Appunti politici (7): Visalli e i migranti

di Ennio Abate

Questi appunti si confrontano con l’articolo di Alessandro Visalli, Poche note sulla questione dell’immigrazione: della svalutazione dell’uomo. apparso sul suo blog e segnalatomi da Cristiana Fischer (E. A.)

Ma in sostanza che dice o suggerisce Visalli sulla questione dei migranti?
Vediamo prima il suo ragionamento. Con l’integrazione nell’Europa e la mondializzazione, Il sistema produttivo italiano (io aggiungerei ‘capitalista’), risulta «schiacciato da una parte dalla pressione competitiva generata dai prodotti ad alta specializzazione e contemporaneamente basso costo del nord Europa […] e dall’altra da quelli a media specializzazione e basso prezzo derivanti dai mercati asiatici». E si sta dividendo in almeno tre settori: uno piccolo che si trova delle nicchie nel gioco competitivo internazionale e occupa sempre meno lavoratori; un altro, che si rivolge al mercato interno, esporta prodotti poveri e a bassa tecnologia, non fa investimenti e sfrutta sempre più intensamente i lavoratori; e uno enorme – quello dei servizi – dov’è «massima la frammentazione, la precarietà, e la bassa produttività e dove gli investimenti sono assolutamente nulli».
A questo punto entrano in scena i migranti. Visalli ricorre a uno studio del 2014 dell’ Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) per dirci che per loro «l’Italia negli ultimi quindici anni è il paese con maggiore capacità di attrazione» proprio «a causa di una persistente domanda di forza lavoro a bassa qualifica e bassi salari». I migranti, cioè, vengono in Italia – « un paese che ha una delle disoccupazioni strutturali più alte dell’occidente» (e anche qui dovremmo precisare che la disoccupazione non è fenomeno “naturale” come non lo sono le migrazioni, ma un prodotto del sistema capitalista) – proprio perché disposti ad accettare questi bassi salari.
Poi pone – non senza qualche enfasi deterministica e in termini chiaramente “nazionali” – il problema che abbiamo sotto gli occhi da anni: « andare avanti su questa strada [s’intende della suddivisione o scissione del sistema produttivo capitalista italiano] determinerà le inevitabili conseguenze di una sempre maggiore polarizzazione, lotta tra poveri, incrudimento dei rapporti sociali, deriva verso destra del quadro politico, deflazione e indebolimento ulteriore del lavoro, in una spirale a scendere che danneggerà sempre di più il patrimonio sociale ed umano (e lavorativo) della nazione. Siamo, in altre parole, diretti contro l’iceberg».

Quando passa a delineare le soluzioni possibili, finisce per accogliere i suggerimenti dell’Ocse: bisogna «subordinare l’ammissione di nuovi lavoratori immigrati alle esigenze del mondo del lavoro italiano». Solo dopo si potranno avere «una serie di misure per l’integrazione» (verrebbe da dire: almeno degli immigrati che – pare di capire – avranno “vinto la lotteria” e saranno stati “accolti”: in quali ruoli lavorativi, a che livello della scala sociale, in quali condizioni di vita non è specificato). In sostanza mi pare che  Visalli accetti *questo* mondo del lavoro, *questo* sistema produttivo, così com’è, e cioè con le scissioni in tre settori, che pure ha indicato – mi pare – come rischiose.

Certo, affaccia anche l’ipotesi di « costringere […] il settore produttivo (includendo i servizi) a ricollocarsi su un maggiore livello di produttività, compiendo i necessari massivi investimenti». Però, nella classica logica dei due tempi, accetta che prima bisogna fermare il flusso dei migranti disperati e disposti ai salari bassi o bassissimi : « bisogna che sia fermata la strada facile di inseguire ogni volta un disperato di turno che accetti ancora meno».

Paradossalmente mi viene da pensare che, se l’attuale esercito di riserva di manodopera si suicidasse o fosse servito a pranzo in casa dei ricchi, come proponeva di fare a suo tempo Swift per risolvere il problema dei bambini poveri nell’inghiterra dei suoi tempi; o scomparisse almeno dalla vista degli italiani e degli europei, secondo Visalli i capitalisti sarebbero costretti ad investire e a portare il sistema produttivo italiano ad un livello di superiore produttività. Perché – aggiunge in proposito – «se ho un’ampia platea di persone disponibili a lavorare per 400 euro non avrò mai la spinta per cercare di fare un prodotto migliore, investendo milioni, sapendo che poi avrò bisogno di personale più specializzato che ne vuole 2000». Cosa non si è disposti a fare per convincere i capitalisti a investire! E pare che solo in questo modo – bloccando il « flusso costante richiamato dalla domanda di lavoro povero», cioè – diciamocelo – dando in un modo o in un altro (con Erdogan o magari con una missione militare italiana in Libia) addosso ai disperati o a quelli che sperano e cercano in qualsiasi modo di vivere un po’ meglio – la crisi sarà superata (e il cozzo contro l’iceberg evitato).

Visalli mi pare un intellettuale raffinato e bene e più di me informato. Egli vede che l’UE – degli Usa e delle altre potenze almeno in questo articolo nessun cenno – è espressione del «nuovo capitalismo» e che sta assolvendo al compito di «disciplinare la pretesa del mondo del lavoro di partecipare alla distribuzione delle risorse prodotte», eliminando «qualsiasi regola ai movimenti di capitale, merci e lavoratori» e contribuendo così a peggiorare «l’attuale insostenibile condizione del mondo, nella quale si sta giocando la “grande partita” dell’egemonia per il nuovo millennio».
E simpaticamente ricorre anche a un bel passo del primo libro de «Il Capitale» di Marx e ad una sua lettera in cui il fondatore del pensiero comunista moderno (possiamo ancora chiamarlo così?) sottolineava che « l’Irlanda invia la sua sovrabbondanza di popolazione verso il mercato del lavoro inglese, e fa abbassare così i salari degradando la condizione morale e materiale della classe operaia inglese». Con l’effetto prevedibile: « L’operaio inglese medio odia l’operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante».
Infine, tanto per orientare la riflessione in un senso più drammatico, suggerisce pure un paragone tra lo schiavismo, cui sono sottoposti oggi i nuovi migranti, con quello del Settecento, anch’esso alimentato « da un’autentica destrutturazione della società locale» non dissimile da quella attualmente messa in moto dalla mondializzazione: «Ora è possibile che si stia creando, spinta da molteplici fattori (tecnologia, guerre, cambiamenti climatici, avvio dello sviluppo con mercatizzazione e sradicamento), una economia della migrazione che corrompe in basso, gestisce in mezzo e sfrutta in alto». E conclude, avvertendo giustamente che, di fronte a questi «flussi incoraggiati e «funzionalizzati alla creazione e conservazione di un settore a bassi salari e grigio», è necessario « non cadere nella vecchia trappola della divisione tra deboli, essenziale strumento di governo e controllo» ( la classica “guerra dei poveri”).

Concordare allora in pieno con  questa analisi? No, e vorrei spiegare il perché delle mie riserve:

1. Marx parlando del conflitto indotto dai capitalisti tra lavoratori irlandesi e inglesi, indicava chiaramente che « questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. E’ il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente» (Lettera di K. Marx a S. Meyer e A. Vogt, 9/4/1870).».

2. Visalli giustamente commenta questo passo di Marx dicendo: « Dunque si potrebbe dire che lotta di classe ha anche a che fare con la lotta tra i poveri, perché questa è uno strumento nelle mani del capitale.»

3. Però il suo discorso a me sembra rimanere ambivalente o lasciare aperti degli equivoci rispetto alla prospettiva nettamente anticapitalista di Marx.

4. Visalli, infatti, insiste a dire che non si può « negare che la creazione e conservazione di un settore a bassi salari impedisce di fatto al movimento complessivo del lavoro di riequilibrare i rapporti di forza».

5. E’ vero che – lo afferma esplicitamente -non si tratta di chiudere le frontiere ma di «garantire l’equilibrio dei mercati senza che questo viva della sistematica svalutazione di un fattore produttivo. Ed in particolare del lavoro, che non è solo un fattore produttivo ma in modo inseparabile (Polanyi) è vita». E – altra precisazione importante – che la battaglia centrale non può essere condotta né con lo slogan «“accogliamo tutti” perché in questo quadro produce quegli effetti [guerra tra i poveri] e non altri, e lo fa per ragioni strutturali» né con quello «“aiutiamoli (solo) a casa loro”, ovvero respingiamoli tutti, perché non fattibile e foriero di spinta a creare un settore clandestino sempre più potente».

6. Ma la conclusione mi pare un po’ oscura, vaga e brusca:« dobbiamo chiederci quale è la nostra responsabilità, verso tutti noi».

E qual è questa « nostra responsabilità» ?
Dal saggio di Visalli non capisco se in questo «tutti noi» egli mette anche i migranti o mette – com’è di moda nella propaganda odierna che mira a costruire un “noi” tutto nazionalista e/o sovranista – solo i lavoratori italiani. In questo secondo caso «la responsabilità verso tutti noi» si avvicinerebbe pericolosamente a quella che intendevano a suo tempo i lavoratori medi inglesi nei confronti dei concorrenti irlandesi, di cui parla Marx. E quindi l’autore de «Il Capitale» verrebbe evocato – indirettamente e subdolamente secondo me – per dare addosso ai migranti d’oggi. (C’è anche gente “di sinistra” che su FB ne parla come *lumpenproletariat* per far vedere che Marx l’hanno studiato). La “lotta tra poveri” allora, invece di essere strappata dalle « mani del capitale», verrebbe usata contro i migranti come ottimo argomento per tirare i lavoratori (italiani ed europei) dalla parte dei capitalisti. Come stanno facendo, ormai quasi all’unisono, i “cattivisti” alla Grillo o i “buonisti” (o ex-buonisti) alla Renzi.

Io penso invece alla più ardua «responsabilità» di un *noi possibile* che contrasti proprio la divisione che i “nuovi capitalisti” stanno imponendo.
Farà ridere molti l’appello marxiano « proletari di tutto il mondo unitevi», ma perché unirsi ai capitalisti, invocando Marx, proprio non lo capisco. Il vero aut aut non è tra “accogliamoli tutti” o “«“aiutiamoli (solo) a casa loro” – slogan che dai verbi usati svela il paternalismo cattolico dei proponenti – ma nel riproporre la questione fondamentale del lottare contro *questa società capitalistica*, contro *questo sistema produttivo capitalistico*. Non si tratta di suggerire ai capitalisti come investire ma di costringerli a farlo sottraendo loro i capitali che usano a loro piacimento. Per tentare ancora di andare oltre la società capitalistica? Sì, malgrado i fallimenti dell’ipotesi socialista…

9 pensieri su “Appunti politici (7): Visalli e i migranti

  1. UNA PROBLEMATICA MOLTO COMPLESSA, CHE NON A CASO LA POLITICA POLITICANTE TENDE A SCHIACCIARE NELLA MORSA SOFFOCANTE DELL’ATTUALITA’, IL TERRORISMO IDEOLOGICO DEI MIGRANTI ECONOMICI, DELLA LORO INVASIONE, CHE ALIMENTEREBBE L’ESERCITO DI RISERVA TANTO UTILE AI CAPITALISTI. QUESTA INVASIONE E’ INVECE USATA DAI MOVIMENTI POPULISTI PERLA SCALATA FACILE AL VOTO POPOLARE E POPULISTA DEI VARI SALVINI, GRILLO, D MAIO, BERLUSCA E PREDONI POLITICANTI SIMILI.
    L’ECONOMISTA BOERI HA SPIEGATO CHIARAMENTTE L’ORGANICITA’ E NECESSITA’ DI UN APPORTO DI ENERGIE NUOVE, DI LAVORATOREI ESTERNI PER LA RIPRODUZIONE DELLA SOCIAETA’ ED ECONOMIA ITALIANA, CONDANNATA ALL’ESTINZIONE DALL’INVECCHIAMENTO SQUILIBRATO E NON RISARCITO DA NASCITE NAZIONALI.
    D’ALTRONDE TUUTA LA POLITICA DEL LAVORO DEL CAPITALISMO ITALIANO E OCCIDENTALE E’ ISPIRATA DAL NEOLIBERALISMO, UN’IDEOLOGIA SOFISTICATA E INSINUANTE CHE PUNTA A COINVOLGERE, INTEGRARE, COINTERESSARE I LAVORATORI NECESSARI, CIOE’ QUALIFICATI E SPECIALIZZATI, “COGNITIVI”, CONSIDERATI COME CAPITALE UMANO IN UN SISTEMA PRODUTTIVO SEMPRE PIU’ TECNOLOGICO, CHE ESIGE L’APPORTO SOGGETTIVO E LO CAPTA CON LA PROPOSTA E L’ALLETTAMENTO DEL LAVORATORE IMPRENDITORE DI SE STESSO, CON UN AGGIORNAMENTO DELLA SERVITU’ VOLONTARIA DI LA BOETHIE.
    L’ESCAMOTA DI QUESTO IRRETIMENTO è IL SISTEMA DI PREMI, PRESTITI, PROMOZIONI CHE GRATIFICA I PIU’ VOLONTARI E PENALIZZA I PIU’ RESISTENTI E SINDACALIZZATI…
    UN NOI POSSIBILE QUINDI SAREBBE QUELLO DI SMASCHERARE QUESTA TRAPPOLA E DI RICONQUISTARE UNA LIBERTA’ DI RESITENZA E OPPOSIZIONE A QUESTA ETERODIREZIONE DATO IL MAGGIORE POTERE ESECUTIVO RAZIONALE DEI LAVORATORI COGNITIVI.
    COME COSTRINGERE I CAPITALISTI A INVESTIRE RIMANE UNA FANTASIA OSCURA, TANTO PIU’ CHE IL MASSIMO INVESTITORE NEGLI STATI CAPITALISTI E NON E’ LO STATO.
    COME COSTRINGERLI A UNA UNA GESTIONE SOCIALE E SOLIDALE E’ INVECE UN PROBLEMA DEL TUTTO APERTO DI LOTTA SINDACALE E POLITICA CON UNA VISIONE DI DEMOCRAZIA DIRETTA, REALIZZATA, PARTECIPATA.

  2. Apprezzo l’analisi che Ennio fa dell’articolo di Visalli.
    Il punto è “sottrarre ai capitalisti i capitali che usano a loro piacimento”, o “costringerli a una gestione sociale e solidale con una lotta sindacale e politica e una visione di democrazia diretta realizzata e partecipata”.
    Altrimenti solo la attuale guerra tra poveri, strumento di governo e di controllo.

  3. … sono d’accordo sulla critica che Ennio muove al discorso di Visalli in quanto alla fineil giornalista propone solo di salvare un sistema economico che non regge, anzi di potenziarlo, sfruttando quel tanto che basta la presenza di lavoratori stranieri disposti a bassi salari -ma non in numero eccessivo perchè abbasserebbero il livello di produzione- e rispedendo gli altri al loro “destino”, come dire chi se ne importa…Che poi anche la guerra tra poveri possa diventare funzionale a preservare il sistema è un serio pericolo. Trovo anche importante prendere consapevolezza della “servitù volontaria” (Augusto Vegezzi) come trappola in cui sempre più spesso i lavoratori, cognitivi e non, sono spinti dal sistema capitalistico, arrivando ad assumere i due volti di carcerati e di carcerieri, pur di arrancare nel mondo del precariato o di fare carriera…

  4. SEGNALAZIONE

    * Insistendo a seguire il ping pong tra “accoglienti” e “respingenti”…[E. A.]

    E se li facessimo entrare tutti?
    L’Economist si chiede cosa succederebbe se abolissimo tutte le frontiere del mondo, spiegando che da un punto di vista economico sarebbe un successo
    (http://www.ilpost.it/2017/07/17/immigrazione-economist/)

    Stralcio:

    Ma quanta gente si sposterebbe, se le frontiere di tutto il mondo venissero dichiarate aperte? Le stime sono piuttosto complicata da fare, ma basandosi su un sondaggio fatto da Gallup, una delle principali società di rilevazione mondiali, l’Economist dice che si sposterebbe circa il 10 per cento della popolazione mondiale, circa 600 milioni di persone, anche se il settimanale ammette che è una stima soltanto indicativa. Ci sono motivi per stimare numeri più bassi sia ragioni per immaginarne di più alti: in ogni caso, è probabile che nel giro di qualche decina di anni, se venissero aperte tutte le frontiere si assisterebbe allo spostamento di un numero di persone compreso tra alcune centinaia di milioni e più di un miliardo.
    Sono le conseguenze dello spostamento di questa immensa massa di umanità a spaventare di più gli abitanti del mondo sviluppato, timorosi che un simile afflusso potrebbe cambiare rapidamente il sistema politico e culturale dei paesi accoglienti, portando anche a un aumento della criminalità e del terrorismo. Ma questi timori, secondo l’Economist, sono in gran parte esagerati. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli immigrati sono meno propensi al crimine rispetto alle persone che vivono da tempo nel paese. In Europa, dove invece la situazione è invertita (i migranti commettono in proporzione più reati degli abitanti locali), la ragione è dovuta soprattutto al fatto che i migranti sono giovani e maschi, cioè la fascia di popolazione che più facilmente completerà il lungo e pericoloso viaggio dai loro paesi di origine a quelli più sviluppati. Se le frontiere fossero aperte e i viaggi più semplici, a muoversi sarebbero in percentuale maggiore famiglie e persone più mature, diluendo così l’impatto sui tassi di criminalità. Infine, ci sono diversi studi che mostrano come il rischio di terrorismo dovuto all’immigrazione non sia davvero concreto: anzi, la crescita economica che comporterebbe l’immigrazione potrebbe funzionare da argine a questo tipo di fenomeno.
    L’Economist ammette comunque che aprire le frontiere di tutto io mondo potrebbe anche avere altre conseguenze. Ad esempio, diversi studi indicano che, almeno nel breve periodo, l’arrivo di migranti comprimerebbe i salari dei lavoratori dei paesi sviluppati che hanno competenze più basse. Persone provenienti da paesi con valori politici e culturali diversi potrebbero invece sconvolgere il sistema politico della loro destinazione: ad esempio, è uno dei timori più diffusi, votando in massa per nuovi partiti islamisti. Il fatto che il paese che ha avuto la maggior immigrazione nel corso degli ultimi due secoli, gli Stati Uniti, sia rimasto un paese sviluppato, e anzi, si attualmente il più ricco e stabile al mondo, non è di per sé un’assicurazione che l’immigrazione di massa porti sempre a risultati positivi.
    Ma questi problemi, secondo il settimanale, possono essere aggirati utilizzando qualche soluzione creativa. Se il timore è che i migranti possano sconvolgere il sistema politico dei paesi di destinazione, allora proibiamogli di votare per cinque, dieci anni oppure per tutta la vita, scrive l’Economist. Se la paura è che l’impatto del loro arrivo sia troppo costoso nel breve termine, allora alziamo i prezzi dei visti per entrare nei nostri paesi, oppure creiamo tasse solo per gli stranieri o impediamo loro l’accesso a parte dello stato sociale.
    Sono tutte soluzioni dure, spiacevoli e ingiuste, scrive il settimanale, ma che sono pur sempre migliori della situazione attuale, in cui centinaia di milioni di persone sono escluse dai mercati del lavoro più ricchi o, per ottenerne l’accesso, sono costrette ad affidarsi a trafficanti di esseri umani che fanno pagare migliaia di euro i loro pericolosi viaggi. La dimostrazione che anche a queste severe condizioni la migrazione è spesso un’alternativa allettante la troviamo nei paesi del Golfo, dove milioni di immigrati lavorano nonostante non godano di alcun diritto politico, né di alcun tipo di stato sociale.
    Il punto, secondo il settimanale, è rimanere concentrati sulla ricchezza che il lavoro di milioni di stranieri può generare. La domanda che ci dovremmo porre non è «Come evitare l’immigrazione?», ma bensì: «C’è una torta da 68 mila miliari di euro da spartirsi, come può fare il mio paese ad averne una fetta senza pagare un prezzo troppo caro?».

  5. Ringrazio Ennio Abate per la sua acuta critica che mi consente di tornare a ragionare sul difficilissimo tema posto dai migranti. La ricostruzione dell’argomento è molto competente e acuta, e riesce ad evidenziare degli spazi di ambiguità che mostrano bene il conflitto che suscita in me questo tema. Parto dunque dalla fine: il “noi” che è indicato nella frase di chiusura (che, come abitudine del blog, è volutamente vaga, perché deve aprire a successivi approfondimenti in una sorta di non-discorso per rinvii paralleli) include, certo, anche i migranti. Ma anche i non ancora emigranti. Ovvero include entrambe le “economie politiche” messe in contatto, e frizione, dalla triplice apertura della mondializzazione (dei capitali, delle merci e servizi, delle persone). Il commento è particolarmente utile nel mostrarmi come sia riuscito a non spiegarmi in molti passaggi cruciali, contando troppo sulla lettura di contesto (questo è solo un post di 800). E non aiuta certamente l’aver usato un testo dell’Ocse, che è la più neoliberale delle istituzioni internazionali. Ma il mio punto, se posso semplificarlo così, è che non c’è mai un tempo del superamento del sistema di sfruttamento se costantemente gli sfruttati che si avviano a diventare consapevoli dell’insostenibilità della loro condizione vengono sostituiti con altri per i quali questa è un miglioramento. Per poter accumulare la forza di costringere il capitalismo ad arretrare dalle attuali, distruttive, condizioni, bisogna che l'”economia politica dell’immigrazione” sia distrutta. E’ chiaro che lo Stato dovrà avere un ruolo, anche negli investimenti (ma qui saremmo a Keynes), ma per costringerlo, a sua volta, ad orientarsi in questa direzione bisogna guadagnare la forza. E dunque rompere il gioco del controllo dei lavoratori attraverso i lavoratori.
    Delle riserve avanzate direi questo:
    – non pretendo di avere la ferrea determinazione e lucida chiarezza di obiettivi di Marx, una prospettiva nettamente anticapitalista mi pare non attuale, ma bisogna intendersi sui termini, essere contro questo capitalismo, e nettamente, ed anche contro “il capitalismo” nell’accezione di Braudel, mi vede concorde. Circa la fine del capitalismo come forma di vita, e quindi anche come tipo umano, ho riportato nel blog le posizioni di Streeck e di Mason, tra gli altri, cui rimando;
    – non capisco bene come la frase riportata in punto 4, confermi un orientamento non anticapitalista, a me pare un semplice fatto;
    – la possibilità che il discorso della protezione venga adoperato per portare consenso ad un populismo dall’alto (ho fatto un excursus sul populismo al quale rinvio), è concreta e sicuramente all’opera. Il “noi” è inclusivo e largo per questo, non bisogna cadere nella trappola dei “polli di Renzo”, come scritto nel post. Tuttavia neppure negare che ci sia un problema strutturale, nel contesto della “economia politica dell’immigrazione”, aiuta. Il mio post, provvisorio come tutti (ne ho fatto un altro sull'”economia politica dell’emigrazione”, ovvero su una sua parte limite, e ne farò almeno uno su quella dell’immigrazione) serviva solo a segnalare alcuni problemi ed avviare una riflessione. Per cui, di nuovo, sono lieto del feedback.

    La chiusa mi vede concorde, ma ogni strada ha i suoi passi, e per cominciare bisogna averne le forze.

  6. Non posso che ringraziare a mia volta Visalli per aver replicato alle mie obiezioni. Concordo sulla necessità di affrontare in modo elastico, inclusivo, analitico e problematico sia la definizione che la (possibile ma da nulla garantita) costruzione del “noi” di cui sentiamo l’esigenza. Proprio per questo stile di lavoro di “Tempo fertile” trovo grandi stimoli nei contributi che appaiono sul blog . E spero che sul tema delle migrazioni e su altri temi si possano intensificare i confronti per ora occasionali.

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