Tholosae combustum

di Antonio Sagredo

 

E così
non immaginavo…
così d’essere una maschera finale
e lo specchio di un principio
dall’anima… offuscati!
E così
al di là d’ogni ragione sensitiva
amare,
io che sto morendo,
più di me stesso… le leggi naturali!
I segreti meravigliosi del mio anfiteatro
sono gli Spiriti alati della (mia) Conoscenza,
corpo e fuoco della Natura che condona.
Mai la melanconia ha ucciso
la mia mente intellettiva,
ma questo fuoco basso
della violenza irrazionale
divora il mio lucido pensiero.
Sono strumento e luce
del mio stesso speculare…
controllo la ragione
dominata.

Ma questa fiamma sale,
già le unghie sono di carbone!

Come posso dimostrare il fuoco dell’eterea
Immortalità, se altre mortali combustioni
ora tramanderanno il mio pensiero senza fine?
Non sono stato tradito dal Divenire Universale!
Sono stato inquietato dal Divino Naturale!
Mai  ho ammesso una differenza tra essenza ed esistenza,
ho sempre simulato e dissimulato l’atto e la potenza.
Le religioni sono strumenti di poteri e intolleranze:
le guerre sono l’orgoglio del loro fallimento e sussistenza.
Menzogne, spergiuri, umori e cognizioni
io li ho tradotti nelle alte sfere dell’Immaginazione.
Ragioni contro Intelligenze Superiori!
Con le quattro passioni ho inseguito la fantasia,
mutando desideri, piaceri, dolori e timori.
La gioia mi rigenera la mentale restrizione,
distrugge divine realtà e umane tirannie.

Ma questa fiamma sale,
già i malleoli sono di carbone!

Il giardino dei miei Spiriti ancora non è fiorito,
il soffio del calore è ancora tremulo sotto la rugiada,
nel  frutteto io vado a spasso divinando i miei concetti,
nell’orto raccolgo i frutti maturi delle idee in divenire,
le anime sono le semenze del Vento del Sorriso.
La mia ricreazione è più che molteplici piaceri immaginati,
i miei natali sono della stessa Natura Divinata,
segreti meravigliosi e anfiteatri cingono il mio capo,
nelle mie mani ho una penna coerente e biforcuta,
ma sul mio petto brilla una medaglia: Aquila atheorum!

Ma questa fiamma sale,
già la mia tibia è di carbone!

Il sangue già ribolle: è l’empio mio furore libertino!
Gli allori già si formano in corona riverente,
i mirti s’inchinano ai miei gesti non osceni
e precedono i miei passi, e profumano i miei sguardi…
mi sorridono le cose che io canto con la doppia  voce del Divino.
Il soave favonio rallegra il mio pensiero eversivo:
non mi ha tradito la Natura Universale!
Ho accettato di morire allegramente per la (mia) Verità
e condannato chi nel suo nome s’arricchisce di Poteri.
Il mio respiro è l’angelica musica dell’intelletto.
Io so, adesso, di non essere un rivale per la croce:
la penitenza non fa per me, non mi è necessaria,
io so, adesso, di essere un rosario di misericordie!

Ma questa fiamma sale,
già il mio perone è di carbone!

Nessuna colpa mi tormenta più della mia recisa lingua,
il vino mi ricrea lo spirito della mia parola ammutolita,
ora ho un volto taurino – già il fumo esce dalle froge,
hanno strozzato la mia gola, ma non la mia teologia!
Sono ancora un predicatore dalla duplice dialettica,
cortigiano per sovvertire gerarchie corrotte e giuramenti.
Cospiro con le mie maschere equivoche e innominabili,
la mia ironia è un’arma a doppio taglio per credenti e creduloni,
la mia scrittura il trionfo del finto plagio e della sublime erudizione.
Ho bisogno, come voi, d’imposture, inganni, frodi e provvidenze!
Ho bruciato intere biblioteche per affilare il mio pensiero ambiguo,
distrutto gli statici costumi, sofismi, inganni, istituzioni,
nemico immortale di tutti i poteri politici e religiosi.
Ho amato, prima di me stesso, i filosofi, i poeti e i loro sogni,
ho amato tutta la Natura, ho denunciato il suo inquinamento!
Sto amando questa tortura non voluta più d’un martire cristiano!
Ho giurato sulla mia ostinazione che mi fa morire allegramente!

Mio Dio, anche un ateo può morire di amor proprio!

Mio Dio, sei prigioniero di teologi ateisti!
Tu mi doni un’estasi e l’immortalità per amor tuo
a me che ho amato la Natura in te, e te nella Natura,
e ora vuoi dividere con me questa mia sofferenza – estrema!
Io non posso, né voglio gridare questa mia passione!
NON SONO TUO FIGLIO!
SONO FIGLIO DELLA MIA PAROLA!
Non voglio la tua indulgenza: non spetta a te!
La mia denuncia sovverte fedi e chiese, le loro ossessioni!
Molteplici sentieri ho percorso, dialettiche sensibili
e coerenti filiazioni ho scoperto, e simulando persuasioni
ho parificato l’uomo agli altri esseri viventi… credimi
per tua gloria e mia non esistono divinità nel reale,
mi sei presente se io lo voglio, se io lo voglio sei assente:
la materia non perdura e non sussiste impunemente.
La mia forma se ne va, sono stato atto, resta la mia potenza!

                                                                                                                                              
Ma questa fiamma sale,
già il femore è di carbone!

Mio Dio, un ateo non può morire per amor tuo!
Mio Dio, sei stato creato dalla mia ragione, non  da te stesso!
Non sei motrice intelligenza, la tua immortalità io combatto
con la mia, noi due a nascita e morte siamo soggetti,
sibille e chimere mi circondano! Nego i miracoli, le anime
immortali, nego religioni e fedi: puri strumenti di governi!
Nego le gerarchie, le autorità, l’erudizione che genera fallaci
metafisiche, nego di essere un libertino recidivo e un finto ateo:
ho solo una coscienza pura che tormenta i miei trionfi e i miei fallimenti!
Domino la realtà dinamica del mio intelletto ribelle e innovatore
e di tutti gli universi le essenze prive della tua presenza.
Conosco gli artifici dei tuoi negromanti: mi fanno schifo i loro dèmoni,
i riti, la loro parola blasfema che legifera di peccati e di perdoni!
Il seme mio svanisce… se ne va… svanita la mia discendenza!

Ma questa fiamma sale,
già il bacino è di carbone!

La forma audace del mio intelletto mi ha fatto uomo.
Io so che l’anima è eresia, che la ragione non sarà bruciata!
Ho conosciuto la materia razionale ed eterna, il suo sarcasmo,
e ho percepito le differenti ragioni del bene e del male!
Mi sono liberato infine, e per sempre,  dall’arbitrio e da Dio,
i miei umori, ora, sono sani e controllati, e sto svanendo…
ho combattuto i dottori cristiani che con frivoli
e insulsi argomenti hanno circondata la verità di dubbi
si abbuffano e hanno grasso il sangue e turbolenti gli spiriti,
non temono l’assenza del timor di Dio e sono violenti,
hanno la coscienza ingrassata, la mente offuscata da una fitta
moltitudine di vizi… ho combattuto l’umore melanconico,
felicità e beatitudine mi aspettano, svanisco nella gioia immaginata!

Ma questa fiamma sale,
già le vertebre sono di carbone!

Già respiro meglio: non più gerarchie da distruggere,
non più realtà deformate, non più essenze ed esistenze,
né universali, né ragioni e né sensi su cui speculare,
né più corpi e spiriti sensitivi, né Motrici Intelligenze,
non più segrete meraviglie, anfiteatri, né passioni, né piaceri!
Non voglio sapere più nulla!
Non voglio vedere più nulla!
NON VOGLIO PIÙ VEDERE… l’UOMO!
Mi ristora l’immaginazione!
Mi voglio  ri-creare lo Spirito!
Mi fa schifo la vostra corruzione! Nascondete le vostre
perversioni nei tabernacoli:  festini! miracoli! finzioni! apostasie!
Dai confessionali alle alcove diffondete un Verbo eretico!
Via da me tutti gli umori viscidi, i vizi di questi inquisitori!
E mi presero gli occhi, mi presero… questi carnefici di Dio!
Non conosco il tormento, la pietas, il perdono, la sofferenza!
La  mia mente purifico con la fantasia!
Mi tallona l’immaginazione!
Via, via da me il desiderio, il piacere, il dolore e la paura!

Ma questa fiamma sale,
il torace è già carbone!

Respiro a pieni polmoni. Ho visioni multiple e profumate:
il volto sorridente dei miei pensieri… il viso, di me, bambino!
Mi consola questa mia materia viva che pulsa dal futuro!
Spiriti alati d’ogni tempo mi fanno segni di vittoria…
mi applaudono! Ho bisogno d’una coppa di vino!
COR EXHILARAT, COLLAPSAS VIRES REFICIT!
Ah, i morti, bisogna ristorarli: sono stanchi, esauriti…
Ah, quel soffio, già è vicino! Accorrete, più legna, più legna!
Purifico questo vostro fuoco! Siete ciechi, accecati!

Ma questa fiamma sale,
già le mani e le braccia sono di carbone!

Scardanelli, dammi la tua follia… la tua follia bella!
Vedo i colori degli arcobaleni…
vedo il canto degli uccelli e delle acque…
il mio paese natale…
il profumo della mia casa paterna…
il mare che io baciai onda per onda…
i campi – rossi di papaveri…
le carezze materne…
ah, mi scoppia il cervello!

Vedo il mio libero pensiero!

Mondi, Universi, a me!

Liberatemi da tutti gli dei!

dai loro dèmoni!

da queste catene…

infernali!

Le mie lacrime sono esplose:

grida eterne…

immortali!

 

Non credo alla risurrezione dei morti!
Non credo all’immortalità dell’anima!

Voglio… soltanto… ricreare… la  Natura!
Voglio… la sua… Vittoria!

CHE  TEMPI  SONO  QUESTI
IN  CUI  L’UNICA  LUCE
È  UNA  TORCIA  UMANA?

 

2007

* Nota
L’autore del dipinto, il filosofo polacco ANDRZEJ NOWICKI
studioso di Giulio Cesare Vanini di cui si  narra in questo poemetto di Sagredo.

27 pensieri su “Tholosae combustum

  1. Backstage. Il pensiero del prossimo morire prende spazio nel ricorso poetico. E verseggia, con le morae apprestate nel lavoro, con gli argomenti esplorati, ma la sostanza è la resa all’abbondanza di strumenti e alla scarsità di vita. Non ancora finita o terminata in potenzialità (“La mia forma se ne va, sono stato atto, resta la mia potenza!”).  E tuttavia conclusa in definita circolarità di argomenti, condivisi, in tanta superflua ricchezza di atteggiamenti, di fonti, di insorgenze e allineamenti.
    Che sciocchezze, per morire, se scegliere è impossibile tra la materia che dura infinita come la storia (l’anima), e la materia come nulla in cui tutto si distrugge, per continuare, come nulla infinito.

  2. Ho premesso al commento la chiave in cui ho letto la poesia: backstage, ad indicare il retropalco del rogo di Vanini, cioè la messa in scena di Sagredo con i mezzi letterari e, soprattutto, la tangenza paludata (mascherata) ai temi di Vanini attraverso la rappresentazione letteraria. Questioni come l’eternità del mondo (dell’universo materiale) e il fanatismo popolare sollevato da profeti imbroglioni, ci riguardano oggi negli stessi a-storici termini. Occorre scriverne direttamente. Non che le rappresentazioni storicopoetiche non abbiano anche una nobile funzione, in primis informativa. Questioni di poetica.

  3. … Antonio Sagredo presenta in questo poemetto il monologo di G.C. Vanini in una sorta di sacra rappresentazione: la”…TORCIA UMANA” che illumina le menti attraverso i secoli…Torturato e nell’atto di ardere vivo, stazione dopo stazione di un corpo raggiunto dalle fiamme, Vanini eleva il suo canto libero…Una libertà raggiunta dopo le lotte di una vita, da uomo audace, eretico, ribelle, contro ogni forma di potere temporale e spirituale…Persino contro la sofferenza condizionante del corpo che è una legge della natura, ma non per Vanini che venera la Natura universale e se ne fa paladino…”Mi sono liberato persino, e per sempre, dall’arbitrio e da Dio” La Natura sembra dire, non distrugge la materia, ma la trasforma ciclicamente, così della morte si può gioire…Lo stile è sobrio e potente nella sua teatralità…

  4. Eccellente teatralità dove filosofia e poesia si fondono, per divenire a loro volta teatralità in continuo divenire. Gli ultimi versi, poi, sono l’apoteosi della Libertà nella Natura, e viceversa. Non credo che esista un poema di tale intensità e grandezza… difficile portarlo in scena, difficile farne un cortometraggio: ci vorrebbe davvero un regista altrettanto visionario e… incandescente.
    Antonio Sagredo segna il passo della Poesia, non solo italiana… un solco dunque, ma così profondo che non si può saltare.

    R. C.

  5. Ecco un breve commento:”la scrittura poetica di Antonio Sagredo in Tholosae Combustum, è atipica e disfanica, rispetto ai canoni estetici di oggi. A confermare questa sua scelta, autonoma e totalizzante del linguaggio, è il suo percorso di poeta-attore di teatro, quasi alla Julian Bech. Elementi discorsivi e psicodinamici determinano la Scena con problematiche esistenziali all’interno di corrosive argomentazioni.Più in specifico si tratta di un Controdolore alla ricerca di un aggancio che si rivela depotenziato da ogni forma di equilibrio con il mondo.E’ il capitolo più importante che Sagredo mette in mostra, trasferendo in alto, gli effetti di superficie dove l’ES, è il vero interlocutore della Commedia Umana e Privata”.

  6. Chi parla in questo poemetto?
    Un filosofo morente e da morto. E, diciamocelo, troppo filosofo.
    Ama «le leggi naturali» ed ha «accettato di morire allegramente per la ([sua]) Verità». Un po’ come Socrate.
    Parla, continua a pensare. E di tanto in tanto constata la combustione delle parti del suo corpo.
    Parla. Ma a chi parla? Non si rivolge ad ascoltatori umani o concreti o suoi simili. Anzi li respinge: « NON VOGLIO PIÙ VEDERE… l’UOMO!». Parla a Dio ma per contestarlo: «NON SONO TUO FIGLIO! / SONO FIGLIO DELLA MIA PAROLA!». In un delirio di onnipotenza orgogliosa e assoluta, ma tutta chiusa in sé:

    « ho solo una coscienza pura che tormenta i miei trionfi e i miei fallimenti
    Io so che l’anima è eresia, che la ragione non sarà bruciata!
    Ho conosciuto la materia razionale ed eterna, il suo sarcasmo,
    e ho percepito le differenti ragioni del bene e del male!
    Mi sono liberato infine, e per sempre, dall’arbitrio e da Dio,
    i miei umori, ora, sono sani e controllati, e sto svanendo…
    ho combattuto i dottori cristiani che con frivoli
    e insulsi argomenti hanno circondata la verità di dubbi…».

    O più avanti:

    « Ho bruciato intere biblioteche per affilare il mio pensiero ambiguo,
    distrutto gli statici costumi, sofismi, inganni, istituzioni,
    nemico immortale di tutti i poteri politici e religiosi.
    Ho amato, prima di me stesso, i filosofi, i poeti e i loro sogni,
    ho amato tutta la Natura, ho denunciato il suo inquinamento!».

    O ancora:

    « ho combattuto l’umore melanconico,
    felicità e beatitudine mi aspettano, svanisco nella gioia immaginata!»
    (che però – mi pare – rimane nell’astrattezza…).

    E poi di negazioni ossessive e in crescendo:

    « Nego i miracoli, le anime
    immortali, nego religioni e fedi: puri strumenti di governi!
    Nego le gerarchie, le autorità, l’erudizione che genera fallaci
    metafisiche, nego di essere un libertino recidivo e un finto ateo».

    Anche qui:

    « Non voglio sapere più nulla!
    Non voglio vedere più nulla!
    NON VOGLIO PIÙ VEDERE… l’UOMO!
    Via, via da me il desiderio, il piacere, il dolore e la paura!»

    Fino ad arrivare all’acme, dove follia e titanismo sembrano congiungersi:

    « Scardanelli, dammi la tua follia… la tua follia bella!
    […]
    Mondi, Universi, a me!».

    Sagredo non me ne vorrà, se gli faccio notare che trovo:
    – troppa freddezza manieristica nel dettato poetico;
    – involontariamente comico l’intercalare dei vari distici che cominciano con « Ma questa fiamma sale» con le strofe di “lirica filosofica”.

  7. @ SagredoTholosae combustum.
    1.
    Antonio Sagredo si ( ri ) presenta in Poliscritture con un testo ( Tholosae combustum ) che l’autore definisce poema. Di tale forma esso ha una dimensione spaziale, che poco interessa, ed una struttura interna che tale definizione rende certamente legittima. Se poema è l’assunzione come “ oggetto “ di una vicenda e l’individuazione in essa di nodi significativi che danno unità all’insieme, il testo è un poema. Lo è anche perché di fronte ad esso il fruitore non può trascurare il dato storico che lo sorregge nella “ realtà specificamente propria “ dell’invenzione poetica. Leggendolo non si può non pensare all’avventura umana di Vanini, alle specifiche modalità del suo aver vissuto, aver pensato, aver subito il martirio del rogo. Sarebbe dunque un errore – a mio giudizio – accostarsi a questo testo ( letteralmente “ fiammeggiante “ ) trascurando del tutto la conoscenza del protagonista Vanini. Oggi ci soccorrono strumenti di conoscenza che rendono colpevole l’ignoranza. Non occorre certo che il lettore sia un conoscitore della filo-teologia di Vanni ( io certo non sono in questa schiera ) ma la sintonia tra lettore e testo esige un minimo di prossimità al nucleo centrale della vicenda. Dunque si deve sapere che la vicenda assunta come oggetto è il pensiero, la vita e la morte di Vanini non a caso – direi – legato all’autore da un vincolo di “ territorialità “ che è anche – se non sbaglio – un’altra cifra di lettura. Vanini è un “marginale “ in senso proprio. Si pone ai margini di un’ufficialità che – seppure variegata ( cattolici, protestanti, addirittura anglicani ) – ritrova la sua distruttiva unità allorquando si tratta di bruciare chi ad essa non appartiene. Mi piace pensare – e il testo mi autorizza a farlo – che Sagredo abbia inteso rivivere in quella di Vanini la marginalità delle popolazioni meridionali tra le quali emergono” lo calavrese abate Giovacchino di profetico spirito dotato “ e l’autore della Città del Sole “ ( quest’ultimo non bruciato ma sottoposto a non terapeutiche ma crudeli sottrazioni di sangue ). Dico questo perché vorrei invitare ad una lettura dialettica del testo di Sagredo, testo che si presta – penso impropriamente – ad una accusa di astoricità. Non mi interessa, nell’itinerario che sto seguendo affrontare il problema generale del “ valore “ di una poesia che investa oggetti non storicamente attuali. Mi interessa invece affermare – ovviamente come mia opinione – che il testo di Sagredo è “ attuale “.
    2.
    Giustifico tale conclusione con due argomenti.
    Nella sostanza la “ marginalità “ è sempre attuale ed esprime la posizione non omologabile con il contesto socio-politico- culturale in cui si vive. Appartiene – poi – alla “ forma “ la scelta delle “ immagini “ cui affidare il messaggio. Anche la “ mitologia “ – e dunque a fortiori “ anche il “passato “ – sono “ materiali da costruzione “ la cui scelta fa parte dell’arbitrio e della responsabilità dell’autore di un testo poetico.
    In secondo luogo non mi sentirei di definire “ astorica “ l’assunzione – nell’esperienza poetica – di un nucleo meditativo che appartenga all‘al di là. Non si tratta di credere o non credere religiosamente all’anima, alla sua immortalità o mortalità, all’esistenza o inesistenza di un dio creatore. Si tratta semplicemente ( si fa per dire ) alla perpetuità dell’interrogazione su questi elementi del nostro pensiero e di svolgere – rispetto ad essi – una ricerca. Essa, che io sappia, non cessa di appassionare molti dei nostri simili e- dunque – i punti di domanda e le risposte rispetto ad essi sono attuali. In un certo senso anche l’ateismo è una credenza.
    Anche per quanto riguarda questo flusso, il lettore di Sagredo non può essere indifferente, non può essere agnostico. Non dico che debba essere ateo o credente, materialista o spiritualista. Dico soltanto che deve prendere il testo nelle sue suggestioni filosofiche. Questo aspetto rende difficile o quantomeno complesso il testo stesso esigendo un minimo di conoscenza di partecipazione emotivo/conoscitiva ai suoi temi. Ma di quando in qua la complessità di un testo poetico è argomento contro la sua autenticità ?

    3.
    Ho definito quello di Sagredo un “ testo fiammeggiante “ . Non si tratta di un richiamo, abbastanza facile, alla vicenda di Vanini e alla sua orrenda morte. Le fiamme hanno – mi pare – una duplice direzione. Fanno parte – in primo luogo – della struttura strettamente formale del testo e in secondo luogo ne individuano la “ ratio “ cioè il senso più o meno esplicito dell’ispirazione.
    Dal primo punto di vista è interessante notare che le fiamme – creando un’atmosfera altamente drammatica e quasi teatrale (in un verso si parla di anfiteatro ) – sono trascinate da Sagredo “ lungo tutto il il corpo “ di Vanini. Ogni articolazione di esso è progressivamente preda del fuoco e il testo ne scandisce – in un ordine che è, paradossalmente, ma non troppo, distruzione e disordine – le inarrestabili vittorie. Non poi tali se alla fine vi è un grido di vittoria in assenza di corpo!
    A mio giudizio il secondo punto si coglie nella elencazione quasi puntigliosa delle parti che via via si consumano. Si osservi: tutte “ corporee “. Dopo le braccia “ tutte carbone “ non c’è niente altro che possa bruciare perché tutto è ormai incorporeo ed è solo il pensiero che si libera, pensiero che “ non può bruciare “, non può diventare cenere . E’ questa – oserei dire – la “ ratio “ conclusiva del testo. Se si volesse fare seguire a questi rilievi un conclusivo inserimento del testo in una qualche esperienza di pensiero – operazione niente affatto arbitraria come quella che tende a connettere il proprio io soggettivo con l’oggettiva presenza storica di altre esperienze – tenderei a vedere nel testo di Sagredo una sorta di visione spinoziana del mondo in cui campeggia la equivalenza Deus sive natura.
    Si può andare anche più indietro e ritrovare motivi “ antichi “. Addirittura nei presocratici. Rispetto a costoro Sagredo oltrepassa la “ misura “ oltre la quale – richiamo i Greci – esiste solo la violenza ( sostituita, mi pare, dal ciclo inarrestabile della Natura trionfante ). Non uso il termine “ classico “ che è deteriorato e spesso fuorviante se non si sa di cosa si parla.

    4.
    Posto che sono convinto che in poesia il “ pensiero “ acquista valore in quanto “ forma “ mi fermerò necessariamente a sottolineare alcuni “ luoghi/parole “ nei quali vedo realizzato in modo coerente tale connubio/esaustione.
    A cominciare dal titolo che è tutto corporeo. Tholosae è: in Tolosa, luogo determinato. Combustum è il corpus ( neutro nella lingua dei padri ): bruciato. E così si entra in altra dimensione di cui ci interessa solo il pensiero che la definisce per escluderla.
    Ma ancora.
    L’incipit: Non immaginavo di essere una maschera iniziale ( nella contrapposizione maschera – realtà ). Non sono stato tradito dal Divenire Universale ( definito quindi come la Verità, eguale nel suo movimento e mai eguale nel movimento stesso). I miei natali sono della stessa Natura Divinata ( qui il richiamo a Deus sive natura è più che una citazione. È una sorta di atto di fede ).
    La mia recisa lingua ( non è solo la memoria del supplizio ma l’affermazione di un linguaggio verità ). Sono figlio della mia parola. Tutta la incalzante serie di negazioni che segue la “ combustione del femore “ in cui non si cede neppure alla tentazione di una trascendenza della discendenza ( verso finale ). La gnomica : “ gli insulsi argomenti hanno circondato la verità di dubbi “ . L’ombra ( o la fiamma ? ) di Scardanelli ( Holderlin ) del quale si invoca la follia come luogo in cui la natura ( uccelli, acque, papaveri, cure materne ) si manifesta per apparenze transeunti se “ mi scoppia il cervello “. Voglio soltanto ricreare la Natura…voglio la tua Vittoria.
    Ogni lettore può trovare – secondo il proprio gusto, predilezione, opzione – il verso più suggestivo.
    Ogni interpretazione si fonda sul particolare per arrivare al generale ma in questo – nel testo – trova del primo conferma e appagamento per la sintonia dell’assieme.

  8. di Ennio Abate non confermo quanto segue:
    ” troppa freddezza manieristica nel dettato poetico”,

    poiché il dettato poetico si sviluppa con toni paradossalmente armonici e che scandiscono una evoluzione filosofica-teologica frenetica e dettata dall’urgenza del dire tutto prima della fine; non direi “freddezza” quanto passione divorante che non nasconde certa ripetizione di concetti.
    Quanto al’
    ” involontariamente comico l’intercalare dei vari distici che cominciano con « Ma questa fiamma sale» con le strofe di “lirica filosofica”.

    vi è in effetti uno stacco fra due voci diverse e distinte: il distico è meccanico e segna come una lancetta d’orologio i tempi e le stazioni: se mai vi è “freddezza” sadica in questo scandire: come dire “Martire, sbrigati che il fuoco sale e il tempo sta per finire, sbrigati di dire tutto e di non tralasciare nulla”…
    Tutto ciò contrasta visivamente e concettualmente con la passione lirica che segue al distico e che solo la follia pone termine…. forse si, vi è del comico, ma un comico tragico, e noi sappiamo da Shakespeare quanto sia labile il confine il confine fra i due regni: di Como e della tragedia. grazie R. C.

  9. filosofo o persona comune, la fiamma brucia ugualmente la carne (a suo modo democratica) e quando il condannato arriva a respirarla deve essere terribile, perché non c’è più nulla della persona che possa essere salvato: Sagredo mi piace per questo, nella capacità di mettere il lettore a fianco dell’arrosto di un trasgressivo dimenticato, di battere bastoni sui coperchi delle pentole in un crescendo sempre più roboante, udibile, crudele, tragico

  10. @ Mannacio

    «Dico questo perché vorrei invitare ad una lettura dialettica del testo di Sagredo, testo che si presta – penso impropriamente – ad una accusa di astoricità. Non mi interessa, nell’itinerario che sto seguendo affrontare il problema generale del “ valore “ di una poesia che investa oggetti non storicamente attuali. Mi interessa invece affermare – ovviamente come mia opinione – che il testo di Sagredo è “ attuale “ […]. Nella sostanza la “ marginalità “ è sempre attuale ed esprime la posizione non omologabile con il contesto socio-politico- culturale in cui si vive. [….] [ La ricerca su anima, sua immortalità o mortalità, esistenza o inesistenza di un dio creatore], che io sappia, non cessa di appassionare molti dei nostri simili e- dunque – i punti di domanda e le risposte rispetto ad essi sono attuali. In un certo senso anche l’ateismo è una credenza.».

    Il testo di Sagredo non sarebbe *astorico*? Non lo è, se ci limitiamo a constatare – giustamente – che tratta di un personaggio che non appartiene al mito ma è accertato che sia vissuto tra 1585 e 1614 e h operato in varie città dell’Europa di quel tempo. Ma la visione di Vanini, fatta propria da Sagredo e da lui rivissuta poetica-mente, è *astorica*, perché a mio parere la loro ( di entrambi) Verità ( «Ho accettato di morire allegramente per la (mia) Verità») è fuori dall’”umano” («NON VOGLIO PIÙ VEDERE… l’UOMO!») e trova la sua liberazione nella follia («Scardanelli, dammi la tua follia… la tua follia bella!») in un pensiero smaterializzato o disincarnato ( «Vedo il mio libero pensiero!», nell’Indefinito («Mondi, Universi, a me!»), in una natura del tutto metafisica e “sovraumana” («Voglio… soltanto… ricreare… la Natura!»).
    Anche il discorso della “marginalità” che sarebbe «sempre attuale» a me pare indefinito e astorico. A me viene da osservare che una cosa era la “mariginalità” rispetto al Potere di un intellettuale o filosofo aristocratico vissuto a cavallo del Cinque-Seicento. Altre le “marginalità” rispetto ai Poteri coevi di filosofi e intellettuali di epoche successive. Per non tirare in ballo le “marginalità” non di individui geniali e appartenenti alle classi superiori ma delle plebi, popoli, masse, moltitudini dei secoli successivi.

    @ Cardia

    «di Ennio Abate non confermo quanto segue: ” troppa freddezza manieristica nel dettato poetico”, poiché il dettato poetico si sviluppa con toni paradossalmente armonici e che scandiscono una evoluzione filosofica-teologica frenetica e dettata dall’urgenza del dire tutto prima della fine; non direi “freddezza” quanto passione divorante che non nasconde certa ripetizione di concetti».
    Obietterei che la «passione divorante», calandosi nel linguaggio poetico di Sagredo, si sia “raffreddata”, “teatralizzata”, ingabbiata in un lessico ipercontrollato (e appunto manieristico). Il che non suona necessariamente come difetto. Basti pensare all’artificiosità della situazione “irrealistica” immaginata: uno che mentre brucia, espone compunto e pacato la sua filosofia mentre il fuoco divora il suo corpo.

    « il distico è meccanico e segna come una lancetta d’orologio i tempi e le stazioni: se mai vi è “freddezza” sadica in questo scandire: come dire “Martire, sbrigati che il fuoco sale e il tempo sta per finire, sbrigati di dire tutto e di non tralasciare nulla”…Tutto ciò contrasta visivamente e concettualmente con la passione lirica che segue al distico e che solo la follia pone termine…. forse si, vi è del comico, ma un comico tragico, e noi sappiamo da Shakespeare quanto sia labile il confine il confine fra i due regni: di Como e della tragedia. grazie R. C.».

    Non per pignoleria, ma prevale più il comico o il tragico? Forse c’è ambiguità (poeticamente accettabile), ma io ho voluto rilevare quell’elemento comico.

    @ Almerighi

    «filosofo o persona comune, la fiamma brucia ugualmente la carne (a suo modo democratica)».

    Eh, no! Non c’è equivalenza. Un atteggiamento così sovrano rispetto alla morte ( e che morte!) mi pare solo del filosofo. E non a caso ho richiamato Socrate. Per contrasto mi viene da pensare allo Stracci de «La ricotta» di Pasolini. [1].

    [1]
    Stracci, la comparsa che interpreta il ladrone buono, regala ai propri familiari il cestino del pranzo appena ricevuto dalla produzione. Essendo affamato, si traveste da donna per rimediare un secondo cestino, che viene mangiato dal cagnolino della prima attrice del cast. Sul set giunge intanto un giornalista che intervista il regista; terminata l’intervista, il giornalista trova Stracci che accarezza il cane e glielo compra per mille lire. Con i soldi, Stracci corre dal “ricottaro” dei dintorni a comprarne tutte le rimanenze per sfamarsi, ma viene chiamato sul set e legato alla croce per la ripresa dei lavori; alla successiva interruzione, corre a mangiare la ricotta e, sorpreso dagli altri attori, viene invitato ad abbuffarsi con i resti del banchetto preparato per l’ultima cena. Al momento di girare la scena della crocifissione, muore di indigestione sulla croce. Il regista, senza ombra di commozione, commenta: “Povero Stracci. Crepare… non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo…”. (https://it.wikipedia.org/wiki/Ro.Go.Pa.G.#La_ricotta)

  11. Intanto Vanini non 1614, ma 1619; bruciato nel mese di febbraio: mese delle streghe; a febbraio fu bruciato Bruno e sempre in questo mese tanti altri.
    —————————————-
    Fa bene Abate a rifarsi a Socrate, ma ci sono tanti altri filosofi di primissimo piano; ma ripeto: non siate troppo razionali, altrimenti vuol dire non comprendere quel che “sentiva” il filosofo; conoscete i versi di Holderlin su Vanini? e gli scritti di Schopenauer e di Hegel?
    ———————
    Ho letto tutto quanta l’opera di Vanini (iniziai dal 1963 con molta difficoltà quel che trovavo; quando tutto poi è stato tradotto dal latino in italiano – alcuni anni fa – per merito dell’amico storico Francesco Raimondi che risiede proprio a Taurisano, il compito mi diventò più facile e mi chiarii tanti punti e fraintendimenti)…poi alcuni testi in francese, e in russo lo studio di Rutenburg… e altro…
    …per creare e costruire i miei versi di Tholosae non è stato facile: sono passarti almeno 10 anni per disincanto dalle letture, per disintossicarmi!
    —————————————-
    Ripeto, se potete, leggete da poeti, o come poeti se non lo siete affatto.
    Fatevi trasportare dal carretto già in fiamme – quasi ad anticipare quelle del rogo!
    ————————————————————————————————-
    a.s.

  12. Quel che scrive Sagredo fa accapponare la pelle:
    “Fatevi trasportare dal carretto già in fiamme – quasi ad anticipare quelle del rogo!”.

    Io credo che lui l’abbia fatto se non come scrivere un poemetto così tragico e lirico?

    r.f.

    1. @ Cardia

      In netto disaccordo. Ritengo legittima sia la lettura di chi si fa “trasportare dal carretto già in fiamme” sia di chi sul carretto non ci vuole neppure salire.

  13. @ Sagredo

    1.
    “è accertato che sia vissuto tra 1585 e 1614 “: hai ragione, ho semplicemente copiato da http://www.iliesi.cnr.it/AGCV/cronologia1.php, trascurando il secondo link: 1615- 1620.
    2.
    “non siate troppo razionali, altrimenti vuol dire non comprendere quel che “sentiva” il filosofo; conoscete i versi di Holderlin su Vanini? e gli scritti di Schopenauer e di Hegel?”

    Qui in attrito. Non penso affatto di essere un lettore “troppo” razionale. E per esprimere la propria (semplice e correggibile!) opinione o impressione su un testo
    non si è obbligati a conoscere gli autori che tu citi. Ciascuno ha un suo percorso di formazione, conosce certi autori e altri no o poco, ma – ripeto – può e deve esprimere quel che pensa o crede sulla base della sua “enciclopedia”. Altra cosa sarebbe rifiutarsi di leggere i versi di Holderlin o di Schopenauer o di Hegel, quando gli venissero suggeriti come importanti o decisivi per intendere Vanini.

    3.
    Nessuno qui mette in dubbio la tua conoscenza accurata di Vanini.

    4.
    Non sono d’accordo. Il lettore legga come vuole e man mano , insistendo sul testo, troverà il *suo* modo di approfondirlo.

  14. Il 21 aprile ricorre il 40° anniversario della morte di A. M. Ripellino (1923-1978): qui a Roma vi saranno tre eventi importanti (altri sono già avvenuti):

    1) il 21 al Teatro di Villa Torlonia organizzato dal bohemista Giuseppe Dierna.

    2) il 22 al Cinema Apollo 11 organizzato da Antonio Pane e A. Cortellessa.

    3) all’Ambasciata Ceca organizzato dalla stessa e dall’Associazione Praga – direttrice Zoufalova Katerina).
    ———————–
    prego Ennio Abate di pubblicare a suo piacimento alcune poesie di Ripellino, insomma di realizzare un bel servizio. Da parte mia invio qui versi dedicati alla Praga del ‘600.
    Invito anche chiunque partecipa a questo blog di inviare qualcosa sul celeberrimo slavista e poeta Ripellino.
    Grazie, A. S.

    ———————
    Camera

    Forse tu, domani, stupita vedrai il mio trionfo calpestare l’ardesia,

    le consolari ammutolite e il riflesso ostinato di un Kaos nelle cisterne

    vuote… il clamore del mio volto fu sorpreso da un cratere attico

    e umiliato l’incarnato in una gabbia dalla mia storia scellerata.

    Nei laboratori dei presagi ho scovato non so quale fattura inquisita,

    la promessa di una risurrezione mi stordiva… mi svelava una fede

    il negromante a squarciagola: ecco, questi sono gli altari,

    dove ancora nei secoli si canterà la favola di un qualsiasi profeta!

    Era inverno. Come un latino antico carezzava la soglia di codici miniati

    e sul leggio la potenza di un centrale impero. Raggirava la città zebrata

    con Keplero, e tra insegne, bettole e vino nero, respiravano l’ansia,

    la carta e l’inchiostro – e con lo sguardo la neve, la polvere della decadenza.

    Lastricate d’attese e geometrie le nuove leggi simulavano la memoria.

    Raffiche di gelo salmodiavano le nostre ossa, i numeri cedevano il segreto

    al secolo più virtuoso, straziata la nemesi e sformata la pietra angolare.

    Gli occhi e le dita computavano nuove orbite e principi matematici.

    Maldestro è il tradimento! Come il trono è una maschera inabile,

    capriccio e parvenza di se stesso! E mi vaneggia lo specchio di incubi,

    eventi e sembianti… e come si trastulla nel giardino, e in questa

    stanza mia, che è Tutto per me – per fortuna – ma non è la Storia!

    antonio sagredo

    Vermicino, 16-20 maggio 2008

  15. Antonio Sagredo scrive poesie assertorie e interroganti. Non sono poesie di immagini ma di parola, ove si intenda che parola non demanda ma è immagine in sé. Andrebbero lette o per meglio dire consultate, come fossero antiche carte dei Tarocchi, oppure l’I Ching ( il libro dei mutamenti). Hanno un che di oracolare. Questo le rende senza tempo, per fatto magico estranee all’oggi, all’ieri e al domani. Non è poesia di saggezza, tende all’invettiva, si compiace, gioca, ride e deride. Tholosae combustum potrebbe essere considerata l’opera sua più emblematica, quella di un eternauta, insieme storico e astorico. Per quanto l'”io” possa sembrare preponderante, ci si chiede da dove arrivi e dove viva; persino sfugge quale possa essere il suo aspetto, dietro maschere e belletto, perché un grande io (grande in possanza) vive la sua morte e ha di fronte il nulla che lo sostanzia. Formalmente non è poeta ineccepibile ( tende a ripetere, a volte di se stesso manierato) nemmeno si può dire che sia innovativo, almeno per quel che riguarda l’onda della modernità: è linguaggio da palcoscenico, che un tempo fu tribuna per rivoluzionari. Oggi senza popolo.

  16. Caro Mayoor,
    non direi che Tholosae è la mia “opera più emblematica”: vi sono altri scritti che ancora non conosce il lettore più intriganti, talmente tali che anche io sono sorpreso da me stesso: il fatto è che la scrittura mi è sfuggita più volte dalle mani (ora non scrivo più: mi limito a rendere pubblico quel che è ancora nascosto) e si è rifiutata più volte di considerarmi l’autore: è il solito giochetto un po’pirandelliano: non solo il personaggio (autore) è mille altri personaggi (autori), ma pura la scrittura e mille altri scritture (Joyce insegna magistralmente).
    Quando uscirà il mio “La gorgiera e il delirio” la mia poesia all’80% è pubblica: ma è con lo stile dei miei versi che mi gioco la vita, e ancora una volta (lasciamo stare che le mie fonti difficilmente sono capaci di individuare i critici) il lettore non è capace di lasciarsi andare dagli andamenti musicali, emotivi o no che siano, oscuri o no, ecc.
    Ma è che p.e. coi CAPRICCI parecchia gente addetta o non addetta ai lavori è restata sconcertata: immagini e concetti e altro (che paiono mescolati a caso oppure no) invece ubbidiscono a una disciplina logica granitica eppure musicalirica, e non dico
    della dialettica interna in ogni verso… il fatto è che ogni mio verso è un continente da scoprire… basta così, ho detto anche troppo.
    Un critico italiano notissimo ha osservato che il mio verso non si lascia facilmente decifrare (quasi fosse una colpa e un limite allo stesso tempo)… gli ho risposto di rileggersi il terrestre Dante e, per i nostri tempi, il divino Joyce.
    grazie a. s.

    1. Non per interferire nello scambio tra Sagredo e Mayoor, vorrei far notare una cosa a entrambi e a tutti i probabili lettori di questo post: il giudizio di valore su un’opera (singolo testo o complessiva) non si può fondare esclusivamente sulla coscienza che l’autore ha della propria opera, ma emerge ( e può anche declinare o riemergere) col tempo. Anzi con l’andamento delle vicende storiche e l’emergere o il declinare o il riemergere di istanze sociali e culturali collegabili a quell’opera. Non è mai definitivo. Nel frattempo si ha un tira e molla, a volte costruttivo a volte inconcludente e parolaio, delle opinioni più o meno autorevoli di tizio o caio o del gruppo tizio e del gruppo caio, delle quali il singolo autore può tener conto o fregarsene. Senza però mai avere la certezza che esse siano sbagliate e che la sua sia quella giusta.
      Se altri vedono la questione in modi diversi, lo dicano e ne discutiamo.

      1. Grazie per l’arbitraggio.
        Non si discute ma ho solo dato il MIO giudizio di valore, che a ben vedere è sull’operato dell’autore più che sul testo qui presentato. Secondi fini non ce n’è, né intendevo controbattere alle opinioni di chicchessia. Dicendo della scrittura oracolare, credo di avere suggerito una chiave di lettura diversa dalla tua e da quella di Giorgio Mannacio, entrambe interessantissime. Si vuole dare così un contributo al lavoro del poeta, il quale sarà libero di tenerne conto oppure no.

  17. Sono del parere che tutto è stato scritto qui ha una valenza, e cioè che tutti i punti vista sono accettabili criticamente: i miei interlocutori/trici sono persone che stimo; se mai la disistima mi appartiene, ma soltanto per un gioco mio interiore: i CAPRICCI sono miei e ci gioco e loro mi giocano… e se c’è qualcuno che scrive sciocchezze glielo dico. Gli interventi sono stati pertinenti, avrei desiderato un approfondimento delle tematiche teologiche (una volta si diceva “teodicee”) -filosofiche, ma a ben vedere ci aveva pensato l’amico Andrzej Nowicki, moltissimo più armato di noi in quelle.
    Quello che voglioconfessarVI è che simili versi sono scaturiti dopo tantissimi anni di letture , riflessioni, ripensamenti… il problema principe era come cominciare il poemetto: lo stile: lingua, forma, musica, ecc. – quando iniziarlo…
    e tutto ciò è stato inutile pensarlo prima perché all’improvviso il fuoco mi ha preso e ha cominciato a bruciarmi: il risultato lo avete letto…
    ma io stesso rileggendolo varie volte mi son detto e sorpreso…
    a.s.

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