Un quadro e un manifesto


di Ennio Abate

Ho dipinto questo quadro in Sardegna, a Portoscuso, per la casa di Marinella Usai e Vincenzo Martinelli tra fine luglio e inizi di agosto 2018. Accostando quattro fogli di cartoncino 50 x 70 con fondo dorato, gli unici che ho trovato in una cartoleria del posto. In un primo momento, non avendo a disposizione né pennelli né diluente, ho usato colori ad olio, spremendone alcuni direttamente dai tubetti e spalmandoli a caso su tutta la superficie con una scheggia di cartone. Da qui le striature, che sono evidenti nelle figure che ho intuito/costruito più immediatamente, studiando – come sempre faccio – lo “scarabocchio” iniziale da cui parto: al centro la figura dell’albero; a sinistra quella del guerriero che si slancia in avanti con il ginocchio teso e tronco e braccia piegate all’indietro; a destra quelle vegetali e la figura femminile azzurrina.

Su tali figure sono intervenuto nei giorni successivi, dopo essermi procurato due pennelli di fortuna e acqua ragia (invece del solito olio di lino) per diluire i colori diluiti e affrettare l’essicazione. Così ho meglio definito i contorni delle figure: quasi inalterati quelli dell’albero e del guerriero rispetto all’inizio; variati di poco o cancellando nelle altre: vegetali, sasso, testa rivolta in alto e bandierina. Ho campito il fondo prima con l’azzurro poi con il verde. E in questa fase ho delineato anche altre figure di piccole dimensioni. Da sinistra in alto: volto di profilo, capra, colombo. Da sinistra in basso: uomo di spalle con braccio e mano a punteruolo, coppia che legge un libro. Sulla destra: figura femminile e altre meno definite sovrastanti. Ho poi alleggerito il fondo verdastro ancora fresco con una velatura di giallo. Siccome il verde del fondo mi è sembrato ancora troppo scuro e poco adatto ad evidenziare le figure azzurrine, l’ho sostituito in abbondanza con il colore bianco molto diluito. Sia per meglio evidenziare tutte le figure che ormai approvavo, sia per contornarne altre, strappandole al fondo piatto verdastro, che hanno la forma di sagome più elementari, frammentarie o fantasmatiche e non sempre facilmente identificabili. (Lo sono forse – ma molto dipende dalla soggettività di chi guarda – il colombo in volo, il martello, le bandierine, l’alberello-volto, la testa di pagliaccio  con cappello a cono). Come titolo possibile (non indispensabile per me) ho pensato «L’albero e varie storie».

Ho fatto questo quadro mentre scrivevo una sorta di manifesto per la fondazione con alcuni amici e e amiche di una Associazione artistica. Eccone i punti in una versione semplificata:

MANIFESTO PER L’ASSOCIAZIONE ARTISTICA [NOME DA DECIDERE]

1.
L’arte è stata finora un’attività umana importante, presente in tutte le società (anche le più povere). Chi ha mente libera la considera necessaria al pari di tutte le attività economiche o pratiche, le uniche invece giudicate oggi unanimemente indispensabili. Se nelle varie epoche queste ultime hanno permesso agli uomini di vivere in società meglio organizzate e meno dipendenti dai vincoli della natura, l’arte (e tutte le altre attività simboliche) ha contribuito a dare un senso alla vita degli individui e delle società; e soprattutto a ricordare e custodire l’idea che felicità e libertà sono possibili per tutti, malgrado troppo spesso esse siano soffocate o violentemente represse dalle classi dominanti.

2.
La storia ci mostra un passaggio (visto da alcuni come un progresso, da altri invece come una decadenza) da un’arte pienamente integrata in un sapere unitario (ad esempio, quella degli antichi Greci) alle «arti meccaniche» (pittura,scultura, architettura) subordinate gerarchicamente per tutto il Medio Evo alle cosiddette «arti liberali» (del Trivio e del Quadrivio), per arrivare poi nei secoli successivi alle Belle Arti (arti figurative o del disegno) e all’attuale Babilonia di una molteplicità di arti (pittura e scultura, musica e danza, teatro, architettura, fotografia, cinema) in cui le idee e le tecniche più varie, sia di epoche antiche che recenti, coesistono o si contrappongono, rendendo più complicato una definizione certa di cosa sia o possa essere la funzione dell’arte in un mondo drammaticamente caotico.

3.
Se nelle epoche passate i cambiamenti nell’arte ebbero sempre relazioni (non meccaniche) con i cambiamenti delle società, è però con l’industrializzazione, il rivoluzionamento della produzione e i cambiamenti sempre più accelerati di tutte le dimensioni della vita sociale e individuale che l’arte ha perso la funzione sociale tradizionale e di assoluto rilievo, che aveva nelle società precedenti. Per questo si troviamo in un’epoca di crisi e di incertezza, per ora senza vie d’uscita e in cui non è facile orientarsi.
Da qui una divaricazione e un contrasto. Tra chi, fin dall’Ottocento, ha parlato (e non banalmente) di «morte dell’arte» (Hegel) o insistito sui danni venuti all’arte nelle società borghesi e capitalistiche dalla sua riduzione a merce (Brecht). Dall’altra, respingendo ogni nostalgia per la funzione originaria dell’arte, sicuramente magica e religiosa, molti hanno dato valore all’arte moderna e poi alle arti di massa o alle nuove arti (come la fotografia e il cinema) esaltando i suoi processi di semplificazione, di pluralità, di democratizzazione, di estetizzazione della vita, che non sono privi – è bene dirlo – di complicazioni ed effetti ambigui e discutibili.

4
Non è facile perciò ripensare la storia dell’ arte o delle arti e districarsi tra le forme magiche, religiose, aristocratiche, popolari, borghesi, proletarie, di avanguardia e di massa, rivoluzionarie e controrivoluzionarie, futuriste, politiche o civili o apolitiche o impolitiche, che si sono succedute nei secoli. Né la formulazione di una nuova idea di arte adeguata all’epoca caotica che si è aperta con la rivoluzione industriale e prosegue oggi con la globalizzazione e il primato delle tecnologie.

5.
È possibile allora, nell’attuale società (capitalistica) che ha subordinato alle sue leggi del profitto e del mercato la ricerca artistica reprimendo in molti il bisogno di fare e capire l’arte, non lasciarsi scoraggiare dalle mostruose forme di specializzazione (e di deformazione) che hanno trasformato la figura dell’artista, isolandola e contrapponendola ai cosiddetti “normali” o “appassionati” o “dilettanti” o “consumatori d’arte” mediante l’imposizione truffaldina dei miti dell’artista sacrificale o puer o maudit o folle? E proporsi la ricostruzione di un’idea diversa di arte? Da dove cominciare?

6.
Per non illudere nessuno sulla facilità di capire e fare arte oggi e addirittura arrivare a formulare una funzione diversa dell’arte, l’Associazione artistica terrà presente questo stato di crisi dell’arte e inviterà i suoi aderenti a rendersene conto, a discuterla, ad affrontarla. Avendo come obiettivo il confronto e il chiarimento tra le opinioni e le pratiche individuali contrastanti che sicuramente l’attraverseranno. E cercando di trovare punti di concordanza su cosa sia arte oggi e su come si possa praticarla nelle concrete situazioni in cui ciascuno vive.

7.
I momenti di confronto e le pratiche possibili nei laboratori che l’Associazione proporrà ai suoi aderenti dovrebbero mirare a educare e a costruire un appassionato  e un praticante d’arte libero dai modelli delle accademie, capace nel confronto con gli altri di depurarsi dei pregiudizi più diffusi sull’arte. Forse è possibile modellare i laboratori dell’Associazione sull’esempio rigoroso dell’esperienza del Bauhaus (qui) , ma riportandolo ad una dimensione elementare di massa e sciogliendolo da quel legame con l’industria del tutto irrecuperabile (almeno in partenza) nelle attuali condizioni.

8.
Forse ogni singolo partecipante costruirà partendo dal proprio laboratorio, ma concordando con gli altri almeno alcune regole minime ed elastiche e alcune idee. Quali? Mi sento di proporre alla discussione le seguenti:

– evitare, come succede spesso, che arti e scienze vengano contrapposte, perché le prime sarebbero attività pratiche e produttive e le seconde contemplative;

– visto che generalmente abbiamo conosciuto le opere d’arte o attraverso i musei oppure attraverso la loro riproduzione tecnica (Benjamin) ci sarebbe da tentare una duplice correzione: – recuperare i legami che le opere finite nei musei avevano con il contesto originario in cui si trovavano, diffidando del museo, luogo dove sono state raccolte esclusivamente e per scopi soprattutto di mercato, «opere d’arte» (se non soltanto i cosiddetti «capolavori») in un’ottica euro e occidentocentrica e orientarsi  verso una demuseificazione dell’arte; – sottrarsi ad una visione consumistica dell’arte (ad esempio, quella che promuove le file chilometriche di persone agli ingressi di certi musei o di certe mostre), incoraggiata proprio dalla continua riproposizione di immagini seriali e pubblicitarie riprodotte su riviste, manifesti o organizzando eventi fin troppo spettacolari, dove l’apparente democratizzazione dell’arte si confonde con una vera e propria diseducazione, procurando l’assuefazione della gente ai surrogati mercificati dell’arte;

– resistere alla nostalgia dell’ «aura» (magica e religiosa) dell’arte; e criticarla, come fece per primo Walter Benjamin; e lungi dal perdersi in astratte  apologie della Bellezza o della Autenticità, cercare nelle  caparbie ricerche individuali, che abbiamo continuato a fare, e in quelle degli artisti noti o meno noti gli elementi per riflettere – da soli o assieme ad altri – su quali possano essere gli elementi basilari con cui si costruiscono opere fuori dal risaputo, dall’imposto, dalle mode;

– diffidare dell’idea del «genio» che alimenta soltanto narcisismi fasulli. Il genio per alcuni è una sorta di divinità dotata di poteri sovraumani; e per altri è un individuo che si distingue dagli altri solo per una particolare capacità di combinare intuizioni ed idee con una facilità e rapidità che altri non hanno. La seconda ipotesi sembra la migliore. «Meno genio», suggeriva giustamente Franco Fortini.

Non so se ci sia rapporto e di che tipo tra questo quadro (e quelli finora dipinti o i numerosi disegni prodotti in vari decenni) con le idee che ho buttato giù per il manifesto dell’Associazione artistica. Lo spero.

 

9 pensieri su “Un quadro e un manifesto

  1. Caro Ennio,
    Condivido l’iniziativa del Manifesto. Non appartengo alla schiera di coloro i quali negli appelli, nelle prese di posizione, nei testi da condividere ecc. cavillano su un termine, su una espressione, su alcuni concetti ecc. L’importante è lo spirito che anima tali iniziative. Poi tutto è perfettibile.
    Mi permetto solo di suggerire. Sono cose tra noi comuni.

    – la giusta misura tra testo lungo (con vari passaggi e approfondimenti su contenuti, correnti, ecc.) e testo eccessivamente breve.
    – alcuni passaggi netti e chiari sulla funzione dell’arte nei processi di emancipazione umana (sempre Lukacs, L’arte non fa rivoluzioni, non trasforma direttamente la società e la storia, ma prepara gli esseri umani a desiderare, a volere, a perseguire altre forme di vita…).
    – perfetto. “Meno genio” (Fortini) e “Più luce” (Goethe). Direi più luce diffusa. Allora democratizzazione, ma non banalizzazione consumistica. Il generale e capitalistico “tutto è lecito, tutto è permesso”. L’arte è anche rigore, fatica, educazione. La giusta misura tra alto e basso, tra élite artistiche e circolazione popolare, e vita quotidiana delle persone.
    – tra i laboratori, un accenno alla necessaria educazione all’arte. Non semplicemente il ripristino della storia dell’arte come educazione di base ecc. Ma un’educazione, scolastica e non, a poter intendere l’arte. Tendenzialmente. Avere qualche strumento in più, come bagaglio culturale minimo del cittadino consapevole. Ricordo la semplicità e il forte impatto delle lezioni presso la Lup del compianto Claudio Annaratone su “Come leggere un’opera d’arte” (arti figurative).
    Ricordo solo qui la funzione della musica e il generale analfabetismo musicale (del sottoscritto compreso).

    Queste sono cose messe giù questa mattina velocemente alla lettura del tuo messaggio. Ben altra riflessione occorrerebbe. Ma ci tenevo a sottolineare la bontà dell’iniziativa.
    Un abbraccio.

    Giorgio

  2. AL VOLO

    Vi è poi un’altra affascinante liaison che ci viene offerta attraverso questo lavoro discografico ed è costituita dal testo letterario presente in due brani. Nel primo, Life, life, l’autore del frammento poetico recitato da David Sylvian è Arsenij Aleksandrovič Tarkovskij, padre del regista e riconosciuto tra i grandi della poesia russa; nel secondo, Fullmoon, il testo è tratto dal romanzo The Sheltering Sky dello scrittore statunitense Paul Bowles, trasposto poi in film dal regista Bernardo Bertolucci la cui colonna sonora è firmata proprio da Sakamoto. Siamo di fronte a un cortocircuito di parole/immagini/suoni senza soluzione di continuità. Il quadro appare complesso ma, ad un’osservazione attenta, si mostra estremamente naturale. Vi è un dialogo tra Oriente e Occidente interpretato dai due letterati che non lascia indifferenti.
    Qual è l’elemento che più colpisce, in un’opera d’arte? La capacità di riprodurre la realtà in modo unico e irripetibile. Allo stesso tempo tale unicità potrà sbalordire nel momento in cui l’autore sarà in grado di mostrare i legami che rendono l’opera vicina alla vita, come in una sorta di rivelazione.
    “[…] l’immagine cinematografica – afferma Andrej Tarkovskij nelle sue lezioni sul cinema – può incarnarsi solo in forme fattuali, naturali, di vita percepita attraverso la vista e l’udito. L’immagine deve essere resa con naturalismo”. Attraverso l’opera del compositore giapponese veniamo messi in contatto proprio con questo naturalismo. Tutto ciò suggerisce l’idea che l’immagine, nel mondo contemporaneo, debba fornire stimoli che pongono nuove frontiere allo sguardo.
    E qui veniamo alle opere pervenute per il concorso. Sono oltre 700, tutte visionabili sul sito dell’artista nipponico. Osservandole una per una, ad un dato momento sarà inevitabile avere la sensazione di trovarsi davanti a un’opera totale, a quell’uno umano che ci sembrava essere scomparso. Si avrà la percezione di trovarsi difronte a una vera e propria opera d’arte collettanea, divisa nei suoi microcosmi ma unica nel suo macrocosmo: una galassia. Un’opera scritta da un musicista in collaborazione con centinaia di altri individui i quali, attraverso le loro immagini, narrano le molteplici sfaccettature della realtà che l’ascolto di questi brani suggerisce: un filo rosso li unisce in una enorme opera corale.
    Ascolto, in questo frangente, è un termine assolutamente pertinente. Senza l’ascolto non è possibile attivare l’immaginazione. Le visioni scaturiscono a partire dalla suggestione innescata dal suono e viceversa, in una sorta di scambio asincronico. Ma la particolarità di questi piccoli film è quella di risuonare.
    “Voglio avere più spazi. – continua Sakamoto – Spazi, non silenzio. Lo spazio risuona. Voglio godere di questa risonanza, sentirla crescere”.
    Viviamo totalmente immersi in una contemporaneità che è fatta sempre più di suggestioni, di realtà non realtà, di rappresentazioni riprese con i telefoni cellulari che creano una replica da conservare nel proprio archivio personale. Ma il gesto ripetitivo che imita un altro gesto non è una novità, si può ricondurre al principio dei tempi, quando osservare come fare ad accendere un fuoco, per esempio, generò la ripetizione di quel gesto. Il punto è: quanto questa ripetizione si può considerare conoscenza e non, viceversa, la gabbia nella quale viviamo la nostra esistenza. Imitiamo qualcosa che capiamo o la capiamo soltanto in apparenza?

    (DA async. La poetica di Ryuichi Sakamoto
    • 17 gennaio 2018
    di Giovanna Gammarota
    https://www.nazioneindiana.com/2018/01/17/async-la-poetica-ryuichi-sakamoto/

  3. …mi piace l’dea di partire da uno “scarabocchio”, cioè da qualcosa di piuttosto confuso, quasi affidato al caso di in movimento incontrollato della mano, per permettere poi alle figure e ai pensieri di affiorare, come per volontà loro, superiore. Anche l’idea di Ennio di un’Associazione artistica, che sia alla ricerca di forme alternative di espressione e di comunicazione aperta al mondo si muove sulla stessa traccia del dipinto e mi sembra buona…Secondo la mia soggettiva interpretazione il dipinto-manifesto potrebbe raffigurare un planisfero dove vi sono raffigurate genti, animali, natura, pensieri. Il grande albero occupa la posizione centrale (l’Africa e i suoi movimenti e potenzialità future?) e si apre in un’esplosione a fontana, nella direzione del nostro vecchio continente…Lo stesso dipinto viene mostrato su una parete che sovrasta una tavola solo parzialmente apparecchiata…Come dire che resta in attesa di altri convitati, tutte le persone di buona volontà?

  4. E’ noto che l’arte, più precisamente la pittura, per molti rappresenta una sfida per la propria mente. La mente ama le sfide, è così per tutti; la mente si appassiona quando non capisce qualcosa; e, al contrario, se una cosa la capisce ecco per perde interesse.
    La ricerca dei pittori si potrebbe ridurre a questo: l’artista si sente attratto dal mistero, da tutto ciò che non capisce. Ecco perché, in un certo senso, i pittori sono scienziati.
    Credo sia questo anche il caso di Ennio Abate. Si sta tra il riconoscibile figurativo e l’inconscio astratto… Si crea quindi un conflitto di linguaggio: simbolico è quello delle figure, astratto ed emotivo (direi) quello che traspare e dà corpo alle figure e al complesso di tutta l’opera. Due linguaggi che possiamo definire come “esterno” il primo e “interno” il secondo.
    Un artista “normale” si vedrebbe costretto a operare una scelta. Non Ennio, perché?
    Faccio qualche ipotesi:
    – L’astrattismo è un’americanata, storicamente la risposta capitalistica al realismo socialista. Al che Ennio potrebbe dirsi: MAI!!!
    Ma l’astrattismo, almeno il suo di Ennio, che trae origine dall’espressionismo astratto appunto americano, è inconscio; vale a dire che esprime sentimenti come la rabbia, la gioia, la sofferenza, ecc. mantenendone intatta la forza espressiva, non mediata da narrazione.
    – Il figurativo simbolico, che per me è una “pizza” ma so che intriga le menti, esprime meglio tutti quegli aspetti personali e sociali, memoria, significato, anche ideologico, ecc. Forse il linguaggio figurativo simbolico è più simile alla parola, in quanto segno significante.

    Ma
    la mia opinione è che le opere d’arte dovrebbero essere pensate per se stesse, non per chi le fa. Quindi si dovrebbe perseguire un risultato, non dare solo testimonianza di un conflitto. Questo dovrebbe essere l’approdo, per raggiungere il quale possono servire anni e anni di ostinata ricerca e lavoro (principalmente su di sé).

    La pittura di Ennio si presenta come ricerca introspettiva ma operata con segni che in realtà sono di estroversione: la rabbia, ad esempio, chiede di essere espressa, non di restare trattenuta… Al contrario, la pittura simbolica chiede di essere rappresentata in modo “significativo” e comprensibile, o riconoscibile; quindi richiederebbe pazienza e narrazione, buona e paziente esecuzione…
    Tutto questo, se trasposto in letteratura, lo si potrebbe dire come prosa-poesia.

    Poi a Ennio piace il gioco societario: discutere, mettere insieme le forze, creare circoli culturali…

    Credo che a lui piaccia enormemente la pittura simbolica. L’astrattismo lo affascina ma non lo capisce, gli manda in tilt la capacità di giudizio. E perché in tilt? Forse perché non è entrato ancora mani e piedi nell’estetica del linguaggio astratto. Chissà se per un pregiudizio. Ma quell’estetica – forma linguaggio – va capita, accolta , altrimenti è caos.

    Capisco quindi perché quel verde nelle figure faccia a pugni con i colori del fondo (mio parere).

    Spero di essere stato utile. Chiaro no, di sicuro.
    Chiedo pazienza per come ho scritto e me ne scuso.
    Un abbraccio

  5. @ Mayoor

    Mi poni delle questioni che mi stanno a cuore, ma credo di non poter condividere il tuo “antifigurativismo” ( « Il figurativo simbolico, che per me è una “pizza”»). Le tue critiche penso abbiano una stretta parentelacon la tendenza mistico-spiritualista, di cui parla questo libro, « L’anima e il cristallo. Alle origini dell’arte astratta (il Mulino)» di Stefano Poggi.
    Ho appena letto la recensione :
    http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2016/03/09/le-radici-filosofiche-arte-astratta/.
    Ti stralcio solo alcuni passi, poi replicherò articolatamente alle tue obiezioni. (En passant, siamo all’incirca nello stesso campo della querelle Fortini-Heidegger…).

    Stralci:

    Uno spazio rilevantissimo, nell’intero libro, hanno poi tutte quelle figure che, a vario titolo, tendono energicamente ad attribuire all’animo umano un’esigenza di totalità e di unità, che si manifesta e si esprime nelle «varie modulazioni dell’esperienza mistica». Si tratta di un tema centrale, che attraversa per intero il lavoro di Poggi e che, al di là dell’importanza che esso ricopre nella dimensione filosofica, religiosa o spirituale, ha un peso decisivo nell’elaborazione del pensiero artistico d’inizio Novecento. L’arte astratta, in particolare, è indicativa e significativa di questa tendenza, poiché «l’impatto dell’esigenza di spiritualizzazione del lavoro artistico di cui è espressione l’attenzione riservata all’esperienza mistica è un impatto che si esercita in misura del tutto particolare sulle arti figurative» (p. 13)
    La premessa al primo capitolo, intitolato Mistici e materialisti (pp. 15-29), è la constatazione di come, nella letteratura e nelle arti di fine Ottocento, si sia assistito a un interesse crescente nei confronti del «sovrannaturale» e del corrispondente movimento di idee a esso ispirato, il «misticismo». In quest’ultimo, «nelle sue molteplici forme, trovano espressione inquietudini, aspirazioni, interrogativi di più antica, ma non remota data» (p. 16), a partire da quella Philosophie der Mystik(«Filosofia della mistica», 1885) nella quale il barone Carl du Prel argomenta a favore di una vera realtà posta al di là dell’esperienza sensoriale e percettiva. Si afferma l’idea che alcuni stati, come ad esempio quelli onirici, rappresentati dal sonnambulismo, possano essere assunti come manifestazioni di una realtà più profonda, alla quale può avere accesso l’«esperienza mistica». Queste tendenze, delle quali è testimonianza il libro di du Prel, prefigurano «l’amalgama di fine secolo tra l’attenzione per la mistica come paradigma di spiritualità e un interesse dai tratti spesso torbidi per le varie forme di esoterismo e di occultismo» (p. 18).
    ….
    Come sottolinea l’Autore, la forma dell’opera d’arte richiama in sé due elementi fondamentali. Per un verso, entra in gioco «la concreta espressione dei sentimenti nel simbolo»; per altro verso, si realizza «la vera e propria messa in opera del simbolo “secondo le leggi eterne della creazione artistica”» (p. 100). La forma, allora, non è semplicemente il contorno di una figura né, tantomeno, è una realtà statica. Essa, invece, è una realtà mutevole, dinamica, in tensione con un altro elemento chiave dell’opera d’arte, il colore. Una di quelle che Poggi definisce le «leggi costanti, immutabili che valgono per l’arte di tutti i secoli» prevede che «il colore decide della forma e la sottomette» (p. 101). A questo punto si apre un’altra questione, che riguarda esattamente il rapporto tra colore e forma e l’eventuale primato dell’uno rispetto all’altra (o dell’altra rispetto all’uno).

    Il dibattito sul colore, al di là dell’originario contributo di Goethe, trova ampio spazio nella Monaco d’inizio Novecento. Tra gli artisti più interessati a prender parte e posizione in questo dibattito c’è Kandinskij, il quale assegna al colore una «forza inaudita», non soltanto per il ruolo che esso ha nell’arte e nella pittura, ma anche per la funzione che espleta nella nostra relazione percettiva con il mondo. Il colore, peraltro, manifesta una tale complessità da agire energicamente sull’anima, la quale trova nel colore il migliore degli strumenti possibili per esprimere e comunicare i sentimenti. Ancora più efficace sarà l’individuazione di colori innaturali da associare agli oggetti raffigurati, così da assegnare a essi – scrive Poggi – un chiaro valore espressivo-simbolico. La posizione di Kandinskij, rispetto al primato conteso tra colore e forma, è netta: «le forme, le forme viventi, ogni raffigurazione o riproduzione non hanno alcuna rilevanza, se non quella di ottundere la forza primigenia del colore» (p. 104).

    In Kandinskij, poi, si ripresenta il concetto di “interiorità”, al cui livello agisce lo «spirito creatore», il quale però opera con strumenti terreni. Lo spirito creatore è massimamente astratto, nel senso che astrae dai vincoli esterni, materiali e plasma la forma materiale. L’artista, che è mosso da una pulsione tutta interiore, è una componente del processo creativo, che si estende ben al di là dell’individuo, della materia, degli oggetti, degli strumenti. Questo “al di là” comporta il superamento dell’immediatezza materiale e percettiva e il dischiudersi di un universo immateriale che ha qualcosa di «segreto, enigmatico, mistico» (p. 109). Poggi, in questa tendenza antimaterialistica, intravede il riflesso di una certa attenzione per le concezioni occultistiche che circola nell’Europa di quegli anni e che avevano contagiato anche figure vicine a Kandinskij, come Franz Marc. Di fondo c’è il rifiuto del materialismo, si diceva, a favore di un’esaltazione dello spirito e dello spirituale, uniche forze realmente agenti nel farsi della creazione artistica. I sensi sono strumenti, mezzi attraverso cui l’artista compie una precisa azione: assolvere a un compito eminentemente conoscitivo, vale a dire superare ogni scissione ed elevarsi a una superiore unità. È qui che si saldano, in Kandinskij, tre dimensioni: quella artistico-creativa, quella spirituale e quella mistica. Nell’artista russo «la convinzione della necessità di avviarsi nella direzione dell’opera d’arte del futuro guardando all’interiorità con la guida della mistica è esplicita e decisa» (p. 114).

  6. Va ricordato che non tutte le opere degli astrattisti sono state riconosciute come spirituali, dalla critica e dal pubblico. Ad esempio Mondrian, il quale si era mosso con queste intenzioni ma invece approdò astrattismo tramite un freddo calcolo svolto sul reale apparente (gli studi progressivi sull’albero, ad esempio). Così come molti hanno riconosciuto in Paolo Uccello alcuni aspetti fondamentali dell’astrattismo ( forse incoraggiati dalla vacuità dei contenuti). Fatto sta che Mondrian non è percepito come “spirituale”, mentre lo sono Marc, e più avanti Rotko. Ma nemmeno Kandinskij è mistico.
    Ho il sospetto che qui si voglia schematizzare semplificando.

  7. @ Mayoor

    APPUNTI

    1.
    Ma è poi vero che « la mente si appassiona quando non capisce qualcosa»? O, per appassionarsi (in un senso positivo, non distruttivo, perché le passioni possono essere anche distruttive) ha anche bisogno di capire?

    2.
    Questa idea dell’«artista si sente attratto dal mistero, da tutto ciò che non capisce» potrebbe anche essere un’ipotesi interessante da indagare, un fenomeno da capire, ma la sento – mi sbaglierò? – appesantita da brutti ideologismi, inibitrice di altre e forse insospettate domande; e ritengo giusta una certa mia diffidenza verso chi la proclama con toni sacerdotali e rampogne verso i profani e ne fa una decorazione per distinguersi dal volgo.

    3.
    Per essere pittori (visto che stiamo parlando a partire da un quadro) bisogna riuscire a costruire nella via quotidiana condizioni minime, elementari per – appunto – dipingere. Senza farne lamento, devo dire che io non le ho avute ( o non sono riuscito a conquistarle, per varie ragioni che qui ometto di dire). Dopo un tentativo giovanile fallito di entrare nell’ambiente dei pittori da “esterno”, credo di aver praticato la pittura (o qualcosa ad essa vicina? Para-pittura?) nelle condizioni di un eremita o di un Crusoe. (Almeno così mi vedo). Ho desiderato invano uno studio per me (una camera tutta per sé della Wolf), invidiato chi certe condizioni per dipingere le aveva già in partenza (e mi pareva che non le sfruttasse a fondo o come io avrei fatto). Sono rimasto in un ambiente sociale di scettici o indifferenti alla pittura e alla funzione che essa ha svolto ( Cfr. punti del manifesto). Vaghi e scarsi gli incoraggiamenti, modesti e casuali gli apprezzamenti. La mia pratica della pittura è rimasta attivita “secondaria” e in certa misura “clandestina”. Evito di definirmi pittore. A volte penso che il giudizio che diede su di me a mio padre il mio professore di fisica e matematica ( “né carne né pesce”) sia stata una sorta di maledizione. Altre volte penso che la mia sia stata una condizione diffusa, ingrata, pesante, per molti aspetti *nuova* e non dissimile (da un punto di vista ideale, non materiale) da quella di tanti immigrati che approdano nei “nuovi mondi” *non loro*, che non li prevedono, costruiti da altri che li ignorano o li temono; o anche li invidiano per una carica di volontà testarda che è come un marchio( indelebile?) di chi ha provato condizioni di povertà, di emarginazione o di esclusione.

    4.
    « Si sta tra il riconoscibile figurativo e l’inconscio astratto… Si crea quindi un conflitto di linguaggio: simbolico è quello delle figure, astratto ed emotivo (direi) quello che traspare e dà corpo alle figure e al complesso di tutta l’opera. Due linguaggi che possiamo definire come “esterno” il primo e “interno” il secondo.» (Mayoor)
    No , direi istintivamente. Non due linguaggi. O, se proprio si trattasse di due linguaggi, molto vicini e da non contrapporre. Non mi ritrovo neppure nella tua distinzione:« esterno” il primo e “interno” il secondo». Dico, invece, che sia la *figura* che la *non figura* o la *non ancora figura* (quello che che tu chiami «astratto», nel senso – intendo io – di non riconducibile a forma già nota o in qualche modo analoga, somigliante ma che chissà quando *figura* potrebbe diventarlo – leggo in Wikipedia: « con il termine “astrattismo” vengono quindi spesso disegnate tutte le forme di espressione artistica visuale non figurative, dove non vi siano appigli che consentano di ricondurre l’immagine dipinta ad una qualsiasi rappresentazione della realtà, nemmeno mediata dalla sensibilità dell’artista come nel caso degli impressionisti») nascono in un processo che non spezzerei, non taglierei (intellettualisticamente o ideologicamente, ti dovrei rimproverare) che è unico, interno (mentale/emotivo) ed esterno. E che è poi, secondo me, supportato dal colore e dalla tecnica esecutiva che ho imparato. Questo unico processo inizia dal momento in cui mi isolo, butto il colore su un supporto (che sia tela è un’abitudine, un rito accolto per imitazione, non indispensabile, tant’è vero che tante volte lo stesso processo è iniziato movendo la biro che costruisce uno “scarabocchio” su un foglio di carta qualsiasi) e seguo i “suggerimenti” (?), che mi vengono dal mescolare alcuni colori scelti “a casaccio” (?).

    5.
    Non mi convince l’obbligo (implicito) nella tua distinzione figurativo/astratto a una “scelta” (quasi militante, direi ironizzando!). Secondo me hai stabilito una “gerarchia estetica”: astratto vale più del figurativo. Sempre istintivamente ( ma ci dovrei pensare ancora) credo che In sostanza una tale gerarchia sia assente (specialmente oggi) nella mia pratica pittorica solitaria ( e dunque rimasta più duttile anche perché ignara o poco influenzata dal dibattito intenso , almeno in passato, tra gli addetti ai lavori su tale questione). Questa separazione figurativo/astratto dice forse più di te, della tua visione della pittura, più che di me o della mia. Dice, ad esempio, quello che tu supponi di me. Sarei una specie di pittore ancorato al realismo socialista che rifiuterebbe un settore della ricerca in pittura – quello dell’astrattismo – in base addirittura a una scelta ideologica :« – L’astrattismo è un’americanata, storicamente la risposta capitalistica al realismo socialista». È un’osservazione che poteva stare si e no sulla bocca di un Guttuso. Sulla mia no, di sicuro. E non è che io mi senta scisso, che faccia cioè una pittura separata dalla mia visione politica. Insomma, non sto nella tradizione del realismo socialista.Non ne ho manco subito il fascino.

    6.
    Non so neppure se la parte astrattista che vedi nella mia pittura sia così nettamente derivabile dall’espressionismo astratto americano. La mia gestualità me la sono ritrovata fin da adolescente, alle prime prove non più di “copia dal vero”, quando ancora ignoravo quasi tutto della pittura moderna. Ricordo che davanti al vetro della finestra appannato, tracciavo con la punta del dito delle curve e, trovato bello quell’intrico di segni, vi cercavo dentro una *figura*, come del resto facevo e fanno tutti guardando le macchie di un muro o sporco o inumidito dalle intemperie.

    7.
    «il riconoscibile figurativo e l’inconscio astratto».
    Non vedo l’inconscio solo nell’astratto. Anche nella parte figurativa c’è “spinta inconscia”. Ma cosa intendiamo per “spinta inconscia” o semplicemente ‘inconscio’. Qui ritorna pure il “mistero”. E ancora secondo me incombe l’ideologia, l’orecchiato dai tanti discorsi di psicanalisti d’oggi e dell’altro ieri o dalle letture più o meno approssimative di Freud, Jung, ecc.. O ricompaiono echi di discorsi religiosi, discorsi su Dio, la morte, la sessualità, l’altro. Interessantissimi, a volte fondamentali, ma anche irti di trabocchetti, sentieri interrotti o ambigui.

    8.
    Mi pare di capire che tu pensi ad una espressione diretta delle “passioni”. La pittura dovrebbe essere espressione diretta di rabbia, gioia, sofferenza. Immediata, insomma. Per così dire a-ideologica. ( Quante volte è tornato questo aggettivo nelle nostre passate polemiche). In pittura per te l’ideologia starebbe nella figuratività, nella *forma che significa*, che rimanda a “forme della vita”. che stabilisce un rapporto tra quel qualcosa dipinto e quel qualcosa che si percepisce anche altrove o che gli somiglia. O nella *narrazione*, cioè nel montaggio.relazione di varie forme in una sequenza che chiamiamo racconto, che prevede un prima, un poi o semplicemente una varietà raggrumabile, accostabile di tempi, eventi, personaggi.

    9.
    Poi mi pare di capire che fai un’equazione: figurativo= parola. Che sarebbero entrambi «una pizza». Perché sia la figura che la parola sarebbero “cose” note, partecipi della vita quotidiana, usate da tanti altri, che poeti o artisti non sono, poco o per nulla cariche di mistero, troppo o solo ‘significanti’; mentre sarebbe artista solo o soprattutto chi invece va oltre il significante (che sarebbe ovvio, risaputo, senza mistero, volgare, profano…). E mi pare sempre di capire che per te la pittura astratta sarebbe questa svolta innovatrice in arte perché si è posta oltre il significante.( Com’è accaduto in poesia per l’avanguardia…).

    10.
    Ancora. Se dici: «le opere d’arte dovrebbero essere pensate per se stesse, non per chi le fa. Quindi si dovrebbe perseguire un risultato, non dare solo testimonianza di un conflitto», mi pare di capire che ritieni che io le mie “opere d’arte” non le pensi per se stesse, ma mirando ad un destinatario alle cui attese (o ai cui pregiudizi) mi subordinerei o mi sentirei in dovere di rispondere, rinunciando così alla *autonomia dell’arte*, alla ricerca artistica senza imposizioni o vincoli, ecc. Oppure sembri dire che, dovendo esse raggiungere «un risultato», questo nella mia opera (singola o complessiva) non viene raggiunto. Perché questa mia singola opera o le mie opere testimonierebbero soltanto «un conflitto» (tra figurativo e astratto) e non l’uscita (il vero obiettivo indispensabile) da esso. E ancora: tale conflitto (tra due estetiche) rivelerebbe un altro conflitto (mio, interiore, e, dunque, senza legame con il “sociale” o il “reale”) rimasto irrisolto. Insomma, io non sarei approdato al vero “risultato” che è proprio dell’opera d’arte. E ci vorrebbero – ma sono vecchio e non ce la farò mai più! – «anni e anni di ostinata ricerca e lavoro (principalmente su di sé)». (E non, comunque, sul mondo, sulla società, sugli altri).

    11.
    «La pittura di Ennio si presenta come ricerca introspettiva ma operata con segni che in realtà sono di estroversione». Sembra ben detto, quasi mi lusinga, ma lo stesso non mi convince. Ancora svela meno sulla mia ricerca e di più sulla tua visione, il tuo desiderio, la tua filosofia. Mi viene in mente il *correlativo oggettivo* di tanta poesia novecentesca ( Eliot, Montale). Uno si cerca “dentro”, ma dentro che vede? Nulla o forme incomprensibili. O forme riconducibili a forme esterne. Anche nei sogni non compaiono persone o animali o cose riconducibili a quelle che noi vediamo da svegli? Immagino, però, che tu alla «ricerca introspettiva» voglia indicare altre destinazioni.. E che, appena la ricerca introspettiva inizi il suo lavoro e si posi su una forma,cioè il *corrispettivo oggettivo* (esterno) che sembra stabilire un legame tra ‘sentito’ e ‘ esterno’, tu intervenga per dire no, che pizza, che ingenui, che figurativi. Perché ancora torna a valere forte nella tua mente il mito o il modello a te caro: quello di esprimere e basta: «la rabbia, ad esempio, chiede di essere espressa, non di restare trattenuta». Tuttavia – prima cosa – che rabbia è quella che arriva alla pittura o alla scrittura? Può mai essere immediata, selvaggia? Se tale effettivamente fosse, arriverebbe mai a calmarsi (almeno un po’), ad aspettare di depositarsi in pittura o in versi? Non si esprimerebbe in gesto, in atto violento contro sé o contro gli altri o simboli vari? E torna anche il rifiuto, conseguente della figuratività (che poi non è una sola, ma ha mille variazioni: si pensi al nudo femminile in pittura nei secoli o, che so, al tema del cavallo o del fiore, ecc.) e della pittura che chiami «simbolica». E perché? «Perché la pittura simbolica chiede di essere rappresentata in modo “significativo” e comprensibile, o riconoscibile; quindi richiederebbe pazienza e narrazione, buona e paziente esecuzione». Perché appunto persegue il significato, non si ferma all’espressione immediata della rabbia o altro. Vuole una forma, vuole che la forma arrivi a significare, ad essere comprensibile o riconoscibile, anche se mai una pipa dipinta sarà una pipa vista in bocca ad un passante. «Come la prosa – poesia», dici. Mentre, invece, la poesia sarebbe l’astratto. E anche qui torna la gerarchia. La Poesia su un piano più alto rispetto alla prosa-poesia, come l’astratto starebbe su un piano più alto rispetto alla «pizza» del figurativo.

    12.
    C’è poi un rapporto tra questa mia attrazione per la «pittura simbolica» ( ma io parlerei di pittura è basta…) e il « discutere, mettere insieme le forze, creare circoli culturali»? Me lo sono chiesto io stesso. E, infatti, ho detto che speravo ci fosse ma non ne sono certo. E Credo che mantenersi nella figuratività o più semplicemente non stabilire questa netta distinzione tra figurativo e astratto, equivalga anche a stare (potenzialmente, teoricamente) con un insieme più ampio di interlocutori. Occupandoci di certe cose o non occupandocene, restringiamo o anche allarghiamo il campo (sempre potenziale; quello reale è ben altra questione) dei nostri contatti con gli altri. (Voglio dire, schematicamente qui e per accennare ad altra polemica in corso, che dire “moltinpoesia” è usare una parola che allarga, mentre parlare di “ombra delle parole” è restringere ai soli appassionati di “ombre” ( o di mistero).

    13.
    In cauda venenum? Forse. Perché alla fine del tuo scritto colgo un rimprovero, che fa capire ancora meglio la gerarchia che presiede alla tua riflessione (svolta non tanto a partire dal mio quadro, di cui quasi non parli) ma sulla mia supposta “poetica pittorica”: «L’astrattismo lo affascina ma non lo capisce, gli manda in tilt la capacità di giudizio». Eh, no. Posso ammettere fino ad un certo punto di non capire l’astrattismo (e perché non anche il figurativo?), ma perché «in tilt»? Forse perché non sono «entrato ancora mani e piedi nell’estetica del linguaggio astratto»? Ma, in fine dei conti, è esistita davvero o esiste ancora una contrapposizione così netta tra figuratività e astrattismo? Quanto astrattismo è stato ripescato nella tradizione figurativa? E quanta figuratività si può pescare nella tradizione astrattista? (E non solo moderna, ma anche premoderna o “primitiva”)? Io non capirei l’astratto perché lo confonderei con il caos? O semplicemente non smetto di tener conto della tradizione figurativa? O uso due linguaggi ( come il dialetto e l’italiano) ma senza stabilire la gerarchia che tu stabilisci?

    14.
    Ma fosse pure l’astrattismo una novità assoluta, perché dovrebbe cancellare il figurativo? Raccogliesse pure la spinta moderna dei mutamenti sociali e industriali, siccome non è riuscito a spostare tutti sul nuovo terreno, perché dovrebbe cancellare la dialettica permessa nel figurativo? Approssimativamente io stabilirei per me una analogia tra figurativo/astratto e dialetto/italiano. Se ho imparato l’italiano ( lingua che esprime una certa realtà nuova industrial-borghese) perché dovrei seppellire il dialetto? Il linguaggio artistico e poetico non coincide con quello sociale, ma perché deve staccarsene del tutto? L’astrazione è un processo prezioso, che ha ricadute benefiche anche sul linguaggio sociale immediato; ma spinto all’estremo, presuppone un altro mondo completamente staccato da quello percepito attraverso il pensiero/linguaggio sociale. Che potrebbe anche esserci, ma non è – al momento – raggiungibile da tutti. E allora qualsiasi esperienza privilegiata o vera o più vera, che non è socializzabile , può diventare un feticcio facile da sbandierare per tenere individui e società sottomessi. Cosa che temo e contrasto.

    Ecco spero anch’io di essere stato abbastanza chiaro.

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