Sui veri poeti

troppi poeti

di Giorgio Mannacio

[Giorgio Mannacio riprende  la questione  dei molti o troppi poeti (qui) sullo spunto offerto dal discutibile titolo dato ad alcuni incontri della Casa della Poesia di Milano. E’ corretto parlare di “veri poeti” distinguendoli dalla massa senza esplicitare i criteri di tale scelta?  E’ utopistico parlare di molti poeti in fieri? Se la critica non riesce a star dietro e a valutare la produzione di massa (poetica o parapoetica che sia) e si limita a  considerare un contesto sempre più limitato di poeti, quanto peso (generale) hanno i suoi giudizi e quali potenzialità (probabili) vengono ignorate?  Se non ci si lascia  intimidire dai luoghi comuni (“molti sono i chiamati, pochi gli eletti”, “è andata sempre così”, ecc.), si vedrà che iI problema ha davvero un rilievo politico che a prima vista sfugge. La riflessione di Mannacio ha il merito di ricordarlo (E.A.)]

1.

In un giorno imprecisato di un anno collocabile tra il 1225 e il 1274 Tommaso d’Aquino ebbe a scrivere : “Pulchra dicuntur ea quae visa placent “ ( Summa teologica 1,5,4 ). Nel 2012 Umberto Eco mette fortemente in dubbio il carattere “ trascendentale “ della categoria del Bello, osservando che con l’espressione “ visa placent “ si introduce quella che si suole indicare come l’esigenza soggettiva e psicologica “ non come accessoria ma come coessenziale “ ( Scritti sul pensiero medievale,Milano 2012,315-327 ). Non so – per quasi totale ignoranza in materia religiosa – quali miracoli abbia compiuto l’Aquinate per meritare la beatificazione (pratica la cui frequente utilizzazione attuale suscita qualche perplessità anche in alcuni ferventi cattolici), ma, certo, la sua sentenza – ancora insuperata – sul Bello merita senza dubbio un postumo Premio Nobel. Aggiungo che Tommaso d’Aquino non scrive: “…le cose belle sono…” ma : “ vengono chiamate belle le cose..”, riportando così, saggiamente, il discorso sul Bello dal campo metafisico del Bello in sé alla sfera del giudizio opinabile. Che la massima tomistica possa essere utilizzata anche nei confronti della poesia non sembra seriamente discutibile.

2.
La saggezza dell’opinione sopra riportata manca, invece, nell’operato di una istituzione come La Casa della Poesia di Milano, che comunica, così, in rete, una sua iniziativa: “ Domande a veri poeti. Seconda puntata : C. Viviani e G. Consonni”. Tale iniziativa è destinata, quindi, a proseguire nel tempo. Buona notizia per i “ veri poeti “, triste – forse – per quelli non appartenenti a tale categoria. Sia ben chiaro. Non intendo mettere in discussione il valore dei due poeti indicati né la funzione de La Casa della Poesia nel panorama culturale milanese, ma svolgere alcune considerazioni critiche di natura per così dire “ filosofica “ anche se – ovviamente – vi saranno connessioni con altri problemi. Credo, in particolare, che l’inciso “veri poeti “ sia utilizzato in modo improprio, fonte di qualche equivoco. Mettendo insieme Verità e Bellezza si rischia di rendere assoluta la nozione di Bello (artistico) ed applicare, in qualche modo, ad essa il principio di non contraddizione ( ciò che è vero non può essere falso, principio di valenza universale). Sembra un bel salto indietro.

3.
Correggendo i termini del discorso, l’iniziativa de La Casa della Poesia si riduce ad una (legittima) scelta di alcuni poeti che si ritengono meritevoli di incontro, dialogo e discussione sulle loro esperienze poetiche. Nulla di meno e nulla di più. Si tratta, dunque, di una scelta determinata da un giudizio critico che deve dichiararsi tale senza appellarsi ad una “ verità”, come il titolo porta inevitabilmente a ritenere. Da un punto di vista socio-culturale (che è anche “politico in senso lato“) non si possono chiudere gli occhi “sulla realtà “ ( meno pomposamente: sui fatti ). Vi sono molte “case della poesia “. A volte si tratta di “appartamenti“ più o meno spaziosi, ma le loro dimensioni non contano perché si tratta di un rilevo di tipo qualitativo. Come non si deve e non si può contestare la costruzione della Casa della Poesia di Milano così non si può contestare l’erezione di altre abitazioni di analoga natura. Possiamo – rispetto a queste ultime – aspettarci che annuncino interviste ad altri e diversi “ veri poeti “ ? E come giudicarle? Questo è il problema.

4.
In tutte le istituzioni del tipo descritto non ci si muove ( quasi ) mai senza una linea guida, senza un riferimento, più o meno dichiarato, a un metro di giudizio, a un criterio che orienti la scelta di un poeta rispetto ad un altro e che consigli di intervistare Tizio piuttosto che Sempronio. Più o meno esplicitamente viene invocato e richiamato un “canone“ che dovrebbe rendere legittima l’inclusione/esclusione. Se è sufficientemente chiaro il concetto di canone, ne restano in ombra i contenuti di esso, le sue prescrizioni e ancora più in ombra l’autorità che lo ha imposto come doveroso. A questo proposito e in risposta ad alcune osservazioni di Lucini (che non conosco e che quindi saluto per la prima volta), Ennio Abate ha scritto in questi giorni cose interessanti. Più che esprimere una generale condivisione su alcune sue riflessioni, mi interessa analizzare l’intero contesto entro il quale esse si muovono. La conclusiva diagnosi di E. A. è – se non sbaglio – la costatazione di una intrinseca “ debolezza della critica “. Come non essere d’accordo, in via generale? Aggiungerei – “ eticamente “ ( si licet ) – che spesso si verifica un vero e proprio “conflitto di interessi”, più o meno palese, tra critico-poeta e poeta–critico, ma questo è un aspetto che mi basta solo rilevare. Cerco, invece, di affondare i miei occhi da miope fino al punto che mi permettono i miei occhiali correttivi e pormi questa domanda, che ritengo cruciale: perché la critica non ha saputo o voluto creare una “ canone “ di portata accettabile qui e ora, relativo ad una intera aggregazione sociale? Che vuol dire poi: come si forma e prende corpo tale canone.

5.
A questa domanda ha dato una risposta, in termini generali, H. Boom con le seguenti parole: “ La verità più profonda sulla formazione secolare del canone è che a compierla non sono i critici né gli accademici e tantomeno i politici. A creare il canone sono gli scrittori” (Il canone occidentale, Milano 2008, p. 560), affermazione di straordinaria acutezza ed attendibilità contro la quale chi la contesta ha “ l’onere della prova “. Essa è anche una dimostrazione di grande onestà intellettuale perché proveniente da un critico. A questo punto sono opportune,se non addirittura necessarie, due postille. La prima. Dato che il canone “ viene dopo “ la produzione poetica non si può – senza cadere in contraddizione – sostenere che il critico nel vuoto di essa possa dettare un (proprio) canone. In questa prospettiva l’affermazione di E.A. sulla debolezza della critica letteraria va rivisitata prendendo in esame la situazione “ diversa ed opposta “ di una saturazione della produzione poetica. La seconda. Tale postilla è più articolata e complessa e riguarda una serie di questioni che attengono anche alla storia dell’uomo e cioè all’antropologia. Vanno poste una serie di domande. Ci si deve chiedere quando (tempo storico o metastorico ? ) e come si è passati dall’autore di testi assimilabili alla poesia all’autore – poeta. Si desume da questa impostazione che occorre dimenticare per un momento la figura del poeta per così dire ufficiale e risalire alle origini. E’ una strada che ho tentato ( mi scuso dell’autocitazione) anche su Moltinpoesia e Poliscritture ma senza un grande riscontro. Poco male. In uno di questi interventi ho usato con riguardo al poeta “nascente “ il termine poeta primate e riguardo al poeta affermato il termine poeta sapiens. E’ un itinerario comune anche ad altre esperienze artistiche e che coinvolge addirittura la questione del perché i primitivi abbiano affrescato le caverne di Altamira. Anche rispetto a loro si pone la domanda: quando e come sono diventati “ pittori “ come Giotto ed altri? Quando una persona “ scopre “ che la parola si può usare in modo diverso da quello funzionale “ ai commerci “ e la esperimenta in tal senso è già poeta primate o in fieri che dir si voglia. Posta in questi termini la questione, occorre davvero chiudere gli occhi davanti alla realtà ( meno pomposamente definibile come : i fatti ) per non accorgersi della sovrabbondanza di esperimenti di scrittura poetica. Questo è un dato incontrovertibile. Sulla radice oscura del “ desiderio di scrivere poesie “ ( che Bloom, forse non a torto, fonda sul desiderio di una certa immortalità ) si innestano ragioni concrete relative al nuovo assetto socio-culturale. La scrittura è un modo per così dire banale di comunicare e il suo uso è semplicissimo; tutti sanno scrivere; tutti hanno buoni sentimenti; tutti hanno un certo orecchio alla “ poeticità “di alcune parole; tutti sanno trovare una rima; tutti intuiscono, attraverso la storia raccontata anche dai minuti particolari di una toponomastica cittadina, che al poeta spetta un qualche onore. Infine: nello scrivere poesie o presunte tali non v’è la resistenza del materiale (colori,marmi, etc. ) che implicano, di regola, capacità tecniche specifiche. Non si tratta – dunque – di parlare di “ troppi poeti “, termine in cui è insita una valutazione negativa – ma di una moltitudine di poeti in fieri, idest potenziali creatori – secondo la tesi di Bloom- di canone (nel nostro caso: di canoni disparati). La debolezza della critica è dunque intrinseca alla comunicazione di massa, alla scolarizzazione diffusa, alla democratizzazione della cultura , alla invenzione di nuovi modi di comunicazione, alla disintegrazione di aree di cultura comune (cultura operaia, cultura contadina, etc. ), fenomeni ineliminabili del nostro tempo e che si possono sinteticamente definire, con un termine onnicomprensivo “ pluralità di aree socio-culturali-politiche. A ciascuna di esse corrispondono – non possono non corrispondere – contenuti e modi espressivi diversi. Una critica accorta dovrebbe dunque prendere atto di ciò e dichiarare esplicitamente o implicitamente che la platea degli scrittori di poesia (i poeti in fieri) è praticamente indeterminabile e non dominabile con l’adozione di un unico canone. Preso atto di ciò dovrebbe dichiarare la propria incapacità di valutare un’ omogenea esperienza poetica e dichiarare la limitatezza se non parzialità delle proprie valutazioni. Non dunque “ poeti veri “ ma poeti scelti in un contesto limitato di poeti, secondo criteri privi di validità generale. Insomma – per tornare all’Aquinate – poeti le cui opere piacciono a chi le sceglie. Conclusione che può essere consolatoria o mortificante a seconda dei punti di vista,ma non eludibile, almeno a mio giudizio.

6.
Mi piace pensare che questa mia meditazione, nei suoi eccessi e astrazioni ma anche nella sua ferma osservazione dei fatti, possa aprire qualche prospettiva di discussione realmente utile. E – convinto come sono che l’esperienza poetica non possa prescindere da una “ dimensione etica “ – concludo con le parole – intrise di concreta saggezza, arguzia e moralità, secondo il costume della cultura anglosassone – di W. Hazlitt (riportate da Bloom: opera citata, 564 ): “ Ho più fiducia nei morti che nei vivi. Gli scrittori contemporanei possono essere generalmente suddivisi in due classi: i propri amici e i propri nemici. Dei primi siamo costretti a pensare troppo bene e dei secondi siamo propensi a pensare troppo male….”. Se poi nell’amicizia e nell’inimicizia finiscono per giocare – in vario modo che sarebbe utile indagare – l’economia e la politica….si “ salvi chi può” ( D. Campana: Opere, ed. Tea, Milano ,1989,254 ) .

aprile-maggio 2014.

13 pensieri su “Sui veri poeti

  1. Caro Ennio Abate,
    non si tratta di veri o falsi poeti, né di problemi di quantità, né di qualità – il signor Mannacio deve rileggere (se li ha già letti: ha dimenticato!); se poi non li ha letti: è meglio non parlarne…. leggere chi? : i grandi Maestri russi (non solo russi di quel tempo) della critica formalista e oltre, e in primis Viktor Sklovskij, Roman Jakobson e Jury Tynjanov, e altri di non minore valore (ma non mi mettete Croce in mezzo che era già da tempo da questi superato!). Il problema che questo signore si pone con un ritardo di quasi un secolo, già da quelli fu risolto, e passarono ad altro. Lo stesso U. Eco discende da quelli, ma ha fatto pochi gradini in più e nella direzione errata, questo perchè non è andato a fondo a quelle problematiche che credeva di aver compreso…. a fondo! Comunque, quando si dice Casa della Poesia non si dice nulla di nuovo in questi tempi; invece nei tempi di quei russi e non, v’erano decine di “Casa della Poesia” e avevano un senso che esistessero… in questi tempi è insensato!
    Antonio Sagredo

    1. Caro Antonio Sagredo,
      se “a quei tempi” c’erano decine di Case della Poesia, cosa facevano? Per quel che ne so tentavano tra mille difficoltà, equivoci, approssimazioni di far scendere la poesia dal Celestiale simbolista e metterla a contatto con il terra terra della quotidianità sconvolta di quei tempi rivoluzionari ( si veda questo saggio di Paola Quadrelli su “Concretezza e sentimento. Marina Cvetaeva, Taccuini 1919-1921” su Le parole e le cose, che ho segnalato sia a te che all’amico Paolo Statuti: http://www.leparoleelecose.it/?p=14917, ma tutto lo sforzo di Vladimir Majakovskij, che tu hai studiato meglio di me).
      Perché allora dovrebbe essere “insensato” lo sforzo nostro (dico di blog o di case della poesia) sia pur condotto in tempi diversi, meno perigliosi ma più scivolosi e ambigui? Specie se persegue in fondo quegli stessi obiettivi antielitari e cerca di farlo in modi critici senza pigliare per buona ogni spazzatura o sfogo?
      Perché dovremmo, invece, ridurci a cerchie settarie, che officiano ambiguamente il Culto dei Grandi (i formalisti russi o altri, perché poi ogni nazione ha i suoi…) o dei “veri poeti” e sputacchiano sulle masse dei poetanti o similpoetanti o poetastri?
      Ti avevo già replicato un’altra volta, discutendo di Dante e Mandel’štam, che trovo sterile e snobistico (tra l’altro uno snobismo molto diffuso in basso, perché di veri snob in alto di questi tempi non ne vedo in giro) questo Culto. Quei Grandi tali sono in quanto hanno aperto nuove possibilità proprio ai molti ed erano insofferenti dei Recinti per Pochi. Distorcene il messaggio, usarlo per tenere alla larga gli “ignoranti” o i “profani” (non dico gli arroganti e i presuntuosi che andrebbero bacchettati) e dare una qualche investitura di grandezza solo a se stessi o ai propri amici questo, sì, mi pare insensato.

      1. Al signor Antonio Sagredo.
        Egregio Signor Sagredo,nel mio scritto – oggetto della sua attenzione – ho criticato in modo – penso – garbato una recente iniziativa della Casa della Poesia di Milano pensando di cogliere nel fondo di essa qualche fonte di equivoco.Ho letto anch’io diversi testi di storia della letteratura,di critica letteraria e poetica e di linguistica (compreso Jakobson da lei citato ). Ovviamente so che non si legge mai abbastanza ma – nello stesso momento – sono convinto che le nostre letture non ci mettonoi al riparo da errori ed opinioni sempre criticabili da altri. A tali letture ho accompagnato – oltre a esperienze di scrittura – anche l’osservazione di fatti ai quali necessariamente dobbiamo sempre volgere la nostra attenzione,cercando di spiegarne la struttura, la qualità e gli effetti. Mi spiace dunque il tono di leggera sufficenza che ha accompagnato – mi pare – la sua lettura. Non replico se non per osservare soltanto che i fatti non sono né sensati né insensati: sono fatti che occorre spiegare se si vuole spiegarli.
        I più cordiali saluti. Giorgio Mannacio.

  2. Carissimo, mi hai frainteso, e non è la prima volta. Non intendo colpire chicchessia, né tanto meno il blog o altra cosa, o altro autore: mai ho pensato alla Poesia come cosa settaria o d’elite; né tanto meno per snob o per glorificare o glorificarmi: non ne ho necessità. Ciò che scivo e di co o faccio ecc. è stato sempre con disinteresse e quand’era necessario con distacco; non mi interessano gruppi e gruppetti, ecc. – non mi interessano quiesta cose “mortali/immortali”… io scrivo versi e nei versi c’è tutto quello che amo e disprezzo, mescolati, ecc.
    Che cosa facevano? Stai scherzando? Quelle “Case…” (ma Tu confondi con le Torri d’Avorio simboliste!): Quel libro sulla Cvetaeva che Tu mi suggerisci l’ho letto stanotte e devo dirTi da conoscitore che poco o nulla aggiunge a ciò che ghià si sapeva, comunque è lodevole la studiosa, la traduttrice ecc. – Vi sono scritti di quell’epoca molto più spietati su quella realtà spietata. E insensato non è il “vostro sforzo” : nessuno sforzo è insensato, anzi è positivo che si dia un senso ad ogni cosa!
    comunque Ti ripeto, non Ti inalberare più di tanto… nella mia visione delle cose umane tutto mi converge: la bassezza come l’altezza degli eventi umani: mia nonna era figlia di contadini: analfabeta… conosco bene la realtà di quei tempi, conosco bene il genocidio “meridionale” (per stare nella mia terra – il Salento e luoghi vicini), conosco bene gli infanticidi: noi del meridione il lager li avevamo in casa: oggi i lager o gulag ci sono lo stesso più raffinatamente mascherati!
    I miei versi hanno la tendenza di denunciare – in altro modo che gli altri – fino alle radici ogni cosa-.
    Antonio Sagredo, sempre con benevolenza
    (ma non mi rispondere più o meno acrimoniosamente).

  3. condivido di fondo l’impostazione delle tesi di Mannacio. Alik Cavaliere scriveva che l’arte si è assestata nei “sorroundings”, per indicare la perdita di centralità di riferimenti: e perché non dovrebbe essere così per la poesia? O si teme forse che la moltiplicazione delle voci offuschi l’immagine e la rappresentazione di sé di chi si è già conquistato un suo spazio? Il punto è che dietro certe pretese di ristabilire un criterio inequivocabile di verità poetica (che presuppone se non il falso, quanto meno l’inautentico nel caso degli altri)si avverte la latitanza di senso critico e, spiace constatarlo, della critica in quanto capace di operare ricognitivamente nel senso più ampio del panorama della produzione poetica. Per come stanno le cose, in una situazione in cui chi dispone di una maggiore cassa di risonanza (istituzione o casa editrice che sia) detta la linea e gli altri possono solo assistere da spettatori, ben vengano le discussioni sui blog e gli interventi “non autorizzati”. Sarà una nuova forma di critica “corsara”, ma vivaddio almeno più vivace, penetrante e pervasiva. Mi scuso se mi sono permesso questo sfogo, spero non inappropriato
    Giovanni Schiavo Campo

  4. Diciamo che la scelta della Casa della Poesia di Milano ( di titolare, ecc. ) è stata decisamente infelice , e credo sia stata percepita un po’ da tutti – poeti laureati diplomati o improvvisati – come presuntuosamente estensiva di una istituzionalità di Casta che si ascrive gratuite definizioni di “valore”. Peccato , perché così si scade in immagine e credibilità . Ma credo che i Reggenti se ne siano già pentiti .
    leopoldo attolico –

  5. A Schiavo Campo.
    Essere capiti nella ” impostazione di fondo ” – come lei dice – è una delle soddisfazioni di chi sostiene una tesi e cerca, come ho fatto, di argomentarla. La ringrazio vivamente . Mi pare di capire che la sua esperienza artistica è prevalentemente visiva e ciò rafforza il mio grazie dato che da mero fruitore ho seguito e seguo la pittura con interesse e che alcune delle mie considerezioni partono proprio dall’avventura pittorica. Un cordiale saluto. Giorgio Mannacio.

    1. A Giorgio Mannacio
      la mia esperienza sul versante visivo è prevalentemente sul piano critico e solo più di recente si è rivolta all’ambito della produzione di immagini, ma come veicolo di trasmissione di miei testi poetici. Se per caso è curioso di vedere uno dei miei esperimenti di videopoesia, può digitare il mio nome su Youtube. Grazie per la cortese risposta.
      Giovanni Schiavo Campo

    2. diciamo di vivere in una società multietnica, multiculturale, all’insegna dell’ibridazione e della mescidazione dei linguaggi e delle esperienze. Canoni, accademie, riconoscimentir ufficiali: che cosa conta tutto questo? L’unica possibilità che ancora resta è l’introiezione di tutto ciò è appare alieno nella propria pratica, nella propria esperienza, persino nella propria corporeità. Qui non si tratta di essere “veri” nel senso di una qualche “purezza” culturale o mentale (è la strada dell’Apartheid o delle “purghe”): si tratta di essere “sostanziali” (o magari sostanziosi), nel senso di sostanziare, di filtrare in sé e nella propria espressione la realtà del mondo. Forse, allora, si riuscirà a scoprire che c’è ancora molta “bellezza” (se mi si concede questa espressione) sul piano poetico da esprimere. Meglio comunque essere ipertrofici, bulimici, smisuratamente affamati di tutto e del contrario di tutto, anziché concedere che il deserto avanzi fino a non riuscire a dire più nulla (anche se magari in questo modo si viene riconosciuti come dei modelli).
      Giovanni Schiavo Campo

  6. Il canone: qualcosa che sia poesia, e poesia soltanto; abbastanza concentrato da poterne ricavare degli ibridi, non dei surrogati a base di. Toccherebbe all’Accademia se fosse un’entità davvero esistente e non un pensiero diffuso, trasmesso nella coscienza collettiva dei poeti da non si sa chi o per quale sorta di meccanismo fantaculturale. Purtroppo non esiste, è come Dio: è in ogni luogo ma ha le sue chiesette sparse, dette Case della poesia.

  7. …incomincio con un commento all’immagine. Vi compaiono i volti di bambine di una volta, con cuffiette lavorate a mano, che manifestano nelle espressioni e nei gesti meraviglia e quasi incredulità davanti (penso) alla prima visione di una proiezione cinematografica, una vera diavoleria del progresso…Che anche il fenomeno dei Moltinpoesia sia da considerarsi una diavoleria del nostro tempo? Che viene a sconvolgere l’idea élitaria dell’arte? In fondo anche il cinema non é stato subito accolto tra le Muse…Qualche volta penso che il popolo poetante sia da considerare nel suo insieme più che per i singoli componenti: come un mandala indiano dai granelli di sabbia coloratissimi a formare strane geometrie, poi tranquillamente disperso dal vento, come tutte le cose del mondo…un grumo di testimonianze, conoscenze, fantasie
    come le infinite esperienze umane. Ma é poi impossibile prescindere da altre riflessioni…Certo questo fenomeno é nato con il difondersi della cultura di massa che é un bene (mi rifaccio alle riflessioni di G. Lucini in un post precedente) perchè tutti possiamo attingere alla sorgente dell’arte e della conoscenza in quanto uomini e donne. Ma purtroppo poi intervengono gli interessi delle Case Editrici non sempre oneste, e un’opera di selezione che tende a promuovere alcuni e a tenere in ombra altri, non meno o più validi. Qui la necessità di canoni di critica, più che di un solo canone , che siano anche aggiornati ad un’idea della poesia che si confronti con il nostro tempo. Giustamente sia Giorgio Mannacio che Ennio Abate ritengono quasi impossibile confrontarsi con tutta la produzione del popolo poetante e, ancor più, senza nuovi criteri di critica. Anche perchè la soggettività entra sempre in gioco. Come allora affermare chi sono “i veri poeti” come oggi fa la Casa della Poesia di Milano? Mi interessa anche chiedere spiegazione sulla frase di Antonio Sagredo ” il poeta va fino in fondo…”,

  8. a Giovanni Schiavo Campo
    Credo che lei abbia sintetizzato molto bene alcune idee che circolano intorno alla mia riflessione sui ” veri poeti “, riflessione certamente un po’ lunga,ma necessariamente, volendo essere analisi critica da un lato e ricostruzione di opinione dall’altro. Lei parla della necessità di essere ” sostanziali ” ( ma anche sostanziosi nella sua accezione concreta e fattuale mi sta bene ). Posto che ogni testo va letto con due occhi ( uno rivolto all’insieme e l’altro alle singole componenti-parole di esso ) ho creduto corretto associare sostanza ed esperienza ( termini che ricorrono nelle sue osservazioni ) e trarre questa conclusione che penso non arbitraria.Non è tanto la ” verità ” che interessa quanto il concreto immergersi nella ” realtà ” ( cosa sia è poi un altro bel discorso ) ,contagiarsi con essa e darle un senso. Spero di avere colto la sua indicazione. Con cordialità. Giorgio Mannacio.

    1. caro Mannacio, sottoscrivo pienamente il suo commento. Ha colto in pieno ciò che intendevo esprimere. Occorre superare il diaframma frapposto dal straordinario dispiegamento dei mezzi tecnologici odierni con la materia viva e caotica del presente in cui possiamo solo immergerci, per ri-creare, momento per momento, la poesia. Un caro saluto

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