Per Ubaldo de Robertis

Vi dò la notizia della morte di Ubaldo de Robertis, che ho appena appreso [E. A.]

Rita Simonitto 12 maggio 2017 alle 13:06

Si dice – e non a caso – che “ambasciator non porta pena”.
Ma io vorrei arrabbiarmi con Ennio, per la notizia crudele che porta e che pure deve essere comunicata, mentre in realtà vorrei prendermela con Ubaldo per la ‘licenza’ che si è presa: “come ha potuto lasciarci?!”.
Certo, ci ha lasciato in eredità la ricchezza del suo pensiero che si è aperto a ventaglio contemplando sia il versante scientifico che quello poetico. E, per quanto ci siano misteriose alchimie nella mente per cui ci sembra di aver conosciuto una persona ‘da sempre’, come se una parte di quella fosse già dentro di noi, pur tuttavia abbiamo bisogno del contatto reale con lei. E sarà questo che crudelmente ci è stato tolto e mancherà. Mancherà. Un vuoto.
Io ho potuto conoscere, attraverso Poliscritture, oltre ai suoi commenti di ‘varia umanità’, come si suole dire, ma sempre trattati con acume, la sua produzione poetica, che ho apprezzato e che mi ha fatto commuovere e pensare.
Delle sue poesie amo ricordare uno degli incipit che annovero fra i più belli, più struggenti. Per la sua potenza visiva e densa di tragicità umana, e che metto assieme ad altri incipit – cito alla rinfusa, Leopardi, Foscolo, Brecht, Quasimodo, Eliot, Auden – quando mi urge il bisogno di entrare in contatto con il fascinoso mistero che il linguaggio poetico porta con sé.
Vorrei portare con queste poche righe di testimonianza il mio cordoglio ai famigliari di Ubaldo e a tutte le persone che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo.

da Ubaldo De Robertis (a Max Frisch)

Mare e cielo adunati in un unico sguardo,
visione maestosa, sublime. Ritta sullo scoglio
una minuscola figura, si toglie il cappello
alzandolo il più possibile per sventolarlo.
E non ci sono vele all’orizzonte, angoli ristretti, relitti,
solo stupore, a Palavas, con cui riempirsi gli occhi,
ebbrezza che in un uomo ordinario sparisce.

R.S.

*

*

*

Lucio Mayoor Tosi 12 maggio 2017 alle 13:42

Ubaldo era gentile con tutti. Tempo fa gli chiesi di poter stampare una sua poesia sul catalogo di una mia mostra – che poi non si fece – perché sembrava parlasse dei miei quadri, insomma era perfetta anche per me. Mi diede consigli e trasmise fiducia. Bravo. E bravissimo poeta, niente a che vedere con la tradizione italiana, quella recente che inizia da Montale, ma nemmeno con lo sperimentalismo. Le sue erano, sono poesie libere, frammentate nel modo di pensare e sapientemente scritte, in modo nuovo, come si tenta di fare da più parti per risvegliare la poesia italiana dal sonno letale in cui si trova.
Poeta da rileggere, per qualcuno spero sia anche di insegnamento. Spiace, aveva molto da dare, aveva appena iniziato un percorso con nuovi amici poeti con i quali aveva trovato affinità e comunione di intenti… e comunque sia, è un poeta che se ne va. Chi ama la poesia sa quanti pensieri come fiori si portano in dono al poeta che muore: è gratitudine, per averci dato il meglio della sua solitudine. E’ da qualche mese che mi manca, lo sapevo ammalato e non volevo importunare i famigliari con domande inutili. Ora so, un po’ me l’aspettavo, era un male serio. Mando da qui un abbraccio, a lui e ai suoi famigliari. Gli si è voluto bene anche noi.

8 pensieri su “Per Ubaldo de Robertis

  1. Stiamo ancora commemorando Attilio Mangano ed arriva la notizia della morte di Ubaldo de Robertis. Oblio, memoria, morte: temi collegati e che si ripropongono. (Vedi commenti di Aguzzi, ma anche «La solitudine di Schenk» di Rabissi). Scaviamoli. Non credo che si debba sfuggire alla rielaborazione dei lutti se la realtà (esistenziale e storica) ce li impone anche brutalmente e uno addosso all’altro, senza tregue. Non vedo contrasto tra riflettere sulla morte di amici che abbiamo conosciuto ( e sulla nostra morte) e volontà di resistere e mantenere aperta una *scommessa* ( qualunque essa sia per ciascuno/a di noi). Qui sotto alcuni brani ( mi scuso se sono saltati dei corsivi) sul tema, colti a volo o ricordati. [E. A.]

    SEGNALAZIONI

    1

    La morte accettabile
    di NICOLA BARONI

    Ebbene, specie in campo medico, il progresso ha comportato l’occultamento nella coscienza dell’uomo della morte con la malattia non guaribile, in un sinolo mai più scindibile. Anzi, osservando la nostra contemporaneità possiamo asserire senza tema di smentita che esattamente la cronicità della malattia più che la morte tout court ne è qualifica propria. Semplificando: un tempo si moriva molto prima, più facilmente e il luogo simbolo d’un fatto comunque pubblico era la casa, oggi si muore più tardi, s’è molto spesso malati cronici – specie nell’ultimo terzo della vita[3] – e il palcoscenico di un fatto sempre più celato è l’ospedale, locus di liberazione da una tragedia considerata imbarazzante, incompatibile con la regolarità della vita quotidiana. L’équipe medica assume così il compito di sollevare familiari e conoscenti dalla pena della rivelazione sia del trapasso che della malattia incurabile. Al moribondo – così privato dell’intimo contatto cosciente con la propria morte/malattia – spetta invece di dimostrare un *acceptable style of facing death*:che la morte o la malattia cronica[4] sia tale da poter essere *acceptable* dai superstiti, scomparire piano *“pianissimo e, per così dire, in punta di piedi”*. Sempre per amore, s’intende.
    Di fronte ad un’evidenza che ognuno di noi può trarre facilmente dalla propria esperienza, anche il rituale del lutto muta sensibilmente. Geoffrey Gorer spiega come oggi il superstite afflitto, il familiare, l’amico *“piange solo […] in privato, così come ci si spoglia o si riposa in privato […] as if it were an analogue of masturbation”*. La sua principale occupazione dev’essere quella di non far trasparire alcuna emozione, la società esige autocontrollo, fingersi indifferenti laddove s’impone decenza/dignità al moribondo: il nonno è partito per un viaggio lungo e straordinario, la nonna riposa in un giardino di caprifogli. Rubando la battuta allo stesso Ariès, non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti a scomparire tra i fiori. Per evitare, così, l’esclusione sociale egli deve indossare una maschera, nascondere il proprio dolore, evitare comportamenti che lo tradirebbero e continuare pertanto la propria vita di relazioni, di lavoro e di svaghi proprio nel momento in cui, osserva Gorer, *“egli ha più bisogno dell’assistenza della società che in qualunque altro momento della sua vita dopo l’infanzia e la prima giovinezza, eppure proprio allora la nostra società gli nega il suo aiuto e gli rifiuta la sua assistenza. Il prezzo di questa inadempienza è molto elevato: miseria, solitudine, disperazione, morbosità”*.
    (dalla bacheca FB di Roberto Buffagni: http://www.aberglaube.it/2017/04/27/la-morte-accettabile/)

    2.
    Il solo modo che io conosca di combattere la morte consiste nel continuare il dialogo con chi non c’è più attraverso l’assunzione e la selezione di un’eredità culturale comune. Rinvio a questo proposito alle parole di Cesare Cases e di Franco Fortini (in “Quaderni piacentini”, n.23-24, 1965) sulla morte di Ernesto De Martino, ancora emozionanti a leggerle oggi.

    ( Emanuele Zinato : http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/577-l%E2%80%99eredit%C3%A0-di-remo-ceserani.html)

    3.
    Ecco uno stralcio dello scritto citato da E. Zinato:

    F. Fortini, Due interlocutori, in «Questioni di frontiera», pagg. 7-15, Einaudi, Torino 1977

    Come mai allora ci si preoccupa tanto che il comportamento di fronte alla morte non
    contraddica la vita precedente? Personalmente credo «giusto», «umano» e «positivo» che l’uomo vada alla morte senza «dignità», piangendo e defecando, nel tremore, nell’ angoscia e nella ricerca di un qualsiasi oggetto che lo trattenga (o pensiero che lo illuda) al di qua. Le mandrie imploranti che scendevano nelle fosse naziste testimoniano a favore dell’uomo più di tutti coloro che rifiutano la benda. Il cristianesimo – che è anche una storia
    di tremito e lacrime – umilia i filosofi che si svenano senza batter ciglio. Di fronte al rischio che la «perdita della presenza» comporti la caduta nella «tentazione» religiosa l’amico nostro [Cases] sembra stranamente accettare la nozione individualistico-borghese (e giuridica) della unità fra i vari momenti della vita d’una persona. La frase «Mi ricordai …di una discussione che avevo avuta di recente con un comune amico che sosteneva l’opportunità di dire a de Martino che era condannato, poiché un uomo della sua statura intellettuale dovrebbe accettare la propria morte nella consapevolezza della sopravvivenza della specie. In questo mi sentivo più” demartiniano” del mio amico, la “crisi della presenza” mi sembrava qualcosa che non si può superare in modo duramente razionale … ero quindi dell’ avviso che fosse giusto nascondergli la verità», con cui Cases nega si debba a de Martino la verità sul suo stato contiene probabilmente uno storicismo meno astratto di quello che invece credeva dovergliela: ma implica l’ipotesi di una élite legiferante e illuminata, latrice e procuratrice (anche goethiana) di intelletti superiori e di personalità eminenti.L’annuncio della morte prossima e certa avrebbe infatti potuto scatenare reazioni incontrollabili, ricorsi alla divinità, illuminazioni. Gli «infami» sarebbero stati pronti a trarne vantaggio. Per di più, in ogni circostanza si deve accrescere il Monte della Ragione, si debbono favorire presenza e preservazione di atteggiamenti «razionali» e lotta contro I’irrazionale». Ancora una volta l’eredità marxista si confonde con quella giacobina e rivendica l’autorità di costringere – se necessario con una pia frode – altrui al bene. De Martino fa cominciare tutto da Cartesio ma mentre discorre con Cases ha già scritto quel saggio su «Mito, scienza religiosa e civiltà moderna» che si inizia con una storia della «crisi decisiva» delle scienze religiose e della fine delle tendenze «riduttive» nella interpretazione dei miti, dei riti, dei fatti religiosi e mistici. Nella frase di De Martino sulle possibili tentazioni religiose dell’ ammalato senza speranza non c’è soltanto quel coraggio della banalità, quella capacità di ripetere il luogo comune rinnovano dolo, che è il segno della vera intelligenza. C’è soprattutto la capacità di opporre al disvalore assoluto della morte non l’orgoglio del «grande individuo» ma tutta l’umanità con noi convivente. La miseria e la perdita (così credo di poter interpretare) possono non essere mero disvalore e negatività nella misura in cui altri – cioè il coro umano, *la forma sociale dell’ animale umano* -li assumono.
    2. Quanti e contraddittori i prolungamenti possibili del pensiero dei due interlocutori. Intanto: si doveva o no dire a de Martino la verità sul suo stato? L’argomento a favore, fondato sul rispetto dovuto alla «altezza intellettuale» dell’uomo, è pagano ed eroicistico; quello contrario mi pare ispirato da preoccupazioni quasi settarie e insieme dalla volontà di non accettare quella negazione dell’unità della persona che il terrore per la «perdita della pre-
    senza» può comportare, di non rispettare il diritto alla contraddizione, come non si rispetterebbe la libertà, in un soldato, di disertare. Anche perché annunciare vuol dire, in una certa misura, conferire. Ambasciatore porta pena. Dire la mortalità altrui è protendere la propria.(1) Cases ha capito benissimo che annunciare altrui la morte, quando non sia barbarie, è ufficio sacro. La possibile «perdita della presenza» riverbera sull’ annunciatore. Chi sta accanto al condannato non può non partecipare della ambigua funzione del sacerdote. Costui cammina talvolta all’indietro, con la propria persona impedendo al morituro la vista del palo o del palco e perciò, a un tempo, designandoli e interponendo una presenza umana. Tutto questo è intollerabile per chi non voglia cesure fra la tradizione illuministica o umanistica borghese e il socialismo. Ma la dilatazione e l’inveramento del razionalismo borghese non può non comportare quel che ormai sappiamo: le socialdemocrazie storiche e il «comunismo concorrenziale». De Martino invece sa che non si tratta di «sviluppare» i sottosviluppati». Sa che le angosce del morente non sono soltanto regressione e che il bimbo non è soltanto l’adulto futuro.

    (1) In un certo senso l’idea di prepararsi o di preparare altrui alla morte è implicitamente religiosa, ed estranea ad una concezione del mondo non-finalistica e naturalistica. (Nel momento del decollo dell’aereo, comunemente ritenuto pericoloso, c’è qualcuno che si prepara alla peggiore eventualità e c’è chi invece continua a conversare o a leggere il giornale.) L’importanza che il cristianesimo attribuisce alla coscienza della fine e ad ogni ultimo attimo di vita cosciente (di qui la preghiera contro la morte improvvisa) nasce dalla certezza che – come Cristo fa col peccato di Adamo – è sempre possibile correggere il passato (individuale e collettivo). Scrivendo queste righe del 1965 non potevo sapere che nell’ autunno di quell’ anno Frank Kermode leggeva al Bryn Mawr College le riflessioni su questo tema, poi raccolte in *The sense of an ending*, Oxford University Press, 1967 [trad, it. Il senso della fine, Milano 1972].

  2. @ Ennio:
    a me sembra terribile, parlo sul serio, che si possa sorvolare sopra un passo del genere, che ricopio :

    *L’importanza che il cristianesimo attribuisce alla coscienza della fine e ad ogni ultimo attimo di vita cosciente (di qui la preghiera contro la morte improvvisa) nasce dalla certezza che – come Cristo fa col peccato di Adamo – è sempre possibile correggere il passato (individuale e collettivo).*

    e mi domando:
    perché si deve negare questa possibilità ad un persona ? Non è una forma di intolleranza laica, come era un tempo quella religiosa che quasi costringeva a chiamare il prete?
    Io sono convinto che questo pezzo che segue e ancora stralcio rappresenti il senso ultimo del vivere, cioè di non rifiutare ( come fece uno dei due ladroni crocifissi con Cristo, mentre l’altro fece spallucce di fronte alla possibilità della conversione ) l’opportunità di fare una scelta definitiva in una direzione.
    Lo so che è difficile cominciare a credere quando si sta per andarsene, ma l’ostinazione è proprio quello che Cristo chiamò ” il peccato contro lo Spirito Santo ” che non sarà perdonato.

    “*L’importanza che il cristianesimo attribuisce alla coscienza della fine e ad ogni ultimo attimo di vita cosciente (di qui la preghiera contro la morte improvvisa) nasce dalla certezza che – come Cristo fa col peccato di Adamo – è sempre possibile correggere il passato (individuale e collettivo). *

    So che forse faccio sorridere te e anche molti degli amici di questo sito, ma a volte mi/ci rimproveri di non partecipare alla discussione, ed allora, oggi, ti lascio questo banalissimo intervento.
    mi scuso con voi
    luigi

    1. @ Luigi [Paraboschi]

      Se ho riproposto questo (vecchio?) scritto di Fortini, che consiglierei però di leggere e considerare nella sua interezza, non credo ci sia, almeno da parte mia, nessuna voglia di sorvolare su *nessuno* dei diversi atteggiamenti che si possono avere di fronte alla morte: né dei laici né dei credenti né degli atei o degli agnostici. Quindi, come si dice, la discussione è e resta aperta.

      P.s.
      Altre considerazioni le feci tempo fa (2012) in questo scritto:
      https://emiliashop.wordpress.com/2012/10/22/ennio-abate-riflessioni-su-dinanzi-al-morire-di-francesca-diano/

  3. Quanto doppio mondo nel commento di Rita: il mondo esistente, e quell’altro che attraversa la morte. Come questo avvenga non si sa, ma lei ne dà testimonianza, del resto è in una lunga tradizione transculturale, come se la morte già fosse dentro di noi, e ne abbiamo bisogno, in vita: “E, per quanto ci siano misteriose alchimie nella mente per cui ci sembra di aver conosciuto una persona ‘da sempre’, come se una parte di quella *fosse già dentro di noi*, pur tuttavia *abbiamo bisogno del contatto reale* con lei. E sarà questo che crudelmente ci è stato tolto e mancherà. Mancherà. Un vuoto.”

    E Mayoor: “Chi ama la poesia sa quanti pensieri come fiori si portano in dono al poeta che muore: è gratitudine, per averci dato il meglio *della sua solitudine*.”

    Sembrano passaggi tra morte e vita non definiti, o non definitivi. L’altra vita, che dura oltre i tempi della corruzione dei corpi, continua a inquietare nella sua sostanzialità… realtà, chissà che vuol dire per tutti quelli che praticano le idee.

  4. …mi associo a tutti voi nel dispiacere per la scomparsa di Uberto De Robertis che abbiamo ammirato per le sue belle poesie, la partecipazione nei commenti ed anche per l’interesse e il sostegno dimostrati nei confronti delle nuove generazioni di letterati – e di nuove correnti – , come Alessandro Scuro da lui, se ben ricordo, presentato sul blog…
    Riguardo alla memoria ogni discorso m’è sembrato importante, ma, da parte mia, vorrei sottolineare come sia particolarmente struggente considerare(?) quello che, stando a cavallo tra passato e futuro, non si fissa mai nel presente, come la corrente di un fiume a vedersi sfugge sempre allo sguardo…

  5. Partecipo anch’io al ricordo del carissimo Ubaldo de Robertis, scienziato e poeta oltre che uomo di profonda umanità. Dotato di sensibilità non comune, ho avuto il privilegio della sua amicizia attraverso una corrispondenza che è stata innanzi tutto corrispondenza di pensiero e di affetto nonostante la malattia lo ponesse di fronte a “un consuntivo” (sue parole) della vita.
    Rita Simonitto dice bene nell’affermare che Ubaldo ci consegna una grande eredità di pensiero e di poesia.

  6. D’accordo nel ricordare Ubaldo de Robertis ancora qui su Poliscritture. Se qualcuno avesse suoi testi o avesse riflettuto sui suoi libri si faccia vivo.

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