La realtà di Artù

Riflessioni sui rapporti tra realtà e immaginario

di Rita Simonitto

Artù guarda fisso e immobile il pavimento. Un pavimento di parquet, di quelli a spina di pesce. Ci si perde sempre in quella geometria di linee che si incrociano, poi si dipartono e poi si incrociano di nuovo. Capisco che si possa essere presi da una sorta di ipnotismo!

La luce del sole vi arriva dopo aver superato, fuori dalla finestra,  una ciocca ribelle dell’alloro che, facendo l’indipendente, ha deciso di uscire dalla potatura che gli era stata imposta “a parallelepipedo”. Dai fasci luminosi che entrano nella stanza, si formano impasti di colori che danno più o meno risalto agli oggetti che toccano.

All’improvviso il suo sguardo si fa elettrico, come se il disegno prendesse una forma dinamica, un fantasma che lui solo vede e che i suoi occhi seguono con avidità.

Ed ecco che inarca la schiena, si accuccia e fa un balzo in verticale, come un elicottero che si alza in volo; poi ripiomba giù, con la leggerezza di una piuma, fa una piroetta e con le zampe anteriori gioca palleggiando col pulviscolo che il suo stesso movimento ha generato.

L’ambiente tutto sembra godere di quei lampi che danzano con lui, chiaroscuri che si inseguono sui divani, la poltrona sbrecciata dalle unghie dei gatti e che mostra senza pudore le sue trame cadenti, i dorsi dorati dei vecchi libri che si illuminano di improvvisa vita, ed ecco che adesso una nuvola imprevista nel cielo ha oscurato il sole e, togliendo la luce, ha fermato il gioco che aveva appena oltrepassato la lunga teoria dei volumi di Shakespeare.

E lui è rimasto interdetto per un po’, fremente sulle quattro zampe, la coda dritta, fermo in attesa che il gioco ricominci.

Artù è un giovane gatto siamese.

Ha gli occhi azzurri tipici della sua razza e la loro chiarezza e profondità sembrano essere frutto di misteriose  sedimentazioni alchemiche e che però lui sembra gestire a parer suo.

Nella nostra colonia di felini il suo predecessore, pure siamese, si chiamava Ciro; pure lui, anche se in modo diverso, richiama ad un passato di grandi condottieri.

Ma non c’è parentela di sangue tra loro.

Mentre osservo le sue giravolte rifletto sui concetti di ‘persona’ e di ‘personalità’. Artù non è ‘persona’, perché non è maschera (persona) di niente,  nel mentre ha una sua personalità. Da che cosa gli viene questa?

Senza dubbio ha un nome importante, datogli da noi, ma di ciò lui sembra non avvertire il peso. Dato che è ancora un cucciolo, pensano gli umani. Ma credo non stia qui il problema.

A questo punto mi viene il sospetto che, sulla scorta di fantasmi e mitologie, siamo stati noi a imporgli un nome e una storia, e ciò forse condiziona la nostra relazione. Però è fuori dubbio che lui, a prescindere dalle nostre proiezioni, interagisce in modo diverso, direi quasi politico, non solo con gli umani, ma anche con gli altri gatti: non è ripetitivo, come se riservasse un ‘dominio’ particolare ad ogni specifica situazione secondo criteri che pertengono specificatamente a lui e alla sua razza che lo ha dotato della capacità di modulare il miagolio a seconda delle esigenze.

E in questo modo gioca con la sua realtà, una realtà in perenne movimento, percepita da lui soltanto, perché anche gli altri gatti che lo osservano sembrano non cogliere ciò che a lui invece pare chiaro. Si tratta di un ‘invisibile’ allo sguardo comune, eppure realistico per Artù al punto tale che lui lo sfida e provoca, e a cui risponde dopo avergli teso degli agguati.

Ogni tanto emette dei ‘trilli’, forse degli avvertimenti a quella realtà irreale, o forse sono semplici espressioni di godimento, come se lui e quel mondo – con il quale è in transitorio contatto –  si riconoscessero a vicenda.

E tutto ciò avviene in un idioma specifico: per quanto io gioisca di fronte alle sue acrobatiche follie e mi diverta anche ad interpretare quello spettacolo che lui mi offre con così tanta grazia e oblatività, esiste una cesura non colmabile.

Più per parte mia che per parte sua. Credo.

Perché ho l’impressione che Artù capisca di me più di quanto io capisca di lui. Ma, nello stesso tempo, questa pur presunta comprensione non allarga il campo di un possibile pensiero comune. Nel senso che il suo desiderio si esprime in un ambito relativamente circoscritto, il gioco, anche se con fasci di luce che potrebbero aprire orizzonti inesplorati.

Ad esempio, che cosa ne sa lui di Ginevra, della storia amorosa di Artù e Ginevra?

Eppure quando Ginevra si è presentata al suo orizzonte, fra le altre gatte della colonia, ha ‘scelto’ lei. Senza dubbio è una bella micina che fa onore al suo appartenere alla razza dei certosini, con quel grigio argentato che si spolvera di bianco sul musetto, e che farebbe innamorare chiunque. Ma anche lei sembra aver assecondato quel ruolo, regale ma anche ‘birichino’, perché non disdegna le attenzioni dell’altro micio del gruppo, Simbad, spavaldo nella sua mascherina bianco nera, un principe combattente.

Siamo noi umani ad aver messo in moto quella particolare comunanza di afflati oppure, se li avessimo chiamati diversamente (Nomen omen vale anche per gli animali?), ciò non sarebbe successo? Mi chiedo se il partire dal risultato, dall’effetto ultimo, ciò mi autorizzi ad istituire un processo inverso di senso che, invece, si è innescato autonomamente, da un’altra parte, sconosciuta. Quale linguaggio da condividere, dunque?

Oppure, abbandonando le ‘rive sicure’ della ragione, ci possono essere degli accostamenti con zone inesplorate e che, al momento del contatto con il mistero, risentono solo del fascino della predizione divinatoria?

Sarebbe come se volessi sostenere, a partire dal fatto che adesso Artù, ormai sfinito dalle sue bizzarrie, si è accovacciato su un corposo tomo, “Vite Ambulante” – un interessante excursus storico-enologico sulla vite e i suoi prodotti –, che la sua scelta di sdraiarsi lì, proprio su quel libro, sia avvenuta come indice di qualche cosa, così che lui diventerebbe il portatore di un segnale, di un invito a sfogliare e leggere, dato che  in quella variegata e istruttiva raccolta di storie di vini, vitigni, osterie, ci sono articoli di Giovanni Comisso e di Sergio Saviane, autori da me amati.

In un’altra stanza, nella culla, Émile, ancora lattante, l’infans, si trova in uno stato di grazia: muove le gambotte come a scalciare l’aria, e le mani paffutelle stringono e rilasciano qualcosa di impalpabile, emette gorgoglii e gioca a fare bollicine con la saliva. Sembra dare ‘corpo’ ad un suo fantasma di cui né lui né io conosciamo i connotati. Eppure, a differenza di quanto accade con il gatto, questa non-conoscenza pur incuriosendomi nella stessa misura, mi inquieta. L’enigma della vicinanza e della distanza di un possibile pensiero comune, che ci fa simili, mi disturba.

La posta in gioco non riguarda più soltanto l’entrare in contatto con un piacere condiviso, un benessere partecipato attraverso il gioco, quanto la possibilità di instaurare una relazione che, al momento, Émile potrà senza dubbio condividere con me, ma che poi dovrà trasferire al resto del mondo. E’ una specie di messaggio in bottiglia che vaga alla mercè del caso.

Il suo lettino sta nella zona ombrosa della sala non solo per dargli un po’ di refrigerio in questo caldo pomeriggio estivo, ma sembra anche riflettere una metafora di quella condizione interiore di penombra dove i confini esperenziali fra interno-esterno, me e non-me, non sono ancora ben definiti. Infatti è da lì, da quell’indefinito, che impariamo poi a decrittare, a selezionare.

Ciò non toglie che anche in quell’angolo tranquillo non arrivi qualche luminescenza, il vetro di una finestra che improvvisamente si apre ad un colpo di vento e al cui riverbero Émile risponde a pugnetti chiusi. Non ci gioca, come Artù, anzi, sembra contrariato. Ma da dove gli viene la risposta aggressiva nel confronti di quella luminosità intermittente e che lui non può controllare? Ha forse a che vedere con lo splendore dello sguardo di sua madre (e lo sguardo di lei è davvero una fantasmagoria di luce: per forza, è mia figlia!) che si permette di andare e venire a piacimento?

Sì, perché sua madre oggi ha dovuto assentarsi per il pomeriggio, e si reitera il rito dell’accudimento, che passa appunto di madre in figlia, la complessa esperienza dell’assenza e della presenza ecc. ecc., nonché degli investimenti affettivi.

A differenza del micio, il linguaggio corporeo del bebè sembra essere molto ridotto, ovviamente per limiti oggettivi perché non si può snodare come l’animale e scattare fuori dalla culla, come magari vorrebbe fare.

Nello stesso tempo, al pari di Artù, sembra sollecitare il mio linguaggio verbale, interpretativo, anche se ho l’impressione che le mie prestazioni seguano vie del tutto erratiche, senza palpabili riscontri. Almeno in apparenza procedo alla cieca.

Credo che per il gatto esse prestazioni rimangano circoscritte in un circuito di gratificazione-ripetizione, mentre per Émile si stia creando un faticoso e complesso circuito di riproduzione e trasformazione. Più aperto. O, almeno, così dovrebbe essere.

Vedo bene che il cucciolo umano reagisce in modo diverso alla cura da parte della mia figura di nonna rispetto a ciò che accade con sua madre, la relazione con la quale è molto più intricata a causa di sentimenti carichi di conflitto.

Nello stesso tempo, io posso permettermi di regolarmi in base alla mia soddisfazione del qui ed ora, e alla reciprocità (felice ?) che questa sembra produrre. Ma è davvero questo che accade?

O non è piuttosto che ambedue possiamo giocare liberamente senza la preoccupazione del “chissà che cosa potrebbe accadere se…”? Possiamo partecipare alla spensieratezza,  quasi essere complici di una beata irresponsabilità?

Infatti l’altro giorno Émile, buttando con stizza la pallina-carillon fuori dalla culla ha ‘centrato’ un fluttino di cristallo dove una rosa si stava pavoneggiando.

Sgridarlo? A che pro? Non aveva certo preso la mira. O forse, sì?

E poi, alla fin fine, in fondo in fondo, che particolare investimento avevo io nei confronti di quel calice? Ma poteva essere quello il criterio di misura? Quante domande! Che non mi pongo, se non in misura minore, nei confronti del gatto!

Quello che so per certo è che invece sua madre (conosco abbastanza mia figlia e i suoi conflitti in merito al ‘mio e non mio’, tant’è che mi chiedo come mai mi lasci così tranquillamente stare con il ‘suo’ piccolo tesoro!) sarebbe esplosa in una crisi di rabbia! E il suo sguardo così luminoso sarebbe diventato saettante di fulmini!

Ma allora? Era proprio così inintenzionale, da parte di Émile, la rottura del vaso o voleva significare invece qualche cosa di altro, e cioè che i surrogati, per quanto piacevoli (me come nonna, ad esempio) non potevano essere soddisfacenti come l’originale? E che a quel punto sarebbe stata congrua la reazione arrabbiata di sua madre, presa nel ricatto di quel vincolo? O con me o contro di me?

Essere di qualcuno, appartenere a qualcuno non è un problema ininfluente.

Anche se poi, crescendo, si dovranno definire i limiti ed i confini di quella appartenenza trasformandola in un legame che contiene (o dovrebbe contenere) tutta la gamma emotiva.

Però è una tematica che, ad esempio, con Artù non si pone.

Eppure si relaziona, non lo posso negare. Certamente ci tiene al mio ‘amore’, al mio affetto e alla mia cura per lui. Certo, fa anche dei sacrifici, inibisce alcune sue modalità ‘animali’ (come tirare fuori le unghie o mordicchiare) ma lo fa con me, a volte con mia figlia. Con Émile, invece, tende a manifestare di più la sua indole felina, forse sente che il bambino è imprevedibile, un suo concorrente, e ciò gli fa paura e si appresta all’attacco. Ma quando incontra il mio sguardo severo rispetto a quello che sta mettendo in atto, non solo ritira le unghie ma fugge al trotto, quasi una parvenza di consapevolezza, anche se penso che corrisponda di più ad un addomesticamento, una forma di colonizzazione che viene subita più che elaborata. In parte come accade per l’imitazione: solo che questa forma primitiva dovrebbe evolversi passando ad una interiorizzazione del senso più, che rimanere nella mera ripetizione del modello.

Se torno al ‘gioco’ di Artù, questo sembra essere ‘senza regole’, ed è affascinante perché dà l’impressione che la realtà venga creata lì, seduta stante, un artista al lavoro! C’è un senso di meravigliosa onnipotenza in tutto ciò. Mi esalta. Ma nel contempo mi preoccupa: quel tipo di creatività, pur sollecitando un godimento immediato e condiviso, non produce cambiamento.

Inizia e finisce lì. La nostra condivisione di ‘umani’, invece, ha bisogno di essere trasferita in un altro tipo di linguaggio partecipato e la traduzione nella verbalizzazione è il primo scoglio emotivo: è il primo ‘tradimento’, ma è anche l’origine delle trasformazioni.

Per tutto ciò io ho bisogno di Émile tanto quanto lui ha bisogno di me, anche se si tratta di due ‘bisogni’ che hanno finalità diverse.

Il mio bisogno, a differenza di quello del bambino, non può limitarsi ad una soddisfazione immediata (quella la posso avere con Artù), ma investe un processo che travalichi il qui ed ora.

Émile, nel tentativo di accedere al mio linguaggio, si scontra anche con un sistema fatto di regole, di logica e a questo cerca di contrapporre  il suo, che lui legittima – anche a diritto – perché appartiene alla sua soggettiva esperienza sensorial-emotiva che lo porta alla ricerca della soddisfazione, della risposta ‘tutto e subito’.

Lui cercherà di trascinarmi verso il basso, verso i vissuti più primordiali e carichi di angoscia, travolgendomi e facendomi perdere in essi con il rischio di fare la fine di chi, al momento del salvataggio di qualcuno che sta per affogare, viene inibito nella libertà dei suoi movimenti, perché l’altro gli si aggrappa disperato e lo paralizza.

Quindi cercherò di  sottrarmi a quella presa pericolosa, e, sopportandone le recriminazioni, gli dovrò far vedere che in ogni ingaggio ci sono dei guadagni e delle perdite.

D’altro canto, pure io ho bisogno di accedere al mondo ‘selvaggio’ di questo piccolo bambino perché là ci sta anche quella parte di me che sono stata: infans a mia volta.

E dalle vicissitudini legate a questa tormentosa impotenza ho dovuto prendere alcune distanze, per potermi relazionare con gli adulti di cui ne ho riconosciuto, anche se conflittualmente, l’importanza. Si tratta di un luogo al quale è necessario ritornare non sprovveduti, ma con il supporto dell’esperienza vissuta.

Mia figlia vorrebbe che fossi più rigida con il nipotino, perché con lei ero stata rigida, e in questo modo pensa di sottrarsi al doloroso confronto con le ribellioni del figlio.

Percepisce la mia accondiscendenza nei confronti di Émile non come uno spazio di decantazione temporanea relativa ad un conflitto, ma generalizza sostenendo, con una punta di gelosia, che a lei, come figlia, questo spazio di comprensione era venuto e mancare da parte mia e dimenticando, invece, quanto suo padre gliele dava sempre vinte: quindi una forma compensatoria c’era pur stata!

Artù non ha bisogno di raccontarsi storie per mimetizzare un conflitto e i suoi partecipanti: non c’è una separazione in lui tra reale e immaginario. Viene da sorridere quando, steso sopra il televisore cerca di acchiappare i personaggi che si muovono sullo schermo, trattandoli come figure reali e indispettendosi perché quelle continuano a fare ciò che devono fare indipendentemente da lui!

Anche Émile vuole intervenire sullo schermo condiviso, sul ‘nostro film’, e cerca di condizionare i nostri movimenti, di costituirsi le sue alleanze. Solo che buona parte di questa esperienza interattiva, poiché carica di forti tensioni emotive, verrà rimossa. Salvo emergere più tardi nella vita, quando si riapriranno, a causa di nuove frustrazioni, le antiche ferite.

Marzo 2014

 

9 pensieri su “La realtà di Artù

  1. Laboratorio di scrittura. Situazione topica.
    Rita, un animale e un infante. Rita i suoi gatti e il nipotino. Rita madre e nonna.
    Strumenti di analisi e analisi degli strumenti: Rita anziana psicanalista indaga la sua relazione con un giovane animale e un giovane umano, dai punti di vista conoscenza, affetti, relazione.
    In questi rapporti Rita è un personaggio che ha una sua storia privata, memoria, esperienze.
    Probabilmente ci sono altri livelli da esplicitare, le relazioni di Rita con il suo ambito vitale, per esempio la luce e le sue variazioni che influenzano l’umore fisico, il silenzio e la solitudine in cui la riflessione si forma. Si racconta l’indagine sui possibili piani che devono far parte dell’ambiente in cui collocare il/i personaggio/i, e quell’indagine è il racconto stesso, che una volta, invece, cominciava a quel punto.
    Oggi si scrive anche così, ed è uno scrivere praticato molto nei racconti per immagini. Invece dell’intreccio della storia, si racconta l’intreccio che l’autore attraversa per creare la “fabula”. E le dinamiche narratologiche -autore, narratore, personaggio; fabula e intreccio; il tempo della storia di chi scrive e di chi è raccontato; lo spazio reale e simbolico- tutto è esposto, all’aperto.
    E’ un modo di raccontare che a me piace molto.

  2. …davvero incomparabile la capacità di Rita di riprodurre visivamente, attraverso la narrazione, le movenze dei suoi beniamini gatti: Artù (innamorato di Ginevra!) che gioca-guizza all’inseguimento di un raggio di sole danzante…e il neonato Emile che si muove maldestro e tenero e fa le bollicine…Il primo sembra divertirla, incantarla, il secondo gli inspira un desiderio di protezione, ma la inquieta anche, è più conturbante…per entrambi prova nello stesso tempo empatia, affetto, vicinanza, distanza siderale, senso del mistero e dell’enigma…Nei rapporti umani entra la parola che però a volte ci avvicina nella conoscenza , a volte ci allontana, nel rapporto con l’animale non c’è finzione (o inganno volontario) reciproca, credo, e il rapporto si muove attraverso linguaggi “altri”, da decifrare…Rita sa entrarvi in punta di piedi, coglie anche le molte analogie con i rapporti e le dinamiche che si instaurano tra umani nell’ambito familiare…In questo racconto mi sembra centrale la descrizione, tutta al femminile, del rapporto tra madre e figlia, che spesso conosce un conflitto ( o un proseguimento di conflitto) alla nascita del primo nipotino, quasi a contendersene l’affetto…quel piccolo “selvaggio”, un’infanzia non vissuta sino in fondo, manca troppo ad entrambe…

  3. @ Cristiana, @ Annamaria
    “Yo soy yo y mi circunstancia y si no la salvo a ella no me salvo yo”, così argomentava il filosofo José Ortega y Gasset” (1883-1955).

    L’identità è quindi un insieme di *conoscenza, affetti, relazioni* (Cristiana) che
    si snodano attraverso la “fabula” e che noi, più o meno consapevolmente, ci raccontiamo.
    Nella breve poesia “Un sogno dentro un sogno”, E. Allan Poe scriveva:
    “Tutto ciò che vediamo o a cui rassomigliamo è soltanto un sogno dentro un sogno”.

    Ma non possiamo fermarci qui. Rimane comunque una ‘realtà’, fattuale, anche se il più delle volte è confusa con la concretezza dei fatti. E il suo rapporto con l’immaginario, il quale, il più delle volte, è frutto delle nostre proiezioni, dei nostri desideri, delle nostre ansie.
    Ed è questo che mi premeva portare all’attenzione attraverso le due figure di Artù e di Émile. Certo utilizzando la ‘fabula’ come modello, sia retorico che narrativo tout court.
    Ma Annamaria sottolinea: * Nei rapporti umani entra la parola che però a volte ci avvicina nella conoscenza , a volte ci allontana*.
    Sì, questo è il conflitto con il quale ci troviamo a doverci confrontare, sempre.
    Posso dire che Artù fa parte dei ‘fatti’, anche se mutuati dalle mie interpretazioni. Artù ‘esiste’, mentre invece Émile, no. E’ una mia costruzione, un fare ‘come se’, perché quell’ Émile, non c’è. Così come io non sono né madre né nonna.
    Che valore dare dunque alla rappresentazione? Non quella di stabilire la ‘verità dei fatti’, ma se quella rappresentazione ci ha portato a toccare qualche cosa di noi, dei nostri affetti e delle nostre relazioni.
    E a quali trasformazioni interne ha dato luogo.
    Grazie a Cristiana e a Annamaria.

    R.S.

    1. … era chiaro che “Rita” era solo il personaggio della storia che Rita Simonitto raccontava, e che la possibile sovrapposizione delle due era il “trucco letterario” per arrivare a “toccare qualche cosa di noi, dei nostri affetti e delle nostre relazioni.”

  4. «Che valore dare dunque alla rappresentazione? (Simonitto)

    Domanda fondamentale. A cui Rita risponde così: «Non quella di stabilire la
    ‘verità dei fatti’, ma se quella rappresentazione ci ha portato a toccare
    qualche cosa di noi, dei nostri affetti e delle nostre relazioni.
    E a quali trasformazioni interne ha dato luogo.».

    In singolare coincidenza in questi giorni, nelle mie navigazioni sul Web, mi sono imbattuto in due risposte, che a me sembrano delle varianti della sua:

    1.
    « L’eclissi del sacro, l’obsolescenza dello scenario metafisico, che per millenni ha radicato le strutture logiche, assiologiche e morali di pensiero e scrittura, può essere esperito come deriva nichilistica, oppure come ineludibile necessità di analizzare e riformulare strumenti e percorsi cognitivi ed espressivi.
    Hai scritto: “ Il problema fondamentale è comprendere la relazione tra linguaggio ed essere”. Perfetto! Tutto il pensiero speculativo e poetico del ‘900 vortica intorno a questo vespaio. “ Fra il gesto e l’atto/ fra il segno e il significato/ fra la parola e la realtà/ cade l’ombra./ Perché Tuo è il regno…” (Eliot). Le riflessioni di De Saussure, Humbolt, Nietzsche, Wittgenstein e Heidegger, si alleano nell’evidenziare l’abisso ontologico che separa la parola, cioè la struttura che materia e articola il pensiero, dalla realtà. Come il ponte del racconto di Kafka, che precipita nel volgersi per guardare la persona che lo sta percorrendo, il linguaggio vede vanificare la propria efficacia quando scopre la propria origine verbale, umana; è solo un “sentiero interrotto”, “parlato” dalla lingua; cioè tutto ciò che pensiamo non nasce per partenogenesi, ma è frutto di codici, strutture e pratiche linguistiche.
    Nel pensiero contemporaneo la tragica acquisizione che non può esistere nessuna verità estrinseca al linguaggio, cerca di assumere anche una funzione terapeutica e soteriologica: è come se abitassimo in una stanza che, anziché vetri, ha alle finestre degli specchi; crediamo di scorgere l’infinito, Dio, l’eterno, ma in realtà vediamo solo noi stessi. Il dio che abbiamo ucciso era quello che avevamo creato, a nostra immagine e utilità. “Voi, saggi fra i saggi, non avete mai avuto sete di verità, la vostra è sempre stata solo volontà di potenza” (Nietzsche, citato a memoria). Il nostro pensiero analitico, concettuale, è intrinsecamente inadatto a conoscere la Verità, ma solo a codificare, incasellare, dominare e asservire la realtà alle proprie esigenze».

    (https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/06/12/il-discorso-poetico-post-surreale-e-ultroneo-di-carlo-livia-poesie-inedite-sette-pause-del-silenzio-in-un-tempio-vuoto-leclissi-del-sacro-lobsolescenza-dello-scenario-metafisic/comment-page-1/#comment-20809)

    2.
    « Qual era il compito della poesia, per chi in quegli anni aveva issato a vessillo il magistero di Eliot, e anche quello di Pound? Portarsi la cosa dentro. La cosa, le cose, il reale. Ma non funziona così (è stato un bel mito, sì, ma appunto un mito): la cosa, le cose, il reale, non te li porti mica dentro, men che meno in una poesia, perché la cosa, le cose, il reale sono fatti di parole. È questa la realtà, perché quella che chiamiamo «realtà» è in effetti un discorso, cioè un discorso sul reale, anzi un discorrere sul reale, non il reale. Persino il nostro corpo è immaginario, perché è la parola che lo contiene. È la carne che ci chiacchiera un corpo».
    (http://www.nuoviargomenti.net/poesie/intervista-a-gabriele-frasca-prima-parte/)

    P.s.
    Collegherei questo discorso anche a quanto Mayoor (https://www.poliscritture.it/2017/06/12/su-ladatto-vocabolario-di-ogni-specie-di-alessandro-silva/#comment-73369) ha appena scritto sulla poesia di Alessandro Silva: «Le “cose”, che altri chiamano il reale, sono l’ancora di salvezza per chiunque voglia scrivere poesia».

  5. Credo che l’errore della posizione, riportata da Ennio da L’ombra delle parole, sia quello di separare il linguaggio dai concreti umani che lo usano.
    Per cui si parla di “cose” – come dice Mayoor – ma se ne parla da “cosa” (le relazioni e gli affetti) tra le “altre” cose. Quindi con una portata realistica di tutto rispetto, dove il linguaggio non è una bolla in cui siamo chiusi e che ci separa dall'”essere”, ma il modo in cui “siamo” e anche quello in cui “non siamo”.
    (Se c’è poi un essere *fuori* dal nostro farne parte col linguaggio, di quello si tace, per la contradizion che nol consente. Al massimo si arriva alla teologia negativa.)

  6. …penso che dell’immaginario fanno parte paure, desideri, deliri, amori, odi… che sono anch’esse cose perchè se non le riconosciamo e non impariamo a distinguerle possono travolgerci come le acque di un fiume in piena…Comunque credo che sia una storia e/o tante storie di “realtà” che ci fanno soffrire, gioire e ad essa dobbiamo necessariamente ritornare per farci i conti

  7. Ancora una replica a partire dal commento di Annamaria molto illuminante sotto questo profilo del rapporto tra verità e finzione letteraria (*un’infanzia non vissuta sino in fondo, manca troppo ad entrambe…*).
    Quanto tendiamo, noi, a identificarci con la “realtà” che ci viene presentata e/o imposta? L’abile affabulatore ci fa persuadere che è vera la verità che lui ci racconta. Forse che il politico (in assenza di argomentazioni valide e di validi progetti confrontabili), non fa altrettanto?
    Annamaria scrive: tutte e due [madre e figlia] sofferenti e tutte e due carenti perchè(*un’infanzia non vissuta sino in fondo, manca troppo ad entrambe…*). Annamaria si identifica, e giustamente se seguiamo l’artificio letterario, mentre l’artificio letterario è una cosa mentre la verità può essere un’altra. Chi andrà a rimetterci, sia pure in questa finzione, sarà il povero Émile che rischia di essere sballottato dai conflitti madre-figlia. Così come capita a seguito dei conflitti tra i genitori, madre e padre, che possono avere lui come pretesto (così come avviene tra i potenti quando abusano della debolezza dei piccoli indifesi), ma non è lui come sincero oggetto di attenzione. Fra i grandi si giocano partite, senza esclusione di colpi, che ai piccoli non è dato sapere, e ciò va letto anche metaforicamente a livelli extra familiari.
    Émile, dal canto suo, ha bisogno di credere (ne va della sua sopravvivenza) ad una delle due figure, o per fede, o per bisogno, o per inseguire un ideale trascendente la sua condizione di infelicità, oppure per rabbia impotente.
    A differenza di Artù, che non può accedere a questo tipo di risposta sofisticata (di cui fanno parte le illusioni, le idealizzazioni), Émile ha necessità di illudersi fintantoché il doloroso senso critico non si affaccerà alla sua porta.
    R.S.

  8. …”Fra i grandi si giocano partite, senza esclusione di colpi, che ai piccoli non è dato sapere…” Sono del tutto d’accordo con la tua affermazione, Rita, infatti proprio per cercare di evitare sofferenze e lacerazioni al piccolo, sarà la persona più matura (per età), in questo caso la nonna, a dover fare non uno ma dieci passi indietro…Si complica il problema quando sono proprio le figlie ( per giuste esigenze, magari) ad affidare il figlio a nonne o balie per un tempo eccessivo e prolungato…Allora sospendere la domanda e la risposta affettiva ( da entrambe le parti,piccolo e adulto) sembra impossibile. Una volta poi succedeva di peggio: spesso le persone di famiglie borghesi affidavano i neonati alle balie, non per mesi, bensì per anni e solo con l’inizio della scuola elementare, si riprendevano i figli in casa…Devastante per i piccoli, ma penso anche per i componenti della famiglia, spesso povera, che si era assunto il compito di allevarli…Un’amica mi ha raccontato la sua esperienza da bambina: i genitori non le avevano più permesso di rivedere la balia, perchè doveva dimenticarla, e lei visse lutto e ribellione insieme…

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