Il plebeo-leninismo (socialista?) di Formenti e Visalli

di Ennio Abate

L’idea sarebbe quella di «partire da un’ampia alleanza di soggetti sociali che abbiano almeno la potenzialità di evolvere in senso socialista» e «nella prima fase prevedibile» è d’obbligo che questi soggetti sociali assumano un «carattere nazional-popolare e neogiacobino con l’obiettivo primario di ricostruire almeno le precondizioni (del socialismo)» che consisterebbero in una «reale partecipazione al processo decisionale e di redistribuzione del reddito». Questa, in sintesi, è la proposta del libro «Il socialismo è morto. Viva il socialismo» di Carlo Formenti che la recensione di Alessandro Visalli (qui) condivide e avalla.

Visalli è tra i pochi commentatori di politica che ancora di tanto in tanto seguo su Facebook. Pur stimando le sue sue capacità di studioso, la meticolosità sistematica delle analisii e la rispettosa oggettività con cui espone le tesi altrui, voglio ancora esprimere pubblicamente e brevemente (e per quel pochissimo che contano) le riserve e il mio dissenso di lettore-samizdat, cioè di commentatore non professionista né assiduo ma sempre più preoccupato però dalle precipitazioni (effettive o artificialmente drmmatizzate e spettacolarizzate) della crisi che sta da decenni consumando questo Paese.

Chiarendo che qui parlo solo della recensione di Visalli al libro di Formenti (e non del libro, che non ho letto e non leggerò per l’idea negativa che me ne sono fatto) a me pare che in questo scritto Visalli sia arrivato ad una potatura ormai drastica delle varie posizioni e teorie politiche per portare avanti in modi militanti e persino dogmatici la tesi “sovranista” che l’accomuna a Formenti: «la riconquista della sovranità nazionale è l’unica strada percorribile per riottenere il controllo collettivo sulle proprie risorse sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e persone».

Questa loro proposta di «una transizione alla transizione» non mi attira e non mi piace. Mi pare campata in aria. Ci sento stanchi echi dei “due tempi”, che furono rimproverati alla togliattiana «via italiana al socialismo». E, dunque, tutta dentro a quell’epigonismo delle sinistre (“radicali” o meno) da cui non riusciamo tutti davvero più ad uscire. E però m’infastidisce il tono di una polemica stantia e livorosa (più in Formenti, meno in Visalli) che si compiace di indicare la miseria delle posizioni degli avversari e dei concorrenti (soprattutto della “sinistra radicale” e dei “post-operaisti”),

In fondo, al reale o presunto elitarismo “cetomedista” della sinistra e a quello “lavorista” degli operaisti/post-operaisti, Visalli e Formenti cosa contrappongono? Un “plebeo-leninismo” socialisteggiante, con un facile ed abbondante ricorso alla retorica del partire “dal basso” e dal “fuori”, e cioè «proprio dagli strati più deboli ed emarginati che oggi si orientano verso le proposte delle destre difensive» («i migranti, i working poor, i lavoratori del terziario arretrato, i precari, i cognitivi declassati, ma anche quelli che stanno “fuori” (i contadini, il sottoproletariato metropolitano, il lavoro servile, le comunità indigene».

Può bastare? Secondo me no. Si resta nella diatriba inter nos (della tradizione di sinistra) pur pretenendo di esserne ormai usciti. E a me sembra inutilmente offensivo ( e in fondo retorico) dire che le sinistre (e quella radicale in particolare) sono diventate «il becchino del socialismo morto». Se lo sono loro, un po’ lo sono – è bene dirlo – anche Formenti e Visalli. Che pretendono distinguersi da esse con argomenti a volte anche condivisibili, ma che enfatizzati e ormai logoratisi a propaganda della loro tesi, in fondo attingono di fatto sempre alla medesima tradizione (socialdemocratica più che comunista).

Non capisco in particolare perché dichiarare la bontà di un socialismo, che non esito a definire ‘doveristico’ («assumere il dovere di far nascere il nuovo»; «rapportarsi al momento populista») sarebbe di per sé una reale novità. Io questo “nuovo” nella loro tesi “sovranista” non lo vedo. Piuttosto vedo che nella sua recensione Visalli procede con una raffica di accuse più o meno precise e condivisibili.ii Non nego neppure che alcune di esse siano centrate (e le lessi in altra forma e in un contesto diverso anche in vari scritti degli anni ‘80- ‘90 di Fortini), ma non capisco come si fa a liquidare con l’accetta pensieri, che – malgrado limiti, approssimazioni e forzature – lasciano intravvedere qualcosa di una “realtà” tuttora sfuggente e che non mi pare raggiunta o meglio chiarita dal libro di Formenti.

Non voglio sostenere nessun “ecumenismo di sinistra” o una conciliabilità di tesi teoriche contrapposte. È che il settarismo non permette a Visalli di accorgersi di alcune cose non trascurabili. Ad esempio, che il soggetto di questa sua/loro «transizione alla transizione» non mi pare poi tanto dissimile dalla “moltitudine” di Negri (da lui qualificata come «evanescente»). Che la liquidazione di Tronti (in sintesi: perdita della guerra, tramonto della politica, fine della Storia, amministrazione per conto del Capitale; e quindi una sorta di parabola che dall’operaismo finisce in un crepuscolarismo o pessimismo tragico), resta sbrigativa. Che al posto dell’esaltazione postuma di un Preve – di certo malamente «scomunicato» dalla sinistra “radicale”, non ridimensionabile a “rossobrunista”, che avrebbe dimostrato una «impietosa lucidità nel descrivere la senescenza precoce e irreversibile delle sinistre» e coraggiosamente «bestemmiato il nome del padre», svelando una supposta «ossimoricità della teoria marxiana» (un misto di romanticismo e utopia “scientifica” positivista) – farebbe meglio a recuperare la riflessione di Franco Fortini, il quale da tempo e “da dentro” l’orizzonte problematico di un marxismo critico degli anni ‘60-’70 diede risposte, che a me paiono tuttora migliori, alle accuse di Preve circa «il socialismo iscritto nelle dinamiche immanenti del capitalismo», il «comunismo come paradiso», il «soggetto salvatore» (la classe operaia). E senza le ambivalenze “comunitariste” riportate come oro colato da Visalli.( Cfr qui e successivi).

Visalli su certi temi ha dovuto indossare i paraocchi. Non ha mai forse condiviso la polemica contro il «cosmopolitismo di derivazione borghese e la radice illuministica in comune tra marxismo e liberalismo» fatta da posizioni comuniste, come faceva Fortini (e come Negri ancora rivendica). E preferisce valorizzare le “eresie” di Preve. Ottime direi per sostenere «il fatale invecchiamento di questa sintesi [di Marx], che poteva apparire ragionevole solo ad orecchie ottocentesche», per pensare l’internazionalismo come «relazione tra comunità» nazionali e non più in vista di un sempre possibile comunismo (fino a prova contraria o c’è già stata la prova definitiva?), per ridurre la lotta delle classi a quella tra “individualismo” (borghese) e “comunitarismo”, il quale valorizza «la resistenza delle comunità locali» contro «l’espansionismo globale dei mercati» (Formenti). . Ovviamente Visalli e Formenti la comunità la vogliono nazionale e «non nazionalista, razzista e imperialista», ma la resistenza “comunitarista”, anche quando non è “arretratezza “ o “residuo feudale”, come sfugge al cappio globale?

Una voglia di sempificare le cose è presente anche in altri passaggi di questa recensione. E mi limito ad elencarli:

– quando parla del populismo come se fosse soltanto un «linguaggio semplificato, emotivo, diretto, orientato a opposizioni bipolari»;

– quando sostiene che i populismi di sinistra sono possibili: « la difesa della sovranità nazionale non è necessariamente di destra»;

– o dice che ‘moltitudine’ sarebbe «vaga nozione» (mentre non lo sarebbe il «blocco sociale» che comprenderebbe «Terzo stato» e «classi medie impoverite»?);

– o afferma che, sì, il leader carismatico ci vuole per svolgere quella funzione simbolica di egemonia privilegiata rispetto al marxismo che metteva a fuoco soprattutto i rapporti a livello della produzione; (peccato che sia oggi sempre di destra! E che di Lenin in giro non se ne vedono);

– quando liquida come neoanarchismo la critica leninista allo Stato, che non sarebbe più necessariamente (come la nazione) «nemico del popolo»;

– quando insinua che quel che anni fa passava per socialdemocratico oggi sarebbe «altamente sovversivo» (ma rivoluzionario e socialista?);

Un discorso più approfondito e a parte andrebbe fatto sulla globalizzazione. Anche perché Visalli richiama un nodo di questioni (rapporto tra nazioni del centro, della semiperiferia, della periferia; delinking; sviluppo del sottosviluppo) e di autori (Amin, Fanon, Wallerstein, Jaffe) che stordirebbero anche un lettore volenteroso. Credo di poter concordare con lui quando la presenta come «processo politico che usa mezzi economici » e dice che essa «non anticipa un “mondo migliore”» e che «non indebolisce tutti gli stati ma solo alcuni a vantaggio di altri». E tuttavia restano le mie riserve. Mi pare da sofisti arzigogolare sul detto di Marx («gli operai non hanno patria») per dire che in fondo «non dice che non possono averla»! Marx constata che la lotta di classe all’inizio si può svolgere solo sul piano nazionale e Visalli (e Formenti) sembrano inchiodarla per sempre o per non si si sa quando a questo piano. Marx dice che il proletariato dovrebbe liquidare prima la sua borghesia e loro vogliono creare il «blocco sociale» con una “mezza borghesia” (ceto medio professionale + piccoli imprenditori).



Note

i

Visalli è informatissimo. Ha letto e cita testi che io ho appena orecchiato: Boltanski- Chiappello ( il 68 da critica sociale a critica “artistica”), Colin Croch ( Postdemcorazia), Onofrio Romano (La libertà veticale), Marcello Turi (pensiero destituente), Rosanvallon (La società dell’uguaglianza), Piketty ( Il capitale del XXI sec) e poi Richard Florida, Raffaele Ventura, Marco D’Eramo, David Harvey)

ii

Le sinistre avrebbero «una postura”missionaria”» fondata su una loro presunta “superiorità”; «cooperano con la liberale», legittimando il «neocapitlismo globale»; adorano la tecnologia e non colgono né «l’elemento demoniaco della tecnica» né la sua «non neutralità»; hanno scelto di fare dei ceti medio alti (dipendenti garantiti, ceti istruiti, professionsiti) la loro base elettorale separandosi dalle classi subordinate che disprezzerebbero e ignorerebbero; con il loro «spirito antiautoritario, libertario e antipaternalista» da ex’ ‘68 incarnano solo un’«aspirazione di promozione sociale individuale» condita da «solidarismo”verso gli ultimi” di sapore più cattolico che altro»; e, quando femministe, hanno sostituito al soggetto classe operaia un soggetto “donne” contrapposto ad un soggetto patriarcato, smarrendo ogni visione anticapitalista, “cetomedizzandosi” e rientrando lo stesso nel recinto del liberalismo [critiche di Nancy Fraser].

Accuse simili ma con un livore meno mascherato vengono mosse agli operaisti o ai post-operaisti. Questi che rispolverarono il “frammento delle macchine” e parlarono di “internità” della classe operaia che determinerebbe un suo ruolo rivoluzionario sarebbero rimasti attaccati alla «mitologia delle forze produttive», stravederebbero nella «capacità progressiva delle “tecno-scienza», ottusamente convinti che il «capitalismo contenga il principio immanente che lo porta inesorabilmente al suo superamento» e che comunque consenta all’individuo di «esprimersi», senza accorgersi che si appropria della intera ricchezza “sociale” centralizzando il controllo e lasciando comunque il lavoratore (ormai “flessibile”) «privo comunque di consapevolezza del processo complessivo in cui viene coinvolto».

1 pensiero su “Il plebeo-leninismo (socialista?) di Formenti e Visalli

  1. Non saprei dire se e come Fortini abbia messo in questione “l’individuo razionale universale” come soggetto storico, così come ha sostenuto Preve, che “la lotta di classe si rivela in ultima istanza lo strumento per realizzare il trionfo dell’individuo razionale universale”.
    Anche nelle idee politiche di populismo, nazione e leader, a cui si riferisce Visalli-Formenti, “l’individuo razionale-universale” non svolge il ruolo di protagonista unico. Occorre evocare e coinvolgere nella vita politica altri aspetti, Visalli utilizza l’idea di forme di vita (“quindi anche di eticità, in conflitto con la ‘forma di vita’ (e l’eticità) capitalista”), e cita un brano di Formenti che riguarda forme di vita, comunità, rapporti tra esseri umani:
    “l’internazionalismo dovrebbe fondarsi sulla relazione fra comunità diverse che si riconoscono reciprocamente quali portatrici di forme di vita legittime. La lotta anticapitalistica è in primo luogo lotta fra individualismo e comunitarismo, tra una visione del mondo che intende i rapporti fra esseri umani come rapporti fra atomi individuali che si scambiano merci, e una visione del mondo che valorizza la resistenza delle comunità locali all’espansionismo globale dei mercati.”
    Coerentemente aggiunge Visalli: “E’ chiaro che una posizione in tal modo definita finisce per dare un ruolo positivo alla sovranità nazionale, chiaramente intesa in senso non nazionalista, razzista e imperialista.”
    Il femminismo entra quindi doverosamente (dal “basso e fuori”) nel libro di Formenti. Ma, per esorcizzarlo, lo sintetizza in tre fasi: per Lonzi la liberazione dal patriarcato è la liberazione dell’intera umanità, secondo lo schema dialettico hegelo-marxista della “totalità chiusa del capitalismo”; successivamente il femminismo della differenza si sarebbe spostato su “obiettivi di riconoscimento identitario”; attualmente il femminismo si muoverebbe su rivendicazioni meramente emancipatorie.
    Quindi le altre fasi avrebbero “superato”, come antitesi e negativo, la “tesi” di Lonzi: chi sta qui usando lo schema hegelo-marxiano? (Senza notare poi che le protagoniste di tutte e tre le fasi sono tuttora viventi e attive.)
    A proposito di totalità chiusa e di schema hegelo-marxiano, Lonzi scriveva, nel 1970:
    “In realtà il dramma dell’uomo consiste in ciò che, abituato da sempre a trovare nel mondo esterno i motivi della sua angoscia come dati di una struttura ostile contro cui lottare, è arrivato alle soglie della coscienza che l’inghippo sta dentro di lui, nell’irrigidimento di una struttura psichica che non riesce più a contenere la sua carica distruttiva. Si è così stabilito sul mondo il senso di stare vivendo in una crisi irreversibile a cui fa sempre da alternativa la vecchia bandiera socialista. L’autocritica sviluppata dalla cultura ci sembra abbia imboccato una strada di presunzione e di incoscienza. L’uomo deve lasciarla per rompere la continuità storica del protagonista. Ecco qual è la trasformazione che vogliamo accada. (“Sputiamo su Hegel”).
    E’ una posizione ben più radicale di uscita dalla “totalità chiusa del capitalismo”.
    Questo schematismo di Visalli-Formenti sul femminismo lo pretende fruibile “in senso anti-liberale”, in realtà lo subordina fallacemente a una Teoria politica, che tuttavia si pretende più radicale e includente del vecchio marxismo.

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