“Minima (im)moralia”

Ragionamento sui nostri antenati (3)

a cura di Ennio Abate

Riprendo il mio ragionamento sui nostri antenati e  pubblico a mo’ di documentazione  gli aforismi di Minima (im)moralia presentati da Elvio Fachinelli nel n. 26 (giugno-luglio 1976) di L’ERBA VOGLIO. (Il PDF completo può essere scaricato qui). Avverto  che  dopo l’infelice conclusione del  confronto con Dario Borso su Cases, Schmidt, etc. non seguirò più il filo del discorso che avevo previsto e non risponderò ad alcun eventuale commento di db . [E. A.]

Minima (Im)moralia

Al termine della sua introduzione all’edizione italiana dei Minima Moralia di Adorno (Einaudi, 1954), Renato Solmi poneva una brevissima nota: «Questa traduzione non riproduce interamente il testo dei Minima Moralia. Sono stati tralasciati gli aforismi di contenuto specificamente tedesco, ricchi di allusioni che sarebbero rimaste incomprensibili al lettore italiano, o che avrebbero richiesto note lunghe e ingombranti». Venendo dopo uno scritto di sessanta pagine, queste righe sembravano alludere a qualche taglio marginale, anche se era difficile immaginare un Adorno a tal punto labirintato nella Selva Nera da riuscire irraggiungibile. Ora, che cosa è «specificamente tedesco» nella quarantina di aforismi «tralasciati», di cui presentiamo ai nostri lettori un primo campione (li pubblicheremo tutti in un volumetto. edizioni L’erba voglio, a settembre)? Il sesso (le donne)? La politica? La riflessione incauta? Come i lettori possono agevolmente constatare, questi aforismi sono doppiamente interessanti: in se stessi, nei loro nessi (recisi) col resto del grande libro di Adorno; e, soprattutto, come testi propriamente censurati, che nel loro emergere ora indicano con chiarezza ciò che ha prodotto la loro censura. Nel loro insieme, essi tracciano una mappa significativa di ciò che la cultura italiana di sinistra di quegli anni – ma solo di quegli anni? – ha temuto o addirittura non visto, e quindi escluso. Per ironia e necessità storica, ciò che appariva allora, secondo i casi, sbagliato, pericoloso, dannoso, «fuori luogo», risulta oggi di gran lungo più vitale del movimento che lo ha condannato (Elvio Fachinelli)

(27) On parle français. Chi legge pornografia in una lingua straniera, impara quanto intimamente s’intreccino sesso e linguaggio. Leggendo Sade nell’originale non si ha bisogno di alcun dictionnaire. Anche le espressioni, riferite all’indecente, più inconsuete – espressioni la cui conoscenza non è trasmessa da alcuna scuola, da alcuna casa patema, da alcuna esperienza letteraria – si comprendono, procedendo come sonnambuli, al modo in cui nell’infanzia le manifestazioni e le osservazioni più discoste del momento sessuale si riconnettono in un’esatta rappresentazione: come se le passioni prigioniere, chiamate per nome da quelle parole, facessero saltare sia il muro della propria repressione, sia quello delle parole cieche e violentemente, irresistibilmente urtassero nella cellula più intima del senso che loro somiglia.

(55) Posso osare (1) – Quando, nel Girotondo di Schnitzler, il poeta si avvicina teneramente alla dolce, frivola fanciulla, rappresentata come l’antitesi leggiadra della puritana, essa gli dice: «Via, non desideri suonare il piano?» Essa, come non può avere incertezze circa lo scopo dell’arrangement, neppure offre propriamente una resistenza. Il suo impulso va più a fondo dei divieti convenzionali o psicologici. Esso denuncia una frigidità arcaica, l’angoscia dell’animale femminile innanzi all’accoppiamento che non gli reca se non dolore. Il piacere è un’acquisizione tarda, non più antica certo della coscienza. Se si osserva il modo in cui, costrittivamente, sotto un sortilegio, gli animali s’incontrano, allora l’affermazione secondo cui «la voluttà è stata concessa al verme», si palesa essere un pezzo di menzogna idealistica, almeno per ciò che concerne le femmine, alle quali l’amore capita in assenza di libertà e che non altrimenti lo conoscono se non in quanto oggetti di violenza. Di ciò qualcosa è rimasto alle donne, principalmente a quelle della piccola borghesia, fin dentro l’epoca tardo-industriale. La memoria dell’ antico ferimento sopravvive ancora, mentre il dolore fisico e l’angoscia immediata sono tolti dalla civiltà. Nessun uomo il quale esorti una fanciulla povera ad andare con lui disconoscerà, in quanto non si renda del tutto ottuso, il momento leggiero del diritto nella sua riluttanza, unica prerogativa che la società patriarcale lascia alla donna, la quale, una volta persuasa, dopo il breve trionfo del no, subito deve pagare lo scotto. Essa sa di essere fin dai tempi più remoti, come colei che concede, l’ingannata. Ma se, per questo, essa è avara di sé, allora, si, è ingannata sul serio. Ciò è implicito nel consiglio alla novizia che Wedekind pone in bocca alla tenutaria d’un bordello: «In questo mondo non c’è che una via per essere felici, e cioè fare di tutto per rendere gli altri quanto più felici è possibile». Il piacere proprio ha come presupposto quel gettarsi via illimitato, di cui le donne, a causa della loro arcaica angoscia, sono tanto poco capaci quanto gli uomini nella loro boria. Non solo la possibilità oggettiva – anche la disposizione soggettiva alla felicità fa parte propriamente della libertà.

(1) Allusione ai versi pronunciati dal Faust di Goethe (nella «Parte prima», scena della Strada (I»: «Mein schiines Friiulein, dar! ich wagen, / Meinem Arm und Geleit Ihr Anzutragen ?»(N. d. T.).

(78) Al di là dei monti. (1) – Più compitamente di qualsiasi fiaba, Biancaneve esprime la mestizia. La sua immagine pura è la regina che guarda attraverso la finestra la neve e desidera una figlia secondo la vivente bellezza senza vita dei fiocchi, la nera afflizione del telaio della finestra, la puntura del dissanguamento; (2) e poi muore di parto. Di questo però neppure il lieto fine porta via nulla. Come l’esaudimento si chiama morte, la salvazione rimane apparenza. Infatti l’osservazione più profonda non crede che si sia ridestata colei che, simile ad una dormiente, giace nella bara di vetro. Non è forse il boccone di mela avvelenato (3), che per le scosse del viaggio le esce dalla gola, piuttosto che un mezzo di assassinio il residuo della vita perduta, della vita proscritta, dalla quale essa solo ora si salva davvero, ora che nessuna ingannevole messaggera l’adesca più? E come suona caduca la felicità: «Allora Biancaneve gli volle bene e andò con lui». Come è revocata dal malvagio trionfo sulla malvagità (4). Così, quando speriamo nella salvezza, una voce ci dice che la speranza è vana, eppure è essa, essa soltanto, la speranza impotente, che ci permette di trarre un respiro. Ogni contemplazione non può fare di più che ridisegnare pazientemente in figure ed approcci sempre nuovi l’ambivalenza della mestizia. La verità non è separabile dall’ossessione che dalle figure dell’apparenza emerga pure infine, senza apparenza, la salvezza.

(1) Lo specchio fatato dice alla Regina:
«Regina la più bella qui sei tu
ma al di là dei monti e piani
presso i sette nani
Biancaneve lo è molto di più»
[trad. da Grimm di C. Bovero]

(2)«Una volta nel cuor dell’inverno, mentre i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una regina cuciva seduta accanto così bello su quel candore, eh ‘ella pensò: così, cucendo e alzando gli occhi per guardar la neve, si punse un dito, e caddero nella neve tre gocce di sangue. Il rosso era così bello su quel candore, ch’ella penso: “Avessi una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come il legno della finestra!”». [id.]

(3) Il principe, pur credendo morta Biancaneve, chiede ai nani di poterla trasportare nel suo castello nella sua bara di vetro «per onorarla ed esaltarla come la cosa che gli era più cara al mondo». «Il principe ordinò ai suoi servi di portarla sulle spalle. Ora avvenne che essi inciamparono in uno sterpo e per la scossa -quel pezzo di mela avvelenata che Biancaneve aveva trangugiato, le uscì dalla gola». [id.]

(4) «Ma alla festa [nuziale] invitarono anche la perfida matrigna di Biancaneve. (… ) Dapprima non voleva assistere alle nozze, ma non trovò pace e dovette andare a vedere la giovane regina. Entrando, riconobbe Biancaneve e impietri dallo spavento e dall’orrore. Ma sulla brace eran già pronte due pantofole di ferro: le portarono con le molle, e le deposero davanti a lei. Ed ella dovette calzare le scarpe roventi e danzare finché cadde a terra morta». [id.] (N. d. T.).

 (112) Et dona ferentes. In Germania i filistei paladini della libertà sono sempre stati particolarmente fieri della poesia sul Dio e la bajadera (1), con la sua fanfara finale secondo cui gli immortali elevano al cielo con braccia di fuoco i figli perduti. Non ci si può fidare di questa approvata magnanimità. Essa è propria fondamentalmente del giudizio borghese sull’amore mercenario, in quanto essa consegue l’effetto della comprensione e del perdono divini solo denigrando come perduta, con un brivido estatico, la bella tratta in salvo. L’atto di grazia è soggetto a cautele che lo rendono illusorio. Per meritarsi la redenzione – quasi una redenzione meritata fosse ancora tale -, alla fanciulla è concesso di partecipare alla «festa gioconda del talamo» «non per denaro o voluttà». E perché mai poi? L’amore puro che le viene attribuito non offende forse sgraziatamente l’incanto che i ritmi di danza di Goethe intrecciano intorno alla figura, incanto che certo non si lascia cancellare neppure dalle parole sulla sua profonda corruzione? Ma essa pure deve diventare, ad ogni costo, un’anima buona tale che solo una volta ha peccato. (2) Per venire ammessa nell’ambito chiuso dell’umanità, la cortigiana, che l’umanità si vanta di tollerare, deve anzi tutto cessare di essere tale. La divinità si compiace dei peccatori ravveduti. Tutta l’incursione fin là dove sono le ultime case è una sorta di slumming party metafisico, un allestimento della volgarità maschile per atteggiarsi in maniera doppiamente grandiosa, dapprima accrescendo smisuratamente la distanza tra lo spirito maschile e la natura femminile e poi, successivamente, sventolando come bene supremo- il potere assoluto di revocare la differenza da esso stesso creata. Il borghese ha bisogno della bajadera non soltanto per amore del piacere, che egli al tempo stesso le invidia, bensì per sentirsi davvero Dio. Quanto più egli s’avvicina al margine del suo ambito e dimentica la sua dignità, tanto più spudorato è il rituale della violenza. La notte ha il suo piacere, la puttana, però, viene bruciata. Il resto è l’idea.

(1) Der Gott und dìe Bajadere: così s’intitola la ballata di Goethe alla quale questo aforisma si riferisce.

 (2) Allusione ai versi 12065/12066 del Faust di Goethe dove è contenuta la lode di Gretchencome «,gutel Seele, / Die sich einmal nur vergessen».

(105) Solo un quarto d’ora. (1). – Notte insonne: se ne dà una definizione come di ore tormentose, tese senza la prospettiva d’una fine e dell’alba nello sforzo vano di dimenticare la vuota durata. Ma orrore, piuttosto, procurano le notti insonni nelle quali il tempo si contrae e scorre sterile fra le dita. Qualcuno spegne la luce nella speranza di lunghe ore di riposo, che gli possano recare conforto. Ma, mentre non sa acquetare i pensieri, il salutare patrimonio della notte gli si dissipa ed egli, prima che sia capace di non vedere più nulla negli occhi serrati, brucianti, sa che è troppo tardi, che presto il mattino lo desterà di schianto. In maniera simile, inarrestabili, inutili trascorrono forse i momenti estremi di chi è condannato a morte. Ma ciò che si rivela in tale contrarsi delle ore, è l’immagine speculare del tempo adempiuto. Se in questo il potere dell’esperienza ‘spezza il sortilegio della durata e raccoglie passato e futuro nel presente, così nella notte precipitosamente insonne la durata suscita insopportabile orrore. La vita umana diventa istante, non già togliendo la durata, bensì rovinando nel nulla, destandosi alla sua vanità al cospetto della cattiva infinità del tempo. Nel rumoroso ticchettio dell’orologio l’insonne percepisce la derisione degli anni-luce per il breve corso della propria esistenza. Le ore, che già sono trascorse come secondi, prima che il senso interiore le abbia afferrate e lo trascinano nella loro caduta, gli danno avviso di come, insieme ad ogni memoria, egli sia votato all’oblio nella notte cosmica. Gli uomini se ne accorgono oggi in maniera coatta. Nella condizione della compiuta impotenza, ciò che ancora gli è stato lasciato da vivere appare all’individuo come una breve dilazione innanzi al patibolo. Egli non si aspetta di vivere la propria vita fino in fondo. La prospettiva, presente a ciascuno, della morte e del martirio violenti, si prolunga nell’ angoscia perché i giorni sono contati, la lunghezza della propria vita dipende dalla statistica, perché l’invecchiare è diventato, per così dire, un vantaggio sleale, che va carpito con astuzia alla media statistica. Forse si è già dato fondo alla percentuale di vita messa revocabilmente a disposizione dalla società. Tale l’angoscia che il corpo registra nella fuga delle ore. Il tempo vola.

(1) Nur ein Vìertelsttìndchen: il titolo dell’aforisma allude al motto ricamato sui cuscini dei divani nel salotto borghese tedesco dell’ottocento. Tale motto è citato anche nella seguente osservazione del Zentralpark di Walter Benjamin: «Per il pensiero dell’eterno ritorno ha la sua importanza il fatto che la borghesia non osava più guardare in faccia il prossimo sviluppo dell’ordinamento produttivo da essa posto in opera. Il pensiero di Zaratustra dell’eterno ritorno e il motto della fodera dei cuscini: “Solo un quarto d’ora” sono complementi» (in: W.B., Gesammelte Schriften, I, 2, Frankfurt a. M. 1974, p. 677). (N.d.T.).

(108) La. principessa Lucertola. (1) – Proprio quelle donne accendono l’immaginazione, alle quali l’immaginazione manca. Di luce più viva splende l’aura di coloro che, del tutto estroverse, sono affatto sobrie. La loro attrattiva proviene dalla mancanza di coscienza_di sé, anzi dalla mancanza di un Sé in generale: è in relazione a ciò che Oscar WiIde ha trovato la definizione di «Sfinge senza enigma». Esse somigliano all’immagine convenuta: quanto più sono pura apparenza, non disturbata da alcun impulso proprio, tanto più sono simili ad archetipi – Preziosa, Peregrina, Albertine -, che appunto fanno supporre come mera apparenza ogni individuazione e che pure, per via di ciò che sono, debbono sempre nuovamente deludere. La loro vita viene afferrata come serie di illustrazioni oppure come una perpetua festa infantile ed una tale percezione fa torto alla loro povera esistenza empirica. Questo è il tema che Storm ha trattato nel suo profondo racconto per ragazzi: «Paolo il burattinaio».
Il fanciullo della Frisia s’innamora della bambina dei nomadi bavaresi. «Quando alla fine tornai indietro, vidi farmisi incontro un abituccio rosso; ed ecco, sì, era la piccola burattinaia; nonostante il suo vestitino sbiadito, essa mi parve cinta di uno splendore di fiaba. Mi feci coraggio e le parlai: «Vuoi fare una passeggiata, Lisetta?» Essa mi guardò diffidente con i suoi occhi neri. «Passeggiata?» ripeté strascicando la voce. «Una buona idea, davvero!» «E dove vorresti andare, poi?» – «Dal mercìaìo!» «Vuoi comprarti un vestitino nuovo?», le chiesi un po’ goffamente. Rise forte. «Ma va! Figurati! – No, solo degli stracci». «Stracci, Lisetta?» – «Sì, certo! Soltanto scampoli, per i costumi dei burattini; mica costano molto». La povertà induce Lisetta a scegliere ciò che è consunto – «stracci» -, benché preferisca altre cose. Senza capire, essa deve considerare con diffidenza eccentrico tutto ciò che non si giustifica praticamente. L’immaginazione offende la povertà. Infatti ciò che è consunto possiede incanto solo per l’osservatore. Eppure l’immaginazione ha bisogno della povertà, alla quale essa reca violenza: la felicità, cui essa si abbandona, è inscritta nei tratti del dolore. Così la Justine di Sade, che passa da una tortura all’ altra, viene definita notre intéressante héroine, e analogamente Mignon nel momento in cui viene battuta è chiamata l’interessante bambina. La principessa di sogno è nello stesso tempo la bambina maltrattata, e di ciò essa nulla sospetta. Tracce di questo esistono ancora nel rapporto dei popoli nordici con quelli meridionali: i puritani benestanti cercano invano nelle brunette dei paesi stranieri ciò che il corso del mondo, da loro dettato, toglie non solo a loro stessi, ma propriamente anche ai nomadi. Il sedentario invidia il nomadismo, la ricerca di freschi spazi erbosi, e il carrozzone verde è la casa sulle ruote, il cui viaggio segue il cammino degli astri. L’infantilità, confinata in un moto disordinato, relegata nella spinta momentanea, infelicemente errabonda, a continuare la vita, sostituisce il non sfigurato, l’adempimento, e però li esclude, simile nell’intimo all’autoconservazione dalla quale si illude di redimere. Tale è il circolo della nostalgia borghese per l’ingenuo. La mancanza dell’anima, grazia e strazio ad un tempo, in coloro ai quali, ai margini della cultura, il quotidiano vieta l’autodeterminazione, diviene fantasmagoria dell’anima per i ben piazzati, i quali dalla cultura hanno appreso a vergognarsi dell’anima. L’amore si perde in ciò che è privo d’anima come nella cifra dell’animato, poiché per esso i viventi sono scenario per la disperata brama del salvare, la quale solo in ciò che è perduto possiede il suo soggetto: all’amore l’anima si dischiude solo nella propria assenza. Così, umana è proprio l’espressione di quegli occhi i quali sono i più prossimi a quelli dell’animale, a quelli della creatura, lontano dalla riflessione dell’Io. Alla fine l’anima stessa non è che l’anelito dell’inanimato alla salvezza.

(1) La fiaba della Principessa Lucertola racconta la vicenda di una crudele e graziosa principessina che trascorre le sue giornate nel parco del castello paterno, divertendosi ad infliggere ogni sorta di tormenti ai piccoli animali che cadono in suo potere. Colta però da un sortilegio nell’atto di tagliare la coda ad una lucertola, essa è trasformata in lucertola a sua volta, ed è costretta a lunghe e dolorose peregrinazioni per il mondo, infine, seguendo il consiglio del saggio Re degli Gnomi, ritorna al suo paese d’origine e, dopo aver subito a sua volta il supplizio del taglio della coda, ritrova la forma primitiva. (N. d. T.)

(117) Il servo padrone. (0) – Solo attraverso una permanente regressione le classi subalterne divengono capaci delle prestazioni ottuse che la cultura del dominio esige da loro. Proprio il deforme in loro è un prodotto della forma sociale. La generazione di barbari da parte della cultura, però, è sempre stata da questa utilizzata per mantenere in vita la propria essenza barbarica. Il dominio delega la violenza fisica, sulla quale esso poggia, ai dominati. Questi, mentre viene procurata loro la soddisfazione di sfogare come giusto e sacrosanto per il collettivo i propri istinti piegati e distorti, apprendono a perpetrare ciò di cui i nobili abbisognano affinché possano concedersi di rimanere nobili. L’autoeducazione della cricca dominante, con tutto ciò che essa esige quanto a disciplina, soffocamento di ogni impulso immediato, scepsi cinica e cieco piacere del comando, non riuscirebbe, se gli oppressori, tramite oppressi assoldati, non preparassero a se stessi una parte dell’oppressione che essi preparano per gli altri. Per questo le differenze psicologiche tra le classi sono tanto minori di quelle oggettive, economiche. L’armonia dell’inconciliabile torna a profitto del persistere della cattiva totalità. La volgarità del comandante e l’arroganza del soldato semplice vanno d’accordo. Dai domestici e dalle governanti, i quali in obbedienza alla serietà della vita sottopongono ad angherie i bambini di buona famiglia, passando attraverso gli insegnanti del Westerwald che li disavvezzano dall’uso dei termini di origine straniera non meno che dal piacere per qualsiasi lingua, attraverso i funzionari e gli impiegati che li mettono in fila, attraverso i caporali che li calpestano, una linea retta conduce agli aiutanti dei boia della Gestapo e ai burocrati delle camere a gas. Alla delega della violenza agli inferiori corrispondono fin da principio gli impulsi dei superiori. Colui che trova ripugnante la buona educazione dei genitori, fugge in cucina e si riscalda alle espressioni forti, volgari, della cuoca, espressioni le quali rendono segretamente il principio della buona educazione parentale. Le persone fini sono attirate da quelle grossolane, la cui rozzezza promette loro illusoriamente ciò di cui le priva la propria cultura. Essi non sanno che il grossolano, che sembra loro anarchica natura, non è se non il riflesso della costrizione alla quale sono riluttanti. Tra la solidarietà di classe dei superiori e la loro comunella con i deputati della classe subalterna fa da mediatore il loro giustificato sentimento di colpa nei confronti dei poveri. Ma chi ha appreso ad adattarsi ai disadattati, colui al quale il: «Qui si fa così- è penetrato fin nell’intimo, questi è alla fine egli stesso divenuto tale. L’osservazione di Bettelheim sull’identificazione delle vittime con i carnefici dei lager nazisti contiene il giudizio sulle elevate serre della cultura, sulla inglese Public School, sulla germanica accademia dei cadetti. L’assurdità si perpetua attraverso se stessa: il dominio si trasmette e si continua attraverso i dominati.

(O) In italiano nel testo. (N. d. T.). T. W.Adorno \ (Trad. di Gianni Carchia)

8 pensieri su ““Minima (im)moralia”

  1. Troppo tempo è passato da quando ho letto l’edizione einaudiana dei Minima moralia, ma questi pochi passi soppressi e restituiti, tutti collegati nell’analisi del dominio sessuale e sessuato, impregnato delle fantasie che collocano con acutezza nel senso comune di allora donne e dominio, sono davvero interessanti. Per me, forse, che alla mia età rintraccio i costumi e le mosse degli specchi di “amori” di tanti anni fa, in cui a me ragazza povera erano riservati mestizia, un’immaginazione che ha bisogno della povertà cui recare violenza, l’intollerabile commistione, tra alto/media e piccola borghesia, di buona educazione e grossolano. All’apogeo, in quel momento di rimescolamento nel vasto ceto medio, che fu il biennio -studentesco nel ’68 e rischioso nel ’69- cui corrispondeva una più netta scissura con quelli che “medi” non erano. (Richiamati per altro nelle Note di Adorno.)
    E oggi?
    L’angoscia, alimentata dal passato, che trasuda da queste note si è trasformata in superficie riflettente, un avvi(s)o per la moderna Gestapo. “Dai domestici e dalle governanti, i quali in obbedienza alla serietà della vita sottopongono ad angherie i bambini di buona famiglia, passando attraverso gli insegnanti […] attraverso i funzionari e gli impiegati che li mettono in fila, attraverso i caporali che li calpestano, una linea retta conduce agli aiutanti dei boia della Gestapo e ai burocrati delle camere a gas”: conduce la dominante classe media del ventennio glorioso dei consumi. Infatti “L’osservazione di Bettelheim sull’identificazione delle vittime con i carnefici dei lager nazisti contiene il giudizio sulle elevate serre della cultura, sulla inglese Public School, sulla germanica accademia dei cadetti. L’assurdità si perpetua attraverso se stessa: il dominio si trasmette e si continua attraverso i dominati.”
    Di noi nelle note di Adorno tuttora si narra.

  2. RIORDINADIARIO/ LAVORI IN CORSO

    3 AGOSTO 2021

    1.
    Caro Ennio,
    avevo letto a suo tempo gli aforismi pubblicati in Minima Immoralia e mi ricordo l’impressione che essi mi lasciarono di qualcosa che non modificava di molto l’impianto e la potenza concettuale dei Minima moralia. Ossia: certo non vi erano ragioni ad excludendum, come dici tu, ma quindi nemmeno ad includendum, ossia esse non incrinavano né ribaltavano la fisionomia dell’opera adorniana come era stata pubblicata da Einaudi. Non è che senza gli aforismi esclusi la radicalità politica del testo adorniano venga offuscata (sospetto che aleggia nelle critiche di Filippini e in parte anche di Fachinelli). Sono quindi incline a ritenere fondate le cose che dicono Cases e Solmi sulla vicenda: probabilmente la ragione fu editoriale (il volume, sul cui esito commerciale evidentemente si nutrivano dubbi, aveva una paginazione ritenuta eccessiva o cose di questo genere) e la scelta, come sempre opinabile, fu fatta in ragione della qualità, o dello stile, o della misura, come dice Cases. Mi sembra improbabile una esplicita volontà di censura sia sessuofobica che politica. Fachinelli, però, se non sbaglio, dice un’altra cosa: che la censura – anche quella dettata da ragioni inconsce, non dette o indicibili – è sempre politica, e qui il discorso si fa più sottile e più profondo. Non sto cercando di fare del cerchiobottismo. Penso piuttosto che le angolazioni fossero così diverse da essere vere entrambe. Così come mi sembra abbastanza azzardato gridare alla censura, politica o moralistica, mi sembra altrettanto miope negare il peso di alcune componenti (magari subliminali o idiosincratiche) che potrebbero avere influenzato o determinato la scelta di quali aforismi pubblicare e quali escludere. Penso che questo sia il senso per cui Fachinelli usa la parola censura. Probabilmente è interno alla visione che lui aveva del rapporto tra politica e psicanalisi.
    E’ un mio modesto parere, basato su letture di molti anni fa, e bisognerebbe approfondire la ricerca per sostanziarlo meglio o abbandonarlo.
    A presto,
    XY

    2.
    Caro XY,
    concordo io pure con questa valutazione e trovo convincenti le spiegazioni che diedero sia Cases che Solmi. Certo il diavolo può averci messo lo zampino e Fachinelli aveva la preparazione e l’esperienza psicanalitica adatta per scovarne le tracce. Volevo perciò documentarmi di più su cosa disse o scrisse in quell’occasione, al di là delle cose riferite da Cases nel suo intervento riepilogativo su Belfagor [1], che mi paiono davvero astratte e un po’ squalificanti (per Fachinelli). Mi viene da supporre che Fachinelli e gli altri de L’Erba Voglio avessero da altre fonti notizie su certi modi un po’ bacchettoni di pensare la sessualità da parte di quegli intellettuali della vecchia generazione. O che giocasse – in Fachinelli, che rivendicava di non essere mai stato marxista, ma anche in Giancarlo Majorino – proprio la “pregiudiziale anarchica”.
    Un caro saluto
    Ennio

    [1] ««Per conto suo Fachinelli si limita a coprire di contumelie il sottoscritto, chiamato « Cattedratico della Chiacchiera », « Inquisitore del Santo Storicismo », « Grande Accusatore » ecc. L’unica accusa del predetto Grande Accusatore cui accenna, e cioè quella che alla base della campagna contro Solmi c’era proprio quanto Adorno più detestava, e cioè « l’esclusione del diverso, della dialettica, della storia » e la riduzione di tutto al « presente ideologico », Fachinelli la liquida come « bla bla bla inconsistente » escogitato dal «Professor Cases… tutto solo nel suo studio » (ahimé, è vero, lo confesso, sono un individuo e non una collettività scrivente come Fachinelli è o pretende di essere.»»

    (Cesare Cases, LA « MAUVAISE EPOQUE » E I SUOI TAGLI, Belfagor , 30 NOVEMBRE 1977, Vol. 32, No. 6 – 30 NOVEMBRE 1977, pp. 701-715, Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l)

    1. Non mi metterò a rileggere i Minima moralia del 1954 per verificare se siano altrettanto presenti le riflessioni sul rapporto, di dominazione e proiezione, con l’immancabile rovesciamento, uomo-donna, quale è nelle poche note riportate sopra.
      Ma qualcuno che abbia presente il vecchio testo potrebbe chiarire se alla fine vi fossero effettive ragioni “patriarcali” (la famiglia col suo capofamiglia era cosa importante, allora!) ad excludendum o no.

  3. l’articolo di fachinelli riportato andrebbe sulla rubrica “al volo”, dove si riportano paro paro pezzi recuperati in rete. magari solo linkandolo, così si risparmia tempo.

  4. RIPESCAGGIO

    «A Rossana per Fachinelli

    Cara Rossana [Rossanda, nota mia],
    […]. Mentre faccio grande stima della intelligenza e dell’attività di Fachinelli, molti aspetti della sua persona non mi piacciono, trovo che la sua ambizione lo porti a rapporti falsi col suo prossimo, che “L’erba voglio” abbia contenuti e atteggiamenti politicamente e ideologicamente pessimi. Nel 1968, e proprio nel maggio, ebbi un brutto scontro verbale (privato) con lui, dopo il quale mi pare non abbiamo più avuto occasione di parlarci. “L’erba voglio” mi attaccò, credo, una volta. Per quanto è di rapporti personali non rammento altro. Ma quando Fachinelli e le edizioni della sua rivista hanno montato la faccenda, che continuo a trovare scandalosa, di *Minima Im-Moralia* ho perduto ogni voglia di rispettare intellettualmente simili atteggiamenti. Mentre il giovane traduttore dei frammenti [Gianni Carchia, nota mia] che un quarto di secolo fa, con il consenso di Adorno, Renato Solmi, aveva omessi, si limitava, tutto sommato, ad una prefazione interrogativa e generica, Fachinelli gonfiava una polemica che non solo era idiota ma inqualificabile; tanto più che la polemica e gli attacchi (cui naturalmente Solmi non ha risposto, ma che hanno valso a Fachinelli una salata replica di Cases) “interpretavano”, per così dire, le omissioni di Solmi in chiave di rimozione e repressione anche personale e privata. Un comportamento che da un punto di vista di deontologia medica e psicanalitica è, credo, ai limiti della tollerabilità, se non li supera.
    In quell’occasione mi limitai a scrivere una nota sul “Corriere” di mero omaggio a Solmi, limitandomi ad una allusione ironica verso certi “sacerdoti di Demetra e di Iside e le loro Ville dei Misteri”. Il Carchia, autore della prefazione, mi scrisse una lettera wertheriana e metafisica. Gli risposi in modo comprensivo, accennando che il suo lavoro mi pareva strumentalizzato da altri. Qualche mese fa ricevo un biglietto a firma Fachinelli dove mi chiede l’autorizzazione a ripubblicare in un opuscolo, edito da “L’erba voglio” e dedicato alla faccenda Adorno. Rispondo (come poi ho saputo ha risposto Cases) che non intendo concedere tale autorizzazione perché non voglio più oltre contribuire a creare malintesi e equivoci. Bene: mi si dice che l’opuscolo è uscito e che due autori a me sconosciuti vi sbertano e svillaneggiano nella prefazione Cases e me.

    1977

    (Da Franco Fortini, Un giorno o l’altro, pagg. 514-515, Quodlibet, Macerata 2006)

  5. Ah, ecco. Adesso posso sapere da dove db ricavava quel termine ‘nani’ per Cases e Fortini…

    SEGNALAZIONE

    Micropsia

    Nel settembre 1976, la prima iniziativa della neonata casa editrice L’erba voglio fu la pubblicazione, con il titolo provocatorio di Minima imMoralia, degli aforismi mancanti nell’edizione italiana curata da Renato Solmi per Einaudi nel 1954 dei Minima Moralia di Adorno. In una nota introduttiva, il curatore dichiarava di avere “tralasciato gli aforismi di contenuto specificamente tedesco, ricchi di allusioni che sarebbero rimaste incomprensibili al lettore italiano”, e Fachinelli, premettendo l’anticipazione di sette aforismi sul numero di giugno-luglio della sua rivista, ha ora buon gioco a psicanalizzare ponendo la domanda retorica come incipit.
    Che cosa è “specificamente tedesco” nella quarantina di aforismi “tralasciati”? Il sesso (le donne)? La politica? La riflessione incauta? / Come i lettori possono agevolmente constatare, questi aforismi sono doppiamente interessanti: in se stessi, nei loro nessi (recisi) col resto del grande libro di Adorno; e, soprattutto, come testi propriamente censurati, che nel loro emergere ora indicano con chiarezza ciò che ha prodotto la loro censura. Nel loro insieme, essi tracciano una mappa significativa di ciò che la cultura italiana di sinistra di quegli anni – ma solo di quegli anni? – ha temuto o addirittura non visto, e quindi escluso.
    All’uscita, fu infuocato il dibattito sui giornali tra accusatori e difensori dell’iniziativa. Un anno dopo il germanista Cesare Cases, che dei primi era stato l’esponente più di spicco, conclude a modo suo la vicenda con La “mauvaise époque” e i suoi tagli, una dozzina abbondante di pagine su “Belfagor” il cui climax è nell’apostrofe a Fachinelli: cura te ipsum! Il dottore, dubitato nella sua professionalità, risponde subito a ruota psicanalizzando ancora, in altra forma.

    L’altra notte ho visto un nano
    con un cappotto di vigogna
    (va pur detto, Cesare, che un altro inverno
    già cade su Milano…).60
    Senza collo, tutto d’un pezzo
    professorale o ministeriale
    mi squadrava con asprezza.
    Aveva il tuo testo in mano
    leggeva con aria di rampogna.
    “Vergogna, vergogna,” ripeteva, e
    “all’inferno”, o “alla gogna”, e
    altre simili ferocità.
    Oppresso, ansante,
    giacevo e pur pensavo
    nell’oscurità: è un nano
    troppo singolare, è un sogno
    troppo figurale,
    anzi persino caricaturale,
    domani me lo voglio interpretare.
    Ma l’indomani, Cesare,
    la neve scendeva su Milano,
    dalla Ripa si alzavano i gabbiani,
    leggevo versi di Marta Fabiani…61
    Ero felice? Non saprò mai
    chi di noi due, Cesare, fosse quel nano.

    Milano, 28 novembre 1977

    Elvio Fachinelli

    Note

    60 Allusione al saggio di Franco Fortini, Dieci inverni, Feltrinelli, Milano 1957 [Cat. 1065]. Fortini (1917-1994) e Cases (1920-2005), sodali nella traduzione del Faust goethiano (Mondadori, Milano 1970), vennero epitetati da Fachinelli come “Grandi Accusatori” e fatti oggetto di arguzie raccolte in Id., Grottesche, cit.
    61 Marta Fabiani (1953-2014), poetessa e performer; la sua opera prima Maratona fu pubblicata nel 1977 dalla Cooperativa Scrittori, piccola casa editrice fondata da vari esponenti del Gruppo 63.

    (Da Elvio Fachinelli, Esercizi psicanalitici, pag. 81 Epub, Feltrinelli, Milano 2022)

  6. SEGNALAZIONE

    Esperienze estetiche fondamentali / 4: Th.W. Adorno
    Pubblicato il 27 Aprile 2023 · in AltroQuando ·
    di Diego Gabutti

    https://www.carmillaonline.com/2023/04/27/esperienze-estetiche-fondamentali-4-th-w-adorno/?fbclid=IwAR1HZLPNKIX22AiTNHuvsJMRU88prtc-Mksg1WAEazsmeFLWZd3zfY_rd3Q

    Fu Elvio Fachinelli, psicoanalista e grande firma sessantottesca, a chiederci d’intervenire con un libretto satirico sulla polemica divampata nel 1977 a proposito di certi aforismi dei che non erano stati tradotti nell’edizione Einaudi del 1954. Fachinelli, che in quel livido crepuscolo del Sessantotto, dirigeva una rivista chiamata L’erba Voglio e la casa editrice omonima, aveva pubblicato, tradotti da Gianni Carchia, saggista e filosofo molto amico di Paolo, gli aforismi «censurati». Entrerei nei particolari, ma sono noiosi, quindi lasciamoli fuori.

    Cesare Cases, pezzo grosso della casa editrice, e Renato Solmi, il traduttore dell’edizione sotto attacco, nonché co-curatore delle Meraviglie del possibile (come abbiamo appena visto) con Franco Lucentini, autori Cases e lui di libri memorabili, non la presero bene. Quale censura, allibirono Solmi e Cases all’uscita delle traduzioni di Cechia? Di che parlano questi qua?

    E la presero anche peggio quando gli toccò leggere Adorno sorride, dov’erano spietatamente svillaneggiati, messi in croce e sbertucciati, benché Fachinelli, Carchia, Paolo e io avessimo torto e loro ragione, almeno a proposito degli aforismi soppressi. Magari si meritavano quella gran tempesta di frizzi e lazzi in quanto establishment culturale e icone, ai nostri occhi goscisti, dell’egemonismo stalino-gramsciano-berlingueriano che, sempre ai nostri occhi, ma non soltanto ai nostri, si stava divorando l’Italietta. C’era un che di zdanoviano nel catalogo Einaudi (come avrebbero messo in chiaro, beffeggiatori ben più temibili e puntuti di noi, Carlo Fruttero e Franco Lucentini nel loro cult del 1979, A che punto è la notte, che fece il marxismo-einaudismo a brandelli). Si dice che Giulio Einaudi in persona, nei primi cinquanta, fu dissuaso dal pubblicare le opere complete di Peppone Stalin solo a un pelo dalla firma del contratto. Ma nessun einaudiano aveva censurato i Minima Moralia.

    A che scopo censurarli, poi? Gli aforismi soppressi non dicevano niente di diverso da tutti gli altri. Avevamo un bell’inventare, Paolo e io, che fossero stati «sbianchettati» (come allora non si diceva ancora, ma c’eravamo quasi) perché in «aperta contraddizione» con la politica culturale del Pci, quale che fosse (Repubblica e l’Unità? il catalogo degli Editori Riuniti? Linus?) Non era vero. Ed era, anzi, una sciocchezza. Gli aforismi furono verosimilmente tagliati vuoi perché giudicati meno brillanti degli altri vuoi per sfoltire un libro troppo massiccio. Non fu bello, ma non fu neanche un crimine. Adorno, per quanto si dichiarasse ostile al socialismo reale, non era Solženicyn (che Umberto Eco, a proposito d’egemonismo stalino-gramsciano, aveva definito in quegli stessi anni «un Dostoevskij da strapazzo», e ciò proprio mentre l’autore di Arcipelago Gulag era nelle grinfie del KGB). Solmi e la redazione Einaudi non ricorsero alla guida pratica dell’Index Librorum Prohibitorum in versione bolscevica per cancellare con un Fiat Tenebris gli aforismi in eccesso. Ricorsero, più in piccolo e senza far danni, all’ambarabaciccicoccò. Ma Paolo e io trovammo divertente fingere indignazione.

    Sul momento non lo capì nessuno, che per il senno di poi ci vuole tempo e pazienza, ma era cominciata l’età del falso sdegno, che presto sarebbe dilagato ovunque, come le armate degli zombie nei serial Netflix: questione morale, morte alla casta, politici ladri, democrazia canaglia, evviva e abbasso Berlusconi, il moralismo da talk show, populisti invasati, magistrati buoni e giusti, il fatto quotidiano. Fu il Sessantotto a cominciare, con le sue stizze da barzelletta, e certo anche Adorno, gran moralista, c’entrò per qualcosa. Un minimum di responsabilità tocca pure ai suoi interpreti e laudatores, tipo Paolo e me.

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