Vamos todos contar Moçambique!

 di Baba Andrea

Ci sono posti sperduti del mondo dove si tentano rivoluzioni quotidiane come scrivere un giornale con ragazzi poco o nulla scolarizzati e si tenta pure, in nome del “regno dei cieli”, di fronteggiare l’ingiustizia e la prepotenza organizzata dinanzi a una magistratura corrotta . Questa testimonianza dal Mozambico è arrivata come una pacata invocazione  fino a Poliscritture; e la rilanciamo nel deserto affollatissimo del Web, sperando che  possa lavorare come un tarlo almeno nella mente di chi non si è  rassegnato alla barbarie. [E. A.]

 

Un paese si ferma

Nelle prime due settimane di agosto, il paese intero si è fermato. Chiuse le scuole, a casa professori ed alunni, servizi pubblici ridotti al minimo di quello che era già stato ridotto all’essenziale prima dalla guerra e poi dalla crisi economica.  Per quella data era stato, infatti, solennemente indetto il IV° Censimento Nazionale.

Vamos todos contar Moçambique!”, era l’adagio che martellava insistente nelle inserzioni pubblicitarie tra un asservito telegiornale di stato mozambicano e una penosa ma molto seguita telenovela brasiliana. Due appelli trionfali richiamavano il popolo sovrano al dovere del civismo patriottico: “Il censimento aspetta la collaborazione di tutti per la raccolta dei dati necessari alle grandi decisioni del Mozambico” e  “La definizione delle politiche pubbliche per lo sviluppo del paese sta nelle tue risposte”. Sembrava proprio che quel momento epico di unità nazionale avrebbe ridestato le sorti infauste del 9° paese più povero al mondo, secondo l’indice di sviluppo umano.

A volte per fermarsi è bene partire

Se un paese intero si ferma, anche io provo a fare altrettanto. Anche perché questi sono mesi in cui mi sto fermando poco. P. Enrique è partito per le ferie ai primi di maggio, ma in seguito a complicazioni di salute rimane in Messico fino a novembre, mentre P. Bonanné per due mesi rimane in Italia per il Capitolo dei Missionari Saveriani. Così rimango da solo con il lavoro di tre. Qui a Chemba la vita si ferma quando si prende il caffè dopo pranzo e quando, di notte, gli occhi stanchi, cominciandosi a chiudere senza intenzione previa, si buttano sul letto tirandosi dietro il corpo intero. Così concludo che, se voglio fermarmi, è bene partire.

Sono due anni che mi prometto di andare a trovare Serafino. Quando ero a Charre – sull’altra riva dello Zambesi, a 50 km da Chemba – Serafino stava poco distante, a Inhangoma. Con l’età di mio padre, sardo di nascita e milanese di adozione, anni fa, dopo la morte della moglie, aveva lasciato l’azienda ai figli, decidendo di mettersi al servizio degli altri in Africa.

Serafino ora vive a Zobue, a 490 km da Chemba. Dopo avere compiuto col censimento gli oneri di straniero residente in Mozambico, alle quattro del mattino di un lunedì di agosto parto alla volta di Zobue. Per la seconda metà del tragitto non dovrebbero esserci problemi: è segnato sulla cartina ed è anche asfaltato. La prima metà, invece, bisogna inventarsela. Per 100 km si percorre la strada sterrata che risale parallelamente il corso dello Zambesi. Si entra sempre più nella savana. È la stagione secca. Il giallo nelle sue gradazioni infinite ha dipinto il paesaggio tutto attorno, baobab secolari si staccano imperiosi da terra disegnando il profilo del cielo terso abbagliato dal sole, polvere densa si alza nell’aria sollevata dal passaggio del Toyota Land Cruiser. Sulla destra, scorci di fiume appaiono nei suoi meandri quando la strada si alza sopra la pianura. Ad un certo punto, il cammino parallelo al fiume si perde. La polvere lascia il posto alle pietre, si sale e si scende su tratti impraticabili nella stagione delle piogge. Ogni tanto, si incrocia qualche camion carico di tronchi di legname pregiato. Si prosegue così per qualche ora, fino ad arrivare all’asfalto.

Rimango cinque giorni da Serafino. Per accogliermi ha procurato due bottiglie di ottimo vino proveniente dal Sud Africa che si sposano benissimo con un buon pezzo di parmigiano-reggiano scrupolosamente conservato per l’occasione. Vorrei riposarmi e conoscere la zona. Serafino dice che va bene, a patto di celebrare qualche messa in alcune comunità dove sono mesi che non passa un prete. Si parla chichewa, lingua non molto distante dal chisena. Insomma, si può fare. Zobue è proprio sul confine col Malawi. Lì passa la frontiera e c’è la dogana. Per raggiungere alcune delle trenta comunità che compongono la parrocchia, è necessario superare la frontiera, entrare in Malawi per poi tornare in Mozambico attraverso le montagne.

Sulla carta geografica, dove non esiste la linea perfettamente retta che congiunge partenza e destinazione, il mio dito si sposta qualche centimetro in avanti e qualche centimetro indietro. Secondo la logica degenerata del tempo accelerato, questo significa percorrere spazio in più. Cioè perdere tempo. Nella mappa della vita, invece, dove nessuna linea conclude esistenzialmente lo spazio tra una partenza e una destinazione, perché la destinazione è sempre una nuova partenza, lo spazio e il tempo non si perdono, perché si vivono. Così – nella mappa della vita – un passo avanti e un passo indietro fanno, comunque, due passi avanti.

Passi avanti e passi indietro in mezzo alla savana

Il venerdì esco di casa all’alba per tornare la domenica all’ora del tramonto. Così da luglio ad ottobre, un fine settimana ogni due. Ci si abitua a guidare su strade sterrate pessime, dormire per terra in capanna, mangiare con le mani quello che offre la gente, lavarsi con un secchio d’acqua e un bicchiere al chiaro di luna. Si ascolta molto: i problemi, le speranze, le sconfitte, le paure e i punti di forza del cuore umano o di una comunità. Si canta, si balla, si suona il tamburo, si prega, si battezza, si benedice nel matrimonio l’amore di una donna e di un uomo. Si racconta quello che raccontava Gesù, perché si è fermamente convinti che questo possa rendere più umana e più bella la vita e possa trasformare il nostro mondo.

È questa la seconda delle due visite annuali che realizziamo nelle settanta comunità che compongono la nostra vasta parrocchia che dalla riva destra del fiume Zambesi si distende nella savana. Si deve terminare entro la fine di ottobre, prima che a novembre cominci la stagione delle piogge. Nella comunità di Mponha, mi sveglio nel mezzo della notte assalito dalle formiche. Prendo sacco a pelo e stuoia e mi rifugio nella chiesetta. Nella comunità di Matope, una ragazzina di quattordici anni ha appena ricevuto il lobolo (la dote, che nella cultura Sena è ricevuta dalla famiglia della donna) per diventare seconda moglie. Assieme al catechista della comunità, parliamo con la madre convincendola che è proibito per legge e, così facendo, i genitori stessi rischiano il carcere. Ma poligamia e matrimonio in età adolescente rimangono la prassi.

Alla fine di settembre, comincia il grande caldo. Parto all’alba per incontrare altre comunità. Venerdì, Nyakagulangwa e Bucha; sabato, Estacha e Mponha. Domenica, Alfinal. Cinque comunità, cinquanta battesimi e nove matrimoni. Nei nove matrimoni, nessuna delle nove spose sa scrivere il suo nome sul documento di matrimonio. Dipingo loro con la penna la punta dell’indice della mano destra e lo imprimono sotto la scritta “firma”. Delle testimoni di nozze, quattro donne su nove, sono in grado per lo meno di scrivere il loro nome. Le testimoni di nozze hanno in media quaranta anni, mentre le spose, venti. Questo significa che il grado di scolarizzazione e di istruzione femminile era migliore negli anni della guerra civile (1976 – 1992) che oggi. Un altro passo indietro. E proprio oggi, leggo uno studio in cui si afferma che il Mozambico è il peggiore paese al mondo secondo l’indice di abbandono scolare.

Passi avanti e passi indietro tra le pagine di un giornale

L’abbiamo chiamato “Pa kwecha” ed è il primo giornale pensato, scritto e stampato in mezzo alla savana. Forse “giornale” può apparire un termine inflazionato o quantomeno ambizioso, dato che è composto da quattro pagine ed esce una volta ogni trimestre. Ma se si pensa che è realizzato da ragazzi e ragazze che provengono da famiglie di contadini e allevatori di capre in Mozambico, dove il tasso di analfabetismo è ancora oggi fermo al 45%, allora, il nostro “Pa kwecha” è proprio un giornale. Un signor giornale.

Pa kwecha”: testata in chisena che significa pressapoco “apertamente, alla luce del sole”, per un giornale scritto in portoghese da un gruppo di quindici tra ragazzi e ragazze che vivono nei due studentati della nostra scuola comunitaria. Nel primo trimestre, a partire da marzo, lavoriamo a formare la redazione, a spiegare cos’è un giornale (dato che qui in mezzo alla savana i giornali non esistono e non arrivano) e a fare un po’ di storia, raccontando come e perché è nata la stampa. Prendiamo poi in mano alcuni giornali nazionali, analizzandone la struttura, i contenuti e le provenienze politiche.

A maggio, all’inizio del secondo trimestre, abbiamo la prima riunione di redazione. Va bene, è chiaro che l’editoriale deve essere la presentazione di “Pa kwecha”. Ma negli altri quattro articoli di cosa parliamo? E, se nella redazione siamo in quindici, come scriviamo gli articoli? Decidiamo di procedere così: assieme scegliamo i temi, condividiamo e dibattiamo le idee, cerchiamo le fonti e costruiamo una bozza generale dei singoli articoli. Poi, in piccoli gruppi scriviamo materialmente i singoli articoli. Infine, la redazione si riunisce per modificare e correggere. Così, almeno, in teoria. Nella realtà, ci si confronta con le conseguenze dei limiti di un sistema scolastico di qualità pessima, per il quale, in una realtà rurale come Chemba, dopo sette anni di scuola, molto spesso non si è ancora in grado di leggere. Al tema della scuola, decidiamo allora di dedicare il primo articolo di “Pa kwecha”, dal titolo “Se la scuola fosse una macchina”, dove si immagina una macchina ferma nel cortile con tutte le ruote sgonfie e qualcuno che si ostina ad affermare che la macchina funziona perfettamente. Corretti gli articoli, inviamo il tutto a Federica, cara amica fin dai tempi dell’università, che ci dà una grossa mano nell’impaginazione e nella grafica. Pochi giorni dopo, il primo numero è pronto.

Presentiamo il giornale a scuola ad alunni e professori, in chiesa alla comunità cristiana, alla radio comunitaria di Chemba per farlo conoscere alla cittadinanza, fissiamo un incontro con il sindaco e l’assessore all’istruzione per consegnare una copia: in pochi giorni, il giornale circola nel paese e fa parlare di sé. Ci sono due articoli in questione  ̶  uno che tratta della situazione socio-politica del Mozambico, della guerriglia e della sua fragile tregua e un altro che riguarda il taglio illegale di legname nel nostro Distretto  ̶  che suscitano il disappunto dei membri locali della Frelimo, il partito ininterrottamente al potere da quarantadue anni in Mozambico. Qualche professore legato al partito comincia a fare serpeggiare l’idea che bisogna stare attenti a scrivere certe cose, finendo per instaurare un clima di paura tra i ragazzi.

Proviamo allora a lavorare su due fronti. Su quello esterno, approfitto di un’assemblea con tutti i professori e le autorità del Distretto (ovviamente tutti membri della Frelimo), alla quale sono invitato per parlare di scuola. Racconto del giornale, come è nato, la partecipazione attiva degli studenti, l’importanza della lettura e della scrittura: alla fine, animi rasserenati e strette di mano. Il fronte interno è più delicato. I ragazzi conoscono la Frelimo, i suoi metodi autoritari e di come il suo potere sia costruito sulla paura: temo davvero che la successiva riunione di redazione possa coincidere con il funerale di “Pa kwecha”. Ma le mappe della vita sono fatte anche di passi avanti inattesi. Domingos Batista, il più vecchio del gruppo con i suoi vent’anni, tira fuori carattere e coraggio, assieme alle parole giuste. Conclusione: tre ragazze lasciano, due ragazzi nuovi entrano, il gruppo esce rafforzato e il secondo numero di “Pa kwecha”, che esce a novembre, è un altro signor giornale.

Scrivo sul diario in quei giorni: «Viva le rivoluzioni. Quelle piccole, geograficamente circoscritte,che non ambiscono al potere, non occupano palazzi, perché li ritengono irrilevanti. Viva le rivoluzioni. Quelle quotidiane, che non hanno bisogno di anniversari, perché accadono ogni giorno».

Passi avanti e passi indietro tra una foresta e un tribunale

Il tribunale di Chemba ha la sua sede di fianco alla sede del partito Frelimo, sotto un grande albero di ntondo. All’interno, il controsoffitto c’è solo a metà, perché l’altra metà è danneggiata in seguito alle perdite di acqua che provengono dai buchi nel tetto. Nell’aula del processo, date le dimensioni ridotte, si sta tutti stretti, eccetto il giudice che siede su uno scranno imponente. Nello sgabuzzino adiacente, con la porta sbilenca assicurata da un solo cardine, si notano i faldoni dei processi accatastati disordinatamente, consumati dai topi e dalle termiti.

Ho cominciato ad acquisire una certa familiarità col tribunale di Chemba nel novembre dell’anno scorso, quando è cominciato il primo processo per taglio illegale di legname nel nostro Distretto. Un mese prima, alcuni uomini erano entrati nell’area recintata della nostra comunità di Pswinta, una delle settanta comunità della nostra parrocchia che si trova all’interno della riserva di Catulene, a circa 90 km da Chemba. Qui, muniti di motosega, senza autorizzazione e senza chiedere permesso a nessuno, avevano tagliato quattro grandi alberi di chakate preto, una specie protetta. A firmare e depositare la denuncia siamo noi, tre preti missionari, a nome della parrocchia di Chemba, assieme alla comunità cristiana di Pswinta e ai suoi due capi villaggio, in qualità di testimoni e di parte lesa.

Nella prima udienza, l’imputato ammette di essere entrato nell’area suddetta senza autorizzazione e di avere tagliato i quattro alberi. L’avvocato d’ufficio non ha nulla da aggiungere. Il caso sembra molto semplice. Aspettiamo la lettura della sentenza per il medesimo giorno, ma è rinviata. Nel frattempo, veniamo a sapere che il capo degli uomini che hanno tagliato gli alberi è cognato di Zinho, uno dei maggiori boss legati al taglio illegale di foreste – assieme ai cinesi – nella regione centrale del Mozambico.

Passano i mesi. La seconda udienza, a maggio di quest’anno, è kafkiana. L’imputato è assente, l’avvocato d’ufficio non apre bocca, mentre il giudice e il procuratore (che nel diritto mozambicano esercita la parte dell’accusa) difendono l’imputato, sostenendo che gli alberi in questione sarebbero stati tagliati all’interno di un’area soggetta a regolare licenza. Avevo studiato la legge 10/99 che regola il taglio di alberi e foreste. Cito l’articolo che sancisce i diritti delle comunità e dei privati in aree soggette a licenza, assieme ad un articolo del codice penale inerente la questione, suggeritomi da un amico avvocato di Beira. Il giudice, visibilmente impacciato, tergiversa. Evidentemente sia lui che il procuratore sono stati corrotti dal boss. Il giudice, che pensava di chiudere il caso dando ragione all’imputato, è costretto a fissare un’altra udienza, preceduta da un sopralluogo del Dipartimento forestale del Distretto sul luogo del reato, per verificare il fatto. Decisione improbabile, dato che lo stesso reato era già stato confessato dall’imputato nella prima udienza.

Due settimane dopo, il giudice corrotto muore di malaria celebrale. A Chemba, dove gli stregoni pullulano come le zanzare nella stagione delle piogge e dove gli spiriti sono più numerosi degli umani, circolano illazioni su eventuali poteri soprannaturali di p. Andrea. Nel frattempo, è nominato il giudice sostituto che, per lo meno, è una persona perbene.

L’ultimo giorno di luglio ha luogo la terza udienza, mentre per il giorno successivo è fissata la lettura della sentenza. L’imputato è condannato al pagamento di una multa di 72.800 meticais (poco più di 1000 euro, corrispondenti a due mesi di stipendio di un direttore di scuola) e a risarcire la comunità con la somma irrisoria 4.560 meticais – corrispondenti al valore economico dei quattro alberi in oggetto – decisamente sottostimato dal Dipartimento forestale del Distretto, che vuole essere benevolo con i boss del legname con i quali è fortemente colluso. Questiono il valore commerciale dell’indennizzo economico, aggiungendo che sarebbe legittimo anche un indennizzo morale per il danno subito dalla comunità. Ma il giudice fa il suo dovere: ciò che è scritto, è scritto. Prendo atto che non vale la pena fare ricorso, dato che il sistema mi sembra tutto marcio. Nel mese di settembre, l’imputato finisce una settimana in carcere per non avere ancora pagato la multa. Esce dopo che il boss esegue il versamento nelle casse dello Stato, mentre la comunità è ancora in attesa delle sue briciole di indennizzo. Intanto, camion carichi di tronchi tagliati nel Distretto di Chemba continuano quotidianamente a correre indisturbati in direzione del porto di Beira.

Tra passi avanti e passi indietro, alla fine, non saranno i violenti ad impadronirsi della terra

“Fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono”. Sono parole di Gesù. (Matteo 11,12). In questi ultimi mesi intensamente densi di vita  ̶  fatti di passi avanti, ma anche di passi indietro  ̶  queste parole abitano spesso la mia testa e il mio cuore.

Per parlare del regno dei cieli, un giorno, in una comunità, dissi: «Dziko ya kudzulu ndi pinthu pinafuna Mulungu pantsi pano», vale a dire, «il regno dei cieli sono le cose che Dio vuole, qui sulla terra». Avevo appena terminato di parlare dell’ingiustizia che uccide, dei soprusi dei potenti a danno dei poveri: stavo parlando della vita di quella comunità, saccheggiata delle sue foreste e costretta ad abbandonare la sua terra a causa della siccità. La gente capì al volo cos’è il regno dei cieli. Credo che Dio mi avrà perdonato se sono stato un po’ riduttivo o semplicistico. L’ho fatto in buona fede. Anche perché la nostra gente è proprio come la gente che ascoltava Gesù: rimane incantata dalle parabole del Vangelo e dalle parole semplici impastate con la vita, ma si perde nei discorsi astratti e nella fede liofilizzata a norme.

Però, riflettendoci bene, credo che sia proprio così: il regno dei cieli sono le cose che Dio vuole, non là in cielo, ma qui sulla terra. E intendo “terra” nell’accezione vasta della parola, nel senso immenso che abbraccia anche la nostra umanità. Il regno dei cieli è, allora, come Dio vuole che vadano le cose qui: le relazioni tra gli umani, i rapporti tra i popoli, le dinamiche che noi instauriamo col pianeta.

Dio non vuole che il regno dei cieli soffra violenza: Dio non vuole che siano i violenti ad impadronirsi della terra, dell’umanità, del pianeta. Questa è la destinazione, il punto di arrivo. Ciascuno di noi ha nelle sue mani la mappa dell’umanità e  ̶  come umano  ̶  è responsabile non solo del senso che dà a suoi passi, ma anche della direzione in cui va il mondo. Se a volte può essere frustrante constatare la distanza abissale tra dove siamo e dove un giorno certamente arriveremo, dall’altra parte mi dà consolazione e forza sapere che si cammina e si lotta assieme. E che quella destinazione, Dio l’ha già preparata. Solo aspetta i nostri passi. Uno avanti e uno indietro. Nella consapevolezza che anche un passo avanti e un passo indietro fanno, in ogni modo, due passi avanti.

Chemba, 28 dicembre 2017

3 pensieri su “Vamos todos contar Moçambique!

  1. Questa lettera di Baba Andrea, come quelle precedenti, mi colpisce per quel suo affidarsi… “Così – nella mappa della vita – un passo avanti e uno indietro fanno, comunque, due passi avanti”. Noi invece vorremmo subito, adesso, i segni di un miglioramento netto del mondo… anche se ci siamo già accorti a volte di travisarli, come è stato nell’intendere e osannare il ‘progresso’. E ci scoraggiamo, perdendo energia e volontà o rimpiangendo le rivoluzioni passate. Vorrei avere una fede grande come la sua, perchè oltre all’impegno (non paragonabile al suo che vi spende e rischia la vita) potrei credere che “…quella destinazione Dio l’ha già preparata. Solo aspetta i nostri passi “. E quest’ultima affermazione, è chiaro, non è una scusante ma una chiamata alla responsabilità personale.

  2. …molto incoraggiante questa testimonianza di baba Andrea dal sud del mondo per noi del nord che a volte non sappiamo neanche più dire, nei nostri deserti e giungle d’asfalto, se compiamo passi avanti o passi indietro… Consolante credere che sono sempre passi avanti, nell’ottica di un tempo e di uno spazio diversi che non rincorrono mete fittizie, ma solo il nostro essere umani…
    Nessun inviato speciale parte dai nostri maggiori giornali per informare sulla silenziosa e quotidiana rapina di beni naturali, come la legna delle foreste e il carbone da parte di compagnie cinesi o britanniche australiane, in un dei paesi, il Mozambico, più poveri del mondo…ma un coraggioso “pa kwecha” locale, scritto dai ragazzi di una comunità dispersa nella savana, lo fa ispirato dal desiderio di vedere attuarsi la giustizia per i poveri “nel regno dei cieli”, che poi è su questa terra…Sarebbe importante anche per noi che viviamo la realtà complessa e mistificata dell’occidente leggere qualche numero di questa pubblicazione trimestrale…Le lotte semplici sono forse le più difficili, e noi ci perdiamo facilmente…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *