Da Tiravanija a Shimabuku

Note sull’arte nel passaggio dagli  anni novanta agli anni zero. Seconda parte.

 

di Paolo Antognoli

Queste annotazioni sono il secondo testo, scritto nel ’18 e poi abbandonato, che segue a quello già pubblicato (qui) per recuperare ricordi e condividere esperienze personali che risalgono ai primissimi anni del Duemila[1]. Per introdurre lo scritto che segue vorrei perciò rimandare a quello, dedicato alla Stazione Utopia della Biennale di Venezia del 2003.

1.
Dagli anni novanta entrava nel gioco nell’arte occidentale una nuova generazione di artisti i cui bagagli non erano più le tradizioni artistiche nazionali, quanto più semplicemente la loro cultura, il quotidiano, i loro ricordi. Modi, non cose, portati con naturalezza e disinvoltura: il proprio aspetto, la propria lingua che filtra dall’inglese, i propri interessi, il cibo.
C’è in questa decade – che si afferma tra fine secolo e inizio millennio, in un mondo appena mutato con il crollo dell’Urss e una globalizzazione senza più ostacoli – l’immissione nel circuito dell’arte di un punto di vista inedito, che iniziava allora a manifestarsi. Se ne era discusso a lungo con Pier Luigi Tazzi nei primi anni zero, fra i primi a intuire questo cambiamento.
Questo tipo di artista, portatore del nuovo, veniva non solo da quella periferia del mondo che l’Occidente aveva ignorato e per lungo tempo estromesso, ma anche da centri marginali dell’Europa o del continente americano.
Se prendiamo il caso di Rirkrit Tiravanija, si trattava di un artista cosmopolita, figlio di un diplomatico, perfettamente integrato in questo mondo espanso sia a Oriente che a Occidente. Anche altri avevano vissuto in modo molto naturale la possibilità di spostarsi liberamente da un luogo all’altro dell’Europa e dell’Occidente. La via della seta e degli hippie trails si era interrotta negli anni ottanta, ma le occasioni per viaggiare non erano mai state così alla portata come adesso.

La novità di questa generazione cosmopolita, che negli anni novanta apparve gradualmente sulla scena (Liam Gillick, Carsten Höller, Philippe Parreno, Félix González-Torres, Rirkrit Tiravanija ecc.), venne colta e illustrata in Esthétique relationnelle, il saggio del 1998 di Nicolas Bourriaud che la rese nota e visibile a tutti, raccogliendo e collegando le diverse pratiche artistiche sotto l’ombrello di una teoria coerente.

2.
Le nuove generazioni vissero serenamente e quasi senza coscienza questa fase transitoria in cui l’economia transnazionale acquisiva progressivamente il proprio controllo sulla politica. La ristrutturazione globale del sistema si sarebbe rivelata soltanto più tardi nelle sue consequenze più nefaste. Nel frattempo la realtà quotidiana di quel decennio, per chi viveva al centro dell’Europa, scorreva quasi ignara, apparentemente libera dalle ideologie e per alcuni (così si è creduto) persino dalla storia.

A differenza di molti artisti che si affiancheranno all’esperienza illustrata da Bourriaud, la visione di Rirkrit Tiravanija, come per altri suoi coetanei, non presupponeva un’esperienza traumatica del mondo, ma una visione felice e positiva.

3.
Rirkrit Tiravanija inizia a farsi notare nei primi anni novanta. Come se l’artista schierasse il suo gioco sotto i nostri occhi sviluppandolo gradualmente.
Tazzi, ad esempio, raccontava di avere visto per la prima volta il lavoro di Rirkrit in una mostra collettiva a Colonia. Era il 1993. Il suo lavoro si componeva già di un cubo accessibile all’interno del quale si trovavano sedie, tavolini e drinks per intrattenere i visitatori. Il titolo, Café Deutschland, sembra rimandare al ciclo omonimo di Jörg Immendorff, esposto nel museo adiacente, come omaggio al paese ospitante.
Altre volte l’artista, dentro spazi deputati, disponeva l’occorrente per preparare cibo thai. E anche senza cucinare il visitatore poteva limitarsi a contemplare questi oggetti: le pentole, i piatti, le confezioni del cibo. Il suo gioco non era più una finzione, ma una realtà quotidiana. Chiunque poteva esperirla.

4.
Non voglio dire che gli artisti non abbiano avuto da sempre l’esatta coscienza di ciò che è vero e di ciò che è fittizio, ma solo che l’opera d’arte degli anni novanta, disertata la rappresentazione illusiva, si interessava a ciò che stava al di fuori della cornice, concentrandosi non solo sulla stanza dove si trova lo spettatore, ma sullo stesso spettatore. Detto altrimenti, il dispositivo e la funzione dell’opera si spostavano dallo spettatore per includerlo in tale contesto come partecipante.
Inoltre, il lavoro di Rirkrit, allo stesso modo di altri artisti (penso ad esempio a Surasi Kusolwong), non solo riportava al luogo reale, da cui si guardava, ma includeva l’immaginazione e la memoria futura dello spettatore.

5.
Quando Rirkrit preparava una festa o soprattutto quando ricostruiva il suo appartamento in un altro luogo, non raccontava la sua realtà interiore come una storia o come storia tout court.
Il suo lavoro si nutre certamente dei pensieri e delle vicende che l’hanno accompagnato nella fase ideativa, ma questi pensieri dell’artista per noi resteranno sempre inattingibili e non ci è dato saperne. Una volta che il pubblico subentra in questo luogo pensato e predisposto dall’artista, possiamo soltanto immaginare questa memoria che scompare, anzi già scomparsa prima di quel momento.
Non c’è più una vera referenza. L’acqua referenziale non passa dai tubi del progetto. Per poter salvarne la sostanza-memoria, ma senza più quell’acqua, l’artista deve costruire un nuovo recipiente aperto in cui altra acqua possa di nuovo affluire. È allora che accade l’imprevedibile: quando vere persone entrano a contatto col progetto e diventano tutt’uno con il risultato.

6.
Partecipando tuttavia da fruitori ai dispositivi di quest’arte relazionale restiamo pur sempre spettatori che assolvono a una funzione progettata da altri. Da un altro punto di vista siamo però compresenti (quando lo siamo) lì, accanto all’artista, fra lui, gli amici, gli altri invitati, gli organizzatori, quelle figure di un mondo reale che possiamo vedere e conoscere. Non siamo più dei passanti di fronte alla sua opera come un quadro in cornice. Viviamo piuttosto un’esperienza comune.

7.
Nell’ultimo passaggio fra i due secoli, c’è stato un momento in cui la sintonizzazione con questo tipo di pratiche fu altissima. Modificò in qualche modo certi approcci stereotipi che condizionavano le attese dello spettatore.
Se un visitatore si fosse sentito fuori luogo, partecipando ai giochi per lui predisposti dai dispositivi relazionali, sentendosi estraneo come un topolino sulla ruota, anche questo straniamento sembrava compensato dal pensiero che quel modo di proporre il lavoro avrebbe liberato un campo nuovo futuro valido per tutti.
Questo pensiero positivo – talvolta quasi entusiastico: non solo per il caso di Rirkrit ma per la prima ricezione dell’arte relazionale – accompagnò l’apertura del Palais de Tokyo nel 2002.
Eppure non fu questa pratica a liberare il campo dalle faraoniche mostre degli anni ottanta e novanta. Chi dimostrò che si poteva anche fare tutto con nulla, furono piuttosto quegli artisti che giunsero in Italia svantaggiati, dall’ex Jugoslavia, dal Kosovo, dall’Albania, dal Nord Africa o dall’America Latina.
Non facevano parte di quel mondo sempre in viaggio, élitario, cosmopolita, sempre di casa felicemente altrove. Si trattava spesso di artisti provenienti da situazione di disagio. Alcuni conoscevano la miseria, la guerra, altri passarono il mare con barche di fortuna.

8.
La parte umana, nelle aspettative di uno spettatore, è ineliminabile. La visita a una mostra non prescinde dalle proprie attese, dalla propria cultura, dalle proprie disposizioni psicologiche. Ce le portiamo dentro, in quel luogo. Eppure, dopo, anche queste aspettative, per chi cerchi un’obiettività, dovrebbero vagliarsi a freddo.
La prima volta che vidi il lavoro di Rirkrit fu una sorpresa, nel mio caso, al Portikus di Francoforte. Era il 2001. Ne ho scritto riguardo alla mia esperienza di Utopia Station.
Diversi anni dopo, nel 2004-2005 – avevo letto nel frattempo Esthétique relationnelle – una personale olandese di Tiravanija mi lasciò freddo e perplesso. Ho ancora, in archivo, la cartella stampa di quella mostra del 2004 al Boijmans Museum di Rotterdam con il poster disegnato da Linda van Deursen e Armand Mevis.


Mi chiedo adesso se questa ricezione straniata non fosse dovuta che a mie ragioni personali, oppure se fra quelle ragioni il mio metabolismo avesse reagito con una sorta di allerta: il segnale rosso di una anomalia appena percettibile.

La personale di Rirkrit consisteva in costruzioni vuote e senza cose all’interno del museo. Non volli ascoltare le guide, volli invece aggirarmi solitario in quelle stanze deserte fra le nude strutture di legno. Al loro interno avrei dovuto immaginare tutti quegli oggetti non visibili, le presenze e gli eventi passati dell’artista, che erano diversi per ogni stanza. I ragazzi che guidavano i tour avevano il compito di parlare e descrivere questi eventi consumati altrove, in stanze dallo stesso perimetro di quelle presenti e che allora mi parvero spettrali. Una voce sullo sfondo recitava in inglese un racconto di fantascienza. Mi risuonò anch’esso un po’ sinistro e distante. Tazzi, ricordo, non era d’accordo. Era invece l’opposto, per me, dell’artista che avevo apprezzato anni prima, ma sospesi il giudizio.

Lessi più tardi che Rirkrit aveva reagito in questa mostra a un tipo di critica che voleva ridurre il suo lavoro a intrattenimento, a eventualità spettacolare – proprio nel senso debordiano della Société du spectacle. Soltanto adesso realizzo che, nonostante le sue ragioni personali, quell’immaginare gli eventi e gli oggetti del suo passato, l’affollamento del pubblico, le pentole e gli strumenti, i suoni, finanche i jack degli amplificatori… quelle  cose che non esistevano effettivamente ma consistevano soltanto di ciò che lo spettatore riusciva a inventare, a immaginare: niente più che immagini evocate dalle parole delle guide o mere fantasie in interiore homine. Si trattava di pensieri che ormai non appartenevano nemmeno più all’artista quanto allo spettatore.
Forse anche in ciò consisteva quello scambio, quel baratto, quella negoziazione tra artista e spettatore – più evidente e quasi illustrato nel lavoro di Surasi Kusolwong, quando ad esempio a San Gimignano vende oggetti di plastica a un mercatino, ma ben più sottile in quello di Rirkrit.
Non c’è opera senza pubblico. L’artista, dispone lo scenario, ma poi si siede anch’egli vicino allo spettatore, partecipante lui stesso al medesimo evento, lì seduti accanto. E quando usciamo, e quel tempo sarà passato – un’ora, un giorno, anni – sia lui che noi, l’artista come il visitatore, ricorderemo qualcosa che è stato: l’evento al quale abbiamo preso parte assieme.
Al contrario, quel visitatore solitario del Boymans che ero io, immaginando eventi mai vissuti in stanze vuote, eventi che potevo soltanto immaginare, ebbene quegli stessi pensieri traducevano e inventavano qualcosa di nuovo che parlava di un passato consumato (quello di Rirkrit) ma senza alcuna melanconia e invece del mio presente reso cupo da quelle stesse cose passate a cui non avevo preso parte. Era in atto, senza che ne avessi coscienza, una contrattazione fra me e quel lavoro. Allora, in quella situazione, intesi recedere dal contratto, allontanandomi dalla mostra insoddisfatto.
Ma questo ricordo, riflettendovi adesso, a posteriori, fu una immensa lezione di museologia: perché uscendo dal museo la visita non finisce, prosegue nel ricordo.
E forse ebbe ragione Pier Luigi [Tazzi] nel percepire diversamente il clima di quella mostra, senza la cupezza e quasi con un senso di morte con cui vissi quell’esperienza.

9.
Era il tempo in cui avevo iniziato a conoscere la realtà artistica latino-americana, il fenomeno zapatista, le testimonianze, gli scritti, ciò che di questo potevo allora trovare. Era anche il momento della cosiddetta ‘arte politica’ – su cui servirà ritornare. Si riguardava anche al passato prossimo, agli anni sessanta-settanta della nostra infanzia: al tempo che non avevamo vissuto o che abbiamo compreso soltanto a posteriori. E eravamo già in quell’area di guerra seguita all’invasione del Medio Oriente – sulla cosiddetta Road Map dei neocons americani. Probabilmente tutte queste cose cronologicamente si dettero in parallelo precisandosi a poco a poco nel corso del tempo.
Tazzi agli inizi del 2000, fece anche una mostra all’Istituto Francese di Firenze che chiamò Finale di partita. C’era sì Beckett, ma anche una sorta di addio al mondo occidentale. Si sentiva il bisogno non tanto di un’arte nuova ma di una nostra palingenesi, di un nostro cambiamento.
L’arte, rimane pur sempre qualcosa d’indefinibile che ci riporta ai nostri limiti.

10.
Nel frattempo, Sislej Xhafa, da New York, aveva portato con sé a Lucca un bellissimo libro stampato a Kobe del 2001. Provvidi subito a fotocopiarlo. Era il libro di un giovane artista giapponese e fu amore a prima vista.
Sfogliandolo dall’inizio mostrava foto che non riuscii subito a comprendere né a smettere di guardare. Queste immagini, mi pare mostrassero un ragazzo giapponese, che era lo stesso artista, il quale aveva cercato di allevare un polpo. Il primo tentativo era fallito – il polpo gli era morto. Forse anche il secondo – e questo lo trovavo molto triste. Eppure raccontava tutto questo con serenità disarmata e disarmante e questo mi sorprese. Poi trovò un modo per tenere in vita il mollusco e fu allora che finalmente intraprese assieme al polpo un bellissimo viaggio attraverso il Giappone. Dopo diversi incontri, in fasi della sua vita e dello stesso viaggio, documentati con foto e commenti personali nel suo libro, ho ancora vivida l’immagine del ragazzo sulla spiaggia mentre scaglia il polpo, altissimo nel cielo, verso il mare. In qualche modo riportandolo a casa. Di quell’istantanea pubblicata sul libro, con l’octopus dai tentacoli sospesi nell’aria su un cielo azzurro, mi sembra che l’artista chiosasse: «sembra una stella». Ne rimasi impressionato.

Shimabuku, libro d’artista, Kobe Art Village Center, Kobe 2001

Shimabuku, Then I decided to give a tour of Tokyo to the octopus from Akashi, 2000, still da video

Dunque, Shimabuku, il nome dell’artista, apriva a un mondo semplice e nuovo, quasi infantile. La sua capacità di contemplazione, il suo condividere gli eventi più semplici e talvolta quasi assurdi, come allestire una mostra in un freezer, allevare un polpo, cercare memoria delle sirene, invitare persone all’alba sulla cima di un grattacielo per vedere uno stormo di uccelli spostarsi da una parte all’altra della città, mi sembrava un universo gentile che apriva una pagina nuova al dover (di)mostrare o al risentimento occidentale, capace di trasformare la storia in orizzonte lontano, proprio perché quest’infanzia del mondo precedeva ogni storia adulta e poiché finalmente quel gioco molto serio dei bambini riusciva a trovare un’acqua di sorgente da cui potersi dissetare.

Francoforte su Meno,  25.02.2018

 

 

Nota

[1] Dal 2018 al ’19, ho difatti cercato di iniziare a recuperare memoria del passaggio cruciale agli anni Zero più recenti raccogliendo testi e documenti come ad esempio nel caso di un testo ripubblicato nel 2019 su “Hotpotatoes” di Elvira Vannini (qui)

 

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