Appunti e disappunti

NEI DINTORNI DI G. MAJORINO 2/1995

“Manocomete – quadrimestrale di profondità e superficie” è stata una rivista culturale fondata e curata da Giancarlo Majorino tra il 1994-1995.  Fu un generoso ma troppo breve tentativo di  rimettere a pensare assieme, in uno spazio che Majorino voleva spostato (memore di un precedente: Il corpo), intellettuali di varie competenze e generazioni, alcuni attivi già negli anni Sessanta, altri dopo il 1968.

Un giudizio su quella esperienza l’ho già dato nel 2003 in occasione della morte di Luciano Amodio, uno dei protagonisti assieme a Giancarlo Majorino e Felice Accame di Manocomete” (in “SAMIZDAT COLOGNOM” foglio semiclandestino per l’esodo, Numero  5, settembre 2002 – settembre 2003) e lo riporto qui:

 A Manocomete eravamo residui di una precedente epoca, provati e un po’ invecchiati, ma intenti a questo indispensabile spostamento. La posizione filosofica  di Amodio a me pareva comunque la più chiara politicamente: comunismo finito, quotidianità piccolo borghese (“democrazia”) imperante; il ceto medio aveva  sostituito la classe operaia,  liquidando i valori costruiti attorno a quella. La discontinuità forte col passato lui l’aveva colta, ma come tragedia (forse per lui da lungo tempo annunciata) e aveva abbozzato il massimo di disincanto possibile ad uno come lui, che aveva quel passato intellettuale alle spalle e nel ’68-’69 aveva visto giungere soltanto le déluge. 
Si poteva discutere a fondo quel suo bilancio, correggerlo, confrontarlo con altri, depurarlo dei toni tragici o rassegnati, intravvedere le nuove possibilità di comunicare e di cooperare che oggi (embrionali quanto si vuole) sono riaffiorate? Non era impossibile, anzi anche in Manocomete già si tentava di riparlare del lavoro, ora completamente sottoposto a nuove forme di controllo dall’alto che hanno dissolto la classe operaia “classica”, o delle vite quotidiane spappolate e gerarchizzate sotto l’apparente omogeneizzazione dei consumi,  o delle rinnovate barriere cresciute attorno e addosso ai desideri. Ma non si riuscì a proseguire. Nell’allontanarci – o per spostamento come sostenne Giancarlo Majorino su Manocomete o per esodo, come sento di dire io -  dal “campo di battaglia” degli anni Settanta, le nostre memorie, che sempre subiscono il danno di una relativa fissazione ad un evento-mito (il '56 di Amodio, il '68-‘69  per me, il '77 per altri), non si sono incontrate o combaciavano male e solo per lembi. Insistere a lanciarsi segnali apparve troppo arduo o inutile. Subito dopo Manocomete, Majorino si ritirava ancora a scrivere e a lavorare in solitudine; e gli altri, coetanei  o più giovani, più disattenti mi pare alla posta in gioco in quel tentativo, ne accettarono la fine; e ora provano, “al di là delle ideologie” (sfinite), altri tipi di cooperazione, ma più “specialistici” e con dosi via via più ridotte di “zolfo marxiano”. È la quotidianità senza più storia teorizzata dall’ultimo Amodio che ci divora? Aveva ragione lui?
Ricomporre la storia da cui siamo venuti in una dimensione non mono-generazionale, non ridurla a mito  personale o esistenziale,  a me pare ancora un dovere. Anche per degli isolati. Anche se non si dovesse mai più ritrovare il filo fra l’antifascismo resistenziale, il dramma del '56, il “biennio rosso” del ’68-’69, il “postcomunismo” del 1977 e le Seattle, Genova, Porto Alegre della moltitudine postmoderna. Il Giano della storia del secondo Novecento, che Amodio mi ha rappresentato, resta bifronte e non smetterò d’interrogarlo da entrambi i volti.

 29 aprile 2003 

Ora, a tanti anni di distanza, pubblico questi “Appunti e disappunti”, che scrissi nell’agosto del 1995, quando insieme a molti altri partecipai all’esperienza di quella rivista. Li consegnai a G. Majorino sperando  che potessero circolare ed essere discussi. Non ebbero, invece, nessun riscontro né diffusione. Poi la rivista chiuse e sono rimasti tra le mie carte. Li pubblico non per postume rimostranze ma perché : 1. contenevano una diversa visione per contrastare il processo, allora agli esordi e poi dilagato di quel pauroso fenomeno che più tardi, nel 2010, Majorino chiamerà “la dittatura dell’ignoranza”;  2. le questioni scomode che allora posi si sono ripresentate in tutte le esperienze di rivista (da Inoltre a Il Monte Analogo fino a Poliscritture) a cui ho partecipato. E si ripresenteranno ancora, credo, ovunque un gruppo di intellettuali non organici al sistema universitario, partitico e massmediatico si riunirà per fare rivista, cioè per costruire un forse quasi impossibile ma indispensabile nuovo “noi”. [E. A.]
 

(Sui primi due numeri di  “Manocomete” e in particolare su “Avvio” e “Seconda puntata” di Giancarlo Majorino)

1.

La proposta dello spostamento  va precisata. I traslochi, gli spostamenti, gli esodi – anche quelli volontari e non coatti – sono sempre complicati nelle pratiche, psicologicamente ambigui, spesso drammatici negli esiti. Banale chiedersi: ci si sposta da dove, per andare dove? come? Pensiamo  bene il nostro spostamento!

2.

Negli editoriali  il  da dove, che bisogna lasciare, è indicato: lo stato attuale  della cultura italiana. Nel denunciarne il degrado, si parla di “recinzione corporativa”, di “pressione commerciale, imperniata su di una spasmodica ricerca del profitto…”, ma forse l’enfasi più forte batte ancora sul ”provincialismo” e le  “furberie’ italianiche”; e, in mancanza di ricognizioni aggiornate  su quelli che una volta venivano chiamati i fattori “strutturali” della produzione culturale e  sui rapporti intrattenuti dalla “Cultura” con il  Potere, i Poteri, la società,  aleggia  il fantasma di una critica della volgarità  culturale  condotta da una posizione risentita e corrucciata, che  troppe cose sottintende in modi allusivi.

3.

Il paesaggio culturale italiano (ma  perché considerare solo quello?) con i suoi tratti di miseria  vecchi e nuovi si chiarirebbe di  più se fossimo in grado di decifrarlo alla luce dei grandi processi di mondializzazione che sconvolgono tutti i paesi. Il loro approfondimento è negli intenti, suppongo, della rivista. Ma come ne surroghiamo nel frattempo la mancanza?

4.

Troppo vago è parlare della cultura italiana senza specificare, fare i nomi.  Eppure  c’è  bisogno di  mappe aggiornate: da una parte delle correnti di pensiero, delle istituzioni, dei managers responsabili a nostro parere del degrado; e dall’altra dei nomi dei nostri “grandi” o delle poche “eccezioni” che hanno resistito o starebbero resistendo. Così  potremo vagliare le distanze, le concordanze, l’attualità dei riferimenti.

5.

E non è altrettanto necessario fare la storia del processo in corso? periodizzare l’inizio dei guai? delineare le tappe, le svolte, le provenienze dei protagonisti e dei compartecipi? (Operazione inutile, poco invogliante? Oppure – ahi, lettore sbadato ! – già avviata  negli stessi testi pubblicati ? [1])

6.

Altri approfondimenti richiederei sul chi si sposta. Sono soltanto “persone”? Sono “pensatori di professione” e non “intellettuali”, come desidera la Ravazzoli [2]? E’ improprio interrogarsi sulla provenienza (sociale? culturale?), sulle attuali collocazioni professionali dei  partecipanti o dei lettori di questa rivista? Indicare i nostri potenziali interlocutori come insofferenti o amareggiati tentati dal silenzio, secondo me, fa troppo “pensiero debole”. L’antipatico  termine di “intellettuali” (o“intellettualità”) – malgrado equivoci, pesanti zavorre ideologiche e necessità di aggiornarne il senso – non va deposto, perché permette ancora utili distinzioni.

7.

Per moltissimi di noi, infatti, si può, si deve parlare – purtroppo e abbassando la cresta – di intellettualità di massa o periferica. Di cultura di massa   siamo, cioè, stati nutriti eci nutriamo (nei casi migliori con un certo ecologismo). Altri,  anche quanti per ribellismo eroico si fossero per tutta la vita opposti alla cultura di massa  e avessero frequentato solo i “grandi”, i “classici”,  sono oggi costretti a convivere con essa forzatamente e con meno certezze di una volta. Poiché si è inabissato quel Mondo Critico cui si poteva ricorrere all’incirca fino agli anni ‘70 del ‘900,  sia nelle forme dotte che in quelle volgarizzate (coi suoi vari storicismi, marxismi, psicoanalismi, ecologismi). Tutte le “nicchie”  sono state sgradevolmente coinvolte  nel  degrado generale. Non è verso di esse, dunque, che potremmo spostarci  seguendo un tragitto che dalla cultura di massa  dovrebbe o potrebbe ancora condurci a qualche Cultura intatta, autentica.

8.

Quanto alle responsabilità, tutte andrebbero opportunamente esplicitate. Non solo quelle dei gestori ufficiali della cultura di massa , ma anche quelle degli “abitatori di nicchie” e dei nomadismi on the road. Di  “innocenti” in giro non se ne vedono.[3] Pertanto il “rifiuto sia delle adesioni, sia delle opposizioni al proposto, all’elogiato al vidimato” mi pare oggi  un augurio, una  impresa da compiere e in direzione ignota; non  una rassicurante pratica  già iniziata. E questo vale per tutti noi che lo promuoviamo,  intellettuali massa o no. Anzi – dovremmo dire – lo ri-promuoviamo dopo un periodo di sfascio e fallimento di altri “spostamenti”(che si pretendevano “rivoluzionari” o “d’avanguardia”). E sarebbe bene dirci  che rapporto ha questo nostro con quelli precedenti; e in cosa si differenzia; e se ha analogie o richiami a qualche passato.

 9.

Quali strumenti abbiamo con noi nello spostamento? Giancarlo parla di uno  spostamento che dovrebbe reggersi (weberianamente, mi pare di  intendere) su qualità etico-professionali: “competenza, rigore, criticità” , “passione conoscitiva”. E ci sollecita  ad avere come guide la  “voglia di creare”, l’“abitudine a mettersi in gioco senza diplomazie”, la “ricerca del piacere” (Seconda puntata, MANOC. 2). Resto scettico e diffidente. Penso che dovremmo essere più smaliziati di un tempo (via  Foucault) sulla “volontà di sapere”.  E mi permetto una battuta pesante ma per sollecitare approfondimenti: anche la “pulizia etnica” [in Kosovo] forse   la stanno facendo con “competenza”, “rigore” e, in qualche caso, persino con “criticità”. Le altre formule, forse ancora sensate nei cenacoli intellettuali primo novecenteschi,  in questa fine del secolo,  sono  già irrimediabilmente finite “entro le stalle di realtà delle comunicazioni di massa”.Potremo recuperarle dalle discariche, ripulirle della patina di orrori che le ha coperte, riusarle con qualche speranza nei caotici contesti contemporanei?

10.

Dove mira il nostro spostamento? Trovo nei due editoriali queste risposte:

– a fare una buona rivista, che sfugga al “regime babelico e spettacolare”, proponga testi “significativi” adeguati alle “richieste di approfondimento e di rapportazione” [”delle persone”?…], presenti risultati di una “specializzazione…sufficientemente generosa” e utilizzi un “linguaggio…autentico e antigergale”;

–  ad edificare uno spazio aperto dove “partecipanti provenienti da ambiti diversi, da culture diverse, da linguaggi diversi” possano misurarsi ed essere misurati;

–  ad evidenziare il “sostrato comune” (simboleggiato finora dal tema?) del nostro micromondo-rivista.

Sinteticamente, con espressioni significative usate da Giancarlo nell’ultima riunione prima delle vacanze: “far respirare insieme ambiti diversi…”, costituire un “agglomerato degli eterogenei”. Non è poco. E non è detto che ci si riesca. Oltre – pare – non si possa procedere. Non sappiamo.

11.

Qui – sarà per mia impazienza – scorgo un limite di  politicità (e dico politicità, sia per intendere potenzialità politica  sia per distanziare il mio discorso dalla politica, dalla  politica di fatto o corrente. Che vada al diavolo con tutto il suo arsenale di riti, spettacoli e mafiosità!). La   politicità di Manocomete la sento in certi suoi  temi:  assemblea, gruppi d’interesse, contributo dei “solitari”,  “duologo fra modi scientifici e modi letterari”,  ecc. La sento anche quando si evocano o rimuovono i fantasmi (il “nemico”, il “pubblico”, i “destinatari”, i “lettori”,  l’organizzazione, ecc.). E, non per ultimo, la colgo nelle scritture pubblicate. Io la vorrei ampia e, invece, mi appare ristretta, quasi coltivata in serra (“una serra di voci differenti-somiglianti”). E’ come se ci tenessimo lontano per troppa prudenza dalle “zone di bufera” e stentassimo a spingerci, non dico tutti ma  quantomeno in   un certo numero,  verso il “fuori”, l’ ”incognita”. Anzi a me pare che alcuni contributi  remano vigorosamente in direzione opposta. E dai processi assembleari sembra emergere il rischio di avvitamenti microconflittuali.

12.

La lettura  psicoanalitica, proposta da Giorgio Majorino (Manocomete 2) a me rievoca una vecchia riflessione sui “gruppi aperti/chiusi“ di Elvio Fachinelli; e  pone chiaro un problema di potere. Enfatizza, però, “il clima di guerra”  e il “collante “odio”, assolutizzando la rivista come “oggetto simbolico del desiderio”[4]. Si può concordare con l’affermazione che “le radici della democrazia si collocano  nell’inconscio”, ma chiederei di considerarne anche tronco, fogliame e frutti possibili. E affiancherei, perciò, a questa sua riflessione fatta col virus della psicoanalisi, altre considerazioni fatte col “virus della politicità”.

13.

Da quest’ottica, mi pare che il limite, di cui ho detto sopra, sia aggravato dall’attuale moto confusionario delle cosiddette “diversità” e dallo sprofondamento di ogni  “sostrato comune” .(pur  enunciato nell’Avvio). Cos’è, infatti, questo “sostrato  comune” della rivista? In cosa consiste la “particolare affinità culturale” sulla cui base – secondo Giorgio Majorino – “la leadership (direttori, editori) ha convocato più persone” per iniziare la nuova rivista? A unirci è il tema? O la distribuzione di Eros? O la “coesività  paranoide contro il nemico esterno”?

14.

Il tema, indicato dall’assemblea o caldeggiato da partecipanti più autorevoli,  di per sé  non unisce necessariamente. Offre al massimo l’occasione per verificare la forza delle spinte centripete o centrifughe. E, comunque,  quello del primo numero (la ‘quotidianità’), affrontato dai  “diversi”, ha evidenziato un “sostrato comune”  che definirei davvero “minimalista”. Il “nemico esterno”, finché sarà individuato (troppo genericamente, credo) nel “regime babelico e spettacolare” esterno , resterà un fantasma. E, più che unirci, ci manterrà divisi o in malo modo “diversi”. Infatti, anche le nostre spinte sanamente plurali tendono a gonfiarsi, a paralizzarsi e facilmente  si deteriorano in un pluralismo generico. Proprio perché fatichiamo a districarle dal tipo di pluralismo imperversante nel “regime”. La sua Babele, insomma, l’abbiamo così introiettata che  corrode anche  questo nostro spazio aperto.

 15.

Con pazienza, certo,  bisogna rinvigorire la tensione al “sostrato comune”. Sia quello residuale.  Da qui l’esigenza di bilanci, di esplicitare le provenienze e le eventuali  “tradizioni” non del tutto fossili, correggendo la tendenza a vedere come residuale tutto ciò che è “comune” (dialtra epoca, di altri modi di  fare riviste). Sia quello possibile. E penso all’infittirsi di una dialogicità interna (ristretta), che miri però programmaticamente ad una dialogicità ampia e esterna.

16.

Cosa facciamo del nostro “conglomerato di diversità”? Lo coltiviamo nella serra metropolitana (nella “democrazia vincente che è quella di massa american-tocquevilliana” di Amodio)? O con le  nostre diversità metropolitane (più omogenee materialmente, ma lo stesso fortemente incomunicanti) ci rapportiamo alle  diversità socialmente più periferiche, ampie, distanti e drammatiche che la mondializzazione  ci sbatte fin sotto il muso,  per le strade, in shock  ben post-baudeleriani?

17.

Sono per questa seconda direzione di lavoro, quella che porta alle “zone di bufera”. Verso queste dovrebbe dirigersi “l’impresa avventurosa denominata Manocomete”.Pur temendo che, per  avvicinarci ad esse  (soltanto avvicinarci , non dico ancora  sentirle, rifletterle, pensarle, scriverci su!), dovremmo oltrepassare, smussare o far tacere persino la “voglia di creare” e la “ricerca del piacere”.

18.

Preciso che, per andare in tale direzione, non ritengo  che si debba “marciare uniti”. O che sia necessaria un’unità a tutti i costi o “all’antica”, che rischia di essere fittizia o maniacale. Accogliamo, senza immusonirci,  il plurale come  dato (storico) ineludibile , come “svantaggio vantaggioso”. Condivido, dunque, la formula del “conglomerato delle diversità”. Ma, per porsi fecondamente il programma di “un infittirsi di pluralità”, si dovrà prima o poi verificarle e, credo,  esigere una  distinzione fra quelle fittizie e quelle decisive, affrontando i nodi, gli attriti, i contrasti fra quelle che insisterei a chiamare “metropolitane” e quelle “ periferiche”.

19.

Dico la mia nel merito. Molte delle  diversità di cui si parla in giro (e anche fra noi) mi paiono temporanee o enfatizzate. Altre,  che ritengo più significative per un lavoro culturale a  “dialogicità-politicità ampia”, sono ancora troppo fuori scena e per certi versi inaccostabili con la strumentazione oggi in nostro possesso. Esse in genere vengono proposte dai mass media “sul piano innocuo della cronaca informativa” ma in modi che sollecitano distanza, rassegnazione o repulsione. E in questo stesso nostro spazio aperto affiorano, quasi erbacce, frammenti soggettivi  in proprio,  che vengono  accolti senza soverchi commenti,  con troppa distaccata, pluralistica tolleranza per l’esotico, il marginale, il deviante, il residuale.  

20.

Faccio l’esempio dei testi presentati su: comunismo, lavoro, guerra in Bosnia. Vediamone da vicino alcuni. Sì,  il tema  del lavoro è affiorato. Ma che dialogo può prodursi fra lo  scarno spunto di Molteni e lo  spostamento del tema  o sul campo dell’analisi linguistica da parte di Romanò o su quello delle teorie economiche da parte di Nannei?  Abbiamo frammenti di un mosaico che resta oscuro.  Il lettore più esigente, a conoscenza del fatto che – in altri libri, riviste, e persino sui vituperati  giornali  – ci sono dati, contributi,  riflessioni che  renderebbero  questo mosaico almeno più vasto e mosso, scuoterà la testa alla domanda capitale di Giancarlo: sono testi significativi? Ecco, questo a me pare un esempio di politicità “ristretta”.

Vediamo il testo sul “comunismo” di Amodio. E’ mancato  anche il “duologo” che avevo tentato. Ma gli altri collaboratori? Lo condividono? Lo tollerano? Lo trovano soltanto “difficile”? Un altro esempio di rimozione e di  sottovalutazione: il testo di  Del Giudice su Sarajevo. E’rimasto disperatamente isolato, non ha avuto né  glosse, né lavorazioni di seconda. E’ un caso?

21.

Non mi rassegno a un approccio ai temi,  che per me hanno potenzialmente più alto contenuto anche emotivo di dialogicità-politicità, solo nelle forme della scheggia diaristica, spesso intimizzata o  eccessivamente allusiva  o troppoaccademica o  sapienzal-criptica. Non nego la qualità letteraria di queste scritture. E neppure la legittimità di  tali approcci. Contesto, invece, il peso che alcune di esse hanno nel “conglomerato” e il ricorso al concetto di “culturale” intenso come spazio  per infrattarsi invece che di espansione e d’approfondimento dei possibili legami con il “fuori”, l’“incognita”. E’ che , senza una scelta (piena di azzardo o di passione  non quotidiana) all’interno del “conglomerato di diversità”, rischiamo di  distrarci dalle “diversità” più scomode e lontane. L’evento fa stormire le fronde dell’albero che appare dalla  finestra  dello studio; e ne scriviamo. Ma della bufera  o delle bufere cosa afferriamo?

22.

Proposte disordinate, per finire. Documentarci direttamente. Selezionare e sistemare in forma nuova la massa dei dati di cronaca  che ci assalgono. Scriverci  addosso l’un l’altro lo stretto necessario! Una glossa a me un’altra a te e poi via ad annusare altrove. Altrimenti la rivista  si restringe ad un giro amicale  appena più ampio. Misurarci  non solo al nostro interno, ma con un certo numero di  altre riviste o libri “interessanti”, inizialmente nella forma “esplorativa” della lettura-recensione. E mi piacerebbe che l’eventuale rubrica potesse essere tenuta, a turno  e per un periodo di tempo da fissare, da un buon numero dei collaboratori di MANOCOMETE. Ricercare metodicamente, anche nei contributi  emergenti in assemblea o dai gruppi d’interesse o dai “solitari”, il “sostrato comune” già presente o potenziale e farne l’asse della rivista.Compiere letture dei numeri della rivista mirate all’insieme. Ci vuole l’interpretazione. Ci vuole  la volontà di montaggio  e di ricomposizione. Non bastano: la semplice registrazione del materiale “a futura memoria”, la lettura “parziale” o “spontanea” o “viscerale” o “per simpatia” o “per interesse.

23.

Speranza di un impaziente/paziente: che dall’attrito fra politicità ristretta e ampia sorga una tensione  dinamica;  che le singolarità e le  pluralità operanti nel  “conglomerato dei diversi”  possano parlare e scrivere sempre più  in comune e in modi meno allusivi o virgolettati. A questo mirano i miei appunti e disappunti.                                                                      

NOTE

1.  Non si può dire, in effetti, che in MANOCOMETE non si facciano bilanci del ‘900. Li fa Amodio! Vedi  Comunismo o ‘l’insopportabile leggerezza’ del quotidiano (Manoc. 1) e Storia e dissoluzione  (Manoc. 2). Si tratterebbe allora di capire quanto contano questi testi riepilogativi o di bilancio nell’insieme dei contributi e quanto siano condivisibili.

2. In Dall’agenda 1994 di ordinarie passioni. Un giorno di gennaio (Manoc.1) Flavia Ravazzoli afferma  che “la parola ‘intellettuale’ andrebbe abolita perché è un appellativo sardonico come ‘dottore’”.Ma forse non considera a sufficienza  “di che lagrime grondi e di che sangue” ogni abolizione di parola. Né quanta fatica costerebbe attuare quelle paradossali, simpatiche, utopie e passioncelle quotidiane (tutte ben dentro questo modo di vivere occidentale, industriale e metropolitano, comunque!) che lei suggerisce. Se “la cattiveria [fosse] una sottospecie d’ignoranza”, con tutte le luminarie dell’Illuminismo  dal ‘700 ad oggi,  dovremmo avere in giro solo “buoni”.

3. In  Brillamenti (nel quotidiano dello scrivere)  (Manoc. 1) D’Arrigo  fa propria l’opinione che considera “l’innocenza degli scrittori.. prova dell’irrilevanza (sociale) dello scrivere”. Davvero? Credo che si possa essere socialmente irrilevanti (lo siamo in milioni, forse..), ma non “innocenti”. E poi l’innocenza  non esiste per categorie, per i soli scrittori. Questi – al pari di altri, singoli o categorie – possono sentirsi soggettivamente “innocenti”, ma , per dimostrarselo o dimostrarlo ad altri, devono – come tutti – confrontare il loro lavoro professionale o esercizio privato con un Criterio-Valore (Verità, Bellezza, Rivoluzione, Successo, ecc.),“universale” o condiviso quantomeno da un gruppo di riferimento. Solo così si può decidere se la scrittura (o qualsiasi altra umana azione) vale, anche se fosse rimasta a lungo privata o clandestina, sia innocente o colpevole.

4. Non vedo – come dicevo sopra – tutta questa “contrapposizione tra la rivista e la realtà esterna, soprattutto quella di tipo culturale”. Né credo che questo gruppo possa essere “vissuto come elitario” (L’autoerotizzazione ad esso offerta  mi pare – senza offesa –  abbastanza “di massa”). E, anche ammettendo che a livello dell’inconscio “l’odio[sia] il miglior collante per marciare uniti”, mi pare giusto chiederci: ma noi vogliamo marciare uniti? E di che unità abbiamo bisogno, oggi? Spero poi che la psicoanalisi conceda una coesività erotica volta all’esterno (io direi ad una politicità ampia); e preveda un passaggio da un mondo tutto di fantasmi a un mondo almeno con meno fantasmi, se non proprio di oggetti reali piacevoli. Non mi sembra , insomma, inevitabile che “il gruppo [debba] necessariamente prendere la via della conflittualità…” tribale, arcaica.

* In quel 1995 scrissi anche una versione ironico-narrativa di questi “Appunti e disappunti”. La pubblicherò in altra occasione.



APPENDICE
Così ha riepilogato l’esperienza di Manocomete Giancarlo Majorino:

In Manocomete c’era un programma, un progetto originale diverso da quello delle riviste precedenti, Il corpo e Incognita, fondato sull’idea di spostarsi tanto dal vigente, quanto dall’opposizione e di cominciare ad avviare delle pratiche, dei discorsi, continuando a discuterne tra persone di specifici completamente diversi (scienziati, filosofi, poeti, ecc.), ma pure tra persone che semplicemente parlassero e scrivessero del loro vissuto, dei loro desideri, ecc., per tentare di mettere le basi di un vero campo cambiato culturale e forse anche generale. 

Due elementi ricordabili possono essere da un lato la bellezza della copertina, preparata dal pittore Carlo Nangeroni, dall’altro il sottotitolo della rivista: “Quadrimestrale di profondità e superficie”, alludente appunto all’intenzione di pubblicare insieme studi specialistici e cronache personali, senza gerarchie.

Nella mia testa – naturalmente era con me l’Enrica, erano con me, quali altri fondatori, Gianmaria Battiato e Patrizia Burgatto: eravamo un quartetto di questo tipo – il progetto era come sempre un po’ folle, perché secondo me dovevano partecipare prima 30 persone, poi 60, poi 180… cioè doveva diventare un movimento enorme.

Non avevo calcolato un fatto, cioè che i partecipanti aumentavano sì, ma diminuivano anche, perché c’erano certi che si stufavano. Quindi erano sempre 40-50 le persone che venivano e piano piano sono rimasti solo i poeti. E allora cadeva proprio la ragione di fondo della rivista. 

Tant’è vero che, facendo un po’ arrabbiare tutti quelli che erano lì e che si erano già quotati per andare avanti, ho chiuso proprio la rivista”.

(da http://web.tiscali.it/paroladipoeta/majorino_manocomete.htm )

1 pensiero su “Appunti e disappunti

  1. RILEGGENDO QUESTO ARTICOLO ALLA LUCE DELLA GUERRA IN UCRAINA E DEL MASSACRO IN CORSO A GAZA

    “E’ che , senza una scelta (piena di azzardo o di passione non quotidiana) all’interno del “conglomerato di diversità”, rischiamo di distrarci dalle “diversità” più scomode e lontane. L’evento fa stormire le fronde dell’albero che appare dalla finestra dello studio; e ne scriviamo. Ma della bufera o delle bufere cosa afferriamo?”

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