un’accurata ricerca in libreria e in biblioteca qualcosa troverei. Ma io devo fare altro nella vita, non posso impegnarmi a tempo pieno in questa attività. Forse per questo sono un lettore “medio”? La parziale soddisfazione invece derivava dal fatto che ho conosciuto poeti che ignoravo: Wisława Szymborska, Anna Achmatova (bella donna!), Marina Cvetaeva (idem), e diversi altri. Ho apprezzato sommamente anche le versioni in lingua originale. Ad esempio, in Achmatova, pur non conoscendo minimamente il russo, ho scoperto che lei scrive in rima semplicemente analizzando la grafia delle terminazioni delle parole in cirillico. Mi sono poi messo a compitare il cirillico cercando di aiutarmi con la pronuncia dell’alfabeto russo trovato sul web e con quei siti che hanno traduttori automatici e persino l’audio. Ho chiesto ad un paio di edicole. Della nuova collana ho trovato solo Catullo, l’ultima uscita. Gli altri li avevano già resi e di qualcun altro avevo già delle opere. Catullo mi evocava lontani ricordi scolastici ma nulla di specifico, per cui mi ha incuriosito. La veste grafica mi ricorda certi breviari, di per sé accattivante, con incorporato il nastrino segnapagina (molto utile! anche questo da breviario). Anche la superficie della copertina ha un tatto gommoso, molto piacevole. Nota introduttiva e biografica ridotte proprio all’osso ma devo dire molto ben fatte (traduzione e curatela di Nicola Gardini). Innanzitutto ho imparato una nuova parola “curatela”. Poi mi è venuto il desiderio di sapere qualcosa su Nicola Gardini. Ma sul web ce ne sono diversi, dovrò approfondire. In verità di Catullo non ricordavo nulla. Leggendo l’introduzione mi è tornato in mente il suo amore Lesbia ma non Gaudenzio (forse nei miei testi scolastici costui non era citato). A ripensarci ora due amori con due nomi che sono tutto un programma! Divertente, nell’introduzione, che il solito Cicerone bacchettasse i neòteroi perché trascuravano l’impegno civile per i sentimenti intimi. Ma il curatore s’affretta ad aggiungere che invece l’impegno civile c’è eccome in Catullo. Come se fosse una colpa scrivere solo poesie intimiste! Veramente dalle poesie che ho letto questo impegno civile io non lo vedo. Comunque il curatore assicura che Catullo ha scritto sulla necessità del rispetto dei ruoli e dell’ordine. Ognuno stia al suo posto. Ad esempio la bisessualità è normale per un adulto purché nell’atto amoroso egli assuma un ruolo attivo: il ruolo passivo è riservato agli schiavi e ai ragazzi come Giovenzio (ma non era Gaudenzio?). Un gran democratico questo Catullo con idee chiarissime. Non ci vedo molto di lirico. Tutte queste cose nei miei libri scolastici non me le hanno dette! Non c’è però il testo latino, grave pecca. Anche qui parziale soddisfazione. Qualcosa ho imparato. Si poteva fare di più? Certo, ma non credo a 5,90 euro. Quanti di più ce ne sarebbero voluti per un’edizione critica? Gli acquirenti, io stesso, sarebbero stati disposti a spenderli? Per me dipende dal prezzo. La precedente collana costava 7,90 euro e io l’ho acquistata. L’avrei forse presa anche a 10 euro (togliete quei ridicoli 0,90). Sarebbe interessante appurarlo statisticamente, per l’appunto.

    1. Come ho scritto altrove, sono sì operazioni di mercato, ma permettono a chi ha meno possibilità (economiche ma non necessariamente solo queste), di farsi una panoramica, per quanto superficiale, di un determinato settore. Panoramica che approfondirà, se ne avrà la voglia, i mezzi, ecc.

      I primi dischi che acquistammo, più o meno nel ’68, erano edizioni economiche di musica classica; in seguito ci prendemmo anche le nove di Beethoven eseguite da Toscanini, ma intanto partimmo da lì.

      Questo per ribadire che (pur pensando che gli ideatori di tali operazione siano più interessati al loro guadagno e alla loro immagine, che alla cultura in Italia) non sia poi il caso di scandalizzarsi o di demonizzarle.

      Se poi questo diventa un punto di partenza per analizzare la situazione culturale del Paese e i rapporti cultura – mercato, ben venga la discussione.

  10. @ Rizzi

    « I primi dischi che acquistammo, più o meno nel ’68, erano edizioni economiche di musica classica; in seguito ci prendemmo anche le nove di Beethoven eseguite da Toscanini, ma intanto partimmo da lì».

    Certo che ciascuno si accultura su quel che gli passa il convento. Ma l’acculturazione ha un senso, se vista da un punto di vista del piacere o della passione che prova il singolo che s’accosta alla cultura di una collettività in modo spontaneo e ingenuo; e un altro, se il punto di vista è *critico/politico* (che non equivale a moralistico, bacchettone, intruppato come diceva Aguzzi parlando della stampa cattolica e comunista degli anni ’40-’50).
    Credo ci sia un aut-aut ineludibile tra questi due punti di vista.

    Io, che sono più vecchio di te, iniziai la mia acculturazione su «Il Vittorioso» e i fumetti di «Sciuscià» e di «Pecos Bill» e poi sugli Oscar Mondadori o sugli inserti di «Epoca» sulla pittura moderna. Ed è chiaro che si stabilisce un insidioso rapporto affettivo con quegli oggetti-merce, difficile da estirpare o correggere. In un certo senso li hai fatti entrare nel tuo mondo, nel tuo immaginario. Ti ci sei affezionato. Gli hai attribuito un’*aura*, fanno parte della tua *mitologia privata*. T’irriteresti comunque a sentirli criticati o sbeffeggiati da chi si è acculturato su altri oggetti-merce (magari “d’avanguardia” per riferirmi al commento di Ricotta o, come capita ai ragazzi e giovani d’oggi, multimediali).

    E tuttavia, ad un certo punto, diventando adulti, scontrandoti con la realtà (o un di più di realtà che allora non vedevi), accorgendoti che il Paese dei balocchi (dell’immaginario) è gestito dall’Industria culturale e che ad aderirvi come *consumatori* passivi si diventa ciuchini, forse arriverai come minimo a chiederti che cosa (ideologia, mentalità) ti è stata passata dai produttori di oggetti-merce proprio solleticando abilmente il tuo piacere, la tua emotività, il tuo narcisismo. Ma questa interrogazione non è garantita. Perché puoi conquistarti i dati reali, che prima ignoravi e che l’Industria culturale occulta per principio, solo con lo studio, il ragionamento, l’ascolto di posizioni critiche, spesso isolate, denigrate, demonizzate. E diciamo pure sgradevoli. (Studiare Marx o altri “rompicoglioni” non è una passeggiata).

    1. Sì, comprendo e concordo col tuo punto di vista: il percorso che dici è proprio quello che feci, come ovvio anche stimolato dall’ambiente culturale (familiare) di partenza.

      Qui secondo me si scontrano i nostri modi “di base” utilizzati per analizzare i problemi: a me sembra che tu parta da un punto di vista generale, nel senso che ti preoccupi della società (o di fasce sociali) ben definite; io, partendo dall’individuo, mi preoccupo poco dell’intero, perché lo vedo come somma di singoli: i quali – come sai dalle nostre precedenti discussioni – sono gli unici responsabili della propria crescita (anche culturale), a prescindere dalla classe sociale di appartenenza: col risultato che tanti più “singoli” affrontano la propria crescita culturale a livello qualitativo, più dovrebbe crescere anche il peso culturale di quella fascia sociale.

      Così che – mercato o non mercato – chi vuole arrivare arriva, chi corre dietro ai fantasmi (ideologici, economici e chi più ne ha più ne metta), se gli va bene finirà in qualche vicolo cieco.

      Non so dirti quanto un giudizio come il mio possa essere generato da “affetto”; riconosco, che quei prodotti a basso costo mi servirono per iniziare un percorso (ho tirato in ballo apposta la musica classica; se parlassimo di pittura, partii da Burri, Pollock e altri, “via Argan”, per esempio) e quindi penso che possano servire anche ad altri; ma di sicuro non li mitizzo.

  11. @ Rizzi

    “Qui secondo me si scontrano i nostri modi “di base” utilizzati per analizzare i problemi: a me sembra che tu parta da un punto di vista generale, nel senso che ti preoccupi della società (o di fasce sociali) ben definite; io, partendo dall’individuo, mi preoccupo poco dell’intero, perché lo vedo come somma di singoli: i quali – come sai dalle nostre precedenti discussioni – sono gli unici responsabili della propria crescita (anche culturale), a prescindere dalla classe sociale di appartenenza”.

    Concordo sul fatto che abbiamo punti di vista diversi. Lo si è visto e lo si vede.
    Ma quando scrivi: “i quali – come sai dalle nostre precedenti discussioni – sono gli unici responsabili della propria crescita (anche culturale), a prescindere dalla classe sociale di appartenenza”, ti pregherei di aggiungere precisando: *per me*.

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