QUALE POESIA OGGI? Orbilius vs Samizdat e viceversa. Narratorio

orbilius

di Ennio Abate

Questo narratorio è ripreso da “TRASVERSALE” (qui)

Orbilius* –

Samizdat mi parlava continuamente di questi *moltinpoesia*. Sì, sì, gli dicevo, è vero che sono spuntati come funghi dopo che nel tuo Paese – in ritardo, eh! – c’erano state (quasi insieme) scolarizzazione di massa e acculturazione provocata da giornali, radio e televisione. E posso anche ammettere che questa gente comune non è più analfabeta o semianalfabeta come lo erano i loro nonni e spesso i loro genitori. Ma che novità è mai questa? Scribacchiano come possono, rovistano tra le vaghe memorie che gli restano del mondo contadino e artigiano. O si perdono nelle pieghe del loro *io* alle prese con la vita quotidiana e sentimentale. Che poi non è neppure più quella dei piccoli borghesi di una volta. Almeno quelli erano vicini alle élites politiche e culturali (Chiesa, Partiti) e capaci di un certo contegno e stile. Ma ora, che sbracamento! Tutti scrivono, tutti scrivono “poesia”, tutti vogliono pubblicare! Quanti ne avevo visti di questi “bassi cetomedisti” alle presentazioni di libri, ai reading di poesie, nelle redazioni di riviste e rivistine o, più tardi, nelle “foto-santini” sui social network (blog, siti, FB, ecc.). Che ridicoli, servili e spesso presuntuosi imitatori! Entravano in questi “bazar della Cultura” come prima andavano a messa o nelle sezioni dei partiti. Coltivando micragnosi e petulanti i loro minuscoli sogni di riscatto! E sempre pronti a farsi solleticare i cuoricini dall’ultima novità editoriale, dall’ultimo film vincitore a Venezia o a Cannes. O a sorbirsi seminari, convegni, conferenze, apparizioni fulminee di *maîtres à penser*, di cui annotavano – sempre ossequiosi! – anche le sputacchiate. Per citarle subito dopo su FB.

A me non parevano un granché. Anzi, a tirar fuori il rospo, proprio non li sopportavo. Non avevano idea di cosa fosse stata, e non solo in questo Paese, la Poesia! Ne avevano appena intravisto il Seno, appunto, sui banchi di scuola, mostratogli da insegnanti bacchettoni e pure loro sempre meno preparati. Eppure, dopo quella Visione, si ostinavano a masturbarsi e a produrre surrogati rimasticati. «Simil-poesia», «righe a capo», «parapoesia»: ah, quanto lungimiranti erano stati Raboni, Majorino e Kemeny! Che, sì, incontravano questa pletora di sgomitanti ogni tanto, ma con discrezione, concedendosi solo per qualche ora ai loro corteggiamenti. E perciò davo ragione a tutti quelli che con giusto sprezzo li definivano *sottobosco * o *ceto medio semicolto*. Per me era chiaro che il loro destino sarebbe stato quello di rimanere sulla soglia della Vera Cultura. A orecchiare, commentare, fare magari anche la domandina intelligente o provocatoria a quelli che davvero di Poesia se ne intendevano. Ed era del tutto giusto che, di fronte alla pressione di tale marmaglia, i Veri e Pochi Poeti adottassero la strategia del custode kafkiano di «Davanti alla legge»: tenerli a bada, tenerli nell’incertezza; e, allo stesso tempo, lanciargli di tanto in tanto anche qualche cifrato invito. (Si «potrà però entrare più tardi. – È possibile, dice il custode, – ma ora no -»).

Samizdat, secondo me e malgrado i miei avvertimenti, si era mescolato troppo con loro e prendeva sul serio quei loro confusi bisogni. A volte mi pareva davvero uno di loro. Miope e sciocco come loro, insomma. E, pur considerandolo mio amico, sentivo che cedeva alle loro bassezze. Non aveva la postura giusta! S’immaginava cose ingenue, infantili, utopistiche, fuori dal mondo. Pensava che quella gente comune potesse *maturare*! E prima o poi produrre qualcosa di buono e di suo, *in proprio*. Magari pure con l’aiuto dei Veri e Pochi Poeti, che secondo lui non dovevano chiudersi nelle loro Case della Poesia. Ma potevano mai quei malcapitati esercitare le stesse funzioni – studiare, immaginare, ideare, oggettivare in opere, divulgare – dei Veri e Pochi Poeti, cioè di quella èlite necessariamente ristretta e iperselezionata che il nostro Sistema – l’unico esistente e reale – assorbe e riconosce e giustamente onora (e paga)? Impossibile. Samizdat proprio non capiva certe cose! Che, ad esempio, era un bene che quei suoi *moltinpoesia* rimanessero ai margini, in armonia con le loro condizioni economicamente precarie o fragilmente garantite; e che esaurissero il meglio delle loro energie per nutrirsi, pagare le loro abitazioni, amoreggiare e fare, sì, anche i “poeti”, ma al massimo la domenica. Né intendeva che era sempre un bene che fossero alla mercé dei Veri e Pochi Poeti (e dei Veri e Pochi editori), che li tirassero invano per la giacca e che invano li scegliessero come santi protettori, guide, guru, maestri. A forza di sgomitare e magari lavorare gratis prima o poi avrebbero imparato la lezione: che erano troppi a scribacchiare, che dovevano stare al loro posto e che solo ogni tanto si poteva pescare in mezzo a loro il beniamino degli Dei da cooptare. Per dimostrare che anche dalla marmaglia può sorgere miracolosamente il Meglio e che il Sistema era sano, realistico e persino generoso. Ma a patto che i restanti rimanessero buoni buoni, cioè pubblico (possibilmente pagante).

Come s’illudeva il povero Samizdat a pensare che da questa gente comune sarebbe uscita prima o poi quella che lui – un’altra sua fissa! – chiamava *poesia esodante*. Ma dove voleva esodare, andare, migrare? Non capiva che non c’era più nessun *fuori*? Che non era più neppure pensabile una “comunità altra” o più “civile” (neppure di soli poeti)? Ancora attaccato alle defunte idee comuniste dello Scriba, riteneva irrinunciabile la *funzione critica universale* della poesia! Che in passato sarebbe stata svolta – diceva – dagli antenati dei *moltinpoesia* (quali poi?); e che ora essi avrebbero dovuto ereditare come compito. Che “cattivo soggetto” s’era inventato! Questa gente comune, questi “bassi cetomedisti”, più o meno poetanti e scribacchianti, mai avrebbero preso il posto dei mitici Soggetti ritenuti in passato “forti” (quali la classe operaia o “i lavoratori” o “il Partito” e – loro complementare – gli “intellettuali”)! Io glielo ripetevo: ma non vedi che i tuoi stessi amici e conoscenti hanno tutti ripiegato su forme di collaborazione con le Istituzioni che volevano “abbattere” o “cambiare”? Io di questi *moltinpoesia* decisi ad esodare (o che avessero maturato il bisogno di farlo, staccandosi dalle Istituzioni) proprio non ne scorgevo. E poi: per andare dove? Qual era la Terra Promessa che Samizdat indicava? Dov’erano i Mosè e compagnia bella? Infine se – pensa un po’! – Samizdat stesso ammetteva che di Terra Promessa non se vedeva all’orizzonte e che la strada da imboccare bisognasse costruirsela da soli (sì, magari al buio, perché non se ne vedeva né la direzione né lo sbocco!) sai che incoraggiamento passava alla sua pigra marmaglia!

* Ho rubato il personaggio di Orbilius a Carlo Oliva (1943-2012), che avevo intervistato sulla sua «Lettera a una studentessa». (Cfr. Immigratorio.wordpress: Su Carlo Oliva. Lettera a una studentessa)

 1978 CAVALLINO E MASCHERA CHE SORRIDE 1978 circa1978 CAVALLINO E MASCHERA CHE SORRIDE 1978 circa1978 CAVALLINO E MASCHERA CHE SORRIDE 1978 circa

Samizdat –

«Questa nostra dottrina sarà forse accolta con un sorriso da coloro che, riservando alla massa del popolo i vizi propri di tutti i mortali, dicono che il volgo è in tutto sregolato, che fa paura se non ha paura, che la plebe o serve da schiava o domina da padrona, che non è fatta per la verità, che non ha giudizio, ecc. Invece la natura è una sola ed è comune a tutti… è identica in tutti: tutti insuperbiscono del dominio; tutti fanno paura se non hanno paura, e ovunque la verità è più o meno calpestata dai cattivi o dagli ignavi, specie là dove il potere è nelle mani di uno o di pochi che nell’istruire i giudizi non hanno di mira la giustizia o la verità, ma la consistenza dei patrimoni
(Baruch Spinoza, «Trattato politico»)

Orbilius, cazzo! Dal tuo Olimpo di cartapesta proprio non vuoi uscire! E vabbè sputare sulle ebbrezze rivoluzionarie del ’68-’69. Che mente sobria e solida la tua! Costruitasi ben prima e lontano da quel casino. In cenacoli ristretti, fianco a fianco dei grandi Maestri. Coi quali analizzasti, ancor prima che venissero pubblicati, versi divenuti famosi. Che privilegio rispetto a noi! Come Faust hai letto tutti i libri, tu! E ora che in tanti (sempre «troppi» per te!) abbiamo preteso non solo di leggere e scrivere ma di affannarci nel sacro pomerio della Poesia, per te è davvero troppo. Ti capisco! Ci puoi accettare nella tua Casa della Poesia solo come pubblico, come dilettanti, come «scriventi versi». Cioè dopo aver messo bene in chiaro che dobbiamo restare là in basso – tre o quattro gradini – rispetto al piedistallo dove tu traffichi con gli Scrittori e i Poeti «veri».

«Nebulosa poetante? Ma di che cianci?» mi dicevi. Soltanto stelle e stelline meritano la tua attenzione. Eh, sì, la tua filosofia! La selezione della specie (non solo poetica) da secoli procede secondo natura ed esalta le qualità di pochi individui, i Migliori. Gli altri,– consapevoli o inconsapevoli, ingenui o furbastri – tramerebbero (ahi, Nietzsche!) per appiattire i Migliori sulla propria condizione di mediocri! Piaccia o meno, le cose stanno così anche in poesia, borbottavi sornione. Ci sono individui le cui opere hanno un alto valore poetico (e intellettuale e morale) e tanti che sono e saranno mediocri, conformisti, scribacchini, imitatori, epigoni, ripetitori, gregari in ogni caso. Sei rimasto fermo lì: le masse possono essere plasmate, mai plasmare il mondo.

Non sai nulla delle modifiche prodotte (anche in poesia) da quelli che chiami ‘masse’, soltanto perché a te lontani e in fondo ignoti. E figurati se potevi dare credito ai miei argomenti: che il Novecento è stato il secolo del risveglio delle masse; che nell’arte e in poesia le avanguardie hanno pur dato voce alla mentalità e alla sensibilità dei molti (io poi che ho in mente sempre la Bauhaus!); che la psicoanalisi ha svelato un inconscio (cioè la parte sommersa dell’iceberg, come dire: i molti, gli anonimi, gli ignoti) addirittura più importante del conscio (la punta, come dire: i pochi); e che in politica individui e collettività si sono scontrati proprio come adesso facciamo noi due – io, Samizdat, e tu, Orbilius – gli un contro l’altri armati. L’asservimento dei molti col fascismo-nazismo? Macché, fu rivoluzione! Il tentativo di liberazione dei molti nell’ipotesi del socialismo/comunismo? Rovine da dimenticare! Tanto si sa come sono finite queste cose. Coi totalitarismi, come si dice adesso. E il discorso sarebbe chiuso per sempre.

Eppure, malgrado contraccolpi e tragedie del secolo concluso, i molti non me li cancellerai per tornare a imporre il primato dei pochi. Ho cercato di farti ragionare. Ti ho chiesto: «Lo vogliamo affrontare anche in poesia questo conflitto tra pochi e molti?». Ti ho proposto persino un’alleanza. Sì, pensavo che potessimo ritentare assieme un incontro tra i filosofi – mettiamo quelli come te – e i tonti – mettiamo quelli come me. Come diceva pure il Vecchio Scriba. Anche in poesia? E perché no. Quando te lo proposi, mi rispondesti schernendo: «Ma se fu lo stesso Scriba a dire che «non esiste il Petrarca per tutti!». «L’avete mantenuta voi aristocratica! Ma non è detto che spadroneggerete sempre», ti ribattei. E chiudemmo lì. Insomma, da un certo orecchio non ci senti. E allora, stufo delle tue crestomazie, dei tuoi canoni, dei sottili distinguo fra maggiori e minori di cui ti diletti, stufo di sentirti proclamare in astratto il valore universale della Grande Poesia, della Bellezza, della Parola e subito dopo vederti intrigare nei giochi sporchi delle cooptazioni, dei favoritismi, dei nepotismi, della mafiosità a favore di alcune cordate e ai danni di altre (altro che Geni e Grandi! L’orticello della Poesia, lo gestite tribalmente!), ti ho salutato, te e i tuoi Grandi.

Sì, me ne resterò nella nebulosa che tu neppure vedi. Dove tutto è difficile da chiarire, certo. Cosa significa *stare coi moltinpoesia* (la mia scommessa!). E *essere moltinpoesia*? E quanti modi di esserlo ci sono? Ah, sì, sì, quante ambivalenze anche nei *moltinpoesia*! Altro che *Quarto Stato scrivente e poetante che avanza come nel quadro di Pellizza da Volpedo verso il Sol dell’avvenire della Poesia Futura!* Appena ho invitato *alcuni dei refusés* (quelli che incontravo e che a me parevano così classificabili, eh!) a staccarsi dalle tue conventicole o dalle Case della Poesia, eccoli traccheggiare o sparire per non compromettersi con le cattive compagnie. E dopo qualche anno ecco i nomi di uno o due di loro nella tua “prestigiosa” collana di Poesia o tra gli ospiti d’onore di non so quale Festival della Poesia. La tua nefasta influenza, Orbilius, continua e non è facile scalzarla! Eh, sì, di individualismo, di boria, di micromafiosità ce n’è sia tra i *moltinpoesia* che tra i tuoi *pochinpoesia*!

Ma allora – mi dirai – se la stoffa umana è questa, che senso ha scegliere a favore dei *moltinpoesia*? Sta’ con noi. Lascia correre storto il mondo, che è così e sempre sarà così! Pentiti! (Qui musica dal «Don Giovanni» di Mozart…). No, caro il mio commendatore, non mi arrendo e non te la do per vita! Rimuginerò da solo o con pochi. Scandaglierò i segnali contraddittori che manderanno i miei *moltinpoesia* e i tuoi *pochinpoesia*. Vi seguirò uno per uno e come insiemi. Interrogherò pure i *moltinpoesia* e i *pochinpoesia* che si dibattono dentro di me. Ci vorrà tempo. Prima o poi si riuscirà a capire meglio le ragioni profonde che ci fanno azzuffare. Non sputerò mai però, come fai tu, sulla vitalità sgangherata, grottesca, persino oscena dei molti. (Quella che Pasolini mostrava ne «La ricotta»; quella degli affamati che arraffano il cibo da cui sono stati a lungo esclusi e rischiano un’indigestione o perfino di crepare). Insistendo nell’esercizio del fare poesia, fosse pure condotto in modi infantili o a casaccio, diventeremo più saggi ed accorti, meno sregolati e caotici. Scaveremo più direttamente e da vicino nei bisogni, desideri e problemi, che tu hai ridefinito esclusivamente dal tuo punto di vista elitario. Continuereremo – pedagogici e militanti come Gianmario Lucini – a far salire i *moltinpoesia* sulle zattere di fortuna (blog, siti, riviste, piccole case editrici) che riusciremo ad approntare.

Ci vorrà tempo. Ma perché tutte queste trasformazioni del mondo attorno a noi e delle forme del lavoro umano (impresa a rete, telelavoro, ecc.) dovremmo lasciarle nelle mani tue e dei tuoi simili? Se il linguaggio stesso sta diventando elemento produttivo, come dicono, non potrebbe venirne qualcosa di buono – un arricchimento comunicativo e conoscitivo – anche per i *moltinpoesia*? Al tuo «Sveglia! Comandiamo (come sempre) noi pochi!» rispondo ancora con un «Bisogna sognare e svegliarsi», perché abbiamo bisogno di entrambe le cose. E perciò il mio sogno da sveglio in poesia sia questo: che fra riuscito e non riuscito, fra livelli qualitativamente alti, medi, bassi, ci possano essere continui rimandi (da sviluppare, non da isolare, staccando di netto l’eccellente dal mediocre, come tu fai); che si costruiscano altre gerarchie, diverse però dalle tue sempre e solo elitarie; che ci sia un ordine del discorso costruito sui molti e non sui pochi; che ‘eccellenza’ e ‘mediocrità’ possano avere un senso includente e non escludente; che si arrivi a un linguaggio comune (ma non semplificato e inerte, come quello dei mass media); che la storia della letteratura e poesia italiana faccia i conti con quelle di altri popoli e, tanto per cominciare, con le figure – reali e mentali – dei migranti, che c’interrogano (e interrogano il nostro passato) tenendo a mente le ferite che portano sulla pelle e nella memoria; che si avvii, malgrado le enormi resistenze da parte loro e da parte nostra, un grande esercizio di traduzione reciproca.

So una cosa, Orbilius: persino nei poeti classici e non, morti o viventi, noti e meno noti, è possibile rintracciare questa necessità di *essere molti in poesia* che tu neghi. Persino nella «Commedia» Dante! Che pur con una tensione tutta medioevale, voleva condividere con quante più persone possibili il suo «pane degli angeli». Il suo io era già, nei modi possibili ai suoi tempi, un io-noi. Toh, non sarà stato per caso un antenato del *moltinpoesia*? Concludo. Resto acrobata su un filo. Tra i realisti-realisti come te, che vanno sempre “al sodo” e mi vorrebbero tirar giù con domande del tipo: «Ma adesso dovremmo lasciar perdere Dante o Zanzotto e metterci a leggere le pseudopoesie scritte da gente ignota e comune?» e i *moltinpoesia* limacciosi che salivano appena tu parli, Orbilius, perché tu sei amico e mentore dei «veri Poeti» presenti sul Mercato. Io intanto riprendo in mano «L’Italia sotto la neve» di Roberto Roversi, che tutta la vita diffuse i suoi versi (allora ciclostilati) rigorosamente «fuori commercio». E me la rido di te, Orbilius, e dei tanti che si sono “buttati in poesia” solo per cancellare le tracce del loro passato di “innovatori” o di “rivoluzionari” in un indecente *autodafé* per ottenere un loculo nella tua postmoderna corporazione-fortezza.

27 pensieri su “QUALE POESIA OGGI? Orbilius vs Samizdat e viceversa. Narratorio

  1. @ Ennio

    Grande!!!!
    Sotto la neve ho trovato poeti e scrittori. Sotto la neve c’è fango e anche sotto questo fango li ho trovati. Il rimanere sepolti non fa bene alla poesia. Ennio sa che prima o poi la neve si scioglierà.
    Un bellissimo lavoro da portare in teatro. Grazie.

  2. l’incontro di Orbilius e di Samizdat mi sembra di poterlo paragonare ad una lotta fra giganti su un crinale…l’uno, Orbilius, forte della tradizione poetica classica e moderna, del consenso istituzionale di pochi e geniali artisti, l’altro, Samizdat, come “il cavaliere povero” nel Don Chisciotte, forte della sua convinzione nella validità di una poesia esodante, espressione di una realtà del tutto esodante , quella dei nostri tempi, da parte di un popolo intero, i Moltinpesia, senza per questo negare il valore della tradizione. Sembra giusto questo rivendicare la necessità di far uscire la poesia da una sorta di torre di avorio per farla incontrare sia con il volto terribile del nostro tempo, che pare impazzito e in balia dei più potenti guerrafondai che la storia abbia conosciuto, sia con le voci della moltitudine poetante…Tuttavia penso che i Moltinpoesia, di cui spero fare parte, debbano compiere ancora molti passi avanti per non ritrovarsi dispersi su tante strade diverse e divergenti, trovare un’unità d’intenti e denominatori comuni. Penso ci sia ancora un percorso per una coscienza di classe moltipoetante…

  3. SEGNALAZIONE

    Per una lettura della crisi della poesia – diversa da quella qui tentata e fin troppo influenzata dall’heideggerismo – si legga il post, uscito in singolare coincidenza anch’esso proprio oggi, su “LOmbra delle Parole”:

    La Lettera di Lord Chandos, di Hugo Von Hofmannsthal. “L’impotenza del linguaggio ordinario al cospetto dell’Essere”, “Il Novecento letterario europeo”. Commento di Marco Onofrio

    (Qui: https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/11/27/la-lettera-di-lord-chandos-di-hugo-von-hofmannsthal-limpotenza-del-linguaggio-ordinario-al-cospetto-dellessere-il-novecento-letterario-europeo-commento-di-marco-onofrio/)

  4. La differenza tra il tema del ‘post’ tratto da “L’ombra delle parole” e quanto dibattuto tra Orbilius e Samizdat consiste nella diversa prospettiva da cui si guarda l’oggetto ‘Poesia’ (o Parola). Nel primo caso, si osservano e si analizzano le difficoltà che incontra il mezzo espressivo, lo strumento attraverso cui si seguono Forma e Vita a partire dalla (plurideclinata!) ‘crisi della Ragione’, e laddove ‘crisi della Ragione’ = crisi (tout court!) del soggetto, e dove crisi del soggetto = crisi dei contenuti su cui il soggetto si appoggiava. Nello stesso tempo, come commenta A. Sagredo, *se i labirinti della Vita non sono in grado di generare la Forma, sarà quest’ultima a generare la Vita! Nuovi Labirinti richiedono Nuova Forma!*
    Il soggetto, a questo punto, diventa ‘superfluo’ – quand’anche non di ostacolo in questa prassi – in quanto l’arte deve essere assolutamente impersonale: “l’autore non esiste”, e lo scrittore viene abolito in quanto individuo. Di converso c’è la ricerca della *sorgente invisibile dei fenomeni visibili grazie a un tipo di realismo non razionalistico, con cui penetrare nei ‘segreti dedali’* (M. Onofrio)

    Ben diversa è la posizione di questo post di Ennio dove viene sottolineata la relazione tra i detentori di potere (che definiscono dall’alto che cosa (e come) lo strumento poesia può dire) e coloro che, dal basso, più o meno artigianalmente, cercano di trovare le vie espressive più adeguate, i Moltinpoesia.
    In questo secondo caso, i soggetti – definiti nella loro storicità – hanno il loro peso che Ennio mette tutto – nella bilancia della contesa – sul piatto di Samizdat (* Non sai nulla delle modifiche prodotte (anche in poesia) da quelli che chiami ‘masse’, soltanto perché a te lontani e in fondo ignoti* oppure * Non sputerò mai però, come fai tu, sulla vitalità sgangherata, grottesca, persino oscena dei molti.*)
    Qui, il problema che si pone è diverso. Si corre il rischio di credere che la Poesia diventi la ‘Merica’, l’Eldorado dove si può raggiungere *un linguaggio comune* al fine di tenere *a mente le ferite che [le figure – reali e mentali – dei migranti] portano sulla pelle e nella memoria; che si avvii, malgrado le enormi resistenze da parte loro e da parte nostra, un grande esercizio di traduzione reciproca*.
    Questa idea/sogno fa dimenticare che, *Insistendo nell’esercizio del fare poesia, fosse pure condotto in modi infantili o a casaccio, diventeremo più saggi ed accorti, meno sregolati e caotici. Scaveremo più direttamente e da vicino nei bisogni, desideri e problemi* (Ennio), può portare invece a dolorosi risvegli – e la nostra storia dovrebbe dircela lunga a proposito – perchè questo strumento (perché la poesia è uno strumento espressivo/interpretativo) è solo una modalità parziale per entrare in contatto con la complessità del mondo sia personale che collettivo.
    La ‘demagogia’ di Samizdat rischia di fare, alla fin fine, proprio il gioco del supponente Orbilius.

    R.S.

    1. @ Simonitto

      Più tempo passa e più mi vado convincendo che il fallimento della collaborazione tra me e Linguaglossa ai tempi dei blog «Moltinpoesia» e «Poesia e moltinposia» che poi è alla base della nascita di «L’Ombra delle Parole» ( o prima ancora di «La presenza di Erato») non sia avvenuto per caso o solo per la diversità di temperamento ma per una divergenza più di fondo in cui c’entra anche il diverso atteggiamento
      di fronte alla «crisi della Ragione». Avevamo certamente diverse prospettive e indicarle come post-heiddegerismo da una parte e post-marxismo dall’altra mi pare approssimativo ma non errato.

      Per il momento, in attesa di riprendere la questione, mi limito a questa SEGNALAZIONE che capita a proposito:

      Il fascino della metrica
      di Donatello Santarone

      Saggi. «I confini della poesia» di Franco Fortini per Castelvecchi: nuovamente proposte due conferenze sulla natura «non letteraria della letteratura»

      Due conferenze di Franco Fortini tenute nel 1978 presso l’Università del Sussex e nel 1980 presso quella di Ginevra sono riproposte, con la cura di Luca Lenzini, da Castelvecchi con il titolo I confini della poesia (pp. 79, euro 9). Filo rosso dei due interventi è la poesia nella sua dialettica e contraddittoria relazione con la dimensione storico-sociale e con quella linguistica. Come scrive in premessa Luca Lenzini, studioso fortiniano e motore del Centro e dell’Archivio Fortini di Siena, «meditare sui confini, sull’aspirazione alla totalità e all’integrità dell’esistenza, sugli accenti di un verso o le pause di un racconto, … tutto questo era per Fortini un compito inesauribile e al tempo stesso irrinunciabile».
      Nel primo dei due scritti, intitolato Dei confini della poesia, Fortini si confronta con alcune tendenze della teoria letteraria entro il quadro più ampio dell’antimarxismo di sinistra che in Italia portò progressivamente, a partire dalla metà degli Settanta, alla perdita di memoria storica e all’assenza di «finalità e di mete»: «memoria storica – scrive Fortini – e senso di possibili mutamenti orientati ad un fine erano state preziosa caratteristica d’avanguardia dei ceti proletari e intellettuali italiani e l’insegnamento di Gramsci era stato, di quella caratteristica, un esempio».
      E così l’antistoricismo strutturalista e neosurrealista cancella criteri di valore, tradizioni, scelte, priorità e contesti extraletterari. La poesia diventa «testo» e tutta la dimensione di potente insegnamento morale, estetico, filosofico, politico, storico dell’arte e della letteratura viene meno. «Ne risulta – scrive l’autore richiamando una pagina del filosofo ungherese marxista György Lukács – una progressiva scomparsa (…) della loro capacità di alludere ad un fondamentale ’problema della vita’».

      Un mondo senza cuore

      La perdita della dimensione non letteraria della letteratura, il venir meno del conflitto delle interpretazioni come allegoria del conflitto delle classi, l’assenza dell’opposizione ordine-disordine, portano la poesia a trasformarsi, come ebbe a scrivere lo stesso Fortini, in «vino di servi». E ancora un volta sulla scorta di Lukács, l’autore sostiene che la poesia è anche portatrice di conservazione «proprio in quanto forma che si oppone al mutamento». Essa è una rosa sull’abisso, un fiore sulla catene che ci legano alle ragioni del capitale. Alla centralità dell’arte come liberazione, dal romanticismo in poi corrisponde la reificazione delle attività umane. «Come la religione per Marx, l’arte e la letteratura sono ‘il cuore di un mondo senza cuore’».
      Un altro punto rilevante del pensiero fortiniano è quello relativo all’«uso letterario della lingua», cioè, nel caso della poesia, alle sue caratteristiche formali, al fatto che essa, secondo lo scrittore fiorentino, allude all’«uso formale della vita che è il fine e la fine del comunismo». Se la poesia è «vino di servi» essa è quindi anche, dialetticamente, forma del futuro, figura che anticipa dantescamente un mondo diverso. Dar forma alla propria esistenza, autoeducarsi, progettare per un fine, darsi una norma (per poi eventualmente contestarla in nome di un’altra norma), sono le dimensioni essenziali per il soggetto di fronte alle ormai secolari ideologie del nichilismo, dell’eterno presente, dell’ottimismo tecnocratico, che si oppongono ad ogni liberazione dell’uomo. È, questa, una dimensione che si avvicina molto al processo educativo fatto essenzialmente di un faticoso e contraddittorio cammino di conquiste conoscitive, di esperienze intellettuali e umane a volte estreme e imprevedibili, in una prospettiva di progressiva «formalizzazione», cioè acquisto di coscienza, della persona di fronte alla vita nel mondo. «E la capacità di ’formare’ non più solo opere d’arte ma la vita medesima, — scrive Fortini — di determinarla insomma, è direttamente in rapporto con la capacità di andar oltre l’uso della vita cui ci costringe il lavoro alienato».
      Il secondo scritto del volumetto è intitolato Metrica e biografia e alterna argomentazioni di carattere generale a riflessioni autobiografiche sulla propria esperienza di poeta. Il titolo richiama una poesia dello stesso Fortini del 1956 che svela in alcune strofe — distici di prevalenti endecasillabi, rimati solo nelle due ultime strofe — la dicotomia bruciante, pur nella rivendicata interezza dell’io, che accompagna l’opera e la vita di Fortini: «In alto, all’aria erta, ai fili d’erba/ ai voli esili e ripidi dei rami/ nelle grotte più chiuse dove cupa/ molto contro le mura, onda, tu suoni,/ dentro l’afa di calce media e merce/ dove l’ossido si disfà/ una ho portato costante figura,/ storia e natura, mia e non mia, che insiste,/ derisa impresa, ironia che resiste,/- e contesa che dura».

      Aroma spirituale

      Anche nel testo in prosa è forte la consapevolezza di questa dicotomia che segna l’esperienza poetica. Una consapevolezza nata del fatto che «una poesia – scrive l’autore – che si disgiunga dalla coscienza costante di tutto quello che poesia non è, si degrada ad ’aroma spirituale’, a ipocrita ’cuore di un mondo senza cuore’ o, come una volta m’accorse di dire, a ’vino di servi’».
      Il fascino per la metrica, come misura e valore ordinatore, deriva a Fortini dai sui studi classici e dalla consapevolezza che senza una lingua costruita e durevole certe verità rivoluzionarie non possono essere dette. «Metrica come misura, mezura ossia senso del limite opportuno ma anche dell’illimitato che sta al di là… Certi campioni di misura, in meccanica fine, si chiamano giudici. Metrica, giudizio».
      Fu proprio Fortini a ricordarci che l’uso degli antichi modelli della poesia classica cinese servivano a Mao Zedong a distanziare la bruciante attualità e crudeltà della rivoluzione in corso in Cina tra Lunga Marcia, invasione giapponese, signori della guerra. Metrica vuol dire riuso, ripresa, durata. Il contrario di ogni vitalismo avanguardistico (che tuttavia nei suoi risultati poetici migliori ha contribuito anch’esso a creare un’«altra» metrica, quella del cosiddetto «verso libero»).

      Abitare la frontiera

      Di questa metrica, sempre più sostituita o affiancata, scrive l’autore, da figurae elocutionis (ripetizioni, accumulazioni, allitterazioni ecc.), ci sono tracce e lacerti anche nella poesia contemporanea di cui Fortini ci fornisce un campione che spazia dai suoi stessi versi a quelli di Montale, Sereni, Giudici, Zanzotto e tanti altri.
      Mettere in tensione metrica e storia significa per Fortini abitare i confini. Questi confini alludono ai confini dei saperi e dell’esistenza, a spazi da vivere con la felicità di tendere ad una riunificazione del genere umano, mortificato e alienato dalla divisione del lavoro imposta dal capitale ormai da tre secoli: «Nel linguaggio delle diplomazie le ’questioni di frontiera’ non sono che le contestazioni per la linea di confine tra due stati. La modesta metafora allude ad aree infradisciplinari, a punti di contatto o di frizione fra conoscenze, intenzioni, finalità diverse. È l’area dove vorrei fosse impossibile distinguere fra giudizi letterari, considerazioni di costume, critica della cultura, valutazioni politiche».

      (da http://ilmanifesto.info/il-fascino-della-metrica/)

  5. ..avevo l’imbarazzo della scelta su dove mettere questo mio commento. Scelgo questo post, perchè l’intervento sulla “demagogia” di questo Samizdat è l’opposto concorde che , come dice RS, torna comodo , molto comodo a Orbilius. Devo dire anche che mi sono alquanto sentita presa per i fondelli dall’intervento dell’altro Samizdat sull’ormai mitico post “isis= nazisti?”, che in nome di chissà quale nobile titolo acquisito sul campo dell’araldica “militanza”, anziché dare strumenti per pensare con la propria testa (anche con il mezzo o strumento poetico) , tirava fuori tutto l’armamentario fino a quello di oggi di un Toni Negri.

    Più si invita a una lotta che lo sia ben più efficace di tutti i fallimenti accumulati anche con i negri ben diversi da Malcom X ma anche Alce Nero, più s’invita ai mea culpa, per l’abbandono di santoni che hanno fatto il loro tempo, e non questo, più si viene travolti da un papocchio per intellettualodi che non sanno più manco dove sta di casa il nemico, figuriamoci le strategie ma anche le piccole piccolissime tattiche per darsi a un proselitismo e a un ecumenismo fattivo (se proprio piacesse loro l’ismo e non ne potessero fare più a meno) capace di far pensare ai molti o ai pochi, concentrandosi almeno su una cosa, solo una, pensare con la propria testa! e al massimo in buona compagnia di Eschilo o Shakespeare, Harold Pinter o Octave Mirbeau… Che ci vuole Toni Negri, Revelli o cazzo bubbolo qualsiasi (inclusi i cazzi bubboli meno bubbolini come Fortini) per parlarci dell’inchiappertata che ci hanno apparecchiato, peraltro da mo’. Sarebbero ridotti così i poeti? Al massimo quelli conformi al Potere hanno bisogno dei loro santoni, non gli altri o i addirittura i cosiddetti esodanti. O no? E se anche i moltinpoesia qui o altrove, devono rincorrere mille strade e pianeti, per cercare dove è finita la propria testa per pensare, basta mettersi in viaggio, possibilmente non presi per i fondelli e sballotati con letture e controletture in cui viene accolto tutto e il contrario di tutto per il piacere di una pseudodialettica.

    Senza nessun altro, tranne che il proprio corpo mozzato , alla ricerca della propria testa, con altri corpi decapitati come il tuo, ma non alla ricerca di una testa di un millepiedi, e poi di una tartaruga, ma poi anche di un canguro o di una mosca, no! possibilmente quella con le fattezze di un volto che ormai è pure difficile scrivere umano.

  6. Avverte Rita Simonitto: scavare più direttamente e da vicino nei bisogni, desideri e problemi (Ennio) “è solo una modalità parziale per entrare in contatto con la complessità del mondo sia personale che collettivo”.
    E’ vera la non autosufficienza della poesia: la poesia non è tutto lo scavare. Però è vero anche che il poeta scava con la poesia. La forma che genera la vita, di Sagredo?
    Non è solo uno strumento espressivo/interpretativo, ma anche un atto linguistico, trasforma e collega. In questa dimensione è un po’ meno strumento parziale. Perchè immaginare i moltinpoesia come una moltitudine di singoli isolati?
    Voglio separare la critica delle corporazioni letterarie, dalla critica alle poesie di stoppa, finte, che non dicono niente di vero e di nessuno, che possono stare dentro o fuori le corporazioni. In fondo la poesia è quella che abbiamo davanti, quella che raggiungiamo, è quella che è: tra paratie e in containers, oppure vagabonda per le strade (del web). Parlare di poesia, leggerla e parlarne, non solo scriverla. Poesia e critica, mai l’una senza l’altra.

    1. * Poesia e critica, mai l’una senza l’altra* (Cristiana)
      Perfetto! Così come è valida l’osservazione sulla poesia che * Non è solo uno strumento espressivo/interpretativo, ma anche un atto linguistico, trasforma e collega*. Bene, e ringrazio Cristiana per averlo chiamato in causa, questo ‘atto linguistico’ nelle sue potenzialità.
      Ma poi aggiunge: *Voglio separare la critica delle corporazioni letterarie, dalla critica alle poesie di stoppa, finte, che non dicono niente di vero e di nessuno, che possono stare dentro o fuori le corporazioni*.
      Ora anche le cosiddette *poesie di stoppa, finte, che non dicono niente di vero e di nessuno* sarebbero ‘atti linguistici’, per lo meno per chi le scrive, per i parenti più prossimi o gli amici che possono sentirsi onorati di essere vicini a ‘cotanto ingegno’. Dobbiamo, forse, come polemicamente dice Samizdat a Orbilius, *sputare* su quella *vitalità sgangherata, grottesca e perfino oscena*? Certo che no!
      Allora, dove si esercita la ‘critica’?
      Io credo che questa operazione si debba esplicitare non tanto all’esterno quanto all’interno della poesia: la critica è consustanziale alla poesia stessa.
      Perché la poesia rappresenta la ‘crisi’ del passaggio da un sistema interno di rappresentazione a un sistema linguistico di espressione con le sue regole, i suoi canoni più o meno rispettati ma che pur ci sono. Né più né meno di come è il travaglio della parola per esprimere il proprio intendimento. Solo che la poesia rappresenta un uso particolare della parola e la cui aspirazione è appunto quella di essere un atto linguistico di grande potenza evocativa, che trasforma e collega.
      Qui viene in ballo la persona del ‘poeta’, la funzione ‘critica’ di cui dovrebbe essere dotato come soggetto pensante. E questo atteggiamento ‘critico’, in collegamento con quello della poesia, gli fa percepire le difficoltà, le discrasie implicite nei processi di rappresentazione e di trasformazione. E lo farà operare sia nei confronti della forma che dei contenuti valutandone l’utilità ‘universale’ della loro messa alla luce espressiva attraverso lo specifico dire poetico.
      Non gli basta sentire che ciò che scrive *è vicino a desideri, bisogni e problemi*.
      Correndo il rischio che la *nebulosa poetante* confermi poeta solo colui che la rappresenta, appunto, nei suoi *desideri, bisogni e problemi*, operando, a sua volta, una esclusione di altri, magari quelle ‘eccellenze’ che possono portare maggiori conflitti perché ‘emergono’ dalla ‘indistinzione’.
      Ricordo, ai tempi di “la classe operaia deve dirigere tutto”, l’acredine che c’era verso tutto ciò che ‘sapeva’ di ‘intellettualità’, letta in termini di ‘borghese’ e perciò ‘nemica di classe’. Salvo poi fiondare acriticamente, come si è visto, nelle braccia dei più beceri intellettuali!
      Ma la poesia non dovrebbe rappresentare le dinamiche del reale nelle sue contraddizioni e non solo quelle di una parte?
      Al di là della corriva battuta se le masse possono o meno plasmare il mondo o esserne invece plasmate, e al di là di ogni ideologia, sarebbe da capire meglio come può funzionare il concetto di ‘includente’ (e non ‘escludente’) riferito al rapporto ‘eccellenza’ e ‘mediocrità’.

      R.S.

      1. Hai ragione, Rita, la critica si deve “esplicitare … all’interno della poesia: la critica è consustanziale alla poesia stessa”. Il soggetto pensante poeta opererà “sia nei confronti della forma che dei contenuti valutandone l’utilità ‘universale’ della loro messa alla luce espressiva attraverso lo specifico dire poetico”. E ciò avviene tradizionalmente… con la critica.
        Non credo che esistano altre soluzioni se non operare all’interno della comunità poetica (artistica, letteraria) in modo attivo. Con una fiducia reale nei lettori, professionisti e meno.
        Senza privilegiare la critica al mondo dei letterati, ma piuttosto interloquendo con le loro eventuali chiusure.
        In particolare, l’articolare in modo includente il nesso tra eccellenza e mediocrità come può avvenire se non con una continua partecipazione e confronto? A cosa altro potrebbe servire l’essere moltinpoesia se non a verificare l’eccellenza? E come stabilirla se non in un “tra i molti”, promuovendo acribia, meraviglia, apprendimento?
        Sono ingenua e ottimista, è probabile, ma chi *veramente* potrebbe preferire le mie poesie a quelle di Franca Grisoni? Ma siccome anch’io la ho letta, in qualche modo le mie poesie avranno un dialogo interno con le sue. L’insieme sarà un terreno comune su cui le sue potranno meglio rifulgere e stagliarsi. Lo sappiamo, tutti riconosciamo la grandezza. E partecipiamo ad essa ciascuno a modo suo, utile e degno.
        Ma forse il clima natalizio mi intenerisce (ammoscia) il cervello.

        1. “…l’insieme sarà un terreno comune …”, le composizioni eccelse e mediocri, sono d’accordo con te Cristiana. Per la stessa ragione a me piace l’espressione “sottobosco” poetico, anche se ad altri non piace, perchè esso affonda le sue radici nello stesso terreno dove si inalzano pini e querce secolari…Dal basso della loro modesta dimensione, le eriche, i corbezzoli, le ginestre del bosco apportano un loro contributo di colori e di profumi, e sono più vicine alla terra; piccole piante che si sviluppano all’ombra delle sorelle giganti che guardano con ammirazione (se fosse invidia sparirebbero), per via di quel loro elevarsi sino al cielo. Insieme possono anche dialogare, crescere, osservare e conoscere, dai più svariati punti di vista, la natura…
          Ditemi che non è solo per via del natale!

        2. @ Annamaria
          Queste tue immagini poetiche (*a me piace l’espressione “sottobosco” poetico, anche se ad altri non piace, perchè esso affonda le sue radici nello stesso terreno dove si innalzano pini e querce secolari…*, e di seguito * Dal basso della loro modesta dimensione, le eriche, i corbezzoli, le ginestre del bosco apportano un loro contributo di colori e di profumi, e sono più vicine alla terra; piccole piante che si sviluppano all’ombra delle sorelle giganti che guardano con ammirazione*, e, infine * Insieme possono anche dialogare, crescere, osservare e conoscere, dai più svariati punti di vista*), sono molto belle e non solo *per via del natale*!
          E danno certamente da pensare! Innanzitutto ad un sistema ‘armonico’ in cui – estrapolo dal concetto di ‘comunismo’ – “ognuno dà secondo le sue potenzialità e ognuno riceve secondo i suoi bisogni”. Però un sistema ‘chiuso’ e quasi autoregolantesi in una circolarità che sembra auto-contemplare la sua bellezza.
          (Questa piena contemplazione della bellezza fa richiamare alla reciprocità dello sguardo tra mamma e bebè nei primissimi tempi della loro relazione, fintantoché non interviene la figura ‘terza’ del padre).
          Vengono esclusi elementi ‘esterni’ che possono portare turbative a questo mondo idilliaco: un forte vento che può sradicare l’albero più svettante e la sua caduta che può trascinare rovinosamente con sé i compagni che gli stavano attorno; oppure un fulmine che può colpire la cima di un abete e il fuoco che ne segue può propagarsi in modo veloce a causa del sottobosco più facilmente combustibile.
          *Dialogare, crescere, osservare e conoscere, dai più svariati punti di vista* non sono attività ‘naturali’ – a parte il termine ‘crescere’ che sarebbe più opportuno sostituire con ‘maturare’ – ma specificatamente ‘umane’. Siamo noi che, in un procedimento di antropomorfizzazione proiettiamo queste nostre capacità nel mondo animale/naturale che ci circonda. Sono invece procedure complesse che dobbiamo apprendere con un certo impegno. ‘Dialogare’ significa presupporre che c’è un ‘altro’ con la cui ‘alterità’ dobbiamo metterci in contatto, e ciò non è per nulla semplice nonostante le nostre buone intenzioni. Facciamo enorme fatica anche ad entrare in contatto, a dialogare, con le nostre parti che non ci piacciono e che quindi sentiamo ‘aliene’ e le rigettiamo all’esterno! E anche per questo che ci sentiamo spinti a cercare l’omoios, l’uguale, credendo che, uniti dagli stessi intendimenti, le cose procedano più semplicemente, senza scarti, senza scosse. Salvo poi verificare che non succede così.

          @ Cristiana
          * il nesso tra eccellenza e mediocrità come può avvenire se non con una continua partecipazione e confronto*.
          * A cosa altro potrebbe servire l’essere moltinpoesia se non a verificare l’eccellenza? E come stabilirla se non in un “tra i molti”, promuovendo acribia, meraviglia, apprendimento?*
          * Sono ingenua e ottimista, è probabile, ma chi *veramente* potrebbe preferire le mie poesie a quelle di Franca Grisoni?*

          Abbi pazienza, Cristiana, e con tutto il rispetto per le poesie di Franca Grisoni: se voglio ‘capire’ meglio alcune cose del mondo e uscire dal ‘particulare’, sinceramente preferisco alcune tue poesie! E siamo, e di nuovo abbi pazienza, non ancora nel campo dell’eccellenza, ma, senza dubbio alcuno, del pieno merito. Alcuni tuoi versi mi dicono molto di più e, come commentava Mayoor da qualche parte a proposito di una delle funzioni della poesia, mi sollecitano alla scrittura. Toccano delle corde interne. Soggettive. Come magari succede a te con le poesie di Franca Grisoni. E allora? Come mettiamo assieme queste ‘soggettività’?
          Riprendiamo le domande: che cosa ‘apprendere’ e, soprattutto, ‘come’ apprendere? Dobbiamo comportarci da bulimici per cui non possiamo trascurare nulla, o dobbiamo farci delle mappe interiori di priorità? Mappe che devono essere frutto di esperienza, di un lavoro che, in parte, trascende la soggettività. Quanto alla ‘meraviglia’, devo dire con Giambattista Marino: “E’ del poeta il fin la meraviglia: parlo dell’eccellente e non del goffo: chi non sa far stupir, vada alla striglia!”? Oppure renderci conto che provare stupore dovrebbe essere il prodromo per poter pensare e non il suo sostituto, come oggi, di fatto, spesso è?

          R.S.

          1. “che cosa ‘apprendere’ e, soprattutto, ‘come’ apprendere? … dobbiamo farci delle mappe interiori di priorità … frutto di esperienza, di un lavoro che, in parte, trascende la soggettività”.
            Già, ma non sono, le Mappe (che tu nomini al maiuscolo) altrettali ipotesi soggettive, a ben vedere, da sottoporre a verifica? Come Mappe Letterarie e come Mappe per il tempo in cui siamo?
            Non so se si possa parlare di bulimia in periodi di esplorazione, o di emigrazione, mi sembra che non accada.

  7. « pensare con la propria testa! e al massimo in buona compagnia di Eschilo o Shakespeare, Harold Pinter o Octave Mirbeau… Che ci vuole Toni Negri, Revelli o cazzo bubbolo qualsiasi (inclusi i cazzi bubboli meno bubbolini come Fortini) per parlarci dell’inchiappertata che ci hanno apparecchiato, peraltro da mo’. » (ro)

    Pensare con la propria testa, sì. E tuttavia nulla garantisce che la propria testa pensi giusto. Ognuno faccia le letture che gli garbano. Ma, signora, se lei frequentasse davvero « Eschilo o Shakespeare, Harold Pinter o Octave Mirbeau», dovrebbe avere ripulito il suo lessico da certe rozzezze tipo «cazzo bubbolo», «cazzi bubboli». Quanto alle « letture e controletture in cui viene accolto tutto e il contrario di tutto per il piacere di una pseudo dialettica», va ricordato che le SEGNALAZIONI di “Poliscritture” non propongono il “catechismo della pseudodialettica” ma dati e opinioni su cui ragionare. Se lei, si ferma alla firma e comincia a sprizzare veleno, faccia pure. Un tocco di folklore plebeo non guasta.

  8. Si potrebbe obiettare che “Mettere in tensione metrica” equivalga, come si suol dire, a mettersi in riga.
    Il nobile intento di “tendere ad una riunificazione del genere umano, mortificato e alienato dalla divisione del lavoro imposta dal capitale” servirebbe a creare la terra promessa: ” l’area dove vorrei fosse impossibile distinguere fra giudizi letterari, considerazioni di costume, critica della cultura, valutazioni politiche”. Terra promessa che si fa terra di confine. Di qua la storia, di là le terre inesplorate e selvagge dove regna il caos e la sopraffazione. Di qua il passato, di là l’incertezza del futuro.
    A me sembrano discorsi che mal si adattano all’anarchismo della poesia, che considero scienza libera da ogni definizione costituita. Libera per necessità, s’intende, anche perché, di fatto, ogni suo verso è non nato (mai scritto prima). Quand’anche in forma classica, o in metrica perfetta, apparterrebbe comunque a terre inesplorate. A meno che ci si contenti, ogni verso fa tremare la forma nelle fondamenta.

    1. Mettersi in riga, Mayoor, puede ser , ma mai e poi mai facendo il passo dell’oca. Ogni verso è mai nato prima? neanche ogni sugo, neanche un’unghia. E che vuol dire? L’unghia ti cresce insieme ai capelli e ai sughi che mangi, e i versi insieme a quello che leggi e con chi parli e chi ascolti e perfino chi leggi! Ti vorrei proprio vedere, a scrivere le tue stesse poesie, che so, sul mar Nero insieme a Ovidio, o ad Alessandria con Ungaretti.
      Le terre inesplorate sono nel futuro, che t’importa del tipo di bagaglio che ti porti dietro? Scarpe pane e poco altro serve. Qualcuno misura i metri, qualcuno erra. E allora?

      1. e allora… non capisco la tua domanda. Ai poeti le poesie non crescono come unghie, altrimenti le avremmo in ogni forma. E così il resto. Calvino disse di sé di essere comunista non per scelta ideologica. Ti pare possibile? a me sì, basta che conosci la povertà… so sempre da che parte stare perché a sessant’anni non ho bisogno di capire dove sia ideologicamente giusto stare. E il passo dell’oca lo facevo tirando i dadi quand’ero piccolo. Vivo nel dubbio che dicendo di voler capire si cerchi di mettere le cose in un ordine superiore, storico o religioso che differenza fa? La forma della poesia sta crollando a pezzi, così come tante altre cose; riconoscere poesia dalla prosa diventerà sempre più difficile: non basterà l’a-capo e il verso breve potrebbe rivelarsi un camuffamento. La poesia sta cambiando casa. Traslocando si porta via le foto dei suoi antenati. E forse si deciderà a buttare le vecchie pantofole.

  9. @ Mayoor: alcune tue affermazioni mi sono parse tautologiche o categoriche.
    Scrivi: “Si potrebbe obiettare che ‘Mettere in tensione metrica’ equivalga, come si suol dire, a mettersi in riga” giudizio tranchant, perché mettersi in tensione metrica vuol dire mettersi in riga? ‘mettersi in riga’ poi parrebbe cosa decisamente disprezzabile, quasi fare il passo dell’oca…
    Scrivi: “Libera per necessità, s’intende, anche perché, di fatto, ogni suo verso è non nato (mai scritto prima)”: pura tautologia, ogni cosa non è mai nata prima di nascere, anche le unghie appunto. Se la libertà della poesia risiede in questo, è un po’ poco.
    Poi scrivi: “Quand’anche in forma classica, o in metrica perfetta, apparterrebbe comunque a terre inesplorate. A meno che ci si contenti, ogni verso fa tremare la forma nelle fondamenta.” La categoricità dell’espressione non dice molto sulla forma, sulla metrica, sulla prosa, è solo un appello, un auspicio. Meno bagaglio in proclami, per lavorare con leggerezza.

    1. E’ il mio parere. Per quanto mi sforzi non so muovermi nella dialettica. So che ogni mia affermazione andrebbe approfondita e motivata, ma ragiono in modo intuitivo, seguendo i pensieri del periodo di tempo che sto vivendo. Non posso farci niente. Scrivo poesie perché poesia mi consente voli rapidi su distanze minimali e galattiche. Spiace. E poi diciamocelo, non è che Fortini sia un poeta qualunque; Ennio ne parla come fosse un faro di luce, ma la posizione di F, anche nel dubbio appare è chiara: se proprio vogliamo parlare di proclami, sarebbe opportuno considerali tutti.

      1. La mia posizione sulla forma della poesia è presto detta:
        1 – La poesia scritta “tipografica”, è cosa recente. Di fatto, fino alla fine del XIX sec. le varie costruzioni del verso risentivano delle origini musicali della poesia, che si perdono nella notte dei tempi.
        2 – Con il verso libero si è cominciato a cambiare (e mettiamoci Pound sopra tutti). Ma il verso libero si è disunito per strade differenti: da un lato si è fatto recitativo ( vedi il caso qui presente di Sagredo), dall’altro s’è ingentilito nel verso breve. In tutti i casi è sorvegliato dalla rilettura a voce, che smussa, leviga e corregge. Quindi è ancora Canto, non parola tipografica.
        3 – Quel che sostengo è farina del mio sacco, e deriva unicamente da pratica
        e letture. Preciso anche che io leggo per allenamento, non solo per fare conoscenza. Sono pigro, se non condivido la scrittura di un autore lo lascio ala suo destino e dimentico. Non mi considero un lettore.
        4 – Sono del parere che i generi letterari andranno via via confondendosi prendendo nuova linfa uno dall’altro. Il presupposto sta nell’aver constatato che Poesia non è la sua forma, ma è altro. Fortini la individuò nel verso breve e nei frequenti a-capo; io , ancor più modestamente, penso che si tratterà di brevi composizioni basate sull’imprevisto di parole e significato.
        5 – Lo ribadisco: per me la metrica è canto, non parola scritta tipografica ( la definizione “tipografica” l’ho trovata per la prima volta nei discorsi di Lello Voce).
        6 – Sono prontissimo a confrontarmi su questi temi, ma è cosa per poeti; non mi va di tradurre ogni epifania in pensiero razionale, non è esattamente questo il mio mestiere.

        1. Io sono lettrice, invece. Il canto mi risuona: legando, e scomponendo, l’argomentazione. In quella tensione tra collegamenti armonici, dell’affetto, -non solo del ritmo ma anche dei suoni e delle figure- e scomposizioni dell’argomentare razionale, rilevo il di più che per me fa la poesia. Un di più che consiste in verità dell’affetto e verità della argomentazione che, non a caso, confliggono. Non a caso, intendo, perchè l’affetto è immediato, o acquisito (la “forma”), ma l’argomentazione lo spinge avanti, contraddicendolo o costringendolo a uscire fuori da sé.
          Probabilmente è cosa vecchia, non ho remore ad ammetterlo. Ma se manca la riconoscibilità, e la contraddizione con quella, cosa leggo? Nel vuoto?
          Nel vuoto però si scrive, si avventura l’ideazione, credo sostieni tu. E se non mi risuona in nulla? Come faccio a “capire” (ricevere, accogliere) se non si collega a niente?
          Per me questo discorso viene prima di forma, di versi, di poesia-prosa. (Anch’io comunque se non condivido lascio liberamente al suo destino.)

  10. Non temere, questa faccenda del vuoto ce la dimenticheremo presto. Secondo me è solo timore e sfiducia, più solitudine e mancanza di riferimenti certi. Io parlavo solo della forma, non del contenuto. Anche quando non senti di avere da dire la poesia ti viene in soccorso. C’è un compendio, almeno per come la vedo io, che unisce poeti formalmente straordinari, come Tranströmer, con altri di sommo contenuto, come Czesław Miłosz. Ma non ne mancano anche in Italia. Non c’è solitudine nella storia.

  11. PER RIFLETTERE DI PIU’ SULLA METRICA

    “Mettere in tensione metrica” equivalga, come si suol dire, a mettersi in riga” (Mayoor)

    “Nel ‘disordine (o caos) programmato della poesia contemporanea è però tuttora in corso una battaglia tra metro e ritmo. In Italia chi, secondo me, ha fatto capire meglio che cosa sia in ballo in questo scontro – anche politicamente, lo sottolineo – è stato Franco Fortini (Cfr. Sulla metrica e la traduzione, ma anche Metrica e biografia in Saggi italiani). Perché, abbandonando più di altri un discorso solo tecnico-teorico, colloca la questione metrica nella cornice del rapporto storico (e conflittuale) tra tradizione e innovazione come si è sviluppato in epoca industriale e capitalistica.
    Riassumo le sue tesi. Fortini stabilisce una relazione tra metrica e autorità. La metrica (regola oggettiva, sociale), che è un tipo di autorità consolidatasi nel corso della storia letteraria, col Novecento è stata sempre più svalutata a vantaggio del ritmo (regola soggettiva), fino ad essere rifiutata e sostituita in certi casi solo dal ritmo e dall’attenzione dei poeti soprattutto ai valori fonici. Tenendo conto che il metro è misurabile e che il ritmo è incommensurabile, Fortini coglie tra loro lo stesso rapporto – di tensione e non di mera subordinazione – che, secondo Saussure esiste tra la langue (aspetto sociale del linguaggio verbale) e la parole (il suo aspetto unico, individuale, irripetibile). Estremizzando per capirci: il metro è, dunque, regola, vincolo sociale; e rimanda indirettamente alla dimensione della politica e della razionalità; il ritmo è, invece, l’unicità, l’individualità, la spontaneità, al limite il capriccio o il gioco, la ricerca del piacere, dell’evasione, della felicità, dell’utopia, dell’assoluto. E, dunque, possiamo dire che i rapporti tra metro e ritmo rimandano o sono indizio importante dei rapporti reali non neutri, ma gerarchici e conflittuali, tra gruppi sociali e individui ( e singoli). Se il ritmo è mimesi dei moti dell’animo individuale, il metro è invece un ritmo che si è imposto socialmente; ed è diventato istituzione (regola, norma). Che svolge una funzionalità obbiettiva. Non è soltanto un imperativo esteriore. Non è solo violenza organizzata o repressiva contro il ritmo del linguaggio quotidiano o corrente o individuale, che troppo facilmente viene giudicato libero solo quando devia dalla norma. (Tra i due elementi si potrebbe dire c’è lo stesso rapporto necessario e complementare che, in un famoso esempio, Kant stabiliva tra il volo della colomba e il vento). In un passaggio Fortini definisce il metro «una conchiglia dove si ode un rombo impreciso» (306). Che è quello della storia o dell’inconscio politico (Jameson) sedimentatosi nel linguaggio poetico. E va ascoltato. La metrica – dice in altro passaggio – è l’inautenticità. Che però può permettere di fondare l’autenticità (309). Conservare perciò la memoria metrica aiuta a guidare l’impulso ritmico verso un progetto, a dargli forma. E l’operazione va condotta in modo critico. Non deve ridursi a una cieca ed esteriore obbedienza alla tradizione. (Fortini fa un esempio personale che sarebbe da meditare: la sua scelta, dopo vari tentativi falliti, del metro fondamentale ne La poesia delle rose : «sapevo che dovevo muovermi attorno all’endecasillabo ma evitarlo»).
    Per Fortini (ma anche per altri) la scrittura poetica non è perciò mai a-regolata (senza regole). Non lo può essere, anche quando lo pretendesse. La trasgressione stessa in poesia sottintende e presuppone sempre la regola. E, anche se la discontinuità, impostasi dall’inizio del Novecento è forte e si è arrivati all’abolizione (la possiamo definire anarchica) della metrica «in nome dell’identità forma/contenuto», a suo parere persistono comunque «surrogati metrici» (enjambement, maiuscole all’inizio d’ogni riga, parti in bianco sulla destra della riga). Gli stessi versi liberi, dunque, non lo sono mai del tutto e mai arrivano alla mera ritmicità prosastica della lingua quotidiana corrente. La metrica tradizionale per Fortini è davvero finita, ma ciò non significa che essa sia irrilevante, poiché nelle varie esperienze in corso egli coglie i segni del maturare di una «nuova metrica», riassumibile attorno alla formula: da un isocronismo sillabico a un isocronismo accentuale. [Su questo rimando al libro di Giovanetti…]

    (DA https://www.poliscritture.it/2014/11/22/gli-strumenti-della-poesia-lezione-1/)

  12. FORTINI, DETTO ANCHE “IL FARO DI LUCE”:
    COME LAVOR0′ A “LA POESIA DELLE ROSE”

    “Ero stato quindici giorni a Roma, fra marzo e aprile del 1962, a
    lavorare al testo di un film documentario sulla Rivoluzione russa e
    l’età di Stalin, che poi ho pubblicato. Un pomeriggio attraversai a
    piedi Villa Borghese. L’immagine convenzionale della Roma da
    « Dolce vita ». ma con in più una asprezza e un confuso nesso di
    attrazione e ripulsa, mi si concretò nella immagine di pesante ero-
    tismo degradato delle rose unite alla polvere e alla aridità delle an-
    fore e delle terracotte secolari. Quando, a Milano, qualche tempo
    dopo, fissai una decina di versi, costituirono l’inizio e la fine della
    poesia che avrei scritto. E siccome i primi, sul modo sarcastico e di-
    grignante, annunciavano una notte di catabasi e catastrofe, gli ultimi (secondo uno schema ben noto) sarebbero stati quelli di un’alba disperata/felice, di un « nonostante tutto ». A questo punto, c’era uno spazio intermedio che doveva essere colmato dagli eventi mentali di una notte. La scelta, ma non preordinata, era di tensione, di andirivieni lungo la diacronia della lingua italiana; scelta a me inconsueta.
    E per questo sentivo il bisogno di una incantenatura metrica rigo-
    rosa. Non rime però, se non occasionali. Sfrenarmi invece nelle allit-
    terazioni, negli omoteleuti, nelle cacofonie intenzionali. E strofe, di
    sette versi. Che in ogni strofa ricorresse la parola « rosa », ma che
    ogni artificio fosse messo in opera per stringere e rendere compatto
    il testo. Per diffidenza verso la capacità di sostenere un discorso troppo lungo, le strofe mi si ordinarono in gruppi di tre. Capivo che avrebbe dovuto essere una allegoria di un itinerario di salvezza,
    dall’eros orgiastico alla apocalissi religiosa, alla discesa agli inferi
    dell’inconscio fino alla accettazione della storia e dalla contraddizio
    ne. Furono quasi sei mesi di lavoro da aprile a settembre e dalla
    mattina alla sera, per poco più di centoventi versi. La scelta del
    metro era stata decisiva. Sapevo che avrei dovuto muovermi intorno
    all’endecasillabo ma evitarlo. Una primissima stesura allineava dei
    decasillabi con rime e assonanze: ma subito dopo passavo a un ver-
    so che oscillava fra le 10 e le 14 sillabe, e cioè fra tre e cinque,
    ictus’maggiori, che successivamente tesero a ridursi a tre e quat-
    tro. Gli endecasillabi, spesso con accenti di 4a e 7a, sono tutta-
    via circa il 35 per cento del totaIe dei versi; conferma che è tut-
    t’altro che perduto il contatto con la misura tradizionale, anche se
    due su tre versi ne divergono. Ma la tenacia della tradizione e
    l’importanza del concatenamento di una strofa con l’altra spiegano
    perché, quando già le caselle dei gruppi di tre strofe ciascuno erano
    state, per così dire, riempite dal materiale elaborato e montato (e cioè, credo, in agosto) mi sono avveduto che il respiro strofìco di sette versi non sosteneva a sufficienza una certa intensità cavernosa o barocca che sentivo necessaria. Dovevo accrescere di almeno un verso la costruzione prosodica. Lo feci e credo di esserci riuscito – meno in un caso, dove avverto ancora la zeppa – per arrivare alla buffa conclusione che avevo scoperto l’ottava… Si capirà perché per tanti anni quel testo e stato considerato dai critici, ma anche da me, un mostro, e un equivoco. Lo era.
    Era un esperimento di chiusura e liquidazione che avrei saputo riprendere solo qualche anno fa. Que-
    sta e altra aneddotica personale non inganna nessuno, spero e non
    spiega quasi nulla. La capacità di controllo critico deve, di necessità,
    essere inferiore a quella di scrittura. Si può essere, come sono,
    nimicissimo di ogni auscultazione dell’inconscio; eppure la frase di
    Marx « non lo sanno ma lo fanno» sembra scritta proprio per gli au-
    tori di versi. Il «Se ne scrivono ancora» di una poesia di Sereni
    equivale a un « Si ama ancora », altro esempio di un fare che non, è
    sapere, nel senso corrente di autocoscienza”.

    (da “Metrica e biografia” ora in “I confini della poesia, pagg. 56-59, Castelvecchi, Roma 2015)

  13. “non mi va di tradurre ogni epifania in pensiero razionale, non è esattamente questo il mio mestiere” (Mayoor)

    Per favore spiegatemi perché le epifanie debbano essere intraducibili in pensiero razionale; e anche perché il pensiero razionale non si farebbe sentire (almeno un po’) nelle epifanie; e infine che ce ne facciamo delle epifanie se intraducibili o del pensiero razionale che si becca in testa un’epifania e se ne deve stare zitto e buono.

    P.s.

    Questa mia obiezione è rivolta anche a Paolo Statuti, che a proposito di Sagredo ha scritto:
    “Per me la poesia del caro amico Sagredo è semplicemente allucinante. Cercare di capirla è una perdita di tempo. E’ un po’ come quando si guarda un prestigiatore, resti affascinato da quello che fa, anche senza capire come fa. O quando si guardano i fuochi artificiali”.

    1. Caro Ennio,
      ho detto che non mi va, non che non si possa fare. Chi volesse può sempre tentare di sbrogliare versi epifanici come questi di Tranströmer:
      “Il geroglifico del verso di un cane
      è dipinto nell’aria sopra il giardino”
      Sono versi che si bastano, formidabili portatori di immagini, che tradotti perderebbero ogni bellezza… meglio ascoltare Bitches Brew di Miles Davis, dove si sente un cane abbaiare, di notte, nel frastuono di note luccicanti.
      Altrimenti direi, così su due piedi, che ce ne facciamo della poesia?

      Rimando a dopo un commento su quanto hai scritto di Fortini, e sulle sue parole. Trovo tutto molto stimolante per una riflessione, ma mi serve tempo . Grazie.

  14. @ Mayoor

    Non ti va per una ragione precisa: per te non solo quelli di Tranströmer ma i versi in genere «si bastano» e temi che « tradotti perderebbero ogni bellezza». Sei attratto dall’autonomia della poesia. Tendi a tenerla fuori dai “commerci razionali”.

    E mi pare che sei interessato quasi esclusivamente alla poesia come forma. E, infatti, anche quando, in un precedente commento, scrivi: «Il presupposto sta nell’aver constatato che Poesia non è la sua forma, ma è altro», non precisi cosa sia questo “altro”. E torni (sempre se non traviso quel che scrivi) a ridurre la poesia alla forma (o al testo), appellandoti anche a Fortini, che – scrivi – individuò la forma «nel verso breve e nei frequenti a-capo».

    Vorrei farti notare una cosa: la definizione che diede Fortini nell’intervista a RAI Educational nel 1993 (tante volte da me citata e commentata: http://www.emsf.rai.it/scripts/interviste.asp?d=299) è duplice:
    – « un tipo particolare di discorso parlato o scritto che si distingue da altri modi di comunicazione» (la forma linguistica); – «un’attribuzione di valore per cui si dice “poesia” per dire qualcosa di bello, di importante, di riuscito, di meritevole di stima o di attenzione» (un valore, dunque, complesso, difficile da spiegare ma che – dico io- non si deve rinunciare a interrogare e persino a tentare di spiegare).
    Riporto per intera la risposta:

    Professor Fortini, proviamo ad iniziare in modo diretto, immediato, con la domanda essenziale: che cos’è la poesia?

    Rispondere è come se si volesse rispondere a “che cos’è l’uomo” o a “che cos’è il mondo”. Bisogna aggirare la difficoltà. Ammettendo che si sappia che cos’è il linguaggio articolato di cui ci serviamo e quali sono i diversi aspetti, le diverse funzioni che coesistono in ogni atto del linguaggio, si può dire che nel linguaggio umano c’è una funzione che tende a mettere in evidenza soprattutto, o almeno in modo particolare, il linguaggio stesso, ad attirare l’attenzione sulla forma della comunicazione. Ebbene questa è la funzione poetica.
    Certo bisogna tener presente che quando si parla di poesia questa parola significa due cose: da un lato, appunto, un tipo particolare di discorso parlato o scritto che si distingue da altri modi di comunicazione; dall’altro, invece, un’attribuzione di valore per cui si dice “poesia” per dire qualcosa di bello, di importante, di riuscito, di meritevole di stima o di attenzione.
    Nel parlare comune, “poesia” significa due cose: per un verso è un discorso, o ragionamento, o una comunicazione dove prevalgono elementi di ritmo e cadenze, di ripetizioni, di immagini che alterano i significati immediati e che gli conferiscono, oltre ai primi, anche significati interiori. Per un altro verso, quando noi diciamo “questa è poesia” intendiamo in genere qualcosa di elevato e di nobile, di rassicurante o di commovente o di rasserenante, di vivace, pungente ecc.

    Che i versi «non si bastino» come tu dici, che non basti – aggiungo io – inchinarsi all’epifanie poetiche di Tizio o di Caio, che la traduzione (al limite una banale e elementare o – per certi poeti “oscuri” – una azzardata parafrasi) non danneggi la poesia ma le strappa di dosso orpelli sacrali ambigui e intimidatori (sui quali – tra l’altro – puntano i suoi Sacerdoti per gonfiare il petto e godere il plauso di ammiratori ed ammiratrici silenti o tutti ‘Oh!’ e ‘Ah!’) lo dice , sempre in questa intervista – ancora Fortini:

    11 Nessuna interpretazione esaurisce la poesia, ma nessuna poesia può fare a meno dell’interpretazione. Condivide questa affermazione?

    Direi senz’altro di sì. Leggere una poesia, anche fra sé e sé o ad alta voce, è eseguirla, interpretarla e quindi anche modificarla, ricrearla. In una certa misura criticarla. Quando si dice che un testo poetico non è interpretabile solo a partire da se stesso si allude alla sua situazione nella cultura e nella storia. Chiunque legga una poesia, indipendentemente dal suo grado di coscienza o di conoscenza culturale rapporta le parole a una sfera di competenza e di risonanza che non è soltanto linguistica ma che è di tutta la sua mente, di tutta la sua coscienza, di tutto il suo inconscio. Anzi questo avviene in un modo diverso, e possiamo dire, per certi aspetti, più profondo o più coinvolgente di quanto non sia per altre forme di comunicazione linguistica proprio perché è ambigua, proprio perché ha un’apparenza informativa, comunicativa e persuasiva che viene modulata, per dir così, in una forma. Questa forma diventa deformatrice del messaggio e lo rende risonante come avviene nel sogno, in cui certe figure, certi personaggi sono dotati di doppie identità. Questo potere è stato attribuito alla poesia da tutte le più remote e diverse tradizioni della poesia e tradizioni culturali, e questo spiega anche tra l’altro l’equivoco continuo che c’è tra la sacralità di tipo religioso e la funzione del poeta. L’idea che il poeta sia ispirato dalle muse o dall’inconscio o da qualche demone segreto o dalla divinità è qualcosa che effettivamente accompagna direi tutte le tradizioni perché vi è stata un’epoca nella quale la funzione della poesia era quella di comunicare con una zona oscura, esterna alla cerchia illuminata dal fuoco della tribù, nella quale e dalla quale lo sciamano, il sacerdote e il poeta, il cantore facevano pervenire, dicevano che pervenivano i loro messaggi.

    P.s.
    Prenditi, come me lo prendo io, tutto il tempo che vuoi per replicare. Meglio dei commenti meditati che il botta e risposta effimero o viscerale.

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