In Valdossola. Fortini e Faccioli.

di Roberto Fabbri

Al termine dell’esperienza della repubblica dell’Ossola i partigiani, inseguiti dai tedeschi e dai fascisti che stavano riprendendo il controllo della valle, furono costretti a riparare in Svizzera. Nel suo Sere in Valdossola, Franco Fortini, a quei tempi ventisettenne, racconta le ultime ore trascorse nell’Ossola libera. «… Arrivammo a Baceno, ingombra di gente che fuggiva… qualcuno ci disse che la teleferica funzionava ancora». Sopra Baceno, dalla frazione di Goglio partiva una funivia dell’Edison che saliva fino agli oltre 1.600 metri dell’Alpe di Devero, da dove si poteva raggiungere il confine. Tra il 16 e il 17 ottobre 1944 anche i partigiani della Divisione Valdossola la usarono per ritirarsi. «Si arrivava alla stazione della teleferica attraverso un sentiero sdrucciolevole di pioggia ed erba. Alcuni partigiani la caricavano; poi uno di loro, abbassando una leva, faceva partire la cabina verso uno sperone di roccia nera. Tutti la seguivano con gli occhi. Aspettavano che tornasse, sperando di potervi salire. Ci si guardava a vicenda, zitti: tutto era tanto assurdo. Il tempo pareva migliorato, il freddo era sul vento, le montagne di neve scintillavano contro il turchino. In quella luce acuminata, rivedo le cataste di vecchi copertoni d’auto viaggiare, insieme a casse di cottura, a secchi di lenticchie, a damigiane vuote, verso il cielo; e poi sparire alla vista, nel sibilo della corda metallica. Poco prima che si chiudessero le porte della cabina per una partenza, volò sul mucchio, luccicante nel suo involucro di cellophane, una camicia nuova, tutta appuntata con gli spilli. Chissà di dove veniva. Quando riuscimmo a entrare nella cabina; e la cabina si staccò da terra, sfiorò le vette dei pini, sorvolò un torrente schiumoso e poi, per un errore di manovra o un guasto, si fermò per qualche minuto a mezz’aria, non potevamo sapere che poche ore più tardi un guasto del medesimo genere avrebbe fermato la funicolare carica di fuggiaschi; e i tedeschi sopraggiunti in quel punto avrebbero aperto il fuoco coi mitra – e furono le scariche che udimmo, dalla neve del valico – contro quel bersaglio appeso in aria, uccidendo e spingendo i superstiti a gettarsi nel vuoto e insanguinare il prato e le rocce.»

Tra quei partigiani in ritirata, intrappolati nella cabina della funivia, c’era Giuseppe Faccioli, milanese di 32 anni (era nato il 15 marzo 1912), nome di battaglia “Pep”. Insieme a lui furono uccisi Giuseppe Conti, Giorgio Fossa, Gaudenzio Pratini. Probabilmente Faccioli era in montagna coi partigiani dal marzo 1944, aveva fatto in tempo a vivere il pesante rastrellamento nazifascista del giugno del 1944 nelle valli del Verbano. Nel luglio dello stesso anno era diventato capo squadra nella formazione autonoma Valdossola e forse aveva partecipato al momento iniziale della liberazione della valle, quando «la mattina del 10 settembre 1944 alcune centinaia di partigiani delle divisioni Autonome Valtoce, al comando del tenente Alfredo Di Dio, e Valdossola, al comando del maggiore Dionigi Superti, entrano in Domodossola…». Sulla lapide che lo ricorda, a Milano in via Cavalcanti, a pochi passi da via Ferrante Aporti, è scritto “Garibaldino divisione Val d’Ossola”; forse non fu l’unico garibaldino in una formazione autonoma che si diceva apolitica: della Valdossola faceva parte anche Albe Steiner, nipote di Giacomo Matteotti (il giorno del suo assassinio, a undici anni, aveva appeso alla portineria di casa un cartello con disegnata la faccia di Mussolini e la frase: “abbasso Mussolini gran capo degli assassini”), vicino al Partito comunista, amico di Elio Vittorini. Nella Valdossola Albe Steiner faceva il commissario politico e responsabile della stampa e della propaganda, mentre la moglie Lica Covo portava messaggi e altro da Milano alla montagna. Fortini racconta anche dell’incontro con lui, commissario politico che parlava d’arte astratta e progettava il logo e la carta intestata della divisione. Sulla lapide che ricorda Giuseppe Faccioli, ma purtroppo per un errore il cognome è scritto con una c sola, si legge anche “caduto in combattimento”. In occasione del 72° dell’eccidio dei quattro partigiani della funivia di Goglio, nel suo discorso in memoria Giuliana Sgrena ha detto: «… si è trattato di un vero e proprio dramma, una tragica beffa. Non si possono fare classifiche di fronte alla brutalità della morte, ma il massacro della funivia è stato un vile accanimento. Non si è trattato di uno scontro a fuoco e neanche di un brutale agguato, ma di una morte arrivata quando si aveva l’impressione di poter salvare almeno la pelle… Goglio era l’ultima spiaggia degli uomini del Valdossola. Era la ritirata: i partigiani con il morale a terra senza più la forza di quando avanzavano combattendo per una giusta causa, senza più ordini precisi dei loro capi, procedevano in ordine sparso…».

Letture

Franco Fortini, Sere in Valdossola, Marsilio, 1985.
Mario Giovana, repubblica dell’Ossola, in Dizionario della Resistenza, Einaudi, 2001.
https://giulianasgrena.globalist.it/articoli/2016/10/16/goglio-il-dramma-della-funivia/

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3 pensieri su “In Valdossola. Fortini e Faccioli.

  1. SEGNALAZIONE

    UNA INCONSUETA CELEBRAZIONE DEL 25 APRILE.
    di Raffaella Ferraiolo Depero

    Studenti delle classi di Italiano della NY University, concentrati intorno ad un tavolo della Casa Italiana erano intenti a studiare un banjo costruito da un POW nel campo di Zonderwater in Sud Africa, le lettere dalla prigionia di mio padre in Texas e Missouri e altri memorabilia di altri prigionieri nella Seconda Guerra Mondiale.
    Agli studenti, di classi diverse con diversi livelli di conoscenza della lingua italiana era permesso di comunicare soltanto in italiano. Sono stati bravissimi, perché hanno una bravissima insegnante, Prof. Elena Bellina, NY University.
    La Prof. Giorgia Alù, della Università di Sydney li ha divisi in due gruppi, uno dedicato allo studio banjo e l’altro allo studio delle lettere del mio papa’ e a presentarli come se loro dovessero allestire una mostra in un museo. Quando hanno letto le mie lettere, ho sentito spesso i commenti “tristezza”, “desiderio di ritorno” , “reticolato”, “ bella grafia”, “anni 1943, 1944, 1945” , “fascismo”. Si chiedevano: “dove si trovava Umberto? “. Dopo 20 minuti hanno fatto una presentazione meravigliosa degna di un curatore di museo.
    A quel punto, agli studenti stupiti, la professoressa Bellina ha presentato le figlie dei due ex prigionieri : Elisa Longarato il cui papa’ aveva costruito il banjo, usando clandestinamente una panca di legno, il contenitore di una bomba, un pettine e fili di freni di motociclette, e me Raffaella Ferraiolo che molto commossa ho spiegato la storia del mio papa’ e della sua fidanzata (poi diventata mia mamma) e la storia delle lettere che ho scannerizzato e raccolto nel mio libro.
    Gli studenti erano meravigliati nel sentire le loro insegnanti dire che miei genitori all’epoca avevano esattamente la loro età, che avevano passato quattro anni lontani, che Umberto era stato catturato in North Africa e che allora in Italia il servizio militare era obbligatorio.
    Vogliono comprare il mio libro, ho detto loro che è gratis e che la loro insegnante gli manderà i links sia in Italiano che in Inglese (in quale lingua lo leggeranno?) . Ho espresso loro la mia gratitudine per aver contribuito a preservare le lettere e le foto dalla polvere e per il loro contagioso entusiasmo e interesse per la storia.
    Ringrazio moltissimo la Professoressa Bellina e la Professoressa Alù per il loro meraviglioso progetto: Memoria, Ricordi e Commemorazione della prigionia italiana nella Seconda Guerra Mondiale.
    Nell’ambito del loro progetto che durerà tre anni si è svolta La Conferenza Internazionale Memorie della Prigionia di Guerra e la loro Eredità: Musei e Archivi, di cui ha fatto parte il workshop con gli studenti della Università di NY. Sono stati due giorni intensi e bellissimi nei quali archivisti, storici e esperti di musei hanno parlato delle loro esperienze sui prigionieri Italiani durante la Seconda Guerra Mondiale in Italia, in UK, in the U.S., Africa, Australia e India. Ha concluso una interessante nota del musicista Francesco Lotoro sulla musica composta dai prigionieri nei campi di concentrazione di cui ci ha fatto ascoltare diversi brani e musica dal vivo.

    (Dalla sua pagina FB: https://www.facebook.com/raffaella.depero/posts/pfbid02TfsNzAyp2owdshDPTBVKUxUh849NVmJEQZrmSTZ5FAaSqcFcBTsrRzBa3wamqZMxl

  2. “Gli studenti erano meravigliati nel sentire le loro insegnanti dire che miei genitori all’epoca avevano esattamente la loro età, che avevano passato quattro anni lontani, che Umberto era stato catturato in North Africa e che allora in Italia il servizio militare era obbligatorio.” Io sono nata appena dopo la guerra ma quell’Italia giovane e decisa me la ricordo. Vorrei che i giovani di oggi siano capaci di affrontare con la stessa lucida decisione i problemi -diversi- che li circondano.

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