L’uomo in ansia

uomo sotto il lampione

di Franco Nova

Da due ore ormai, ancor prima che cominciasse ad imbrunire, l’“uomo in ansia” era sotto il lampione all’angolo tra via Fontina e via Gattinara, camminando su e giù a scatti, fermandosi e ripartendo, voltandosi bruscamente non appena si allontanava troppo dal lampione. Girava l’indice tutto dentro il collo della camicia come si sentisse stringere la gola pur avendo la camicia aperta. Subito dopo si fregava freneticamente le mani; soprattutto il polpastrello dell’indice destro continuava ad incalzare il palmo dell’altra mano, rischiando di provocargli qualche lesione cutanea. Poi tentava di fermarsi mettendosi in equilibrio su un piede solo, ma resisteva due secondi, sbandava, si riprendeva e ripartiva a testa bassa come un toro infuriato in piena carica. Si slacciava la cintura, contava quanti buchi fossero rimasti nel caso fosse ingrassato, si riallacciava, ma sembrava scontento come se l’avesse troppo stretta sulla pancia un po’ pingue; allora si slacciava nuovamente, contava i buchi e riallacciava. Tentò una variazione: camminare con un piede su e l’altro giù dal marciapiedi; uno sciocco diversivo di cui presto si stancò.
Intanto sbuffava e imprecava perché si faceva buio e non venivano accesi i lampioni; “spilorci di amministratori” – ringhiò – “sono economie da morti di fame!”. Alla fine, con un bagliore improvviso, il lampione si accese e la luce cominciò a prendere vigore; nel giro di 15-20 secondi fu al suo massimo. L’“uomo in ansia” ebbe così la sua ombra che si allungava e accorciava a scatti, seguendo i movimenti nervosi del suo portatore. Un’idea, che gli apparve geniale, attraversò la mente dell’agitato passeggiatore: porsi in una posizione tale rispetto al lampione che la sua ombra sul lastricato fosse lunga quanto lui era alto. Si ricordava di essere 1,78. Iniziò così a concentrarsi sul nuovo brillante compito, spostandosi lentamente e cercando di misurare la lunghezza della sua ombra. Complicatissimo; ora gli sembrava 1,80, ora 1,76. Stralunava gli occhi, fissi sull’ombra, evitando fino al bruciore più intenso di sbattere le palpebre. Adesso forse era a 1,79; no, più facile 1,77. “Accidenti, dovrei avere con me una persona dotata di metro per risolvere questo problema”.
Lasciò perdere, inutile tentare di calmarsi in quel modo. L’attesa era sfibrante, non ne poteva più, riprese il suo deambulare a scatti, come un pollo, sempre aggirandosi sotto il lampione, attanagliato dal terrore: “e se non venisse?”. No, impossibile, nemmeno quella sera! Era quasi un mese che attendeva, che ripeteva ogni giorno a quell’ora il suo rito; non avrebbe resistito alla delusione, avrebbe commesso qualche “sciocchezza”. In quel momento, apparve un po’ traballante, il rotondo “omino dell’osteria”. Aveva finito di cenare con la sua “vecchia”, in rigoroso silenzio; adesso aveva diritto alle sue due ore all’osteria lì vicino, a metà di via Fontina, con gli altri ubriaconi suoi amici. Amici? Si fa per dire: dieci-quindici “ombre”, qualche discorso sulla “vita da cani” di tutti i giorni, una sbirciata ogni tanto alla televisione senza nulla ascoltare nel frastuono del locale, risate incomprensibili tanto per tirarsi un po’ su e poi, con la lucidità di un lobotomizzato, il ritorno dalla “sua vecchia”, che avrebbe trovato già addormentata e in assordante russare.
L’“omino dell’osteria” si accorse subito dell’“uomo in ansia”; impossibile non notarlo per il suo atteggiamento di incontenibile agitazione. Rimase titubante, perché era omino schivo e non voleva disturbare, ma alla fine la sua naturale bonomia, unità a quella certa quantità d’alcol che aveva già ingurgitato a casa, prevalse: “Ha perso qualcosa signore, ha bisogno di aiuto?”. L’“uomo in ansia” fu come colpito da una pistolettata, non si aspettava di essere apostrofato; prese comunque l’occasione al balzo per allentare la sua tensione: “No grazie, non ho perso nulla, è semplicemente un bel po’ e non arriva nessuno”. “Capisco – disse l’“omino dell’osteria” – in effetti è noioso aspettare qualcuno che ritarda, la gente non si rende mai conto di come sta uno che attende”; “Mah, veramente non potrei dire che sia in ritardo, solo che lo aspetto da troppo tempo’”. L’“omino dell’osteria” rimase un po’ perplesso di fronte alla risposta, ma non ci fece troppo caso: “Se mi dice che tipo è, com’è fatto, magari vado fin nell’altra via a vedere se qualcuno attende, può essere che abbia capito male il luogo dell’appuntamento”.
A questo punto, l’“uomo in ansia” lo guardò con vera sorpresa e sconcerto: “Ma io non so come sia fatto, non so chi sia, nemmeno se è uomo o donna. Scusi, ma se sapessi chi deve arrivare, le pare che sarei così agitato solo per un banale ritardo? Non so chi deve arrivare e quando; è proprio questo che mi sconvolge”. Fu l’altro ad essere ora sconcertato, più precisamente a restare di sasso. Ebbe la netta sensazione che l’uomo nevrotico non dovesse essere proprio in sensi; forse aveva bevuto anche lui. Comunque, era educato e non si permise alcuna osservazione; solo disse: “Potrebbe forse farmi compagnia, vado all’osteria laggiù, dove passo un paio d’ore con amici. Lei potrebbe prendere quello che vuole, ad esempio una tisana, una camomilla, si riscalderebbe un po’ e poi vedrebbe se continuare l’attesa”. L’altro, a questo punto lo guardò proprio con commiserazione: “Scusi, ma se venissi con lei e poi l’altro arrivasse, per una tisana o qualsiasi altra cosa avrei perso l’incontro che attendo da quasi un mese. Ogni sera sono venuto qui e mi sono fermato finché non hanno spento i lampioni. Adesso, per qualche minuto di rilassamento, potrei dovermi pentire”.
L’“omino dell’osteria” era sconvolto, ma non lo diede a vedere, solo balbettò: “Come noterà, dall’osteria si vede questo lampione; starebbe sulla porta, ma dentro al caldo e anche seduto, così vedrebbe se arriva stando comodo”. L’“uomo in ansia” fu veramente scoraggiato: “Le ho detto che non so chi sia, come sia fatto; ovviamente nemmeno lui (o lei) mi conosce, se passa tira dritto e se ne va; da lontano non saprei se è quello giusto. Se sono qui ho qualche probabilità in più, potrei sentire che ha un odore speciale, una camminata assai diversa dalle solite, mi darebbe magari un’occhiata dalle quali si intuisce il destino; insomma, una qualsiasi cosa che denotasse che è esattamente chi attendo”.
L’“omino dell’osteria” capì che non era aria per lui, meglio filare al più presto, quel tipo non era decisamente normale; non aveva nemmeno bevuto, ne era più che convinto, era proprio uno che non avrebbe dovuto trovarsi in quel posto. Salutò con gentilezza, ma anche un po’ freddamente, e si diresse alla “sua” osteria dove ormai, ne era sicuro, gli amici di bevuta si stavano spazientendo. L’“uomo in ansia” ricambiò appena il saluto e, per un momento, stette fermo a osservarlo mentre si avviava nel luogo fatale del suo serale rimbambimento. Scosse la testa e borbottò fra sé e sé: “Si può essere sicuri che mi avrà preso per matto e racconterà il suo bizzarro incontro, sollevando grasse risate tra quei semialcolizzati”.
Riprese il suo andirivieni a scatti sconnessi e la rabbia montò in lui: “Quel tanghero, come tutti gli altri tangheri che circolano normalmente per le strade. Non attendono nulla, non un incontro che apra loro nuove prospettive, non una persona che aspettano ma senza sapere chi sia e da dove possa arrivargli tra capo e collo. Hanno sempre bisogno dell’usuale, del sempre eguale, senza scosse, senza tumulti del cuore e della mente. Tutto è inscritto in loro come lo fosse da millenni in una specie animale primitiva. Hanno l’anima fissata a binari lunghi come tutta la loro vita, sui quali il loro treno corre senza che vi si aggiunga né si stacchi un solo vagone. Sempre gli stessi vagoni, con gli stessi passeggeri, con gli stessi controllori, con sguardi, discorsi, sollecitudini e svenevolezze sempre identici. Le fermate sono quelle ogni giorno, ogni giorno scendono e salgono quelle persone, viaggiano insieme annoiati, distratti, senza mai aspettarsi nulla che li emozioni, nulla che li coinvolga e magari stravolga”.
La sofferenza dell’attesa si era fatta insopportabile, i muscoli delle gambe rigidi, ma strinse i denti: “Che mi pensino pazzo, ma non farò la loro stessa fine. Che arrivi qualcuno oppure no, sarò sempre in attesa, pronto ad accogliere la sorpresa, a rimanere esaltato o annichilito dal nuovo incontro, a cadere nella delusione e amarezza ad ogni nuovo giorno che passa senza novità, ma rimettendomi in marcia ad ogni calar del Sole per accogliere il notturno visitatore, che mi si preannuncia ognora invano eppure con la tacita promessa che infine giungerà improvviso, mi sorriderà e dirà: ‘sono qui, adesso rinnovo la tua vita’. Questo è vivere, non lo scorrere dei giorni senza data, nel flusso indistinto che rende la vita un blocco compatto, da buttare tutto insieme nella fossa con una sola palata”.
Era comunque meno frenetico, la convinzione d’essere diverso lo rendeva appena meno ansioso, perfino un barlume di speranza si riaccendeva, non più per quella notte, ma per le future. Dopo un paio d’ore, l’“omino dell’osteria” uscì barcollando; per quanto ubriaco fradicio, prese le sue precauzioni per rifare la strada del ritorno con un giro più largo onde evitare d’incontrare il personaggio che vedeva aggirarsi ancora sotto il lampione. Si diresse a casa; e non ha alcuna rilevanza seguirlo nel suo normale rincasare, nel suo sbrigativo spogliarsi e buttarsi nel letto della moglie ronfante per sprofondare nel rauco russare di una notte come ogni altra, di ogni altro omino del suo genere sempre eguale.
Anche l’“uomo in ansia” fu sollevato nel vedere che l’omino aveva seguito una direzione diversa per non incontrarlo; due volte la stessa ottusa ovvietà in così breve tempo sarebbero state sfibranti. Doveva essere ormai notte inoltrata, fra non molto avrebbe cominciato ad albeggiare e poteva tornarsene verso il luogo da dove era venuto. Gli venne però subitanea in testa una considerazione fastidiosa: “E’ da quasi un mese che aspetto qui tutte le sere. Criticavo l’omino di prima per la sua ovvietà e la vita uniforme e piatta. Se aspetto tutte le sere l’incontro decisivo nello stesso posto, divento anch’io usuale, ripetitivo, un conformista. Divento l’‘uomo in attesa’ ma di un’attesa sempre la stessa, sempre nello stesso luogo. Rifaccio anch’io ogni sera la medesima strada da casa mia al lampione di questo incrocio e viceversa. Inutile allora criticare gli altri, i tangheri la cui vita scorre lungo vie obbligate dalla consuetudine dei mediocri. Da domani sera mi sposto nella via del Rigoglio, e lì attenderò per non più di una settimana e poi cambierò ancora”.
Si sentì sollevato, finalmente sarebbe stato diverso dagli uomini qualunque, dai beoni dell’osteria, da quelli che erano a casa a ronfare davanti alla TV. Si incamminò lungo la via del ritorno. Dopo sì e no dieci metri fece un nuovo gesto di scoramento: “Pur se anche cambio ogni settimana il luogo dell’attesa, sarò comunque l’‘uomo che muta ogni dato periodo il posto dell’attesa’. Sempre lo stesso compiersi del perpetuo finto rinnovamento, che è in realtà un’estenuante ripetizione. Devo rassegnarmi: non mai fermarmi in nessun posto fisso, tutta la notte a girare per ogni strada di questa insipida cittadina, e rigorosamente a casaccio senza nessun percorso prefissato”. Si immaginava la fatica della realizzazione di questo progetto, ma si sentì sollevato dalla soluzione. “Macché soluzione” – disse dopo qualche altro passo – “se quello o quella che attendo non arriva, sarò semplicemente l’‘uomo errante in perpetuo’, sempre eguale a se stesso, sempre in fremebonda attesa del ‘non arrivo’; solo se finalmente irrompesse questo ‘arrivo’, potrei essere diverso dagli altri, sarei autorizzato a sentirmi superiore ai ‘normali’ che infestano e imbruttiscono il mondo. Chi mi può garantire un tale arrivo, un incontro finalmente diverso? Nessuno, tutto è affidato al caso, alla cosiddetta fortuna, mai benigna verso chi è in consapevole attesa della sorprendente novità”.
Era scoraggiato, l’impossibilità di sfuggire all’immersione e annegamento nel flusso degli uomini medi, di coloro che s’incamminano lungo percorsi ad un certo punto ripetitivi, malgrado il tentativo di alcuni, come lui, di rompere i soliti ritmi, gli era ormai evidente; non vi era da nutrire alcuna speranza di reale rinnovamento se nessuno fosse arrivato, se l’attesa si fosse prolungata oltre ogni limite dell’umana resistenza. Era ormai sul “ponte dei Sospesi”, sotto scorreva un’acqua tranquilla, che sapeva profonda. Un lampo: “Ecco un atto unico che non si può ripetere, che mi renderà veramente diverso, non più mediocre”. Scavalcò il parapetto e si gettò di sotto.

11 pensieri su “L’uomo in ansia

  1. …L'”uomo in ansia”, di un’ansia nevrotica ad altissimo livello, e chissà come ci era arrivato, non fa che attendere qualcuno che rinnovi la sua esistenza, che lo faccia sentire speciale, non vuole confondersi con l’uomo mediocre che marcia sempre sugli stessi binari, come l'”omino dell’osteria”…Quando però capisce che qualsiasi sforzo faccia per uscire dalla ripetitività dell’esistenza fallisce, perchè è una dimensione umana, forse una gabbia dalla quale non ci si può liberare, si toglie la vita…Un circolo vizioso di pensieri, che non lascia scampo, forse perchè l'”uomo in ansia” non ha alcun baricentro interiore, nè si ama, nè ama…L'”omino dell’osteria”, magari non lo sa dire, ma è affezionato alla sua vecchia e agli amici ubriaconi, è molto legato al suo scampolo di esistenza. Si potrebbe pensare che entrambi non offrono un grande esempio: con il primo la vita scomparirebbe, con il secondo sarebbe destinata a perpetuarsi in tonalità bassa, senza grandi valori…Tuttavia, penso io, finchè c’è vita c’è speranza…

  2. …volevo aggiugere un grazie a Franco Nova per questo racconto che è scritto e costruito molto bene: il personaggio, “l’uomo ombra”, all’inizio riesce ad incuriosire e persino a farci sorridere con i suoi comportamenti nevrotici, ma fantasiosi, mentre il finale a sorpresa lo trasforma in un personaggio tragico…Siccome so che F. N. nei suoi racconti ci offre sempre il suo sguardo sulla società, in questo caso, è sicuramente descritta come malata: chi in preda ad un desiderio di grandezza, che però non è in grado di soddisfare, sempre in attesa di un intervento esterno, sino al suicidio oppure di debolezze quotidiane e inconcludenti che permettono solo di vivacchiare…

  3. No, non mi sposterò in via del Rigoglio, e nemmeno sul Ponte dei Sospiri, più duramente concreto del brutale ponte dei Sospesi, sto nelle vecchie mene, nelle tresche poco drammatiche

    quasi forse come se
    fosse l’ultimo giorno di parlare
    di comunicare di insegnare
    e di capire il dire – come me
    farsi capire ascoltare
    l’altrui dire e interrogare
    parole che corrispondono sole
    all’altrui vivere

  4. L’uomo in ansia (un idealista?) che attende uno sconosciuto ( o sconosciuta?) che dovrebbe cambiare radicalmente la sua vita e renderla davvero diversa da quella degli altri (un messia? una dea?) fa pensare a “Aspettando Godot” di Beckett.
    Il personaggio è alle prese con le proprie inquietudini ed ingabbiato in vani riti di rassicurazione. Il dialogo fra lui e l’uomo dell’osteria, che potrebbe essere il doppio dell’uomo dell’ansia e svolgere il ruolo del senso comune svolto dal Sancio Panza cervantiano, non quaglia però nulla, non diventa in qualche modo cooperazione. Sia per il solipsismo dell’uomo d’ansia sia per la maniera dimessa, reticente e poco motivata dell’uomo dell’osteria. Del tutto sullo sfondo resta poi la folla indistinta e repellente («gli altri ubriaconi suoi amici»), a cui andrebbe aggiunta, altrettanto repellente, l’unica figura femminile evocata («la sua “vecchia”»).

    Il dialogo tra i due mi pare troppo prolungato. Come mi paiono troppo prolungate le due sequenze successive che prende il racconto:
    a) l’attesa dell’uomo dell’ansia che si stravolge in attacco misantropo agli uomini comuni (alla “massa”, alla folla indistinta ma temuta);
    b) l’autodifesa orgogliosa della propria diversità rispetto a loro; eccezionalità che in fondo è un intestardirsi in un delirio solipsistico («Che arrivi qualcuno oppure no, sarò sempre in attesa, pronto ad accogliere la sorpresa, a rimanere esaltato o annichilito dal nuovo incontro»).
    Successivamente l’uomo d’ansia riconosce (ma lo fa sempre e soltanto in solitudine orgogliosa) quanto sia monotona la sua attesa; e quanto la sua somigli alla vita degli altri («i tangheri» mediocri) da lui disprezzati. Ma da questo punto in poi si rafforza la soluzione nichilista.
    E qui – interpreto io, eh! – credo che essa sia obbligata, scontata. Perché l’uomo d’ansia non ha voluto sondarela possibilità di incontrarsi con l’uomo dell’osteria e i suoi amici beoni e di conoscerli di più, di andare oltre l’apparenza.
    Immaginarsi che piega potrebbe prendere il racconto se l’uomo dell’ansia accogliesse l’invito dell’uomo dell’osteria non mi pare una idea narrativamente infeconda. Che cosa potrebbe scaturire d’imprevisto dall’incontro tra l’uomo d’ansia allenatosi all’attesa di qualcosa di straordinario e l’uomo dell’osteria e i suoi compagni beoni bloccati in ottuse abitudini da bruti? E inevitabile che l’uomo d’ansia, se l’incontro ci fosse, sarebbe trattato da pazzo? Non è che quell’ansia possa essere annidata anche in quei beoni in altra forma?
    Invece il mancato incontro fissa entrambi definitivamente nei loro modi stereotipati di vivere. All’uomo d’ansia , che sicuramente a Nova sta più a cuore, restano perciò solo due destini, imposti e in fondo non dissimili: «immersione e annegamento nel flusso degli uomini medi» che egli disprezza o solitario e orgoglioso annegamento nell’«acqua tranquilla, che sapeva profonda».
    Ma per affermare un sua diversità alquanto astratta.
    Questo racconto comunque è pieno di implicazioni complesse e interessanti.

  5. E’ perfino superfluo ripetere che chi scrive ha in testa un certo svolgimento di dati processi della nostra vita, mentre chi legge segue magari un altro ordine di idee. Tuttavia, anch’io ho pensato in effetti a Godot, ma un po’ superficialmente. Ho anche avuto un pensiero per Sancio, ma certamente quest’ultimo ha ben altra saggezza e perfino una certa lucidità e realismo. In ogni caso l’uomo in ansia non è Don Chisciotte. Personaggio a me non proprio simpatico perché non amo il donchisciottismo, anche se quel romanzo è il mio preferito. Nemmeno l’uomo in ansia mi è simpatico; è lucido nel considerare la medietà del vivere della gente detta comune. E avevo ben presente ciò che Pasolini afferma dell’uomo medio ne “La ricotta”; la filippica dell’uomo in ansia non vuol esserne una semplice ripetizione, ma intende sostenere la stessa rabbia contro la mediocrità e la decisione di non uscirne, tipica degli uomini medi. Non tanto il disprezzo, ma proprio la rabbia contro il mediocre che sarebbe in grado di compiere almeno un piccolo sforzo in più, ma si rifiuta perché in definitiva è abbastanza vigliacco. Tra il donchisciottismo e questa viltà, è indispensabile trovare una via diversa (e, per favore, non diciamo una via di mezzo, altra banalità del mediocre). L’uomo in ansia non vede arrivare nessuno in grado di far uscire dalla stantia ripetizione dei riti solo apparentemente frenetici della modernità, in realtà solo ripetitivi della stessa incultura, grossolanità, superficialità del sentire e del volere di questi tempi grami. A questo punto, egli si perde nel pensare ad ogni possibile fuoriuscita dalla ripetizione, vede in qualsiasi soluzione sempre questa ripetizione e dimentica di fatto che egli si era posto nella prospettiva di incontrare qualcuno o qualcosa che cambiasse la vita (apparentemente la sua, in realtà quella della società). Senza però avere nemmeno la più pallida idea della vita che gli sarebbe piaciuto vivere né, in definitiva, della vita che invece stava vivendo e di come fosse possibile mutarla. Inoltre, questo qualcuno o qualcosa sarebbe potuto arrivare là dove stava fin dall’inizio oppure in un altro luogo; quello che importava è che avvenisse il cambiamento, non dove avvenisse (o, detto meglio, almeno iniziasse). Invece perde la bussola (troppo ansioso!) e pretende che si tratti di un’azione priva di un qualsiasi riferimento a qualsiasi altra, nemmeno per una qualche modalità; intendimento di impossibile realizzazione poiché ogni rivoluzione ha sempre alcune modalità comuni con altre precedenti. Crede di aver trovato infine l’atto unico; errore madornale! E’ semplicemente un suicidio per disperazione. Quanti ce ne sono? E certamente non si può cambiare il mondo suicidandosi. Ha definitivamente fallito, ma il fallimento era inscritto nella sua fremebonda attesa; non si favorisce una rivoluzione aspettandola in spasmodica agitazione, come tanti giovinastri odierni. D’accordo, questi nemmeno si tolgono di mezzo suicidandosi, cosa che invece l’uomo in ansia fa. Almeno questo è un risultato: è in fondo un essere inutile, si “cancella” e compie così la scelta “oggettivamente” giusta. Molti “rivoluzionari” continuano invece a ingombrare il campo e provocano perciò danni inenarrabili, in realtà impedendo un qualsiasi cambiamento e dando una mano ai mediocri nella continuazione di una vita in continuo degrado.
    Venendo a questioni più personali, dirò che ho conosciuto un discreto numero di “omini dell’osteria”. So che sono spesso di buona compagnia e non vanno in fondo disprezzati. Ho trovato assai peggiori certi intellettuali frequentati durante i miei periodi “gruppettari”; individui purtroppo privi dell’inclinazione al suicidio, ma semmai ansiosi di far del male agli altri. Tuttavia, so pure che gli “omini dell’osteria” sono negativi o quanto meno inutili per effettivi mutamenti del vivere sociale. Occorrono altri personaggi, con il pelo sullo stomaco, cattivi, ingannatori, perfino capaci di sporcarsi le mani di sangue, ecc. Non c’è nessuno più negativo del “buono”, di colui che predica il Giusto, il Bene, la Verità, ecc.; e lo fa non raramente in buona fede. Alla larga, può talvolta essere un simpatico e rilassante “compagno d’osteria” (quando non è un meschino ipocrita), ma procura guai a non finire e rovina una società. Fin da giovane ho avuto una discreta capacità di capire la politica e le intenzioni di coloro che ad essa si dedicano. Non mi sono mai fidato dei “buoni” (nemmeno di quelli che sentivo sinceri), non li ho mai appoggiati perché sono convinto conducano a disastri. Non potevo però sopportare i cattivi e non avevo il pelo sullo stomaco e via dicendo. Ho quindi rinunciato a fare politica e semplicemente l’ho analizzata, facendo anche il possibile per munirmi di categorie adatte all’uopo. Per il resto, ho di fatto preferito accompagnarmi agli “omini dell’osteria”; ma dando per scontato che non cambieranno il mondo. Il mutamento spetta ad altri, che appoggio (diciamo meglio: appoggerei, perché non li vedo “arrivare”!) ma tenendomene il più possibile lontano quanto ad amicizia. Da questa netta contraddizione deriva una certa mia qual “nevrosi”; del tutto incompresa nei suoi reali termini perfino da chi dovrebbe essere in grado di afferrarla.

    1. Il racconto e questo autocommento di Nova toccano temi ardui e chiamano – una vera sfida – a pronunciarsi. Ha ragione? Come la penso io? Esiste «una via diversa» «tra il donchisciottismo e questa viltà»?
      Sono i due estremi in cui si dibatte nevroticamente l’uomo in ansia (ma anche il suo autore e pure noi – ha ragione Annamaria Locatelli a parlare di «nevrosi collettiva»). Nel racconto (non dimentichiamo che di racconto si tratta, il che ci permette una maggiore distanza e possibilità di riflessione) la nevrosi del personaggio viene risolta con un suicidio, che non so se giudicare logico o gratuito. E verrebbe da chiedersi: perché non con un omicidio? Penso al Raskol’nikov di «Delitto e castigo» o all’Erostrato de «Il muro». Non sarà, mi dico, che ai tempi di Dostoewskij e Sartre quei personaggi malvagi erano mossi da ambizioni più vitali dell’uomo d’ansia post-novecentesco? Il «non proprio simpatico» uomo in ansia, proprio perché «in ansia» è in un certo senso meno *superuomo* dei suoi antenati. Ma mi chiedo: davvero è poi così «lucido nel considerare la medietà del vivere della gente detta comune»? Esiste davvero questa «medietà» o «mediocrità» e una «decisione» di non uscirne «tipica degli uomini medi»? E per vigliaccheria? O *solo* e *soprattutto* per vigliaccheria?

      Non vorrei allontanarmi dal rigore intellettuale di Nova e nascondermi dietro i discorsi della complessità (dell’animo umano o del mondo d’oggi. Che di certo non è più pensabile in schemi ottocenteschi (positivisti o vitalistici) o novecenteschi (esistenzialisti, fenomenologici, ontologici). E però mi sembra che Nova stesso mostri bene, e già dal titolo dato al racconto, che l’uomo in ansia è proprio un uomo in crisi: non ha «la più pallida idea della vita che gli sarebbe piaciuto vivere né, in definitiva, della vita che invece stava vivendo e di come fosse possibile mutarla». Io aggiungerei che questo spiega il suo “attendismo”; e, azzardo, la qualità “antica”, para-religiosa se non religiosa della sua attesa. Perché, infatti, è dominato dal pensiero che dovrebbe arrivare qualcuno «in grado di far uscire [gli altri] dalla stantia ripetizione dei riti solo apparentemente frenetici della modernità»? Non fa pensare tale attesa alle idee circa un Messia o un Grande Veltro dantesco? Quali fatti o idee o esperienze hanno costruito così l’uomo in ansia e l’hanno indotto a porsi «nella prospettiva di incontrare qualcuno o qualcosa che cambiasse la vita (apparentemente la sua, in realtà quella della società)»? Come non pensare ai precedenti evangelici (ad esempio alla parabola del giovane ricco che appunto incontrò Gesù che gli propose un cambiamento della vita che egli non accettò? E ovviamente al “salto di classe” che una minoranza della borghesia colta ha fatto tra Ottocento e Novecento in nome del socialismo o del comunismo?

      E poi – lo dico per provocare ma anche riflettere fuori dai nostri schemi più abituali – non ci sono milioni di altri individui convinti che la vita non si possa proprio cambiare e tantomeno si attendono qualcuno che gliela cambi?
      E ancora: il fatto che questo “qualcuno” non arrivi mai, invece di indurre l’uomo in ansia all’«atto unico» ( al «suicidio per disperazione»), non potrebbe – perché no? – spingerlo a mutare prospettiva e a liberarsi di quell’assillante fantasma che lo tiene in ostaggio e a vedere le cose (o la “rivoluzione”) diversamente?
      Ad esempio, potrebbe considerare sotto altra luce quei comportamenti degli altri che egli classifica sotto i concetti stereotipati di «medietà», di «mediocrità» di «viltà» (ma anche di «donchisciottismo»). E anche: interrogarsi sulle fondamenta della propria «rabbia» (e, insisto, della propria «attesa»); sul suo modo di vedere gli altri o di arrabbiarsi con gli altri perché li vede in un certo modo, cioè dei vigliacchi.
      In fondo qual è la differenza tra l’«inutile» uomo in ansia e gli inutili «giovinastri odierni» che aspetterebbero «in spasmodica agitazione» la rivoluzione (invece del qualcuno che gli cambi la vita)? Nel fatto che l’uomo in ansia, riconoscendosi inutile, « si “cancella” e compie così la scelta “oggettivamente” giusta», mentre quelli continuerebbero « invece a ingombrare il campo» e provocherebbero perciò «danni inenarrabili, in realtà impedendo un qualsiasi cambiamento e dando una mano ai mediocri nella continuazione di una vita in continuo degrado»? Ma se è lo stesso Nova a dire che« l’atto unico[è] errore madornale! E’ semplicemente un suicidio per disperazione»?

      Insomma tutte queste mie osservazioni/obiezioni che spero non “vili” o sofistiche vengono dalla convinzione che dalla “mediocrità” o dalla “vigliaccheria” (linguaggio dell’uomo in ansia) non è possibile uscire con «un piccolo sforzo in più». Perché dietro queste etichette ci sono condizioni di vita consolidatesi nel tempo, nella materialità delle cose, nei rapporti sociali capitalistici. E temo che sia lo sguardo elitario dell’uomo in ansia ( e un po’ anche di Nova) a mettere in termini moralistici comportamenti e forme di vita che andrebbero ripensati in altri modi, con altri concetti. Cosa c’entra o, se c’entra, che peso reale ha, ad esempio, la vigliaccheria nella condizione milioni di giovani disoccupati? Ma ancheil modo di porre la questione dei buoni e cattivi non mi convince e mi pare essa pure affrontata in termini moralistici. Quando Nova confronta gli omini dell’osteria e gli intellettuali da lui conosciuti e considera questi ultimi più «negativi» dei primi e si abbandona a una sincera e paradossale apologia dei « personaggi, con il pelo sullo stomaco, cattivi, ingannatori, perfino capaci di sporcarsi le mani di sangue», preferibili a suo parere al «“buono”, di colui che predica il Giusto, il Bene, la Verità, ecc.; e lo fa non raramente in buona fede.», mi pare riallacciarsi ad un manicheismo anche qui d’antica provenienza e sicuramente di matrice religiosa. Ci sono davvero gli uomini buoni e gli uomini cattivi “per natura”? Io ritengo che atti buoni e atti cattivi ( per singoli o per gruppi sociali) vengono compiuti in determinati contesti. E che uomini in determinati contesti “buoni” (secondo la morale del gruppo d’appartenenza) possono diventare o comportarsi da cattivi o da cattivissimi in altri contesti. Basta pensare ai contesti di guerra.
      So che il discorso ha implicazioni antropologiche e filosofiche enormi e qui non riassumibili. Ma la complessità o problematicità della questione è presente a Nova stesso, se confessa di non fidarsi dei buoni ma neppure di essere capace di sopportare i cattivi. Anche se fa della questione un fatto personale, che a me non pare tale.

  6. …Franco Nova dice: “una certa mia qual nevrosi” e a me vien da dire : benvenuto tra gli umani del nosro tempo! Una nevrosi collettiva…C’è ormai una tale passerella di personaggi nei suoi racconti, che in genere sono seguiti in un breve tratto della loro vita, non c’è davvero un prima e un dopo, ma alla fine il denominatore comune è che scompaiono o sono inghiottiti, vedi l’omino nell’osteria o l’uomo in ansia “nell’acqua tranquilla che sapeva profonda”…sembra che F. N. voglia scegliere un “modello” che possa andare bene sia per promuovere un cambiamento nella società sia sul piano personale dell’amicizia, ma poi li scarta tutti o comunque non arriva a scegliere perchè dentro di sè ha delle spinte contrastanti: per chi ammira non prova simpatia e viceversa…E poi non si capisce: che tipo di società F. N. si prefigura per il futuro, come migliore? Su quali valori? Solo allora, forse, potrebbe tratteggiare un tipo umano adeguato a promuoverla e a sostenerla. Ma con l’eugenetica, secondo me, non si procede…Forse quello che propone Ennio potrebbe essere un avvio: l’incontro a livello profondo di due persone molto diverse. Come qualcuno dice : uno più uno fa tre…

  7. Trovo il punto di vista generale sul mondo (sui buoni, gli intellettuali, i cattivi difficili da imitare, sulla compagnia o l’amicizia) condivisibile e credo che lo sia per molti.
    Ma, infine, perché omini dell’osteria, rivoluzionari che provocano danni, buoni che conducono a disastri, cattivi che si sporcano le mani di sangue dovrebbero produrre contraddizione e nevrosi?
    Ecco il problema dell’uomo in ansia: non è questione di presenza ma di assenza, non fa problema quello che c’è ma quello che manca, e se conta solo quello che non esiste non ha senso coinvolgersi in quello che c’è.
    E d’altra parte, che realtà che presenza che attributi può avere ciò che non è? Necessario, quindi, “realizzarsi” nel non essere.

  8. DUE SEGNALAZIONI: ALTRI “UOMINI IN ANSIA”

    Mi pare utile indicare la discussione apertasi sul blog LA LETTERATURA E NOI di Romano Luperini sui libri di Guido Mazzoni (“Idestini generali”) e di Daniele Giglioli (“Stato di minorità”). In modi sicuramente più ovattati e ambivalenti di quelli di Nova e miei vi si parla dei medesimi dilemmi dell’uomo in ansia > http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/365-impotenza-politica-e-stato-di-minorit%C3%A0-%C3%A8-possibile-solo-una-forma-di-disagio.html#comment-358

    Contro una visione di comodo degli anni Settanta da parte di un poeta affermato, Milo De Angelis,
    segnalo l’intervista fattagli da Claudia Crocco su LE PAROLE E LE COSE (http://www.leparoleelecose.it/?p=19153) e un mio commento critico (http://www.leparoleelecose.it/?p=19153#comment-310753).

  9. ANCORA UNA SEGNALAZIONE E UN MIO COMMENTO:
    Emanuele Zinato, Disagio o disperazione? / Impotenza politica e stato di minorità 2
    (http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/367-disagio-o-disperazione-impotenza-politica-e-stato-di-minorit%C3%A0-2.html)

    #1 Memento e “nera verità” — Ennio Abate 2015-06-04 07:11
    MEMENTO

    Nel 2012, in un mio scritto intitolato “Ripensando al convegno «Dieci anni senza Fortini (1994-2004)” (QUI:https://www.poliscritture.it/vecchio_sito/index.php?option=com_content&view=article&id=283:ennio-abate-ripensando-al-convegno-ldieci-anni-senza-fortini-1994-2004&catid=18:cantiere-di-poliscritture-su-ffortini-&Itemid=23), sulla relazione in quell’occasione svoltavi da Guido Mazzoni avevo notato:

    «A questo punto – [Mazzoni] dice – i nostri destini, da «generali», come pretendeva Fortini, sono diventati, tranquillamente o inquietamente, «sempre più privati». Il cerchio è definitivamente chiuso. La posizione di Mazzoni constata senza remore e senza nostalgie un mutamento epocale, che cancella l’intera tradizione marxista e comunista, quella in cui s’era iscritta l’opera di Fortini da Foglio di via a Composita solvantur. È come se – volessimo azzardare un paragone – si mettesse in discussione tutta la tradizione cristiana, in cui era cresciuta l’opera di Dante. Un’epoca è finita. Gli scopi che hanno alimentato quella storia si sono dimostrati vani. Realisticamente non resta che prenderne atto. Diventano del tutto secondario certi problemi. Ad es. che Fortini in quella tradizione sia stato un marxista critico, un “eretico” poco importa. Le distinzioni di scuole e di correnti marxiste si appannano e la «fine del comunismo» cala al contempo come una mannaia su ortodossi ed eretici».

    E più avanti commentavo:

    «Il Convegno del 2004 mi appare quasi l’atto di ratifica di una difficoltà a proseguire sulla strada di Fortini. Che era la strada del comunismo.[…] Alla diagnosi spietata di Mazzoni bisogna dare ragione, ma rifiutando le sue conclusioni. Quindi riconoscere che la sconfitta giunta dopo la vampata mondiale del ’68 non è una delle tante che punteggiano la lotta degli oppressi. Io prendo anche in seria considerazione la tesi di La Grassa, che vede i dominati (i non “decisori”) irrimediabilmente tagliati fuori dagli scontri che contano e conteranno per un periodo storico imprecisato. Non siamo -riprendo le parole di Mazzoni – davanti a «un semplice arresto provvisorio nello sviluppo storico, come quello che Fortini intravide fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta» (p. 115), ma davanti a una sconfitta definitiva del comunismo o dell’ipotesi comunista. Ed è vero che «il principio di realtà ci dice che non c’è più nessuna grande strategia storica, che nessun vendicatore sorgerà, che il presente di ciascuno può essere più o meno felice o infelice, a seconda del nostro destino sociale e del caso, ma resta scollegato, per la maggior parte di noi, da qualsiasi movimento collettivo o destino generale» (p. 115). Ma c’è un realismo, che si distingue da questo puramente passivo (esistenziale ed individualistico al contempo) di piatto o sofferto adeguamento all’esistente, che rischia appunto di inchinarsi ai vincitori senza riconoscerli come tali e come nemici. A me pare di poterlo ritrovare proprio in una poesia di Fortini:

    …c’è da tornare ad un’altra pazienza
    alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
    nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare. [1]

    Si può essere a favore di un realismo da io-noi esodante, capace di dialogare, polemizzare, criticare, distinguendosi il più possibile sia dal realismo privatistico-esistenziale sia dal realismo ufficiale della ragione falsamente pubblica e falsamente politica. Anche se non si potesse più essere compagni o associarsi di nuovo per uno scopo comune, ciascun io-noi può non inchinarsi ai dominatori e non accettare questo presente da loro imposto.
    Come ai suoi tempi Fortini, stiamo pure noi sotto il peso della sconfitta. Per quanto tentiamo di reggerla, abbiamo dovuto ripiegare; e non abbiamo una qualsiasi Mosca alle spalle. Possiamo però non finire a New York. Meglio “periferici”, emarginati, esiliati interni, che cortigiani e arrampicatori. Ed è la ragione, non la fede, che dice: non accontentarti dell’ideale del comunismo, della speranza nel comunismo, non restare abbarbicato nostalgicamente a una sorta di età dell’oro: marxiana o leninista o stalinista o soviettista (a seconda dei gusti, delle scelte o delle esperienze vissute), ma continua soltanto a sviluppare criticità e politicità. È una scommessa esodante ragionevole e praticabile, non fideistica e attendista».

    P.s.

    1.
    @ Zinato

    Direi che il punto di vista di Mazzoni è, sì, «psichico e antropologico», ma allo stesso tempo pienamente *politico*, proprio perché liquida “i destini generali” e non si pronuncia neppure più su «la sfera dell’economia, della riproduzione materiale e dei rapporti di classe».
    Che questa *presa di posizione politica*, invece che espressa con la tracotanza di chi è saltato sul carro dei vincitori e ha accettato i posti di comando “periferici” concessi agli ex-PCI ora PD, venga dichiarata secondo modalità stilistiche di «perplessa demoralizzazione» o «amarezza gentile», non la rende a mio avviso (vedi anche reazioni in alcuni commenti…) meno penetrante e dannosa. Proprio per l’assenza nell’opinione pubblica di qualsiasi altro discorso meno di superficie, più realistico e non nostalgico sullo stato presente delle cose.
    Ora, con tutto il rispetto per l’intelligenza di Mazzoni, non si può però concedere che sia il suo libro a dire quella «nera verità» che preme nei cuori di chi ha militato a favore dei «destini generali» e oggi li ha visti offuscarsi (o svanire). No, la nostra «nera verità» di sconfitti suggerisce altro tipo di perplessità e di amarezza! E incita ad affrettarsi a compiere quelle analisi intelligenti e coraggiose che Mazzoni ha abbandonato.

    2.
    Segnalo questo racconto di Franco Nova e i commenti (QUI:https://www.poliscritture.it/2015/05/27/luomo-in-ansia/ ) che faticosamente stanno affiorando. Affronta in modi più crudi e diretti lo stesso tema di fondo affrontato da Mazzoni. Lo indico on per autopubblicità, ma perché c’è bisogno che certi discorsi si possano intrecciare e, speriamo, alimentarsi e chiarire.

    [1] Forse il tempo del sangue…da L’ospite ingrato in F. Fortini, Poesie scelte (1938- 1973) a cura di P.V. Mengaldo, Oscar Mondadori 1974

    1. Franco Nova sei bravo! Il racconto nel suo andare, mi ha reso ansiosa , in un orario in cui di solito mi prende il sonno. Quel muoversi su se stesso rende l’uomo dell’ansia, egoista e presuntuoso, al punto da non riconoscere quanto sia uguale a tutti gli altri che lo circondano , ma che non sanno di non essere più padroni di se stessi (per fortuna?). Facciamo finta di essere diversi, di fare e dire cose superiori , ma penso che solo il movimento fuori da noi stessi può produrre cambiamenti, certo ,sì, sì…ma bisognerebbe riconoscere la grande possibilità che abbiamo di camminare fuori dagli schemi…e anche un Blog è uno schema .
      Mò dovrei andare a letto ….ma il sonno se ne è andato. Domani potrei andare a trovare la Maria novantenne chiusa in una casa di riposo , i figli le hanno venduto la casa, lei non lo sa, anche perché crede di essere in Svizzera in un posto in montagna di cui non ricordo il nome , ma lei lo ricorda e domani me lo dirà dopo il caffè. Ciao sorprendente Franco Nova.

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