Breve la vita felice di Salvatore D.

di Giorgio Mannacio

1.
Il titolo di questo racconto è la parafrasi di quello di un celebre testo di E. Hemigway: Breve la vita felice di Francis Macomber. Cosa unisce questi due personaggi ? Nulla e tutto. Nei rimasugli del mio francese ho trovato una locuzione curiosa : Chateaux en Espagne che corrisponde al nostro Castelli in aria o Castelli di sabbia: insomma un progetto costruito con materiale friabili e indegni di essere utilizzati. Ecco quello che unisce Hemingway a Salvatore D.: la Spagna. Per quello che li divide si vedrà. Non ho voluto scrivere per intero il cognome di Salvatore. Posso dire che rimanda ad una città della Grecia classica e mi piace pensare che ciò attesti un’antica e quasi nobile origine della famiglia, poverissima, della quale faceva parte.

2.
Suo padre , malaticcio per una passata malaria, non era in grado di avere un lavoro stabile. Sua madre si divideva tra varie famiglie nello svolgimento di umilissimi lavori domestici. Il fratello sempre inseguito dalla Legge per piccoli furti e innocue zuffe vagabondava da un paesino all’altro della provincia. Salvatore era un giovane bruno di media statura, sempre allegro, vivace negli occhi e nella parola: un esempio di simpatia mediterranea. Era apprendista presso il barbiere locale, ma si assentava spesso. Preferiva svolgere piccole commissioni di vario genere. Gli davano modo di conoscere gente, chiacchierare e farla ridere. Aveva una straordinaria abilità nell’imitare voce, gesti e portamenti delle persone. Dal Nullafacente ( così chiamavano il barone del luogo ) al claudicante farmacista sino al parroco scontroso e accondiscendente secondo convenienza. L’esibizione più riuscita e che sollevava più ilarità era quella del Nullafacente che – dimostrando la sua autentica nobiltà – era balbuziente. Solo il cipiglio e l’elmo guerresco del Dittatore tratteggiati in nero su tutti i muri e che sembravano sporgersi ab eterno da un balcone d’aria – erano risparmiati. Azzardo ora: forse perché Lui era già una caricatura. Quando arrivava Carnevale e nei vicoletti si sentivano le urla semiumane dei maiali sgozzati ( molti vivevano gomito a gomito con queste bestie onnivore di cui “ tutto veniva utilizzato “ ), Salvatore passava di casa in casa eseguendo le sue più celebri imitazioni. Lo seguiva un corteo di bambini in festa. Erano, alla lettera. dei sanculotti. Alcuni portavano calzoncini aperti dietro, caratteristica che – presumibilmente – esonerava le madri dal compito di allentare le cinghie , a volte vere e proprie corde, in caso di impellenti bisogni del piccolo. Ho fatto a tempo a vederne ancora qualcuno quando – adulto – sono tornato nel paese di Salvatore combattuto in misura quasi eguale dalla voglia di rivedere i compagni del passato e il rifiuto di condividerne, anche solo a parole, il presente. Dunque, anche molto tempo dopo, mi si presentò la visione della struggente miseria dell’anno 1936.
La mia memoria – sulla quale costruisco questo racconto – si alimenta di piccoli rivoli di memorie altrui. A quella data avevo appena quattro anni. Cosa posso mai ricordare? Nell’età della cosiddetta innocenza ci sono solo avvenimenti sbiaditi e non memorie. Queste verranno più tardi. I fatti di quel tempo e i minuti particolari che ho descritto, così come la partenza di Salvatore mi sono stati raccontati da mio padre come “ piccola cronistoria paesana “ mescolata a qualche reticenza cui supplisce – e non sempre – un successivo apporto d’acqua di altre vene. In un mito inciso in greco antico su una lamella d’oro che si trova a pochi passi dal paese di Salvatore la dea della memoria – Mnemosine – sta accanto a una fonte d’acque gelide e cristalline che riflettono un cipresso millenario.

3.
Nei primi mesi del 1937, in una giornata di splendido sole, arrivarono in paese ,a bordo di una Fiat 20 dotata di strapuntini, tre personaggi facilmente classificabili come importanti. Dispensando a destra e sinistra quel saluto diventato noto come saluto romano o fascista entrarono nella Casa comunale. Non molto dopo il banditore – tra una rullata e l’altra del tamburo – annunciò che il P.N.F ( Partito nazionale fascista ) cercava volontari per quella la guerra contro gli anarchici e i comunisti che era in corso in Spagna. Non ho dati relativi all’adesione. Sta di fatto che quel giorno il paese perdette Salvatore e con lui il corteo di Carnevale. Il padre rimase indifferente e solo sua madre cercò di trattenerlo, ma i suoi argomenti – quali che fossero o ne avesse da offrire oltre quello che si immagina – non ebbero alcun effetto. I tre personaggi, a quanto pare, le assicurarono che Salvatore sarebbe arrivato laggiù a guerra finita o quasi. Nullo o quasi il rischio che non tornasse. Al Pensatore ( così chiamavano un pensionato sorpreso spesso a parlare da solo ) furono attribuite alcune battute fulminanti. Diceva, ad esempio: “ Certo che la guerra sarà breve. C’ è persino una Divisione militare che si chiama DIO LO VUOLE . Oppure : DIO HA CARRI ARMATI, TRUPPE SCELTE ED ANCHE ANGELI GIUSTIZIERI. La guerra non fu breve, ma Salvatore tornò. Quanto e come l’abbia combattuta non si riuscì mai a sapere. Rilevò la bottega del barbiere, ma – contrariamente al costume del defunto – non si lasciò mai andare a confidenze. Diceva: “ Abbiamo combattuto e vinto “. Quanto ai suoi cortei confessò che le imitazioni non lo divertivano più e che ormai era troppo vecchio. Si era fatto crescere a dismisura l’unghia del mignolo e con essa – usata come tagliacarte –apriva le buste delle pochissime lettere che gli arrivavano. Non è escluso che fosse di qualche donna conosciuta in Spagna o altrove. Era stato sempre molto concupito. Uso, in memoria del vocabolario usato da mio padre, il dizionario di allora.

4.
Un’altra sorgente di notizie è costituita da Alfonso B, il medico condotto dei tempi del ritorno di Salvatore. Oggi è un vecchio bellissimo, alto e ancora snello. in una fotografia che gli fecero all’inizio della sua carriere in paese assomiglia al Gregory Peck del film Duello al sole di King Vidor . Gira la leggenda – che non stento a credere vera – che molte donne accusassero mali immaginari per farsi visitare. Ma lui non cedette mai al fascino di qualche Jennifer Jones nostrana. Non si sposò mai nonostante i “buoni partiti “ che lo assillarono. Ogni tanto partiva per qualche giorno. Lo si si pensava napoletano e quindi la sua meta doveva essere Napoli. Ma la premessa di questa supposizione era errata. Del suo carattere ironico ne ebbi prova quando andai un giorno a trovarlo, ricordando una buona amicizia che aveva avuto con mio padre. Era inevitabile – data la mia curiosità su Salvatore, sulla sua guerra e la sua morte – che gli chiedessi qualcosa. Doveva aver saputo da qualcuno dei miei parenti rimasti laggiù che avevo interessi letterari perché quando introdussi l’argomento mi rispose con una domanda. Mi chiese se conoscessi l’autore di questo verso:  “ Per un ‘Oliva pallida si può delirare “. No, non lo conoscevo e le parole di esso mi sembrarono divertenti e curiose. Quello che disse poi mi rivelarono la sua terra di provenienza e il nome di un poeta a me totalmente sconosciuto.
L’autore del verso – dedicato ad una donna di nome Oliva – era un poeta ligure, minore e dimenticato.
“ Si, mi disse , sono ligure non napoletano come credono. Per i tuoi compaesani l’Italia si ferma al Volturno, anzi a Napoli. Uno di questi giorni, se resti, ti racconterò le ragioni della mia partenza da Genova. Laurano, ecco il nome dell’autore, esprime enfaticamente la possibilità che si possa perdere la ragione per una donna pallida, assorta in romantiche meditazioni al lume di una lampada ad olio. Ma lui, il tuo, il nostro Salvatore delirò davvero per il treponema pallidum , questo il nome scientifico del batterio responsabile dell’allora terribile sifilide capace di infettare, come il peccato originale , anche i successori innocenti del peccatore “
Seguì un discorso sulla malattia . Intuito qualcosa da alcune eruzioni cutanee era seguita la conferma attraverso l’esame del sangue. Non c’era penicillina all’epoca, ma solo il Neosalvarsan, che aveva sostituito il più tossico Salvarsan, capace di causare addirittura paralisi di alcuni arti.
Sì, durante la sua avventura spagnola Salvatore aveva incontrato una creatura pallida, una malvagia Venere per la quale aveva – volevo crederlo – delirato finendo per morire in una struttura – mezzo ospedale e mezzo manicomio – il cui nome richiamava quello di un uccello rapace. La malattia lo aveva colpito con violenza in quella forma che porta alla meningite sifilitica. E poi da da quella struttura si usciva vivi solo per un miracolo che non si verificò.
“ Povere donne – fu il commento del dottore – diamo la colpa a Venere che è solo mediatrice. Risalire all’origine è una questione teologica e, alla mia età, non voglio inimicarmi nessuno. “
Del resto – si sa – diversi Stati d’Europa si scambiano accuse circa l’ubicazione del primo focolaio di questo pallido distruttore. Mal francese, morbo napoletano, malattia celtica…. Naturalmente l’accusa coinvolge anche il Nuovo Mondo, complice i marinai delle potenze colonialiste.
Nella città dove mi ero trasferito avevo visto all’interno di quelle edicole che portano il nome di un imperatore romano, famoso anche per la sua buona attività amministrativa , gli elenchi di specialisti di “malattie veneree e pelle“( così suonavano i relativi avvisi pubblicitari di colore nero e quasi terroristico ) . Avevo sempre pensato alla dea dell’amore come dotata di una pelle eburnea. Eppure avrebbe dovuto suggerirmi cose diverse una statua di pietra deturpata dai licheni che avevo visto proprio in un giardino nella terra di origine del dott. Alfonso . Ma era proprio Venere ?
Neosalvarsan: ho ritrovato questo nome in un romanzo di Hemingway. Ancora lui ad incrociare Salvatore. Morto il dott. Alfonso io sono la sola persona che può associare la sbiadita fotografia di Salvatore al nome del romanziere americano. Mi chiedo – spesso – se avrei saputo consigliarlo di non partire per la Spagna e ricordarlo, così, soltanto per la gioia che aveva saputo dare ai sanculotti della sua, della mia terra. A volte essere ragazzi è una colpa.

2 pensieri su “Breve la vita felice di Salvatore D.

  1. …considero questo racconto di Giorgio Mannacio un vero omaggio alla memoria, nella sua corrente calda, cioè quella umana che cresce in rivoli personali e collettivi in contrasto con quella fredda della”… dea della memoria -Mnemosine- sta accanto a una fonte d’acque gelide e cristalline che riflettono un cipresse millenario”. Forse perchè la prima è legata alla vita mortale, la seconda alla perfezione eterna. La memoria umana riserva sorprese, opera associazioni spazio temporali impensabili, avvicina persone come Salvatore S., una sorta di irriverente Gavroche con il suo seguito di sanculotti, e Francis Macomber di E. H: per entrambi fu “breve la vita felice”…il contesto storico ambientale finisce per avere “la meglio” su queste persone che forse hanno amato troppo, cioè senza riserve, la vita…

  2. @ Annamaria
    Ti sono grato per le tue acute osservazioni. Tale gratitudine non si fonda ( anche se non ne può prescindere del tutto ) sul piacere un po’ narcisitico che deriva dalla constatazione di essere letti, ma su ragioni che hanno a che fare con l’esperienza dello scrivere. Il testo supera le mie stesse intenzioni realizzando dunque – obbiettivamente un senso che non mi apparteneva prima. Hai colto bene i due piani di memoria. La lamella d’oro di cui parlo ( memoria letteraria ) esiste davvero in un museo che dista pochi chilometri dal paese di S. Ma anche S. è esistito davvero e con lui i sanculotti ( memoria umana ). Se la morte è evento inevitabile non dovrebbe esserlo la povertà estrema dei piccoli che a quel tempo seguivano allegri il legionario per le vie del paese. Ma non è stato così. Un cordiale saluto. Giorgio.

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