di Arnaldo Èderle
Oh quanto, quanto amore
Io, monster of cruelty, io che
presi la tua anima che rubai
la tua dolce anima e oscurai
il tuo bel corpo e lo avvinghiai
dentro il mio, io che te lo rubai
ladro senza peccato né colpa.
Perché senza peccato e senza colpa?
Me lo chiedo, perché sono un santo
o perché voglio attenuare le mie
voglie animali, perché voglio
trasformarle in pacifico trastullo
della vita e dei suoi
assalti inspiegabili però pieni
di forze forestali?
Chi mi spinge in questi immensi
deserti senza strade e alberghi notturni?
Chi mi alita sui timpani queste campane
di gaudio e indifferenza?
Non lo so non lo saprò mai, bui
timori mi invadono e oscure mani
mi spingono alle spalle verso vicoli
senza uscita.
Lo farò, non lo farò? Chissà che il mostro
della crudeltà che mi hanno detto che sono
non sia che una grande bugia o un modo
ambiguo di trattare la materia che mi forgia.
Vivrò nelle maglie della mia falsa
crudeltà o negli angoli scelti della mia
vita, senza grandi spostamenti
e senza piccole scappatoie
nelle strade e nelle case dei miei ospiti?
in piena libertà e nei trastulli delle
brave persone, dei santi dell’esistenza
di coloro che rispettano la vita dei vicini
e le loro mani immacolate e caste
sopravvissute ai pruriti dei ladri e dei
furfanti?
Sono quesiti da difficili risposte
o soltanto inutili?
Ahimè, non lo so. Non so distinguere un orso
da un gabbiano, se li vedessi accoppiati
non saprei dire qual è l’anima e il corpo
anche se il bianco del secondo non può che dire
anima e il suo volo libertà e purezza.
Le mie sono conoscenze soltanto materiali
nulla di definito si definisce nelle
differenze delle mie inconsistenti tautologie.
Sì, seguiterò a camminare sul mio sentiero
di diamanti neri e di candide bertucce
di uccelli con un’ala sola e di scimmie sapienti
sino alla fine della strada, la mia strada.
L’amore mi troverà sfinito
senza muscoli e brio, privo
d’oro e d’argento, sgomento, con gambe fiacche
e mani senza presa.
Poesia come un oggetto prezioso da conservare con cura. Fino alla fine “con mani senza presa”.
Ederle sempre sorprendente, questa volta mi ha lasciata commossa e malinconica. Un io/ noi che fa riflettere su coscienza e istinto. La religione forse anche qui….ha lasciato il suo segno
Grazie, cara Emilia, il tuo è il primo commento alla mia Proserpina. Un forte abbraccio
carissima Emilia. Arnaldo
..davvero “un oggetto prezioso” questa poesia di Ederle…dove “la crudeltà” si risolve in un incontro misterioso e assoluto, quanto osteggiato dal senso generalizzato del peccato e della colpa, tra diversi che si attraggono…Nell’ibridezza la nostra salvezza?: “Sì, seguiterò a camminare sul mio sentiero/ di diamanti neri e di candide bertucce/ di uccelli con un’ala sola e di scimmie sapienti..”Versi molto belli
… mentre la criminalità di guerra, di finanza e la manipolazione delle coscienze che non uniscono, ma spaccano e confondono godrebbero oggi di tutti i lasciapassare? Se posso aggiungere…
maschera di biacca, fino all’ultimo cambio “gambe fiacche e mani senza presa” il burattino è vuoto sulla scena
Faccio la figura del solito bastian contrario, ma trovo questa poesia alquanto ridondante, verbosa.
Si può ribattere, che quest’esperienza è stata vissuta / pensata / immaginata in tal modo, che questa forma fa parte dell’insegnamento che ciascuno ne può trarre. E può essere una risposta.
Quanto al contenuto, alla domanda cardine della poesia, che l’autore si pone all’inizio, si potrebbe obiettare che concetti quali colpa e peccato sono relativi: la prima perché, nei rapporti personali, va valutato anche il rischio di complicità della vittima. Il secondo perché è concetto tipicamente cristiano (o meglio monoteista), e che dunque rimane retaggio di chi lo avrebbe commesso. E lì finisce.
Ma – se si sente di aver commesso una colpa – molto meglio porvi riparo anche indirettamente, che porsi troppe domande.
Cara Cristiana, grazie del commento: “gambe fiacche e mani senza presa/ il burattino
è vuoto sulla scena”, ottimo finale! Un abbraccio. Arnaldo
Caro Arnaldo, forse avevo anche messo una punta amara nel mio commento: la tua scrittura mi piace molto, lo ho scritto molte volte, questa poesia però mi è sembrata un gioco di maschere, “quanta sincerità in quel bicchier d’acqua accanto alla finestra!” mi ero appuntata dopo la lettura. Un intenzionale gioco di maschere: la sua (della poesia) sincerità come non poter smettere di indossarle.
Ovviamente questa è solo la mia lettura. (Però: “Non lo so non lo saprò mai, bui/ timori mi invadono e oscure mani/ mi spingono alle spalle verso vicoli/ senza uscita.”)
Carissima Cristiana, vorrei tanto che questa tua interpretazione fosse giusta. Anzi, senz’altro lo è, ma, sai, la poesia ti conduce ad affermazioni, o interrogazioni di questo
genere. Come sottrarsi? Non lo so proprio! Uun forte abbraccio. Tuo Arnaldo