di Valentina Casadei
Anna si era truccata per ore, rossetto rosso ferrari e shorts strappati inguinali. Elena le aveva scritto esci! ci sono, alle otto in punto. La sua amica era un orologio svizzero, proprio come Guglielmo, suo padre, che per ogni viaggio insieme le aveva portate all’aeroporto con un minimo di sei o sette ore di anticipo. Se l’aereo decollava alle quattro, Guglielmo le scaricava davanti all’aeroporto alle otto, per evitare problemi dell’ultimo minuto, come si giustificava sempre lui.
Anna era uscita, in una nuvola di profumo. La sua camminata era fiera – nulla a che vedere con una qualsiasi forma di sicurezza interiore, quella era ancora un work in progress – giustificata dalle ore passate in bagno ad agghindarsi tutta, ascoltando musica rap, genere musicale dedicato esclusivamente a questo tipo di attività. Elena, alla guida, era concentrata, Anna guardava fuori dal finestrino, assaporandosi già il suo sabato sera che stava per cominciare. Un passante attraversava la strada troppo lento, Elena clacsonava con violenza. Una macchina inchiodava all’ultimo, Elena gli urlava cose brutte. “Tesoro, ma lui non ti sente”, Anna provava a ricordarglielo. Ma Elena continuava imperterrita pronta a trovare la sua prossima valvola di sfogo in una qualsiasi persona X che le capitava a tiro.
Arrivavano a Marina di Ravenna, era l’estate della loro maturità. Elena chiedeva ad Anna di accompagnarla in bagno, devo vedere se non mi si é sbavato il trucco, diceva. Anna le ricordava che poteva controllarlo lei. Ma Elena andava verso il bagno, facendo la passerella davanti ad un’innumerevole numero di ragazzi, probabilmente già sbronzi, sfoggiando il suo nuovo top scollato. Anna la seguiva, ricordandosi che anche lei stava indossando dei bellissimi shorts strappati.
Dopo qualche giro di birra, Anna ed Elena incontrarono Pallino, Tito e Spek, amici d’infanzia. Tutti e tre in modalità rimorchio alla romagnola: abbronzati, viscidi e allegri. Le ragazze, a quanto pare, ne andavano pazze. Ma non Anna. Quell’estate, Anna si sentiva libera, davanti a sé aveva solo da costruire, presto sarebbe andata all’università, un nuovo capitolo sarebbe cominciato. E nell’eccitazione di questa presa di coscienza, Anna viveva ogni singolo momento al massimo. Spek aveva proposto ad Anna ed Elena di andare con lui. Loro lo avevano raggiunto, curiose, fra le dunette, vicino allo stabilimento balneare che stava passando tutte le canzoni dei Rammstein. Poi, da dietro un albero, erano comparsi Pallino e Tito. Si erano messi in cerchio ed avevano cominciato a passarsi una canna. Anna non aveva mai fumato prima. E non lo avrebbe mai più fatto in vita sua neanche dopo. A canna finita, tutti e cinque erano tornati in pista, urlando a squarciagola il pezzo rock Du Hast, senza conoscerne il senso del testo. C’era tanta rabbia nella voce del cantante ma loro la ballavano come una canzone di Cristina D’Avena. Tutti erano allegri e avevano tanta voglia di abbracciarsi, i loro sorrisi ebeti erano disegnati su dei volti sudati ed arrossati. Eh, la libertà. Dopo cinque minuti però, Anna aveva cominciato ad accusare forti dolori al petto. La sua ipocondria unita alla sua inesperienza l’avevano subito mandata in tilt. “Spek sto morendo”, aveva iniziato ad urlargli a squarciagola in pista. La musica era troppo alta e, anche se di solito Anna amava che fosse così, in questo momento rendeva le cose più complicate. Nel frattempo, Elena aveva raggiunto un’amica del liceo. “Spek, ti dico che sto morendo, aiutami”. “Ma smettila, goditela, rilassati, chill”, diceva Spek. “Ma quale chill e chill, fa male qua, fortissimo, porca miseria!”. Il dolore al petto stava aumentando e solo dopo avere gridato varie volte Spek si era reso conto che non stesse scherzando. I due erano usciti dalla pista e non appena arrivati verso una dunetta, Anna aveva perso i sensi, cadendo per terra, davanti a tutto lo struscio della riviera, nell’elegantissima modalità sacco-di-patate.
Anna si svegliò in ambulanza mentre un infermiere e un tirocinante, entrambi sulla trentina, stavano tagliandole, con le forbici, il reggiseno dal davanti, per preparare il petto all’elettrocardiogramma. “Oscia se ce le ha piccole” “Sì, proprio una tavola da surf”. Anna aveva sentito tutto ed aveva aperto gli occhi proprio mentre avevano iniziato a sghignazzare. “Sono molto più eleganti così”, aveva ribattutto Anna, troppo grata all’idea di essersi svegliata in tempo per avere potuto beccare la loro bassezza umana. I due ammutoliti avevano iniziato a fare finta di fare il loro lavoro che, fino a prova contraria, non era commentare la grandezza del seno delle loro pazienti di sesso femminile mentre si trovavano in stato d’incoscienza.
All’ospedale, Anna era stesa su un lettino. I suoi genitori erano arrivati correndo. Il padre, con un passato da rocker hippie alle spalle, sghignazzò, non appena l’infermiera li informò. La madre chiese, con terrore, se sarebbe sopravvissuta. Per uno era divertentissimo e per l’altro era la catastrofe. Anna teneva gli occhi chiusi, forse per vergogna, forse per stanchezza. L’infermiera continuava con i rimproveri mentre la madre piangeva e il padre rispondeva che Anna era davvero una brava ragazza. Poi arrivò Elena, correndo nella hall, piangendo a sua volta. Lei nel suo top ed Anna nei miei shorts, belle e ingenue come mamma le aveva fatte. “Non sto morendo” diceva scherzando Anna mentre pensava “Tutto questo ambaradan per due tiri di canna e una birra media ”
Qualche ora dopo il dottore riferì a tutti che si trattava di pressione bassa e di mangiare più liquerizia.