Riordinadiario 1997 (2)

di Ennio Abate 

10 febbraio

Lavoro «..soltanto una minoranza della forza-lavoro del nostro paese (in sostanza i dipendenti pubblici e quelli delle grandi aziende private, circa 9 milioni di persone su oltre 20 tra occupati regolari e irregolari) beneficia effettivamente e direttamente della tutela piena offerta dal diritto del lavoro e in particolare della stabilità del posto di lavoro e della legislazione di sostegno alla presenza del sindacato nei luoghi di lavoro»  (Bronzini, il manifesto. 7.2.1997) 

Per Sergio Bologna (a differenza di Pasolini) il vero cambiamento antropologico di questa fine secolo riguarda proprio il lavoro. Egli considera con sarcasmo i «libri che filosofeggiano sul lavoro, che ne tracciano la storia dagli egizi ad oggi, che lo danno per estinto, che suggeriscono di donarlo, invece di venderlo, senza parlare dei vaniloqui su post-fordismi e globalizzazioni». Il cambiamento in corso è così riassunto: «E’ accaduto che la forma considerata naturale del lavoro, cioè la forma del lavoro salariato o, in termini giuridici, subordinato, è stata affiancata da una forma diversa, quella del lavoro cosiddetto “autonomo” o non salariato [espressione di Lyon- Caen, giurista francese]». Bologna recensisce il libro di Ichino,  «Lavoro e mercato», che propone un’estensione dei diritti inderogabili (assistenza malattia, limitazione orario di lavoro, ferie, rispetto della privacy, tutela in caso di rescissione unilaterale del rapporto) almeno ad una parte della galassia del lavoro autonomo (poi si penserà al resto, alla forma più diffusa di lavoro autonomo, quello del  «contratto d’opera»). Ichino suggerisce anche un alleggerimento delle tutele di cui godono i lavoratori supergarantiti, gli «insiders», per es. i funzionari della pubblica amministrazione. Secondo Bologna, Ichino ha messo il dito su una piaga che va affrontata, poiché oggi i discorsi sul lavoro riguardano (in un’ottica tutta «pauperistica») o la disoccupazione o i problemi dei gruppi sociali «a rischio», mentre quelli sulla cittadinanza riguardano solo gli extracomunitari. Così «non ci si accorge che esistono milioni di cittadinanze dimezzate, cioè di situazioni in cui il soggetto si trova in condizioni di totale subalternità nel rapporto di lavoro, la cui tipologia non è contemplata dal diritto in vigore, e quindi in caso di necessità non può ricorrere né agli organi dello Stato, come la magistratura, per assenza di norme di tutela, né ad un’organizzazione sindacale, in quanto i sindacati italiani non rappresentano i lavoratori autonomi» (il manifesto 7.2.1997)
 

Sessantottini

I più lesti finiti in massmedia
il grosso eliminato fra storia
filosofia ed  economia
altri per il rotto della cuffia
accucciati in poesia
io in una scuola di periferia
[e nella figa di…  mia]

11  febbraio

Goldhangen, «I volenterosi carnefici di Hitler»

Lo recensisce Rossanda. Goldhangen non è uno scampato alla Shoah, è un giovane. Non vuole razionalizzare l’orrore nazista e  mette sotto accusa tutta la nazione tedesca, non solo i suoi gruppi dirigenti e le SS. Denuncia le responsabilità della Chiesa nell’antisemitismo, ma anche quelle del progressismo positivista «che elabora la teoria di una inferiorità  biologica, genetica, dunque irrecuperabile dell’ebreo». L’antisemitismo era senso comune nella Germania degli anni Trenta. Quando gli ebrei vennero esclusi dalle funzioni pubbliche né Thomas Mann, né le grandi figure del protestantesimo (Barth, Niemoller) protestarono. Lo fece solo Bonhoeffer. Persino i congiurati che prepararono l’attentato ad Hitler nel luglio 1944 erano antisemiti. E lo sterminio non è imputabile solo alle SS (due milioni di persone, ausiliari inclusi). Gli «uomini semplici», gli «ordinary men», che non erano costretti (chi non se la sentiva veniva esentato) parteciparono all’uccisione di metà della popolazione ebraica; e fuori dai campi. (il manifesto 7 febbraio 1997]

 Hrabal

«Laureato in legge nel ‘46.. non aveva mai esercitato la professione forense […] ha svolto un’infinità di altri lavori: impiegato presso un notaio,[…] magazziniere in una cooperativa di consumi, operaio nelle ferrovie e poi capomovimento [in una] stazioncina, agente di assicurazione, commesso viaggiatore per una ditta di mercerie e giocattoli, operaio  [in una] acciaieria finché non rimase vittima di una grave incidente sul lavoro, imballatore di carta da macero, macchinista e comparsa in un teatro praghese […]. Per lunghi periodi, negli anni ‘50 e nel decennio successivo all’intervento sovietico dell’agosto ‘68, non ha potuto pubblicare, e così, per lunghi anni ha scritto per sé, rielaborato, corretto, ritagliato i testi in modo da passare attraverso le maglie della censura. E quello che non si poteva pubblicare ufficialmente, veniva pubblicato dagli editori cechi all’estero o in samizdat in patria» 

(il manifesto 5 febbraio 1997)

Sofri, Lotta Continua, eccetera.

Viale riduce L.C. ad un «comune sentimento», ad un «vissuto che non rimandava a niente di diverso, di futuro, di escatologico». Lascia tutto il peso (oggi sgradevole) dell’ideologia, dell’organizzazione agli “altri”. Ma LC era forse solo la beneficiaria e forse la meno succube rispetto agli altri gruppi (AO, MLS, ecc.) di quella strumentazione ideologica. Era, come in una famiglia, il figlio-gruppo ribelle che comunque godeva dei poteri di cui disponeva la famiglia. LC, dunque, faceva parte della “famiglia”. E il «comune sentimento» che la muoveva non è separabile dal “resto” (idee, ragioni, organizzazione).
Sinibaldi. Oggi sconfessa il sé d’allora propenso alla «violenza rivoluzionaria». S’è accucciato nella «complessità del mond»” e nell’idea della indistinguibilità di bene e male. Facile allora per lui fare la caricatura di quel passato. Ma davvero a quei tempi la violenza appariva «la via più breve, meno equivoca ma anche meno faticosa […] per distinguere definitivamente bene e male»? Ed erano davvero soltanto «puerili» i tentativi di costruire «strutture separate e in qualche modo occulte» e destinati al “grottesco”? Chi si affida alla «magistratura che finalmente ha cominciato a combattere la mafia e la corruzione dei partiti» non può che scrivere che questa predica su come sia stato sbagliato «pensare di semplificare il mondo».

Ancora su Sofri, Lotta Continua, eccetera

Giovanni De Luna distingue opportunamente fra la vicenda politica di LC, la «st.oria di LC dopo la fine di LC» e la fase degli arresti di Sofri, Bompressi e Pietrostefani (dal 1988, anno del primo arresto). Sottolinea anche «la varietà delle situazioni sociali e geografiche che vi confluirono»: « le radici del ramo torinese […] vanno cercate, più che a Pisa e a Trento, direttamente dentro un “lungo periodo” alimentato dal moralismo gobettiano e dagli echi consiliari, gramsciani prima, dei “Quaderni rossi” dopo». Si rammarica, da storico, della scarsità delle fonti «quasi mai in grado di illuminarne la magmatica realtà». Prevedibilmente caricaturali saranno  le carte di polizia; indisponibili quelle dei militanti. «Ma ci sarà qualcuno che in quel periodo scriveva lettere, teneva diari, scattava fotografie, registrava canzoni e dibattiti?» . Dà anche una spiegazione convincente dell’origine della «lobby di LC»,  «che scaturisce dalla commistione tra quel che è successo dopo la fine di LC con quanto è successo durante la sua vicenda storica» e comincia a distinguere fra stereotipo e categoria interpretativa. (G. De Luna, APPARTENENZE, APPRODI, PASSIONI. LA STORIA DI LC, il manifesto 11 febbraio 1997)

 Pensioni

Inps (il maggiore istituto di previdenza italiano) e Inpdap (pensioni dei dipendenti pubblici), malgrado gli effetti del calo demografico e dell’allungamento della vita media (che riducono il numero dei lavoratori attivi rispetto ai pensionati), potrebbero reggersi, se dovessero pagare solo le pensioni in senso proprio. Ma questi istituti devono sborsare migliaia di miliardi anche per prestazioni di sicurezza sociale (pensioni sociali, invalidità, prepensionamenti, maternità, ecc) che negli altri paesi europei non sono a carico dei fondi previdenziali, ma della fiscalità generale. Inoltre c’è un’altra anomalia: Il monte salari sta crescendo ad un tasso inferiore alla crescita del prodotto interno lordo (1994-95: il prodotto lordo è aumentato dell’8,1%, il monte retributivo del fondo lavoratori dipendenti del 5,8%). “Prelevare i contributi pensionistici soltanto dalle retribuzioni significa avere una cassa previdenziale che non marcia al ritmo della crescita economica, ma più lentamente”. Quindi: o si aumenta il monte salari o si impone un prelievo previdenziale anche sul valore aggiunto prodotto dalle imprese.

(il manifesto 5 febbraio 1997 ?)

 14 febbraio 

 Armando Tagliavento

Vado per la prima volta nella sua casa popolare in via Chiari, dalle parti di piazza Prealpi per restituirgli il suo dattiloscritto, «Vocadizionario», che inutilmente ho spedito a Serrao sperando che potesse aiutarci a pubblicarlo. Per recuperarlo dopo oltre un anno e dopo mi insistenti telefonate («Adesso glielo rispedisco») ho dovuto ricorrere a mia figlia Elena, che è andata con la sua bimba per alcuni giorni da Fabio a Roma.
Il quartiere dove abita è quasi periferia. Me ne accorgo subito. Dai volti della gente che incontro per strada  o vedo seduta sulle panchine. Sono più stanchi e  segnati dalla bruttezza che viene da stenti,  fatiche e amarezze. Il sole e il clima quasi primaverile – per precauzione mi sono portato in borsa il cappello –  illumina queste case “popolari”, pulite e spesso  ridipinte da  poco tempo. (Mi respingono lo stesso. Come i palazzoni freddi dei quartieri residenziali, che so, quelli attorno a via Gioberti o a via Rovani, dove vado per gli incontro di «Inoltre» nella sede della Jaca book. Ma non ti richiedono quel sentimento di difesa guardinga, non t’aggrediscono. Sembrano  abbandonarsi alla tua curiosità benevola).
L’appartamento di Armando è al quarto piano. Non c’è ascensore. I gradini sono di pietra comune. La porta fragilissima. Il campanello a suoneria è da anni Cinquanta. L’interno è troppo riscaldato. Il mobilio scolorito. Sui muri una foto a colori di Enrico Berlinguer col volto serio e un quadro a olio («È di un pittore tedesco, mio amico») che raffigura Che Guevara: una riproduzione che  copia e appesantisce la foto che veniva portata nelle manifestazioni del ‘68,   quella col basco di traverso.
La moglie di Armando è alle prese con due nipotini, che all’inizio si sono spaventati e intimiditi   per il mio arrivo. Mi saluta. Poi scompare in cucina per prepararmi il caffè e portarmelo assieme a un piattino di biscotti.
Armando comincia a mostrarmi i suoi scritti da linguista dilettante e i dizionari che consulta. Poi mi tira fuori una cartella con le sue poesie e me ne legge alcune. Lo fa con ansia nevrotica. Parla sempre lui e non mi lascia spazio per le domande che volevo fargli. Non posso farne neppure a sua moglie. Che se ne sta in disparte in fondo alla stanza e si occupa dei nipotini, in attesa che la nuora o il figlio al ritorno dal lavoro vengano a riprenderseli. Lo fa senza grande trasporto, mi pare.  È anziana, grassottella, con gli occhiali. Che scarto dalla figura di moglie traditrice e sensualissima che compare nei romanzi (sempre inediti) che Armando mi ha  dato da leggere negli ultimi anni.

Nota. 
Di Armando Tagliavento  mi sono occupato in varie occasioni (su Moltinpoesia e Poliscritture). Per un inquadramento  del mio rapporto con lui e  le sue scritture si veda qui

16 febbraio 

 Leggendo Naldini su Pasolini

Fratello letterato accanto a Fortini, più padre letterato. Se da giovane fossi finito a Roma invece che a Milano, forse Pasolini l’avrei ammirato e seguito di più. Lo trovo  più vicino alla mia salernitudine. Le mie gioie dell’educazione cattolica sono nella sua orbita.  Milano e Fortini sono invece il contesto più congeniale al mio periodo di impegno politico. Samizdat Colognom è stato il mio  primo sforzo di ripensamento- distanziamento da  entrambi?

 Appunti per il corso al CEP: Milano-Roma. Fortini-Pasolini

[Non vi presento i risultati di una ricerca, ma gli spunti per una ricerca che vorrei fare. L’idea iniziale mi è venuta dalla frequentazione – assidua  dalla fine degli anni ’70, a partire da «Questioni di frontiera» soprattutto –  degli scritti di Fortini e dall’insistenza  in essi della polemica con Pasolini. Alla base c’è anche il mio bisogno di superare l’accordo – quasi ovvio ma troppo passivo –  con le critiche che  Fortini fa a Pasolini; e di rimediare all’accantonamento troppo prolungato della lettura (quantomeno doverosa…) dei testi di Pasolini. Il titolo: «Milano-Roma. Fortini-Pasolini». Non vuole essere un accostamento “deterministico”. Non è che, se Pasolini fosse arrivato a Milano, invece che a Roma, sarebbe  diventato un Fortini. E viceversa. Ma il capitalismo ci fa vivere in realtà materialmente, fisicamente contraddittorie (città- campagna; centro- periferia) o accentua  i congtrasti preesistenti.  E le culture, le biografie, (forse persino gli psichismi) hanno – sotto il mantello omogeneo, globalizzante,  massificato – accentuazioni “locali”, “individuali”, “singolari”, che vorrei esplorare. Si tratterà di valutare in concreto se la città (Milano, Roma) è davvero  tema-contenuto (e quanto decisivo) della scrittura di Fortini e Pasolini. Ci vorrebbe, perciò,  uno spoglio attento di tutti gli scritti dei due. Ma io sono costretto  in questo corso ad andare per “assaggi” e a voi chiedo di portarmi altri spunti traendoli dalle vostre letture passate o da riletture  d’oggi.]

[Tanto Naldini è legato  al familiare, al “naturale”, al biografico, al cronistico, al locale (che ha condiviso con Pasolini). Tanto Fortini esamina Pasolini e il suo mondo dall’osservatorio dell’ideologia, della storia (operazione che ritengo legittima- è bene  ripeterlo oggi che il clima è di  «dalli all’untore (all’ideologo)!»)]

[Di solito  i fortiniani  leggono Pasolini appiattendosi sulle posizioni di Fortini. E i pasoliniani si appiattiscono sulle posizioni di Pasolini, quando parlano (se ne parlano) di Fortini. Non cerco tra i due nessuna sintesi impossibile. Voglio riesaminare le posizioni di entrambi, individuare i pregiudizi, rielaborare le loro zone in ombra, riverificare i punti fermi già acquisiti dalla critica]

1 pensiero su “Riordinadiario 1997 (2)

  1. Dov’ero io nel 97 e cosa ero? Dopo un certo sforzo mi ricordo: i figli ormai a 26 e 27 anni, in grado di scegliersi la vita.
    Già in procinto di cambiare vita: isolandomi con mio marito in appennino. Solo un anno dopo definitivamente.
    Cos’è definitivo?
    Tra noi privilegiati quasi qualunque scelta: e questo la dice lunga sui privilegi di noi “occidentali” che cadono sempre in piedi.
    Ancora chissà fino a quando.
    Ecco: oltre ogni colpevolizzazione o credenza di vittoria, abbiamo, ho, una eredità che mi tutela la vita. Anzi mi annuncia il figlio che devo predisporre il sito per accogliere la sua famiglia nella sicurezza di orto e patate… E come no, gli rispondo, ci ho già pensato.
    Senza grandi nomi, amici cari, sopravvivere bisogna.
    Siamo ancora attori attivi? O solo compartecipanti a forza? Ci è già successo, lo sappiamo.

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