Appunti politici (8): Su una possibile alleanza tra “noi” e i migranti

Tabea Nineo, Rielaborazione grafica di una foto: migranti in fuga

di Ennio Abate

Rispondo qui a una domanda postami durante la discussione seguita al post “Migrazioni. Punti di vista in contrasto” (qui)da Roberto Buffagni a proposito della mia ipotesi di  una possibile «alleanza»  tra migranti e  «oppositori del governo italiano e della burocrazia UE» (qui). [E. A.]

roberto buffagni

18 agosto 2017 alle 12:55

Scusa, Ennio, trovo importante il punto 5 del tuo ultimo intervento e vorrei che lo spiegassi meglio. Lo riporto:
“Per me quanti si dichiarano oppositori del governo italiano e della burocrazia UE e volessero realmente ribellarsi contro i veri responsabili ad un tempo del disastro africano e dei disastri sociali in Italia e in Europa, dovrebbero scommettere nella possibilità di *alleanza* con gli anonimi (per ora) protagonisti di questa *ribellione non organizzata*. E appoggiarla, organizzarla, farla maturare politicamente. Come fecero, ad esempio, agli inizi del movimento operaio, cartisti, mazziniani anarchici, socialisti, comunisti.”

Domanda: in questa proposta di alleanza embrionale tra immigrati (senza altre qualificazioni) e chi si dichiara “oppositore del governo italiano e della burocrazia UE”, tu chi includeresti?
Ipotesi:
1) Alleanza embrionale immigrati+proletari/poveri europei a prescindere dalla loro ideologia (di destra e di sinistra) + minoranze guida di sinistra CONTRO capitalisti europei+ricchi/semiricchi europei a prescindere dalla loro posizione politica+governi nazionali e UE
2) Alleanza embrionale immigrati+proletari/poveri europei di sinistra consapevolmente anticapitalisti e pro immigrazione + minoranze guida di sinistra CONTRO capitalisti europei+ricchi/semiricchi europei + proletari/poveri europei di destra contrari all’immigrazione+governi nazionali e UE+ partiti populisti di opposizione di destra
3) ?

Ennio Abate

Provo a spiegare meglio il punto 5. Premetto che la mia è solo un’ipotesi ancora grossolana e non ho avuto modo di approfondirla né da solo né confrontandomi con altri interessati a valutarla. E, per mancanza di inchieste, mia scarsa conoscenza di studi affidabili e fuori dal mainstream propagandistico di buonisti e cattivisti,  parlare di migranti « senza altre qualificazioni», come giustamente noti, può rendere velleitario e vago il mio inizio di discorso. Chi sono costoro? Quali i loro bisogni, le loro culture, le loro aspettative, le loro reazioni di fronte all’Altro”che le nostre società rappresentano per loro?

Scriveva Fortini in altri tempi: «Il fatto è che in tanti aspetti noi siamo anche la Costa d’Avorio, lo Zambia o l’Algeria. E proprio per questo motivo abbiamo bisogno di un’area recintata, di quel vallo di cui parlo, che l’Occidente ha messo intorno a se stesso.  Sentivo parlare di un film fantascientifico dove si immaginavano eserciti europei pronti ad aprire il fuoco sulle masse sterminate di africani decisi a varcare il mare, a Gibilterra, proprio come quando i mori passarono “d’Africa il mare,  e in Spagna nocquer tanto” come diceva l’Ariosto.  questa idea, nella sua forma appunto ridicola, da fantascienza, però contiene un elemento certamente vero e cioè la tendenza dell’Occidente a chiudersi in se stesso. anche nella sinistra non è facile parlare correttamente di queste cose. Troppospesso ci si accontenta di dichiararsi “tutti fratelli”, si aprono le braccia all’altro, ma l’latro, appunto, è l’altro. Cioè è sempre l’extra qualche cosa: non è qualcuno con cui realmente ci si confronti nella sua specificità, nella sua nazionalità: il muro c’è, è costruito. Noi siamo da una parte, gli “altri” dall’altra: poi a determinate condizioni, ovviamente, si possono aprire benissimo le porte, ma intento il muro viene confermato». ( F. Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994, a cura di V.Abati, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 686-687).

Scommettere oggi – ieri l’attentato a Barcellona! – sulla «possibilità di *alleanza*  può apparire assurdo. Eppure non rifiutarsi al doloroso confronto/scontro mi pare indispensabile.  Non si possono vedere i migranti , come mi pare facciano Visalli ed altri, soprattutto come «uno strumento di repressione delle rivendicazioni sociali”»: «“Bisognerebbe insomma guardare in faccia la realtà, e abbandonare sia gli alibi della teoria dominante sia le fantasiose rappresentazioni del conflitto suggerite dagli ultimi epigoni del negrismo. Il migrante, infatti, non rappresenta necessariamente né una ‘forza produttiva’ né una ‘forza complementare’ né tantomeno una ‘forza sovversiva’, ma può al contrario rivelarsi, suo malgrado, uno strumento di repressione delle rivendicazioni sociali”»(https://tempofertile.blogspot.it/2017/08/circa-emiliano-brancaccio-la-sinistra-e.html). Non so se, con questa mia affermazione, rientrerò nella cerchia degli «ultimi epigoni del negrismo» o di un qualche terzomondismo fuori tempo massimo, ma non m’importa.

Arrivo alla tua domanda. Chi includerei in questa ipotetica alleanza? Tu mi proponi una sorta di indovinello, avanzando due prospettive e lasciandone aperte eventualmente altre. La prima, se capisco bene, delinea un mero blocco sociale “oggettivo”, classificabile sociologicamente sulla base del reddito. Sarebbe composto da ceti bassi («immigrati+proletari/poveri europei») e guidato da minoranze di sinistra contro ceti alti (capitalisti europei+ricchi/semiricchi europei+ governi nazionali e UE, cioè le rappresentanze politiche dei primi). Mi pare rientri nella cornice del populismo di sinistra (alla Formenti o alla Porcaro, per quel che sono riuscito a seguire di queste posizioni). In esso vedo ridimensionate fortemente le questioni “ideologiche” o – si potrebbe anche  dire – l’incidenza della storia “passata”, se, infatti, scrivi: «a prescindere dalla loro ideologia (di destra e di sinistra)».  Un po’ mi stupisce, conoscendo le tue idee, che affidi la guida a una «minoranza di sinistra»,  la quale, dunque, manterrebbe una precisa connotazione ideologica.
La seconda, sempre se capisco bene, delinea un blocco sociale già più orientato politicamente e ideologicamente. Richiede, infatti, al medesimo blocco della prima prospettiva una consapevolezza anticapitalistica (non richiesta, invece, nella prima prospettiva) e una scelta nettamente politica: «pro immigrazione». Facendo della questione, di cui stiamo tanto animatamente discutendo, una cartina di tornasole decisiva, un principio progettuale. Concede ancora la guida del blocco sociale a una minoranza di sinistra. E colloca tra gli avversari non più solo i «capitalisti europei+ricchi/semiricchi europei», ma anche i « proletari/poveri europei di destra contrari all’immigrazione+governi nazionali e UE+ partiti populisti di opposizione di destra». Quindi, in questo secondo caso, la connotazione ideologica e politica di sinistra mi pare ancora più accentuata.

Non capisco ben perché hai lasciato il punto interrogativo alla terza ipotesi. Che potrebbe essere – suppongo – un prospettiva di populismo di destra. Mi spiegherai. Se dovessi dire a quale delle due prospettive si avvicini di più (ma senza affatto coincidervi) la mia ipotesi, dovrei dire che è la seconda. Ma, per dirlo con più decisione e chiarezza, dovremmo approfondire la questione attualissima e piena di ambivalenze dell’odierno populismo.

Per ora mi limito a pubblicare  qui sotto degli stralci  da un articolo sulla questione. Sì, è del vituperato Antonio Negri. L’ho suddiviso per punti, ciascuno accompagnato da mie brevi note di commento in rosso, dove misuro vicinanze e distanze. Potremmo in una discussione a più voci approfondirne gli spunti.

APPENDICE

POPULISMI DI IERI E DI OGGI

di TONI NEGRI

Populismi di ieri e di oggi

1.

C’era […]stato un populismo tra la fine del XIX e il XX secolo, affermatosi nel declino della modernità, che era sempre stato di destra. Era una risposta alla crisi dello Stato sovrano della modernità attorno a tre punti.
Primo: un rimedio all’incapacità che lo Stato aveva di mediare la molteplicità degli interessi, delle contraddizioni e degli antagonismi che si esprimevano nella società, entrata nel capitalismo maturo.
Secondo: un tentativo di superare quella crisi attraverso l’affidamento ad una nuova legittimità incarnata dalla triade popolo-nazione-patria.
Terzo: al richiamo ai valori ingenui e leali del popolo, del luogo d’origine, contro l’astrazione del lavoro e la mercificazione della vita, e contro le esauste strutture della democrazia rappresentativa, poteva opporsi l’energia di un leader capace di assemblare i soggetti, di interpretarne i bisogni e di decidere un progetto.

Cosa non va in questa descrizione dei tratti principali del ‘populismo’?

2.

Si può dire, riferendosi alla classificazione classica delle forme di governo (monarchia/aristocrazia/democrazia e il loro rovescio «cattivo»: tirannide/oligarchia/demagogia, che stanno in rapporto complementare e ciclicamente progressivo) che qui ci si trovi a fronte del «lato cattivo» della democrazia, e cioè sul punto nel quale, nel ciclo delle forme di governo, a fronte della crisi democratica, cioè alla demagogia, segue la restaurazione del potere monarchico. Il populismo in questo caso lo si può classificare come istituzione demagogica del monarca, del potere di uno solo.

E in questa  classificazione ?

3.

qual è la sigla del richiamo alla triade populista? Essa può essere materiale (la tradizione, la lingua, l’antropologia e le forme di vita, come vuole Carl Schmitt) oppure può darsi in termini di egemonia/eccezionalità sovrana e carismatica (come pretende Laclau). Può cioè essere reazionaria o conservatrice, aprire alla barbarie della consuetudine e del razzismo e a quella della guerra, oppure essere semplicemente identitaria ed aperta

4.

Il populismo è più un segnale della crisi che un suo consistente superamento. È più un problema che la sua soluzione. Se il populismo di destra nasce come proposta reazionaria per bloccare le contraddizioni dell’esercizio della sovranità tra XIX e XX secolo in regime di maturità e crisi del capitalismo, nel suo riprodursi alla fine del XX secolo propone figure irrealistiche di legittimazione e di efficacia giuridica.

Non posso non condividere i primi 4 punti.

5.

 Il populismo che si presenta oggi nel postmoderno (nel postfordismo e nell’età digitale) sulla scena politica è uno scarno copione di quello sviluppatosi nella modernità e infine derivato nel fascismo. È un fantasma senza sostanza. Perché? Essenzialmente, perché le contraddizioni che, nello Stato sovrano della modernità, il populismo cercava di mediare e/o risolvere in termini di leadership, sono divenute strutturali. Il declino del ceto medio e l’estinzione della società civile, nonché la metamorfosi digitale e sociale del lavoro e la dissoluzione dei vecchi gruppi corporativi (inclusi quelli rappresentanti la classe operaia) determinano una conflittualità ed un antagonismo sociali a fronte dei quali la proposta populista può solo moltiplicare la produzione di soluzioni illusorie. Laddove il soggetto politico sia frantumato, può darsi che risulti possibile istituire demagogicamente una leadership. Ma la situazione non può essere considerata stabile nè le contraddizioni risolte.

Qui avrei qualche dubbio nel definire tout court  l’oggi, il tempo in cui viviamo, come epoca del «postmoderno» o del «postfordismo» o «età digitale», ma io pure ho l’impressione che i populismi siano una scopiazzatura scadente del fascismo ( o dei fascismi storici)  e ho l’impressione che  propongano soltanto «soluzioni illusorie» di fronte a  «contraddizioni […] divenute strutturali». Non  vedo però – ecco una divergenza di fondo da Negri – quella «conflittualità» e quell’«antagonismo» sociale che per lui sarebbero così forti ed evidenti e che segnalerebbero già la presenza di un «soggetto politico»  non «frantumato», capace tra l’altro di respingere qualsiasi proposta di “leadership demagogica» (che, secondo la sua analisi, è l’ obiettivo a cui mira il populismo).

6.

Quando poi il populismo produca un nuovo assetto di legittimazione, costruito su popolo/nazione/patria, anche questa operazione sembra poco realistica. Dove si colloca più la passione/nazione nel quadro del mercato globale e quale significato assume? Dov’è più la patria dopo le due grandi guerre del XX secolo e in era nucleare? E riguardo alla globalizzazione: son forse reversibili le condizioni sulle quali essa è stata costruita? Che dire poi dei posizionamenti dinnanzi alla determinante ecologica? È chiaro che a queste domande la risposta non può essere che negativa.
Questa negatività va naturalmente relativizzata. Esistono infatti importanti movimenti e comportamenti individuali diffusi che si sviluppano in contrasto alla globalizzazione e rivelano una larga fiducia non tanto nel rinnovo delle strutture «nazionali» del potere quanto nella possibilità di sviluppare lotte ed ottenere risultati dentro la dimensione globale a partire dalle condizioni nazionali. Sarebbe cieco negare queste possibilità di azione che vanno invece incrementate. Ma occorre, nel contempo, tener presente che queste lotte sono inquadrate nella scena globale. Vale a dire che invece di pensare che non esista più una possibilità politica una volta crollato il regime nazionale e sovrano della modernità, bisogna coglierne la crisi come spazio di riorganizzazione generale del sistema globale: la globalizzazione è un’occasione e non un limite.

Le  domande/obiezioni  delle prime cinque righe – con altre parole più semplici ma con analoghi richiami alla storia (le due Guerre mondiali, l’esperienza fascista e nazista) – sono le stesse che ho fatto io pure in varie occasioni ad alcuni miei  interlocutori, che sostenevano  invece come soluzione politica (di fase magari) dell’attuale crisi  il ritorno alla nazione (o alla sovranità nazionale), al patriottismo o alle “piccole patrie” leghiste. Quindi qui concordo in pieno con Negri (e con altri che contrastano queste posizioni). Come pure concordo  con la sua attenzione (che non mi pare soltanto una furbata tattica) nei confronti di «movimenti e comportamenti individuali diffusi» che pensano di sviluppare lotte « a partire dalle condizioni nazionali».  Fa bene a non squalificare (ad es. parlando senza mezzi termini di “ritorno del fascismo”, come alcuni fanno per il M5S) proteste che esprimono  insofferenza e disagio di fronte ai danni e agli effetti sicuramente negativi della globalizzazione selvaggia. (Si  pensi  al problema davvero arduo  e complesso delle nuove migrazioni, che viene di fatto eluso invece che affrontato realisticamente dalla paralizzante diatriba tra cattivisti e buonisti). Come fa bene a dire che le lotte, che potrebbero « partire dalle condizioni nazionali» (cosa – va sottolineato – diversa dal condurle avendo in mente il « rinnovo delle strutture «nazionali» del potere» (dello Stato), devono per forza di cosa essere «inquadrate nella scena globale». Anche qui un altro punto di mia (relativa) divergenza: non sono così sicuro che la globalizzazione sia, come dice Negri,  «un’occasione», ma è sicuro che è un terreno che  è stato imposto e da cui non si può più prescindere.

7.

Oggi il «populismo di sinistra», se interpretato (come vorremmo fare) con benevolenza, propone innanzitutto la verticalità della leadership. Di che cosa è sintomo questa rivendicazione? Di una nuova percezione del fatto che la legittimità democratica riposa su un «popolo» che, materialmente, è una molteplicità forte, un rapporto comunicativo orizzontale, un insieme di singolarità. Non si tratta più semplicemente di unificare la molteplicità ma di sussumere l’orizzontalità, l’insieme delle singolarità nella verticalità del comando. Nel muoversi in questo senso, il comando populista si oppone alla forma-orizzontale nella quale i movimenti, a partire dal 2011, hanno organizzato le lotte, le occupazioni, e si sono espressi in favore della leaderless [senza capo] e contro rappresentanza e gerarchie politiche. Il populismo di sinistra trasforma quindi il fenomeno leaderless (ci si è permesso di abbreviare così il ragionamento) nel suo contrario, assumendo il rifiuto della rappresentanza (della casta, di un sistema politico ossificato, ecc.) e dell’«autonomia del politico» come materia della trasformazione «rousseauiana» della molteplicità nell’Uno sovrano.
Come reagire a questa operazione? Insistendo sul fatto che non è mistificabile e riducibile in maniera autoritaria quella orizzontalità che le lotte hanno costruito. Essa propone di fondare ogni legittimità sociale sui progetti politici che dai movimenti moltitudinari promanano. Ogni strategia politica e sociale è dei movimenti e non può espropriata. La trasfigurazione verticale della molteplicità mistifica quanto c’è di più nuovo e forte nella figura dei movimenti oggi: il fatto di trattenere la strategia politica in se stessi e di cercare di organizzarla, di costruirla e di svilupparla in «istituzioni-non-sovrane».

Quella che qui Negri chiama «la trasfigurazione verticale della molteplicità » e che condanna come  espropriazione della strategia politica, la quale per lui appartiene ( o deve appartenere) completamente ai «movimenti moltitudinari» e non deve mai  risolversi nell’«autonomia del politico» (alla Tronti anni ’70) a me pare riconducibile alla tradizione “spontaneista” e luxemburghiana, da sempre  in conflitto storico con la visione  leninista. La prospettiva « di trattenere la strategia politica in se stessi» o di «svilupparla in «istituzioni-non-sovrane»» è stata  sempre criticata ed  io pure in parte la critico, ma non mi pare liquidabile come scemenza. Non solo i fallimenti delle rivoluzioni socialiste ma  l’osservazione empirica delle dialettiche che si scontrano  nei movimenti (due estremi: il «siamo tutti delegati» di Lotta Continua anni ’70; il  modello  di  partito leninista classico) non fanno che confermare l’esistenza di un enorme problema irrisolto: forma orizzontale o forma verticale?  o un mix delle due?

8.

Vi è poi un altro percorso sintomatico da compiere nell’analisi del populismo di sinistra, al fine di svelarne un’altra mistificazione. Nell’insistenza con la quale esso promuove i discorsi sui valori del «popolo» (nazione/patria) si possono certo riconoscere ripugnanti pulsioni identitarie e razziste. Ma c’è anche un’indistinta percezione comunitaria che va qui colta e criticata perché non è possibile irridere alla protesta contro il dominio della finanza sulla vita né alla denuncia dell’alienazione crescente che il lavoro vivo subisce nello sfruttamento/estrazione del suo valore. Non sarà difficile vedere dietro queste sofferenze del «popolo» l’oscuro riconoscimento di una operazione ben complessa e definita: quella del denaro, del capitale finanziario che sfrutta il comune, il lavoro collettivo associato, ed estrae valore dall’insieme biopolitico della natura e della società. Il populismo traduce qui le molteplicità cooperanti in un mostro unitario al quale non sa proporre che la trasfigurazione nell’identico, nell’equivalente astratto del popolo – ripetendo l’illusione del gioco dialettico, che sempre rinnova la falsificazione della realtà nel descrivere lo sfruttamento del capitale. Criticando quest’operazione, riconosciamone comunque l’efficace aggiornamento che esso opera (da parte capitalista) della mistificazione borghese nell’identificazione del nuovo soggetto dello sfruttamento: la moltitudine, innervata dal modo di produrre del comune.

Anche questo punto mi pare che abbordi con prudenza il tema del populismo di sinistra. A me sembrano innegabili le «pulsioni identitarie e razziste» di certi movimenti ( ad es. il M5S), che convivono con la condivisibile ( anche se forse confusa) « protesta contro il dominio della finanza sulla vita » o con la « denuncia dell’alienazione crescente che il lavoro vivo subisce». Dubito invece – ma l’ho già detto prima – della descrizione troppo ottimistica delle « molteplicità cooperanti» o del « lavoro collettivo associato» o del «  nuovo soggetto dello sfruttamento: la moltitudine, innervata dal modo di produrre del comune». A me pare accettabile  solo come ipotesi provvisoria, come scommessa  da fare per ricostruire un “noi”.

9.

[Al posto della falsa soluzione populista affermare] l’urgenza di una politica di riappropriazione di quel comune, strappatogli nell’assetto finanziario dello sfruttamento da parte della moltitudine, da parte dell’insieme di soggettività potenti che la costituiscono. Smascherando lo Stato e tutte le oblique finzioni che il populismo propone, organizzando il comune in termini cooperativi, non-proprietari, costituenti.

Anche qui l’idea di «comune» (anche per i suoi richiami – critici e non fideistici nella mia visione – all’idea di comunismo) presa come idea orientativa mi pare accettabile.

10.

C’è una caratteristica del populismo postmoderno (larvatamente in quello di sinistra) ed è di farsi concubino del neoliberalismo. Come? Lo vediamo nelle versioni «centriste» del populismo (oggi particolarmente vivaci: Macron, M5S e, forse, Ciudadanos) quando la mitologia liberale del merito, del mercato e dell’imprenditorialità viene proposta contro i «lacci e lacciuoli» imposti al mercato dal vecchio sindacalismo e dalle organizzazioni degli interessi dei subordinati. Ma come? Rivendicando al lavoro, al duro lavoro del popolo il merito di costruire la ricchezza e di contribuire alla finanza/fiscalità pubblica. Gli individui diventano così popolo attraverso il lavoro – un lavoro che coordina nell’unità popolare ricchi e poveri, padroni e sfruttati, comandanti e comandati. Le regole di questo lavoro sono, né più né meno, le regole del capitalismo, del vivere nel rapporto di capitale.

Concordo: la dialettica tra « ricchi e poveri, padroni e sfruttati, comandanti e comandati » non dev’essere mai celata.

11.

Gli sviluppi delle tecnologie cognitive e l’espansione sociale del modo di produrre, la vita messa al lavoro mostrano il lavoro non più semplicemente come forza sociale organizzata dal capitale ma come forza comune che articola e compatta la soggettivazione del lavoro vivo. Il lavoro vivo comune si oppone alla forza-lavoro comandata (nelle forme dell’individuazione mercificata). L’innovazione, l’imprenditorialità, l’accrescimento della potenza del lavoro vivo risiedono dunque fuori dall’organizzazione capitalista della produzione (e, con ciò, del popolo che lavora). È a questo punto che il populismo può essere riconosciuto come mistificazione dell’imprenditorialità della moltitudine, del comune, del lavoro vivo.

Qui dissento. Non ho conoscenze dirette dei mutamenti intervenuti nei settori produttivi  più informatizzati,  ma non mi sento di sottoscrivere che il lavoro (nel suo complesso?) non è più  organizzato dal capitale ( o dai capitalisti ) per cui «l’accrescimento della potenza del lavoro vivo risiedono dunque fuori dall’organizzazione capitalista della produzione ».

12.

È solo a questo punto che una «politica di classe» può essere proposta. Nel promuovere un cammino che vada oltre il populismo, sottolineandone da un lato l’improponibilità nella postmodernità: ne segue che esso va semplicemente rovesciato. E d’altro lato, vien bene ed è utile l’allusione ad una politica della solidarietà e del comune che il populismo sollecita. Dunque, su questo terreno, contro la proposta di leadership populista, va sviluppata il massimo dell’opposizione democratica di base. Sul terreno sociale, lotte sindacali, lotte sul welfare, scioperi sociali; sul terreno istituzionale, proposte municipaliste e federaliste; sul terreno costituzionale, proposte di istituzioni di contro-potere e di organizzazioni orizzontali di proposta e di controllo. Si tratta di prospettare alla moltitudine il più vasto terreno sul quale l’utilizzo della aporie della molteplicità possa essere trasformato in esperienze di rovesciamento di ogni ideologia dell’identico e dell’Uno. Senza mai confondere il rifiuto della leadership con il rifiuto dell’organizzazione. Sul secondo punto, quello cioè dove la legittimazione viene cercata sul terreno nazionale, vanno apprestate scadenze e momenti di organizzazione internazionale, continentale. Sul terzo tema, programma ed esperienze alternative del comune.
Le due grandi esperienze delle lotte con i migranti e delle lotte del nuovo movimento delle donne vanno a questo punto sottolineate. La chiave da utilizzare qui è quella del coordinamento intersettoriale, è l’articolazione dei movimenti moltitudinari.

Nelle teorie della sovranità si pongono qualificazioni della sua natura in riferimento alle tre funzioni del «prendere», del «dividere» e del «produrre». Ora, nel tempo che ci si presenta, noi proponiamo contro il populismo, nel «prendere» l’esercizio orizzontale della potenza della moltitudine contro la verticale sovrana; nel «dividere», l’articolazione del comune contro l’ipostasi «popolo»; e nel «produrre», l’imprenditorialità della moltitudine e il «rifiuto del lavoro» organizzato dal capitale.

Ogni tentativo di sviluppare « ’opposizione democratica di base » (o *più democrazia*) mi trova istintivamente concorde. ( Vedi mia partecipazione all’esperienza minima del Comitato 16 marzo a Cologno). Come mi pare condivisibile  la seguente precisazione: «mai confondere il rifiuto della leadership con il rifiuto dell’organizzazione» ( che è, in piccolo, anche il problema che ho cercato di porre nella redazione di Poliscritture). E il richiamo a guardare in modo favorevole  alle «lotte con i migranti».

4 pensieri su “Appunti politici (8): Su una possibile alleanza tra “noi” e i migranti

  1. Grazie della replica articolatissima. Ti rispondo appena posso, in questi giorni sono un po’ preso.
    Chiarisco intanto un tuo dubbio: ho posto la domanda in quella forma mettendomi nel tuoi panni, cioè cercando di capire in quale modo tu intendessi possibile l’alleanza tra immigrati e proletari/poveri autoctoni. Nel primo esempio, propongo una formula in cui l’alleanza si basa su un comune interesse (ipotetico), nel secondo una formula in cui l’alleanza si basa su una comune ideologia di tipo anticapitalistico e antinazionale (globalismo di sinistra, di tipo appunto negriano o da “Un altro mondo è possibile”). Prevedevo in entrambi i casi una guida di minoranze di sinistra perchè un’alleanza simile la possono pensare e volere solo minoranze di militanti di sinistra, ideologicamente motivati.
    Una minoranza-guida di destra (qualsiasi destra tranne la destra liberale e liberista) potrà proporre un’alleanza tra immigrati residenti, regolari, integrabili e integrati e “popolo” autoctono; vorrà cioè dividere l’insieme “immigrati” tra alleati potenziali e avversari. Avversari saranno i clandestini, i non integrati, i non integrabili.
    Il problema base di un’alleanza tra immigrati e autoctoni è che i due contraenti NON hanno gli stessi interessi immediati. Sul piano economico, è subito evidente che a) l’immigrazione è identica a un crumiraggio su vastissima scala, e abbatte salari e redditi degli autoctoni, anzitutto coloro che svolgono mansioni esecutive ma non solo b) assorbe una quota crescente del welfare a danno degli autoctoni, perchè se non si devolve una quota crescente di salario indiretto agli immigrati gli diventa impossibile accettare salari bassissimi: v. il metodo di calcolo del nuovo ISEE, che privilegia in tutte le prestazioni un profilo (almeno tre figli, senza casa di proprietà nè propria nè concessa in comodato dai genitori) che corrisponde alla famiglia immigrata, non alla famiglia tipo anche molto modesta italiana.
    Ometto gli aspetti, rilevantissimi a mio modo di vedere, della cultura e della sicurezza. Per rendere quanto mai problematica l’alleanza basta il conflitto d’interessi immediati.
    Segue appena possibile una risposta più articolata.

  2. *Uno scritto lunghissimo e troppo impigliato nelle beghe di scolastica operaista e post-operaista ma, nel finale che stralcio, rivela gli umori e le paure che s’addensano attorno al tema del populismo. [ E. A.]
    SEGNALAZIONE

    L’incognita populista
    di Damiano Palano
    https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/10412-damiano-palano-l-incognita-populista.html

    Nel suo libro «La variante populista» Carlo Formenti compie una duplice svolta. Da un lato intende infatti chiudere definitivamente i conti con l’operaismo. Dall’altro sostiene invece la necessità di adottare (seppur criticamente) lo schema populista delineato da Ernesto Laclau, perché ai suoi occhi solo la «forma populista» risulta adeguata a sostenere una battaglia capace di riconquistare la «sovranità popolare» e la «sovranità nazionale». Se percorrendo un simile sentiero la proposta di Formenti giunge certamente a cogliere alcuni nodi cruciali, rischia però anche di legittimare una deriva teorica e politica incontrollabile. E proprio per questo la «variante populista» somiglia molto a un’incognita di cui è davvero difficile prevedere le direzioni di sviluppo

    Stralcio:
    Il rischio di questa nuova «variante populista» non è allora solo di tornare a rivisitare il populismo un po’ naïve di Lotta continua, con la sua invocazione alla «lotta di popolo» di operai, studenti e pastori sardi, insieme alla sua mitizzazione della violenza proletaria e dello scontro politico. Il rischio ben più rilevante è di tornare a rispolverare quell’impasto di sorelismo, spontaneismo e nazionalismo che – a cavallo della Prima guerra mondiale – rappresentò una via di uscita dalle secche del determinismo marxista e dal fallimento della Seconda Internazionale. E la «variante populista» può così davvero rivelarsi un’incognita di cui rimane difficile prevedere gli sviluppi. Non solo perché, privata della consolante bussola offerta dalla fascinazione industrialista e dalla filosofia della storia marxista, ogni distinzione tra ‘progresso’ e ‘conservazione’ (e tra valori ‘progressisti’ e posizioni ‘oscurantiste’, oltre che tra ‘destra’ e ‘sinistra’) perde qualsiasi significato. Ma soprattutto perché la definizione della fisionomia di un «popolo» privo di radicamento nella struttura ‘materiale’ della società rischia di essere affidata solo alle onde mutevoli della corrente emotiva, all’entusiasmo di una proposta politica, alle capacità comunicative di un leader carismatico o di un abile gruppo dirigente. E proprio per questo, la riabilitazione della ‘nazione’ e l’adozione delle parole d’ordine sovraniste potrebbero essere allora solo i primi passi di un percorso ben più sinistro. Perché – se certo non sarà Formenti a imboccare una simile direzione – non possiamo escludere che nei prossimi anni, proprio sviluppando quelle premesse che vengono fissate nella Variante populista, qualcuno non si spinga a riabilitare il vecchio mito dell’Italia «nazione proletaria», in lotta con le ricche e forti nazioni continentali, che Enrico Corradini inalberò più un secolo fa. O che qualcuno non giunga persino a dipingere nell’avventura della guerra l’occasione del sospirato riscatto, capace di sottrarre un paese al suo destino di declino e di condurlo verso la meta di un mitico «socialismo nazionale».

  3. Anche se il discorso su questo tema dell’alleanza coi migranti,che ho collegato alla tematica del *populismo* dovesse procedere a sbalzi, cerco di non perderlo di vista e propongo quest’altra segnalazione, sempre dello stesso autore, Damiano Palano. In più punti l’analisi del populismo qui esaminata, quella di Marco Revelli, mi pare coincidente con quella di Negri. E concorda soprattutto nel sottolineare la rilevanza del fenomeno. [E. A.]

    SEGNALAZIONE

    La forma politica del vuoto
    Il «populismo 2.0» secondo Marco Revelli
    di Damiano Palano
    https://www.sinistrainrete.info/teoria/10421-damiano-palano-la-forma-politica-del-vuoto.html

    Stralci:

    1.
    l’onda ‘populista’ – in particolare con la vittoria di Donald Trump e l’esito del referendum britannico sull’uscita dall’Ue – ha raggiunto in buona parte dell’Occidente livelli che solo due anni fa sembravano quantomeno improbabili. Nel suo nuovo libro Populismo 2.0 (Einaudi, pp. 155, euro 12.00) – per molti versi un ulteriore capitolo di quel ‘diario politico’ in pubblico che Revelli tiene da qualche anno – lo sguardo si estende proprio alle democrazie mature, ormai indirizzate verso una deriva ‘postdemocratica’ e sempre più affollate di movimenti e partiti definiti, più o meno propriamente, «populisti». Revelli non rifiuta l’etichetta, ma non può evitare di porsi il problema di ‘cosa’ sia davvero il «populismo». Il dibattito degli scienziati sociali non ha infatti sciolto la questione, e le proposte sono così davvero molto lontane dal raggiugere una visione condivisa (per un orientamento si può dare un’occhiata a D. Palano, Populismo, Bibliografica, Milano, 2017). Il politologo olandese Cas Mudde ritiene per esempio di poter riconoscere nel populismo un’ideologia debolmente strutturata, mentre altri, come Marco Tarchi, lo considerano piuttosto una «mentalità», e cioè come un modo di concepire la politica e il suo funzionamento. Un altro importante filone di studi – tra cui spiccano le ricerche di Margaret Canovan e Pierre-André Taguieff – intende invece il populismo prevalentemente come uno stile politico, contrassegnato soprattutto dall’appello al popolo, mentre la nota e discussa teoria di Ernesto Laclau propone di individuare nel populismo il paradigma della logica discorsiva che guida la formazione delle identità politiche.

    2.
    Per Revelli il populismo è invece soprattutto il «sintomo» della malattia che investe la democrazia rappresentativa. Il vecchio populismo americano di fine Ottocento era infatti una «malattia infantile della democrazia», legata al fatto che «ancora la ristrettezza del suffragio e le barriere classiste tenevano fuori dal gioco una parte della cittadinanza» (p. 3). Mentre il populismo 2.0 di oggi insorge, come «malattia senile della democrazia», «quando l’estenuazione dei processi democratici e il ritorno in forza di dinamiche oligarchiche nel cuore delle democrazie mature rimettono ai margini o tradiscono il mandato di un popolo rimasto ‘senza scettro’» (pp. 3-4). In entrambi i casi, comunque, «la ‘sindrome populista’ […] è il prodotto di un deficit di rappresentanza» (p. 4). Ma, in ogni caso, Revelli sottolinea che non si tratta di un’ideologia o di un movimento analogo ad altri ismi, bensì di una sorta di stato d’animo:
    «è un’entità molto più impalpabile e meno identificabile entro specifici confini e involucri. È uno stato d’animo. Un mood. La forma informe che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza totale […] nell’epoca dell’assenza di voce e di organizzazione» (p. 10).

    3.
    E mentre il populismo delle origini cercava la risposta alle proprie domande in «uno scarmigliato uomo delle montagne» come Andrew Jackson, il populismo 2.0 spinge le masse ad affidarsi a un miliardario, un esponente dell’alto della società, come Donald Trump. La chiave di lettura centrata sull’insorgenza populista come «vendetta dei deprivati» guida Revelli anche nell’indagine sulla Brexit, sulle sorti del Front National francese e sull’ascesa di Alternative für Deutschland, anche se in tutti questi casi la paura nei confronti dei flussi migratori sembra spesso diventare preponderante rispetto a ogni considerazione puramente economico-sociale.

    4.
    Ma al di là di questa lettura, è particolarmente significativa l’interpretazione che Revelli fornisce del populismo contemporaneo come risposta del basso della società globale a quella «guerra» dichiarata dall’alto di cui parlava Luciano Gallino. E dunque come conseguenza della sconfitta patita dal movimento operaio novecentesco proprio nei luoghi in cui si era concentrata la sua forza:
    «Quell’ex protagonista che aveva alimentato il simbolismo e l’immaginario oltre al consenso elettorale e all’apparato organizzativo di tutte le articolate sinistre del ‘secolo del lavoro’ è ora un’ampia componente del nucleo duro, forse non maggioritaria ma sicuramente coriacea, dell’estesa galassia in cui si esprime l’insorgenza populista attuale. Ad esso si è aggiunta negli ultimi anni la massa eterogenea di quello che invece tradizionalmente fu il principale fattore di equilibrio, di stabilità e di ‘moderazione’ delle società occidentali: la ‘guardia bianca’ delle democrazie rappresentative. Impoverita, questa, ferita, e declassata, non tanto dai tagli salariali e dalla marginalizzazione del lavoro (in parte anche da questo) ma soprattutto dall’inversione di segno che hanno avuto nella crisi le rendite finanziarie. […] Formano, tutti insieme, una moltitudine di insoddisfatti e di arrabbiati – di ‘traditi’, soprattutto, o di autopercepiti tali –, trasversalmente distribuiti nelle società occidentali, estranei alle tradizionali culture politiche perché nessuna di esse riflette più la loro nuova condizione. Spaesati essi stessi rispetto alla propria inedita condizione di homeless della politica. Umiliati dalla distanza che vedono crescere nei confronti dei pochi che stanno sulla cuspide della piramide (pochi, ma gli unici visibili nello spazio mediatico che ha sostituito tutti i precedenti spazi pubblici). Privi di un linguaggio adeguato a comunicare il proprio racconto, persino a strutturare un racconto di sé, e per questo consegnati al risentimento e al rancore» (pp. 152-153).

    5.
    Se si vuole sottrarre il termine all’utilizzo che ne viene fatto nella polemica quotidiana, si dovrebbe infatti riconoscere che il populismo – lungi dall’essere un ismo analogo a molti altri, come opportunamente sottolinea Revelli – è una logica del discorso politico, che qualsiasi movimento può teoricamente fare propria, e che è in grado di stabilire una linea di separazione tra popolo ed élite, ma anche di definire ‘cosa’ sia il popolo. E soprattutto si dovrebbe riconoscere che la logica populista è in grado di diventare uno strumento particolarmente allettante per tutti quei soggetti politici – non necessariamente di ‘destra’ – che ambiscano a occupare uno spazio lasciato libero dalla dissoluzione delle vecchie identità politiche, dalla disgregazione del sistema partitico, dalla rottura del rapporto tra società e ceto politico. Ma proprio per questo motivo, il populismo ha probabilmente in mano ancora molte carte da giocare, e non è affatto indirizzato verso il viale del tramonto, come qualcuno ha sostenuto dopo l’esito delle elezioni in Olanda e in Francia. Perché davvero, come coglie bene lo sguardo di Revelli, lo sfaldamento delle tradizioni politiche europee, lo sgretolamento del tessuto identitario, o anche il disallineamento fra identità e partiti, contribuisce giorno dopo giorno a rendere più ampia la voragine che si apre nel cuore delle democrazie occidentali.

  4. @Ennio: i punti 10 e 11 li metti in opposizione, concordi al 10 e dissenti all’11. Ma Negri scrive che “il lavoro, il duro lavoro” è quello del neocapitalismo: “Rivendicando al lavoro, al duro lavoro del popolo il merito di costruire la ricchezza e di contribuire alla finanza/fiscalità pubblica. Gli individui diventano così popolo attraverso il lavoro – un lavoro che coordina nell’unità popolare ricchi e poveri, padroni e sfruttati, comandanti e comandati. Le regole di questo lavoro sono, nè più nè meno, le regole del capitalismo, del vivere nel rapporto di capitale. Ma oggi emerge una sproporzione…”
    Non mi sembra quindi coerente con il testo il tuo commento: “la dialettica tra « ricchi e poveri, padroni e sfruttati, comandanti e comandati » non dev’essere mai celata”.
    Infatti il lavoro, il duro lavoro, Negri lo richiama ironicamente, ed è quello del capitalismo, mentre la “forza comune che articola e compatta la soggettivazione del lavoro vivo”, la “potenza del lavoro vivo” di Negri, tu non ti senti di sottoscrivere che sia “non più organizzato dal capitale”.

    Trovo invece rilevante questa frase alla fine: “Sul terzo tema, programma ed esperienze alternative del comune. Le due grandi esperienze delle lotte con i migranti e delle lotte del nuovo movimento delle donne vanno a questo punto sottolineate.”
    Le lotte con i migranti sono una possibilità che tu accarezzi come speranza. Sul movimento delle donne singolarmente regna il solito *assordante* silenzio, mentre io so bene l’orizzontalità, il rifiuto della leadership e, “nel ‘produrre’ … il rifiuto del lavoro organizzato dal capitale”.
    Da anni il femminismo si occupa del lavoro. “Se c’è una cosa che ancora non hanno capito la sinistra, il sindacato, e tutti coloro che ragionano e soffrono sul farsi dei soggetti politici, è che l’esserci delle donne nella politica e nel lavoro, non è un problema di adeguamento al genere, di settorialità categoriale, di particolari competenze cui dare accoglienza e valorizzazione. Le donne vengono sì nominate, ma soprattutto in contesti di discorso in cui diventano una categoria (le donne, i giovani…) […] le donne sono entrate massicciamente nel lavoro-per-il-mercato: nell’altro lavoro – quello di riproduzione e manutenzione dell’esistenza, ineliminabile e insostituibile per ogni essere umano, fonte di senso e condizione per la ricerca della felicità, ma invisibile in economia benché complessivamente richieda più ore di quello pagato – c’erano già e hanno continuato in gran parte a esserci. Dunque le donne hanno dato il la alla messa in discussione di quel tacito patto sociale che si basa sulla divisione sessuale del lavoro. Come ne usciamo, uomini e donne? Possibile che si possa ancora pensare che il problema è ‘favorire il lavoro delle donne’? E non, uomini e donne, confrontarsi su come ci collochiamo rispetto a tutto il lavoro necessario per vivere?” Critica Marxista n°5, Giordana Masotto, La centralità del lavoro nell’agorà di Milano, http://www.libreriadelledonne.it/la-centralita-del-lavoro-nellagora-di-milano/
    https://comune-info.net/2014/12/non-e-il-lavoro-che-libera-le-donne/
    https://comune-info.net/2017/03/quel-lavoro-non-un-lavoro/
    Senza contare la riflessione sulla GPA come lavoro http://www.libreriadelledonne.it/la-gestazione-per-altri-trasforma-la-gravidanza-in-lavoro-e-non-puo-mai-essere-etica/

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