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quando c’erano gli etruschi

di Angelo Australi

[..] intanto le nuvole gareggiano per il premio di bellezza / e la corsa ad ostacoli sembra più lunga / l’erba mi guarda passare senza lamentarsi. (René Corona dalla poesia Artrosi e dintorni, “I bucaneve dell’altrove”, Book Editore 2023)

Racconti-Fiore! Teniamoli buoni per la brutta stagione… (Annamaria Locatelli, commento al racconto un paesaggio di nuvole, uscito su Poliscritture)

Dopo aver preso la camera in albergo era mia intenzione raggiungere le tombe etrusche disseminate in un percorso di campagna lungo sei chilometri. Un strada da fare a piedi, tra gli olivi. Per non girare a vuoto avevo un dépliant con le indicazioni sul tragitto di strade sterrate e tanto di foto dei siti archeologici che mi aveva dato Spartaco. Abbiamo entrambi lo smartphone, ma quando l’altra sera sono andato a cena da lui, ha insistito a darmi questo pieghevole che aveva conservato da anni. Era una di quelle rimpatriate di vecchi amici che usano la scusa di una cena per parlare della vita e non perdere i contatti. Le facciamo con il pretesto di qualcuno di noi che oramai abita altrove e ogni tanto arriva in paese per una visita veloce. In questo caso, non potevo perdermi l’occasione di salutare Massimo e Lorenza, che vivendo a Torino non vedevamo da svariati mesi. In questi ritrovi è come stare in famiglia perché, può sembrare assurdo, ma anche noi che abitiamo nello stesso paese, a volte passano delle intere settimane senza riuscire ad incontrarci. Non lo facciamo per un motivo, solo che ognuno è preso dal correre dietro alle sue rogne quotidiane. Sicché le cene che facciamo sono importanti per mantenere un legame. Nessuno si sognerebbe mai di mancare, stare insieme una volta ogni tanto è il nostro modo di fregare il tempo che passa. Qualche volta è capitato anche a me, di averli ospiti tutti quanti a casa mia, ma da quando ho divorziato mi sento un essere fuori dal mondo. La cosa è fresca, ci siamo lasciati solo da sei mesi, dopo un annetto che l’ultimo dei nostri figli si era fatto la sua famiglia. Abbiamo tre figli, Mauro, Anna e Roberta, e tutti si sono costruiti una vita lavorando in città molto distanti da Oriale. Mauro, il più grande, circa due anni fa si è trasferito a Barcellona per lavorare da medico in ospedale, la sua compagna partorirà ai primi di febbraio del prossimo anno. Quando si è allontanato anche lui, il nostro modo di vivere è cambiato drasticamente, non riuscivamo a trovare più la passione di fare le cose insieme. Un anno e mezzo è poco tempo, ma stranamente dopo trent’anni di vita coniugale ci siamo sentiti un po’ come degli estranei. Io ho sessantatré anni e penso di andare in pensione nel 2023, cioè fra quattro anni, mentre Sandra dovrà lavorarne ancora una decina. Non ci andava più bene niente di quello che facevamo insieme. Ci abbiamo provato a dare una scossa alle nostre abitudini, ma non è successo granché. Alla fine, pur di lasciarle la nostra casa, in via temporanea ho deciso di ristrutturare alla meglio quelle stanze dove hanno abitato i miei genitori negli ultimi anni, prima di morire nell’arco di pochi mesi uno dall’altra. Non ci siamo separati a cuor leggero, per quanto mi riguarda ci sto ancora male. Era una sofferenza anche quando stavamo insieme, ma adesso è molto peggio, sento come se il dolore fosse entrato nelle ossa, a togliermi lo stimolo vitale in tutto quello che faccio. Evito le compagnie, e quando sono al lavoro penso solo al momento che arrivi questo cazzo di pensione. Non ho più voglia di far niente.
L’idea di trascorrere un fine settimana nei luoghi degli etruschi è nata mentre esponevo a Spartaco i problemi che stavo incontrando con il recente divorzio. Tutti sapevano della nostra separazione, ma questa era la prima volta che ne parlavo entrando in confidenza con gli amici. Alla cena era stata invitata anche Sandra, che all’ultimo momento si era inventata un pretesto per non esserci. L’aveva invitata Ambra, la moglie di Spartaco. All’improvviso lui si è messo a parlare di questo borgo della Maremma pieno di attrattive, dove la mia crisi di solitudine affettiva forse avrebbe trovato una tregua. Non ero così fiducioso di superare il senso di costante isolamento in cui mi aveva lasciato la separazione con Sandra facendo un viaggio nel fine settimana, ma comunque, nel suo modo di parlare, c’era un entusiasmo che mi aveva contagiato. Ci ho pensato due giorni, e visto che Sandra non mi usciva dalla testa, allora ho deciso di seguire il suo consiglio. Il mese di novembre non è il periodo migliore per farsi certe scampagnate, ma se Spartaco vuole aiutarti manda questi segnali a volte anche strampalati. In un certo modo è così riservato che non chiede di confessarti, semmai ti lascia sfogare per mezz’ora, e quando trova un appiglio nei tuoi discorsi, prova ad incuriosirti raccontando qualcosa per distrarti dal magone che ti opprime. Oramai lo conosco, la sua non è indifferenza, lo fa per amicizia.  Solo che, quando inizia a parlare, Spartaco immagina sempre quello che non c’è, ci mette dentro così tanta roba che non puoi non andargli dietro. Di quello che lui dice magari è vero solo una metà, ma quando lo senti parlare non puoi fare a meno di crederci fino in fondo. Oggi abbiamo i capelli bianchi, ma con lui è sempre stato così, per tutta la vita non ha fatto che ingigantire il mondo cercando di trovare qualcosa di positivo anche nella rabbia che ci mette per vivere. Da quando poi si è messo a scrivere, non ne parliamo: ogni volta che c’è modo di stare insieme un po’ di tempo, si ha l’impressione di fare il giro del mondo anche se parla solo di cosa ha immaginato esistesse nelle quattro strade del nostro paese. Magari lì per lì non comprendi dove ti sta portando, ci ripensi sempre un po’ di tempo dopo, quando sei per i fatti tuoi.
Di questa uscita del fine settimana lo avevo accennato telefonando ad una delle figlie, che mi ha subito smontato ogni entusiasmo dicendo fosse una fesseria. In novembre si va per musei in città, le giornate si sono accorciate, e in questi paesi spersi nel nulla si muore di noia. Non le ho dato ascolto, anche perché mica ci tenevo così tanto a stare tra la folla.
La camera sembrava arredata con i modelli che andavano di moda negli anni settanta dell’altro secolo. A cominciare dai mobili per finire al letto, tutto aveva qualcosa di familiare con il tempo che ero stato bambino, qualcosa di cui anche i miei genitori si erano velocemente liberati appena fatti un po’ di soldi lavorando in fabbrica. Un vero disastro, il letto cigolava, in bagno non avevi lo spazio neanche per farsi il bidè in modo decente. Della doccia ricavata in un sottoscala poi non ne parliamo, era tutta un’invenzione che lasciava disgustati. Non c’era uno specchio, nell’impagliatura di una delle sedie ristagnava uno spesso strato di polvere oramai calcificata. Avevo aperto la finestra nonostante il freddo, ma persisteva sempre un forte odore di chiuso. Non lo so, era come se si fosse incrostato sulle pareti. Tanto per restare in tema con il motivo della vacanza, mi sentivo come un tombarolo che entra in una tomba dove nessuno ci ha fatto visita da quando degli etruschi l’avevano sigillata con un masso. Ero in preda allo sconforto, ma il borgo ad alberghi non offriva altro. Imbecille io a venirci di novembre, per visitare un luogo di cui Spartaco mi aveva così tanto parlato senza un accenno alle cose pratiche. Magari lui riesce ad immaginarle e te le vende per vere, ma a livello di ospitalità, con l’albergo si cominciava proprio male. In quel disastro stentavo a percepire qualcosa di bello. Però c’era il dono che dalla finestra il paesaggio sembrava entrare direttamente in quella stanza, la sua ampiezza conquistava lo sguardo con una sicurezza che al mattino quasi squagliava la luce riflessa del sole. La visione sulla pianura si prolungava fino alla città, e intorno c’erano quei monti vestiti dal bosco che bruscamente si slanciavano dal livello pianeggiante fino a trovare sulla cima un borgo come questo a fargli da cappuccio. E poi, sullo sfondo, ma proprio in forma infinitesimale, si scorgeva un angolo di mare che bisognava fissare intensamente per non confonderlo con la nebbia novembrina che si alzava sulla striscia della pineta.

Se restavo in quella camera ancora per molto, mi avrebbe assalito un bagaglio di tristezza incontenibile. Sicché ho messo la borsa da viaggio nell’armadio e sono uscito. Alle dieci del mattino ero già in strada, perché avevo voglia di un caffè. Sono incappato nell’unico bar esistente quasi per caso, seguendo dei cartelli che indicavano la direzione da prendere per uscire dall’abitato e raggiungere la zona delle tombe etrusche. In quel punto della strada le case formano un arco buio per almeno un trenta metri, creando quell’oscurità che persiste in ogni momento della giornata. Dietro a quella porta ad arco che ricordava l’ingresso di una grotta scavato nella viva roccia, non c’era niente che indicasse l’esistenza di un luogo di ristoro. Magari un’insegna. Niente. Non c’era nulla. Era un buco fognoso, che ci si faceva luce a malapena con il pensiero. Mi ero voltato a guardare solo perché da lì usciva della musica ad un volume così alto da risvegliare i morti. Era una canzone degli Inti-Illimani, un gruppo musicale che andava tanto di moda al tempo del golpe di Pinochet in Cile.
Così mi sono incuriosito e ho deciso di entrare in quello spaccio di generi alimentari che era anche edicola e bar tabacchi. Sulla parete del locale dove alcune sedie sparpagliate facevano da contorno ad un paio di tavolini rotondi, stavano appese una moltitudine di vecchie fotografie scattate agli abitanti del borgo. Immagini con gruppi di persone, messe in posa in occasione di qualche ricorrenza, ma anche contadini sull’aia nel giorno della battitura del grano, scorci del paese, botteghe di artigiani, gruppi di minatori che stazionavano accanto ai carrelli da trasporto del materiale di scavo in miniera. La parete opposta ospitava le scaffalature dei generi alimentari. Nella controfacciata dell’ingresso, proprio come in una chiesa, invece era appesa la bandiera rossa con la celebre immagine del “Che”, affiancata a una grande foto che lo ritraeva insieme a Fidel Castro.
Stavo sorseggiando un caffè così lungo che mi sembrava alluvionato, quando un uomo si è avvicinato al banco per ordinare una sambuca che ha ingoiato d’un fiato, dopo di ché si è messo a parlare e a fare battute con la barista, cercando di catturare anche la mia attenzione. Nel frattempo entrava una signora bionda, bella prosperosa, che ha lasciato dei soldi sul banco ordinando una sambuca per se, una per l’uomo che parlava con la barista, e offrendola anche ad un vecchietto seduto ad uno dei tavoli, tutto intento a leggere il giornale. Ha bevuto anche lei ridendo ed entrando in conversazione con le altre persone presenti nel locale, perché a quel punto anche il vecchietto che stava leggendo il quotidiano si è alzato per avvicinarsi al bancone con un gesto vagamente teatrale. Per trovarsi a quel grado di eccitazione nel parlare, avevo l’impressione che di quei gottini un po’ tutti si fossero già impegnati a berne una certa quantità. Anche la donna bionda, pur nascondendosi dietro degli occhiali da sole, secondo me era ubriaca. O ubriaca o pazza. O tutte e due le cose insieme. Uscendo ha lasciato pagati dei bicchieri di vino per alcuni uomini che stavano conversando sotto l’arco, poco distanti dal bar.
Uscita la bionda è entrata un’altra donna sorreggendo un vassoio con delle gigantesche fette di torta alle mele che pretendeva di offrire a tutti i presenti, me compreso. Ho cercato di spiegarle che avevo appena bevuto il caffè, ma lei ha insistito così tanto che, se non avessi accettato, mi sarei sentito una merda. Così ho mangiato la massiccia fetta di torta. A fatica, perché il mattone non andava giù, ma l’ho mangiata.
– Che hai messo nella torta di mele, Celestina? La polverina che fa rizzare l’uccello a tuo marito? – Ha detto l’anziano entrato nel locale subito dietro di me.
– C’ho messo la grullaggine di quando sei ubriaco.
– Lasciamelo dire, sei proprio una maga, quando ci fai assaggiare i tuoi dolci con la polverina.
– E te, quando bevi al mattino, sei il solito bischero – ha risposto lei, ridendo in modo scoglionato.
– Dov’è Ettore?
– All’orto, … sta zappettando le erbacce tra le piante dei carciofi.
– L’ha assaggiata, questa bella tortina di mele?
– Più tardi ne porterò una fetta anche a lui. Puoi stare tranquillo, non lo trascuro il tuo amicone.
– E fai bene Celestina, quell’omino lo devi trattare di lusso. Se lo merita, dopo quello che ha faticato nella vita.
– Giancarlo, ti saluto.
– Stammi bene – ha detto l’uomo.
Prima di uscire dal bar anche quella donna di nome Celestina ha lasciato i soldi sul tavolo per delle bevute che offriva ai presenti.
– Ci scusi, sa – mi ha detto la barista ridendo, – ma se in paese non ci fossero questi quattro o cinque matti, non sapremmo come fare a vivere. Bevono, ma sono divertenti, non hanno addosso il cattivo e se bisticciano lo fanno senza tenersi rancore. Fino a pochi anni fa eravamo quasi seicento abitanti, oggi appena duecento, e meno male che ci sono loro.
– Tanti vecchi, e pochi bambini – ha detto un altro che si era aggregato alla discussione.
– I bambini si contano nelle due mani.
Non ha parlato Giancarlo, ma ancora qualcuno che stava alle mie spalle.
– No – ha precisato la barista, – sono un po’ di più. Per esempio l’altro giorno Alessandra ha partorito una bella bambina di tre chili e mezzo.
– Sì, ma siamo lì… Dieci, dodici… Gemma, quello che voglio dire è che non fa nessuna differenza.
Così ho anche scoperto che la barista si chiamava Gemma. Nome azzeccatissimo, perché i suoi capelli brillavano con la lucentezza di un diamante.
All’improvviso si sono messi un po’ tutti a fare dei conti sui bambini del borgo, e intanto sfruttavano l’occasione di bere quanto offerto dalla due donne appena uscite. Finito con le bevute a gratis, il resto lo pagavano di tasca propria. Per non perdere il conto, ad ogni bicchiere lasciavano il dovuto sul banco.
– Durante l’estate, i bambini diventano un centinaio. Con la gente che viene in villeggiatura, il borgo si popola.
– Me lo sapete dire cosa gli conviene a dei giovani metter su famiglia in questo budello di paese? Fare uno, due, magari tre figli?
– Già, è così.
– Io ai miei, non gli ho mai rinfacciato che se ne sono andati per avvicinarsi al posto dove lavorano.
– Per frequentare la scuola, i bambini prendono il pullman del Comune ogni mattina.
– Si fanno delle levatacce che neanche quando si lavorava nei campi, ci si alzava così presto.
– O in miniera.
– Esatto, o in miniera.
– Poveri bambini. Ci vuole una bella costanza.
– Ti metti a compatirli?
– Nient’affatto!!!
– Se dovesse compatirli si berrebbe una damigiana di vino – ha urlato la barista facendo un sorriso.
– Ma qui sembra tutto fermo al tempo degli etruschi! – L’ho fissata negli occhi, nella speranza di capirci qualcosa.
– Magari! – Mi ha risposto mentre strofinava un panno sul piano del bancone. – Almeno quando c’erano gli etruschi, questa era una metropoli.
– Quando a Roma si viveva ancora in capanne fatte di fango – ha precisato il vecchietto che prima leggeva il giornale, – in questa nostra città si campava da nababbi.
– Te avresti comunque lavorato la terra, però.
– E questo che vuole significare?
– Puoi bere quanto ti pare – gli ha detto la barista scuotendo la testa, – ma non devi metterti in testa idee sbagliate.
– Non puoi capire, sei venuta a viverci da fuori, ma io le scuole le ho fatte qui.
– Fino alla quinta elementare – ha precisato Giancarlo, gesticolando con le mani come un direttore d’orchestra.
– Esatto, fino alla quinta elementare. Ma mi è bastato, per vivere.
– Anche a me è bastato, per lavorare come un ciuco.
– C’erano tutte le classi. La prima, la seconda, la terza. La quarta e la quinta.
– Tutti mescolati, bambine e bambini.
– Come no! È così vero che a quell’età, in classe ci si trovava anche moglie.
– Io no, ho sposato una francese – ha detto Giancarlo ridendo, come se in quel punto volesse esprimere uno sfondone.
– Si, … la francese che si chiama Samuela Paciocchi, stava in classe con me.
Ha ribattuto uno dei nuovi arrivati, mentre gli stava dando una pacca sulla spalla. Giancarlo si è voltato.
– Lo sai, davvero, che non lo ricordavo. Sicché come millesimo sei del ’42?
– Come la tua bellissima moglie francese.
– Sei più giovane di appena un anno, eppure rispetto a me sembri già da assistenza senile.
– Tieh!!!
– Vede bene che non posso avere problemi a riempire le giornate?
La barista mi ha guardato, mentre la mano che scivolava sul bancone richiamava con lo straccio chissà quale magica danza.
– Penso di capire.
– Non sono cattivi, fanno solo ridere. Così tengono compagnia. Ubriachi da finire qualche volta a dormire per strada, se uno la moglie non viene a prenderselo, ma non è mai successo che andassero in escandescenze. Con questa desolazione, in paese ce ne sono altri che bevono. Però lo fanno di nascosto… Forse perché si vergognano. La solitudine fa fare dei brutti scherzi al cervello.
Le ho risposto che riuscivo ad immaginarle, certe situazioni dove non si sa come impiegare il tempo.
– È in pensione?
– Ne ho ancora per qualche annetto, da lavorare.
– Anche a mio marito, manca poco più di un anno. E quando lui andrà in pensione, … ho intenzione di chiudere bottega. Tutta questa gente qui non vuole ma, cascasse il mondo, giuro che lo faccio.
Intanto Giancarlo continuava la sua conversazione.
– In estate però ci cambia la vita.
– Te la vedi così, ma io tutta quella confusione la sopporto il giusto – gli ha rimproverato un anziano.
– Solo perché hai il carattere tenebroso, che non ti va mai bene niente.
– Mi va bene tutto quanto invece, ma io il chiasso non lo sopporto.
– Quando eri giovane avevi il coraggio di rompere i coglioni anche al padre eterno.
– Non è vero!
– È vero, sì. Porca paletta!
– No, che non è vero.
– Non te lo ricordi eh, il casino che facevi. Fiutavi la femmina come fanno i cani.
Quello che si chiamava Giancarlo, rideva e si guardava intorno burlescamente per conquistare l’attenzione del gruppo.
Alcuni gli sono andati dietro rispondendo in coro: – Sì, come no!
– Ora lasciami parlare, ci sono tanti modi di fare le cose… E comunque i turisti fanno troppa confusione.
– Che fai la sera, ti infili nel letto quando i polli vanno a dormire?
– No, che c’entra!
– Se il paese in estate si popola, fa bene alle tasche di tutti quanti. Trovare dei vantaggi non è un peccato. Lo fanno in tutto il mondo.
– Ohé, gente…, oggi pomeriggio chiudo la baracca alle sei… Sicché fate i vostri conti.
– Dove vai di bello, Gemma?
– Siamo a cena da mio figlio.
– Vai in città allora?
– Sì, è il compleanno del nostro nipotino.
– E così chiudi prima, … per farti bella.
– Lo sai, io sono sempre stata bella, …
– Lo sappiamo che sei una bellezza. Siamo tutti innamorati di te.
– Giancarlo, sei un tesoro. In un’altra vita ti ricoprirò di baci.
Gli ha ricordato la barista urlando sopra la musica, quando la salutavo uscendo dal locale.

Le indicazioni per raggiungere le tombe etrusche consigliavano di passare nelle vicinanze di una chiesetta con il tetto a capanna, dove all’interno era segnalato un affresco di scuola senese del XIV secolo che, essendo chiusa, non ho potuto visitare. Sul lato sinistro, guardando alla facciata, si alzano le mura ciclopiche che delimitavano l’antica città etrusca, un susseguirsi di immensi macigni squadrati dal peso di qualche tonnellata che si alzano fino a dove ci si appoggia la costruzione di una rocca medioevale. Guardando invece a destra della facciata della chiesa, si aprono le colline minerarie che descrive anche Luciano Bianciardi nei suoi libri. Mi sono seduto sul parapetto in pietra, con sotto una serie di tetti che spiovendo scendevano ripidamente su tre ordini. Ogni tanto guardavo le pietre, e ogni tanto mi perdevo con lo sguardo verso le colline metallifere così ricche di vegetazione.
Di ritorno dal giro alle tombe, stanco morto mi sono seduto in una panchina che si trovava nel parcheggio antistante il museo. Non so, saranno state al massimo le tre del pomeriggio. Il museo era aperto, ma ho preferito sedermi su quella panchina, prima di entrare. Poco dopo, proprio dove stavo seduto a controllare dei messaggi sullo smartphone, ha parcheggiato un’auto in retromarcia, dalla quale sono sbucate le gambe di un uomo che si è messo a mangiare un panino. Stava con lo sportello aperto, la testa in fuori, allineata con la punta della scarpe, probabilmente per non far cadere le briciole nell’auto. Poi si è avvicinato allo sportello posteriore, ha appoggiato sul tettuccio il panino rinvoltato nel suo incartamento e, alzando il piano che nasconde la ruota di scorta, ha estratto una bottiglia dell’acqua minerale colma di vino che si è messo a bere. Nonostante la panchina quasi sfiorasse il marciapiede, dietro l’auto lui si stava comportando come se non ci fosse nessuno.
Ero stanco morto. Nel fare il giro delle tombe etrusche, anda e rianda avevo fatto ben più di dieci chilometri. Mi sono stravaccato un po’ sulla panchina. Se anche non pisolavo, con quel tipo che girava a sbevucchiare intorno all’auto, prima di visitare il museo mi sarei riposato un po’.
Intanto l’uomo ogni due morsi al panino usciva di macchina, apriva lo sportello posteriore a tracannava un bel sorso di vino. Festa grande: una vacanza di novembre, vissuta in compagnia degli ubriachi. Mi è venuto di pensare.
Ho cercato di dormire ma non ci riuscivo, perché la panchina era maledettamente scomoda. Così sono entrato a visitare il museo.

Anche se il museo era pieno di reperti, quelli importanti stavano collocati in quello della città, dove ci sono più visitatori. Di tutto ciò che avevo visto, quando sono uscito mi restava nella mente un elmo da guerriero ben conservato e un’urna cineraria di terracotta, fatta a forma di capanna.
Proprio nei pressi dell’albergo c’era una piazzetta panoramica. Al muricciolo che si affacciava sulla pianura sottostante, da dove giunge il profumo di salsedine anche nel mese di novembre, ho intravisto Giancarlo, che mi ha subito riconosciuto. Stava seduto sul muretto insieme a qualche conoscente. Nessuno di questi era tra quelli incontrati al bar di mattina. Allora mi sono avvicinato, per poterci parlare.
– E’ stato a visitare le tombe?
– Sì, ho fatto anche una bella faticata – gli ho risposto ridendo.
– In collina funziona così, è tutto un saliscendi. Però deve visitare anche l’acropoli, per capire quanto era grande la nostra città quando ci vivevano gli etruschi.
– Lo farò domani, in mattinata.
– Ci sono dei punti che le mura della città sono costruite con massi grandi come una casa, che forse sono riusciti a trasportarli solo con una specie di magia.
– Ne ho già ammirato un tratto, vicino alla chiesetta. In fondo al paese.
– Ma quello non è niente, rispetto alle muraglie nascoste dal bosco.
Nel parlarmi le parole gli si impastavano in bocca, ma aveva gli occhi che ancora ridevano come al mattino.
– Dove sono i suoi amici di stamani?
– Non lo saprei dire.
– Forse al bar?
– Mah! … Il bar è una tappa del nostro girare intorno al paese. Si gira e rigira, come dei bambocci, specialmente in questa stagione che non c’è niente da fare nemmeno all’orto.
– E i bambini del paese, quanti sono allora?
– Con Gemma siamo arrivati a dire che sono quindici.
– Se aumentano con il passare delle ore, domani ne spunteranno altri – gli ho risposto ammiccando. – Bambini che sbocciano come i fiori. Le sembra poco?
– Mezzo brillo come sono sempre, dovrei essere io a vederli raddoppiati, ma mi sa che non funziona così. Di coppie giovani che possono fare dei figli al paese ne restano poche. Lei ha dei nipotini?
– Non ancora. Ma se tutto va come dovrebbe, a febbraio del prossimo anno sarò nonno di una bella bambina.
– Io ne ho due, che non vivono in paese.
– Pensa un po’, mio figlio e la sua compagna abitano a Barcellona. Fa il medico in un prestigioso ospedale della città.
– Boia! Mica è qui, … dietro l’angolo.
– Sì, in effetti, non è che ci possiamo incontrare molto spesso. Però, mi creda, il mondo è piccolo lo stesso.
– Mia figlia per fortuna vive nella città che si vede in fondo alla valle. Se non si fanno vivi, dopo quindici giorni prendo l’auto e li raggiungo a casa sua. Sono io che ci tengo, … e, alla fine, anche mia moglie mi perseguita per andare a trovarli.
– I bambini mettono voglia di fare.
– Con l’auto arriviamo in mezz’ora.
– Lo so dov’è la città, per venire qui ci sono passato.
Non gli ho detto che ero divorziato, ma che senz’altro, quando nasceva la bambina di Marco e Caterina, sarei andato a conoscerla insieme a Sandra. Poi l’ho salutato dandogli appuntamento al bar per il giorno dopo, dove avremmo fatto colazione insieme. Con quel fare colazione insieme, era sottinteso che gli avrei offerto da bere. In fondo Giancarlo mi restava simpatico.
Andato giù il sole faceva buio molto in fretta e il freddo umido era diventato all’improvviso più pungente. Rientrando in albergo poi ho trovato il coraggio per farmi una doccia calda in quello sgabuzzino di bagno che mi era concesso.

Sono uscito di nuovo per cenare in un ristorante immerso tra gli olivi. Qui è venuto a preparare il tavolo l’ometto del pomeriggio. Sì, quello del vino tenuto nel portabagagli della sua auto che, quando prendeva la bottiglia dal nascondiglio, sembrava considerare la sostanza di un tesoro stratosferico. Era il proprietario, oramai ubriaco fradicio, che a questo punto ho immaginato bevesse di nascosto ai suoi familiari. Mentre apparecchiava e prendeva le ordinazioni ha detto che non ero una faccia nuova. Era serio, quando mi parlava. Di un serio quasi diffidente.
– E’ già stato qui, … a mangiare da noi?
– No, questa è la prima volta.
Ho ordinato una sorta di minestrone tipico della tradizione etrusca che oltre alle verdure dell’orto aveva in aggiunta delle erbe di campo tra cui il timo, la cicoria selvatica e la nipitella. Per secondo, invece mi sono mangiato uno stufato di manzo cotto con funghi e fagioli.  Da quella fetta di torta alle mele che mi era stata offerta la mattina nel bar, in tutto il giorno non avevo mangiato nient’altro, e dopo una giornata all’aria aperta adesso sentivo un grande appetito, sicché, per finire in bellezza, come dessert ho preso anche una bella porzione di zuppa inglese. Poi ho chiesto il conto.
– Pagamento in contanti o con il bancomat?
– In contanti, … in contanti.
– Eppure lei non è una faccia nuova. L’ho vista da qualche parte, ma non ricordo dove. Forse in Tv?
– No, per carità – gli ho risposto scuotendo la testa. – Semmai per le strade del paese, visto che è da stamani che lo sto percorrendo in lungo e in largo.
– No, in paese no. Sono rimasto tutto il giorno qui, intorno al mio ristorante. Però la sua faccia non mi è nuova, ne sono certo.
Non dicendo dove mi avesse incrociato ho voluto essere discreto, per non metterlo in difficoltà. Lui ormai aveva gli occhi rossi e le pupille deconcentrate, e camminava a passi piccoli e lenti, tanto che temevo inciampasse nei suoi piedi da un momento all’altro. Qualcosa di simile doveva provare anche sua moglie, o la figlia, che ogni tanto si affacciavano con imbarazzo dalla cucina per assicurarsi non combinasse un guaio.

Quando mi sono incamminato verso l’albergo per andare a dormire, ho incrociato solo un gatto che attraversava la strada per finire a rimpiattarsi sotto un’auto del parcheggio. Di fianco ad una fonte che buttava appena un pisciolo d’acqua, c’era un tabernacolo con dentro la riproduzione incorniciata di una famosa natività del Ghirlandaio. L’immagine, esposta alle intemperie, era molto danneggiata. Sopra la fonte un’antica lapide di marmo portava incisa la scritta FONTE LATTAIA, e una data in numeri romani: MDCCXXXV. A quell’ora la luna ritagliava una striscia di luce dietro la fila di case che era più forte di quella di un lampione seminascosto tra gli alberi.

BREVE NOTA: il racconto è stato ispirato da Lo Sceriffo di Daniele Barni. Un racconto anch’esso pubblicato su Poliscritture, a settembre di quest’anno. Nella foto è riprodotto un tratto di mura ciclopiche dell’antica città etrusca di Vetulonia, ma in verità, per quanto riguarda l’ambientazione, il borgo è l’insieme di tanti piccoli paesi reali della Maremma visitati spesso nel corso degli anni, che nella manipolazione della scrittura ne fanno una località immaginaria. Perché a nessuno venga il desiderio di cercarci un paese reale dove tutti si ubriacano, ho preferito non dargli un nome.

novembre 2023

Han cancellato la Shoah

di Gustavo (diomiperdoniLevi)

da ora,
ogni volta che sentirò la parola shoah
penserò a Gaza
10 morti ogni uno, e non è finita
son nato a un tempo orribile
quando questa pratica era di moda
non permettono i giornalisti
e ammazzano quelli indipendenti che trovano
distruggono gli ospedali
e uccidono medici e pazienti
un solo morto, sempre, è uno di troppo
qui sono cinquemila bambini
e quattromila donne
da ora
ogni volta che si dirà la parola shoah
penserò a Gaza

non sono soli gli israeliani
complici tutti gli ebrei delle comunità plaudenti
in italia come negli usa
la prima mano l’ha messa il capo dell’impero
la seconda, nascosta, il capo del loro governo
la terza il solito occidente
ma del resto ricordiamo
che hitler aveva tanti amici
dal re d’inghilterra ai potenti d’america
che ne condividevano valori e sogni
è solo quando la concorrenza l’ha sconfitto
che è stato dipinto come pazzo
ma ha generato dei buoni discepoli
da ora
ogni volta che risuonerà la parola shoah
penserò a Gaza

pochi i giusti rimasti            e ammutoliti

La Regola e il Caso – Storia visuale del Gioco dell’Oca

di Nilo Australi e Roberto Capozucca

Quello che segue è il capitolo introduttivo al libro La Regola e il Caso – Storia visuale del Gioco dell’Oca, un progetto scritto e realizzato da Nilo Australi e Roberto Capozucca per l’esame del Corso di “Cultura e grafica del design” della Docente Silvia Maria Sfiligiotti, relativo al Diploma accademico di II livello in Comunicazione e Design per l’editoria, ISIA di Urbino, 2021. Nella prima parte del libro i due autori sviluppano una riflessione, a mio avviso molto interessante, sul rapporto che, a cominciare dall’aspetto ludico, per tutto il Novecento ha coinvolto gli artisti nella ricerca di nuove strade da percorrere per definire un ruolo e un compito dell’arte. Una ricerca che per ritrovare motivazioni creative autentiche parte dalla riscoperta dell’universo dell’infanzia, e da qui leggere l’eterna conflittualità tra “regola e caso” cercando nuove forme di equilibrio, capaci di raccontare le contraddizioni di un secolo. Il libro nell’insieme parla del Gioco dell’Oca visto da vari punti di vista e corredato da un corposo e divertente apparato iconografico proveniente dalla collezione del dott. Luigi Ciompi e del prof. Adrian Seville. Chi non ha giocato a questo gioco almeno una volta nella sua infanzia? Per chi fosse incuriosito dall’argomento, il libro nel suo insieme può essere letto nell’archivio online www.giochidelloca.it. Il testo che segue è interessante perché tratta uno dei temi sui quali si è confrontata gran parte della cultura del secolo appena terminato, … a cominciare dalla letteratura. [A. A.]

 

Al di là delle condizioni atmosferiche ogni giorno il sole sorge, in un certo momento si trova al centro del cielo e comincia a discendere fino a tramontare. Poi arriva la notte, e si riparte da capo. Così è anche il ciclo della vita per ogni essere vivente: si nasce, di diventa adulti, si invecchia e si muore. Questo è un concetto immutabile della natura, della realtà, quindi non intercambiabile. Sono immutabili anche i cicli stagionali, molto importanti per leggere la struttura del tempo in anni: primavera, estate, autunno, inverno. L’uomo ha pianificato la sua esistenza su questo concetto di tempo circolare del quale non può che essere spettatore passivo, creandosi nell’immaginario delle identità superiori capaci di decidere il suo destino di giorno in giorno. Anche se nella sua storia il pensiero umano in pratica ha ristretto l’orizzonte sugli aspetti concreti e produttivi che ordinano una società (politica, lavoro, amore, economia, cultura, ecc…) il punto di partenza arcaico di questa evoluzione culturale si può ritrovare nel gioco. Ancora oggi, se pur molto spesso relegato alla sfera dell’infanzia, il gioco può essere un’azione libera, alla quale non è riconducibile un interesse “materiale”. Sono trascorsi millenni dall’era dell’uomo primitivo, ma il gioco tutt’oggi resta un atto puramente libero e istintivo che contiene in sé i geni originari del rapportarsi dell’uomo con la natura, quindi precede la nascita della “società culturale”, poiché anch’essa nella sua prima fase si è presentata in forma ludica.

Nel 1938 lo storico olandese Johan Huizinga, nel suo Homo Ludens, affermava che: La cultura sorge in forma ludica, la cultura è prima giocata. Nei giochi e con i giochi la vita sociale si riveste di forme sopra biologiche che le conferiscono maggior valore. Con quei giochi la collettività esprime la sua interpretazione della vita e del mondo. Dunque ciò non significa che il gioco muta o si converte in cultura, ma piuttosto che la cultura, nelle sue fasi originarie, porti il carattere di un gioco, viene rappresentata in forme e stati d’animo ludici. In tale «dualità-unità» di cultura e gioco è il fatto primario, oggettivo, percettibile, determinato concretamente; mentre la cultura non è che la qualifica applicata del nostro giudizio storico al dato caso. Per Huizinga il gioco è un’azione che si compie all’interno di limiti ben definiti di tempo e di spazio, secondo una regola ben precisa che chi gioca decide di accettare e, nell’insieme, lo impegna in modo totale ed esclusivamente fine a se stesso.

Il gioco allora avvolge i partecipanti in una situazione di tensione e di gioia, dando la consapevolezza di trovarsi in un tempo diverso da quello della vita quotidiana. Anche se comunque costretti da rigide regole, con il gioco entriamo nel mondo non reale della finzione. Questa è la dimensione ideale dove si muove l’immaginazione dei bambini o quella di ogni forma di espressione creativa, lo stesso punto dal quale partiva l’approccio nella lettura della natura dell’uomo primitivo, che rappresentava gli animali nelle grotte prima di essere realmente cacciati. Anche Umberto Eco, pur partendo da presupposti letterari e semiotici, considera il gioco come uno dei cinque bisogni fondamentali dell’uomo, insieme a nutrimento, riposo, amore e chiedersi il perché delle cose. Facendo riferimento ai bambini, in una conversazione con Andrea Cortellessa (nella puntata Giocare della trasmissione Alfabeta, andata in onda su RAI 5 nel 2015), Eco affermava che per loro: […] è fondamentale l’elemento di far finta. Loro dicono infatti: “facciamo finta che io ero il capo dei pirati”. Usano l’imperfetto, non dicono mai io sono il pirata, ma io ero il pirata, perché è un modo distintivo di proiettare l’azione in un mondo possibile… È una narrazione. […] In fondo ogni narrativa è tutto un fare finta. C’è un elemento di gioco. Se leggo I promessi sposi “faccio finta” che siano esistiti quei personaggi, quel castello di Don Rodrigo. So benissimo che non è vero, ma prendo tutto per oro colato.

Il gioco quindi è sempre stato concepito, con il suo “far finta che” (John R. Searle) o “sospensione dell’incredulità” (Samuel T. Coleridge), come una realtà parallela che si sviluppa attraverso regole rigide, ma dove tutto diviene imprevedibile perché lasciato alla casualità degli eventi.

Nel tempo gioco e cultura sono quindi diventate due linee parallele che nella storia dell’umanità hanno sempre attraversato momenti di sovrapposizione. “Gioco come arte, arte come gioco”, scrive Hans G. Gadamer. Infatti il gioco non si può considerare solo come una forma d’arte, ma lo è nella sua sostanza originaria, capace di mostrarci che cosa contempla l’arte nella sua essenza. Il gioco va considerato come un’attività che significa di per sé un’azione circolare che rinasce in continuazione da se stessa, non ha uno scopo pratico e non ha importanza quali azioni si compiano né chi le compia, poiché è importante il gioco in sé. Infatti i giocatori sono sostituibili e possono appartenere a generazioni diverse, così come possono esserci o meno degli spettatori.  Il gioco riconferma la sua specificità di evento naturale, visto che proprio come la natura è in grado di riprodursi da sé. È in questa semplice “autorappresentazione mediale”, come la definisce Gadamer, che il gioco si intreccia all’arte (intesa nel suo carattere ludico, spontaneo, autonomo), e la natura, in quanto è un gioco che si rinnova sempre senza uno scopo, può apparire come modello culturale.

Questo bisogno dell’uomo di riconoscere il gioco nei suoi valori primari si è manifestato in modo preponderante avvicinandosi al XX secolo, quando gli intellettuali (artisti, filosofi, pedagoghi, psicologi, ecc…) hanno riscoperto che nell’originarietà del gioco erano racchiusi i segni in grado di contrapporsi alla crisi che affrontava la società borghese. In questo periodo è importante che la ricerca di un’autenticità primitiva sia coincisa anche con una diversa lettura del mondo dell’infanzia, dove il gioco acquista la sua centralità ludica. Non solo, viene addirittura capovolto il ruolo e richiesto in qualche modo all’adulto di ritornare bambino, per conoscere nella sua primitività una nuova dimensione della realtà attraverso la finzione del gioco. In questa nuova concezione, che poi avremo modo di approfondire, diventa emblematica la frase di Walter Benjamin: L’infanzia c’è solo se si è adulti: l’infanzia non è mai per il bambino. Il bambino è il mondo, l’adulto il tempo (Walter Benjamin, Figure dell’infanzia). Concezione fortemente rivoluzionaria quella di pensare che nell’infanzia si possono raccogliere tracce della vita in forma di figure da interrogare e smontare come un giocattolo, se intendiamo scoprire la forza propulsiva nella costruzione del nostro essere adulti, considerato che al suo tempo il bambino, fin dalla cultura greco-romana (su cui si fonda quella occidentale), è per natura messo in ombra, paragonato al cucciolo dell’uomo adulto e come tale avviato precocemente ai costumi che regolano la società. Questo destino del bambino non cambia neppure con il mutare delle classi sociali, anzi, per paradosso, se in quelle meno abbienti c’era più tolleranza verso il gioco infantile, in quelle nobiliari o agiate il ritmo dell’esistenza dei piccoli era segnato da obblighi e orari simili a quelli dell’adulto che lo costringevano a crescere il più in fretta possibile. Un precursore della diversa concezione dell’infanzia è il filosofo inglese John Locke con il suo Pensieri sull’educazione dei fanciulli (1693), il suo modo di scrivere dei giocattoli suona tutt’ora di straordinaria attualità, visto che propone che al bambino si diano elementi d’uso quotidiano, non giocattoli predisposti dagli adulti, ma oggetti di forme semplici, o addirittura inventati da loro, in grado di sviluppare nel fanciullo la creatività, il piacere del gioco e la finzione immaginativa.

In tempi e modalità diverse, Maria Montessori e successivamente nella seconda metà del XX secolo, Bruno Munari ed Enzo Mari, con i loro giochi, hanno dimostrato la stupenda verità di questa tesi.

La corrispondenza tra l’arte e il bambino diventa molto profonda a livello antropologico e si presenta come uno dei fenomeni culturali più importanti che è nato soprattutto grazie alle avanguardie artistiche del Novecento. In realtà tutto il secolo scorso ha insistito sull’azione creativa come capacità di ricostruire una diversa visione della realtà, iniziando dall’immaginario che hanno i bambini. Molti artisti che si sono affacciati sulla scena nei primi decenni del XX secolo, hanno riscoperto la semplicità dei segni e dei colori del disegno infantile per trovare una qualità poetica concreta e ricca di magiche suggestioni. Sono state proprio le avanguardie storiche che hanno riconosciuto nel mondo dei bambini quell’universo dalle potenzialità infinite, ormai soffocate e dimenticate dal mondo degli adulti. La legittimazione di questo mondo dell’infanzia è diventata così un elemento di verifica dell’arte stessa, come un punto di vista libero, non incanalato. Il collegamento tra l’artista e il bambino si è proiettato così per tutto il Novecento, ponendo in evidenza l’importanza dell’attività ludica nella definizione di una diversa visione del mondo. Il gioco, oltre che a permettere di impiegare il tempo libero, diventa importante anche per apprendere. Questa scoperta di un elemento comune all’uomo come agli animali, si è dimostrata come un punto di non ritorno rispetto alla cultura formativa precedente. Scrive Valerio Dehò, nel suo Il libro d’artista, pubblicato da Corraini nel 2016: Giocare vuol dire simulare i meccanismi della vita e della sopravvivenza, così si apre uno spazio per stimolare la fantasia e la capacità simbolica dei bambini. Arte e gioco sono giustamente considerati come un pilastro della conoscenza e la loro organizzazione in chiave di linguaggio trasmissibile, come un libro che sia anche gioco e avventura visiva e intellettuale, è allora il migliore investimento di energia creativa.

Questo primato delle avanguardie nella riscoperta del bambino ha un evidente legame con la rivoluzione pedagogica maturata nel secondo Ottocento, quando l’elaborazione del gioco è diventata per la prima volta strumento educativo e forma di espressione creativa. Per fare alcuni esempi, il legame tra la produzione di giochi con le opere d’arte è dimostrato, anche se non confermato da ricerche mirate in proposito, dal confronto tra Composizione in rosso, blu, nero, giallo e grigio, di Piet Mondrian del 1921 e il gioco della pedagogista italiana Maria Montessori, Blocchi per esercizi di psicoaritmetica del 1890, oppure dalla Finestra dell’Hotel Lake Geneve, dell’architetto Frank Lloyd Wright del 1902 con il gioco del pedagogista tedesco Friedrich Fröbel, Divided Square Puzzle, sempre del XIX secolo. Questi sono solo due casi in cui è evidente la convergenza che può esistere tra i giochi dell’infanzia e le successive scelte artistiche; sarebbe interessante approfondire questo studio più dettagliatamente

Entriamo ora in questo tempo delle avanguardie del primo Novecento, capace di sconvolgere tutti i luoghi comuni del pensiero dominante. Pablo Picasso, in un suo noto aneddoto afferma che ogni bambino è un artista. Il problema è come rimanere artista quando si cresce.

Questa affermazione di uno dei maggiori artisti moderni è in sintonia con quanto scriveva Benjamin riguardo all’infanzia. Le avanguardie di inizio secolo sembrano affermare che l’opera d’arte nasce e cresce seguendo un percorso regolamentato che è figlio di sé stesso e soggetto al caso. Facendo riferimento al caso, per esempio il critico Maurizio Calvesi fa risalire all’italiano “dado” il nome della corrente “Dada” (M. Calvesi, Un Coup Dada. Il caso nell’arte contemporanea, Feltrinelli, 1978). Non vi sono dubbi: il dado nel suo risultato numerico finale è intrinsecamente legato al caso. Un precedente per il gioco di parole dadaista lo troviamo in Un Coup de Dés jamais n’abolira le Hasard (Mai un lancio di dadi eliminerà il caso) di Stéphane Mallarmé, pubblicato nel 1897. La poesia è scritta in forma di calligramma, non come quelli di Guillaume Apollinaire che si avvicinavano ad un vero e proprio disegno, ma per indicare che i versi sono caduti casualmente sul foglio bianco. Tutto questo fa pensare a come l’educazione di un bambino possa condizionare le capacità creative dell’adulto, quanto la pedagogia possa plasmare l’estetica, quanto la cultura moderna possa trasformare la scuola in un laboratorio fantastico piuttosto che in una “prigione”.

Parlando di dadaismo non possiamo non soffermarci sull’esperienza di Marcel Duchamp che, pur non legandosi in modo specifico a nessuna delle avanguardie, prende il gioco come chiave di lettura della realtà tra ironia e dissacrazione, metamorfosi e interazione con il pubblico; nelle sue opere il caso, dettato da regole da lui stesso stabilite come in un gioco ludico, è elemento preponderante. Il sociologo francese Roger Caillois, nel suo saggio I giochi e gli uomini. La Maschera e la vertigine (1958), riesce a mettere in luce anche le componenti più oscure e ambigue del gioco, visto che esso non è dotato di un carattere unitario, i suoi molteplici aspetti possono essere ricondotti a quattro tipologie principali: Agon, Alea, Mimicry e Ilinx (competizione, caso, maschera e vertigine). Le categorie a sua volta sono suddivise in due insiemi dal carattere opposto e conflittuale: quello della paidia e quello del ludus. La paidia contiene in sé la natura fantasiosa e istintiva del gioco, il ludus invece, al suo opposto, ne contiene il carattere soggetto a regole ben precise che porta al superamento di ostacoli e ad ottenere un risultato.

Nelle quattro categorie di gioco indicate da Caillois, si può trovare la presenza di entrambi i due insiemi. Il sociologo e antropologo francese inserisce i cruciverba, i giochi matematici e gli anagrammi nella sfera del ludus, dove però può anche manifestarsi la presenza dell’agon, cioè della competizione. Su questa linea i giochi di parole che propone Marcel Duchamp nei suoi ready-made, possono essere inseriti nella sfera del ludus inteso, nel raggiungimento di una soluzione finale, come superamento delle difficoltà poste dall’artista stesso; un po’ come avviene in una partita di scacchi, gioco molto amato dall’artista. Duchamp vuole però anche rivoluzionare le tradizionali regole del linguaggio, per cercare nuovi significati all’interno delle parole attraverso un gioco umoristico preciso e dettagliato; è lui stesso, a proposito dei giochi linguistici, che afferma, in una conversazione con Katherine Kuh: Si sa, i giochi di parole sono sempre stati considerati una bassa forma d’ingegno, ma io li trovo una fonte di stimolo sia per il loro suono attuale, sia per il significato inatteso legato ai reciproci rapporti tra disparate parole. Per me questo è un campo infinito di divertimento ed è a portata di mano. Qualche volta emergono quattro o cinque diversi livelli di significato.

Così questi giochi di parole sono da una parte forma di ingegno, dall’altra divertimento. È importante rilevare che riguardo alla risoluzione degli “enigmi” che costellano le sue opere, la competizione si manifesta anche nella sfida che l’artista lancia al fruitore (vedi ad esempio L.H.O.O.Q., Grande vetro, Fountain o altri ready-made), il suo è un invito ad osservare e a riflettere sulle infinite concatenazioni tra linguaggio e oggetto, tra parola e immagine. Nella stragrande maggioranza dei suoi “giochi” però non troviamo solo la dimensione dell’agon, ma anche quella dell’alea, del caso, così come viene naturale ravvisare la stessa componente anche nel resto della poetica dadaista, che spesso elegge il caso ad elemento principe di ogni processo creativo. Riguardo a questo è emblematico il testo Pour faire un poème dadaïste di Tristan Tzara, dedicato a Marcel Duchamp con le seguenti parole: Une goutte de hasard (Una goccia di caso), in cui l’autore invita a ritagliare parole di un articolo di giornale, inserirle in un sacchetto, agitarlo, ed infine estrarle, per disporle nell’ordine in cui sono uscite in modo da formare una poesia. Del resto l’artista francese in fatto di aleatorietà (caso) la sapeva lunga, se con l’opera 3 Stoppages Ètalon faceva cadere dall’altezza di un metro tre fili per tre volte su tele dipinte, dove questi, cadendo in modo casuale, generano linee ondulate e diverse che diventano delle unità di misura totalmente arbitrarie e fuori dalle comuni leggi della misurazione: Questa esperienza fu realizzata nel 1913 per fissare e conservare forme ottenute dal caso, dal mio caso (Marcel Duchamp, Riga 5. Marcel Duchamp, a cura di Elio Grazioli, Marcos y marcos 1993).

In Duchamp il gioco si fa ironico al punto da vederlo cambiare nome, travestirsi e diventare donna (la mimicry di Caillois), da Marcel diventa Rose Sélavy e questo pseudonimo richiama, mediante l’anagramma di Rose, l’Eros. Così, con il continuo cambio di identità, dimostra la sua costante ricerca tesa a stimolare il fruitore per poter superare quello che comunemente vediamo, non solo negli oggetti dei suoi ready-made ma anche rispetto a sé stessi. Project for the rotary demisphere (1924) e i Rotorelieliefs (1935) sono invece gli studi che Duchamp fece nel campo del movimento e degli effetti che esso produce sulla percezione umana, e queste sue macchine rotanti producono movimenti rotatori che creano una spirale e generano nello spettatore un senso di stordimento e di vertigine (ilinx).

Il gioco degli scacchi rappresenta bene anche lo spirito surrealista, sono molti gli esponenti di questo movimento che, oltre a giocarci, li hanno progettati fino al punto di divenire opere d’arte, basti pensare alla Scacchiera surrealista di Man Ray del 1934, dove le normali caselle in bianco e nero sono sostituite con le fototessere degli artisti surrealisti, oppure quella progettata da Max Ernst per l’amico Duchamp nel 1944/1945. Duchamp aveva un’autentica ossessione per questo gioco, infatti a partire dal 1923 se ne occupa in modo quasi esclusivo, fino al punto di diventare capitano della squadra olimpica francese, al fianco del campione del mondo Alexander Alekhine. Per lui i pezzi degli scacchi sono L’alfabeto che plasma i pensieri, e questi pensieri esprimono la bellezza astrattamente. […] Sono arrivato alla conclusione personale che mentre non tutti gli artisti sono giocatori di scacchi, tutti i giocatori di scacchi sono artisti. […] C’è un fine mentale implicito quando si guarda l’ordine dei pezzi sulla scacchiera. La trasformazione dell’aspetto visivo in materia grigia è una cosa che avviene sempre negli scacchi e che dovrebbe avvenire nell’arte (Marcel Duchamp, La partita di Duchamp, Ferruccio Pezzuto, Ed. Messaggerie scacchistiche, 1994).

I surrealisti, a cominciare da Duchamp per finire a Dalì, condividevano tutti un profondo interesse per il gioco, amavano giocare con le parole e con le immagini, creando dei paralleli linguistici e visivi davvero innovativi.

Idea del gioco e dell’infanzia – diversa nei risultati – è quella su cui hanno lavorato i futuristi; Giacomo Balla, ma soprattutto Fortunato Depero, dimostrano che una ricostruzione futurista dell’universo creativo scatena una libertà e una fantasia del tutto nuove e originali nel mondo dell’infanzia e dei giochi. Nella costruzione dei suoi giocattoli in legno colorato, prodotti dalla sua Casa d’Arte, Depero era animato da quella allegria che pochi anni prima aveva ispirato il manifesto futurista: i suoi animali (i giocattoli il Pappagallino, l’Orso, la serie dei Rinoceronti, il Gatto nero, il Topo bianco, la Farfalla, le marionette la Gallina e la Scimmia), il Guerriero scudato, il Tamburo al “Teatro dei piccoli”, ecc…, tutti realizzati dal 1918 al 1923), oltre alla grande abilità e originalità, confermano il suo bisogno di creare un forte nesso tra arte e fantasia infantile. Giacomo Balla, nel manifesto Ricostruzione futurista dell’universo del 1915, afferma che: Per mezzo dei complessi plastici noi costruiremo dei giocattoli che aiuteranno il bambino: a ridere apertissimamente; all’elasticità massima; allo slancio immaginativo; a tendere infinitamente e ad agilizzare la sensibilità; al coraggio fisico. […] Il giocattolo futurista sarà utilissimo anche all’adulto, poiché lo manterrà giovane, festante, disinvolto, pronto a tutto, instancabile, istintivo e intuitivo.

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Fortunato Depero, il Tamburo al “Teatro dei piccoli”, 1918

I questo panorama di inizio Novecento non possiamo non fermarci a parlare di Paul Klee, perché anche lui ha sentito in modo chiaro e inequivocabile la necessità di rifarsi al mondo fantastico e magico/primitivo dei bambini, non solo per la sua personale ricerca artistica, della quale ricordiamo Great Chess-Game (1937) dove, dipingendo una grande scacchiera colorata conferma la centralità del tema ludico, ma anche per il suo impegno come insegnante del Bauhaus insieme a Itten, Feninger, Schlemmer, che costruirono dei giochi per i propri figli, modelli indispensabili alla realizzazione dei successivi prototipi prodotti dai loro studenti Alma Buscher-Siedhoff ed Eberhard Schrammen che, oltre a essere un chiaro esempio delle linee portanti del Bauhaus, crearono giocattoli ancora oggi in produzione perché funzionali allo sviluppo psico-pedagogico del bambino. L’utilizzazione di forme geometriche di base come il triangolo, il quadrato e il cerchio (cubo, sfera, cilindro e cono) e dei tre colori primari (il giallo, il rosso e il blu), grazie a loro costituiscono l’adattamento di questi giochi alle esigenze di una produzione in serie che riforma la concezione del giocattolo. I giocattoli, non più costosi e preziosi manufatti da ammirare più che da manipolare, sono caratterizzati dalla semplicità e dalla molteplicità che permette la combinazione dei suoi elementi. Sono giochi componibili e scomponibili, pensati per adattarsi alla creatività e alla fantasia del bambino, come possiamo constatare nel Gioco di costruzione di Schrammen o nella Barca di Buscher-Siedhoff, che nel 1924 spiega così la sua concezione del giocattolo: Il nostro giocattolo (Bauhaus): la forma semplice, incontestabilmente chiara e precisa, molteplicità e stimoli li crea il bambino direttamente attraverso l’assemblare e il costruire. Quindi uno sviluppo che dura. La proporzione: stabilita dalla personale sensibilità, ma il più possibile reciprocamente armonizzabile. Il colore: utilizzare solo i colori fondamentali, giallo, rosso, blu, eventualmente anche il verde, ma prima di tutto il bianco per rafforzare la sensibilità cromatica del bambino e quindi la sua capacità di godere, un fattore chiave nell’educazione (Aldo Colonnetti, Bauhaus 100. Imparare fare pensare. Electa 2019).

Un altro artista che ha una forte rilevanza per il tema che stiamo affrontando è senz’altro l’americano Alexander Calder, non solo perché anche lui si è costruito la sua scacchiera d’artista (Assemblage, del 1941), ma perché, seguendo la gioiosità irriverente di Joan Mirò, riesce ad interpretare quelle tematiche ludiche in modo autentico ed originale, facendo in un certo senso “scuola”. Cirque Calder, realizzato tra il 1926 e il 1931, è la sintesi dalla quale emerge in modo esplicito la sua leggerezza poetica, che coincide realmente con il vero sentire di un bambino. Il circo è metafora della vita. Quanti bambini in passato hanno sognato di scappare con una compagnia circense, insieme agli acrobati, ai clown, ai domatori, agli elefanti, i leoni e le tigri? Questo desiderio indicava nel bambino uno strappo, la necessità di vivere qualcosa di diverso che nasceva dal gioco, pur di separarsi dalla noia della società degli adulti.  Questo è l’istinto che incoraggia a seguire la propria fantasia. Come disse una volta l’artista stesso del suo Cirque Calder: La semplicità dei materiali combinata a uno spirito audace nell’affrontare l’insolito e l’ignoto, danno vita a un’arte primitiva piuttosto che decadente (Ugo Mulas, Cirque Calder, Corraini 2014).

La manualità con sui sono costruiti questi personaggi del circo racchiuso in una valigia, la loro spoglia leggerezza, creano delle simpatiche sculturine articolate e movibili di filo di ferro, che costruiscono un universo magico di forme animate di poesia. Anche qui, dietro il gioco, il rapporto tra l’arte e il bambino riesce ad acquisire una sua profonda dimensione antropologica, in linea con tutti gli elementi culturali che hanno ispirato le avanguardie nel reinventare una visione della realtà.

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Alexander Calder, “Cirque Calder”

Dopo questi precursori il legame artista/gioco, pur non aggiungendo molto alla sua visione teorica, si è dimostrato di una grande fecondità nel campo dell’arte. Prima di tutto è stata messa sotto i riflettori l’Art Brut e Naif che nasceva istintivamente da un linguaggio ingenuo, puro, non filtrato dai canoni estetici del gusto.

Una linea di artisti segue l’esperienza di Duchamp, arrivando fino all’arte concettuale e alle sue recenti evoluzioni (dalle provocazioni di Piero Manzoni alla rilettura profana delle icone moderne di Andy Warhol, dai giochi di parole di Joseph Kosuth a quelli razionali di Giulio Paolini, dai vari giochi linguistici legati alla Poesia Visiva, con autori come Lamberto Pignotti, Emilio Isgrò, Emilio Villa, fino ad arrivare ai palloncini colorati e luccicanti a forma di animali di Jeff Koons e all’ironia dissacrante di Maurizio Cattelan o di Aiweiwei), dove il messaggio che stimola l’immaginazione del fruitore è racchiuso nell’idea primaria più che nel risultato e la partecipazione è fondamentale per il significato, così come si crea nei partecipanti di una qualsiasi attività ludica.

Un altro esempio di artista che riteneva prioritario giocare con gli effetti del caso all’interno di regole prestabilite è John Cage, tra l’altro grande amante del gioco degli scacchi e che ha fatto anche delle partite insieme a Duchamp. Il suo 4’ 33” rappresenta l’insieme delle possibilità producibili dal caso in uno spazio e in un tempo definito. John Cage è vicino al movimento Fluxus che affermava in modo dissacratorio che tutto è arte e chiunque la può fare, il prodotto diventava la vita sostituendosi definitivamente all’opera intesa come oggetto di esposizione. La vita racchiusa in un’azione (musica, performance, happening) era solo rappresentabile attraverso la sua documentazione costruita sull’evento e contenuta – solitamente sciolta – in una scatola, sull’esempio della Scatola verde di Duchamp o del circo in valigia di Calder.

Le testimonianze potrebbero essere infinite, e con approcci sempre diversi, vorremmo citarne almeno alcune realizzate negli ultimi decenni del XX secolo, come le macchine mobili di Jean Tinguely, ricche di comicità burlesca, o i tarocchi abitabili della moglie Niki de Saint Phalle, Alighiero Boetti con il libro-gioco da colorare Da uno a dieci (1980), Il gioco degli scacchi (1988) di Enrico Baj, Mario Mariotti con le sue mani dipinte che si trasformano in personaggi vivi, e i luna park o gli scivoli di Carsten Höller, fino ad arrivare all’epoca post digitale con il videogioco The Night Journey di Bill Viola, fatto in collaborazione con Game Innovation Lab, nel 2018.

La maggior parte degli artisti finora ricordati si sono avvicinati al mondo dell’infanzia per portare avanti un’idea che contenesse le regole di una nuova necessità di ricerca espressiva, l’obiettivo primario quindi era l’opera d’arte, mentre il bambino faceva parte della dimensione ideale da cui partire, bisogna entrare nel mondo del design per trovare in Bruno Munari uno che ha finalizzato tutto il suo sforzo creativo verso il bambino e la dimensione del gioco. Munari incarna perfettamente la missione ludico-educativa dell’artista. È vicino al mondo dell’infanzia fin dal 1929, quando realizza il suo primo libro futurista, L’aquilotto implume. Questa è la sua tesi: L’interesse degli artisti verso l’infanzia si mostra in due modi: uno è quello di dipingere in modo evidente le sembianze e gli atteggiamenti dei bambini nell’ambiente dove vivono; l’altro è quello di esplorare la natura dell’animo infantile e cercare di esprimersi con la stessa naturalezza (Bruno Munari, I pittori dell’infanzia, Cappelli 1979). Il gioco diventa tema centrale di tutta la sua attività, come possiamo vedere dai libri da lui realizzati (Le macchine di Munari, la collana “I Libri Munari”, composta di sette volumi diversi con finestre apribili, Nella notte buia, Nella nebbia di Milano, la serie Cappuccetto rosso, verde, giallo, blu, bianco, ecc…) all’attività di graphic designer, fino alle opere d’arte vere e proprie (Le macchine inutili, Le sculture da viaggio, ecc…).

L’artista raccoglie la lezione delle scatole surrealiste e Fluxus, trasformando il libro in vero e proprio oggetto-gioco, in un contenitore di “sorprese” da percepire a 360°. Di rilevante importanza per il nostro argomento è la serie Architettura, (Scatola di Architettura MC1) pubblicata da Castelletti nel 1945 e costituita da mattoncini di legno componibili: in un’epoca in cui inizia la ricostruzione dell’Italia lui immagina i bambini come attori attivi della realizzazione del nuovo mondo che usciva dalle atrocità della Seconda Guerra Mondiale. Seguono con coerenza questa linea i giochi: ABC con fantasia (1960), Aconà Biconbi (1961), Più o meno (1970), Strutture (1972), Otto sequenze (1973), Le foglie (1973) Trasformazioni (1975) e Immagini della realtà (1976). Il concetto di libro-gioco da percepire coinvolgendo tutti i sensi raggiunge la sua massima espressione nei Prelibri, editi da Danese nel 1980, in questa serie di dodici piccoli libri Munari mette in condizione i bambini di conoscere l’ambiente circostante attraverso la semplicità formale e la diversità dei materiali che possono stimolare tutti i ricettori sensoriali, non solo la vista e l’udito. La produzione di libri di Munari è davvero straripante, tuttavia non possiamo non citare ancora i suoi libri-gioco Guardiamoci negli occhi, del 1970, e La favola delle favole, del 1994, mentre diventa un vero e proprio libro-oggetto il suo Libroletto (1993), dove il libro, fatto con cuscini di stoffa e gommapiuma, diventa anche gioco interattivo, utilizzabile per dormire, giocare, coprirsi; questo libro-oggetto rappresenta la conseguenza estrema del processo di trasformazione da lui attuato attraverso la dilatazione delle possibilità di utilizzo. Con Bruno Munari si coglie in pieno quanto sia stato coinvolgente e rivoluzionario il gioco di finzione creativa messo in campo artistico nel XX secolo, perché grazie a lui riusciamo a percepire non solo mentalmente, ma anche con i sensi, il pieno compimento della congiunzione del gioco con la vita.

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 Bruno Munari, Libroletto, 1993

 La regola e il caso.
Come il giorno e la notte  
la regola e il caso sono due contrari
come la luce e il buio
come il rosso e il verde
come il caldo e il freddo
come l’umido e il secco
come il maschile e il femminile.
La regola dà sicurezza,
la geometria ci aiuta a conoscere le strutture
o a costruire un mondo nel quale
ci possiamo muovere senza paure.
Il caso è l’imprevisto
a volte terribile
a volte piacevole
l’incontro con una persona
con la quale si stabilisce subito
un contatto di simpatia e di amore,
l’esplosione di una idea risolutrice
la scoperta di un fenomeno.
La regola nasce dalla mente
si costruisce con la logica
tutto è previsto
con la regola si può pianificare
un programma.
Il caso nasce dal clima
delle condizioni ambientali, sociali,
geografiche, dai ricettori sensoriali.
Un odore di eucalyptus
 forma di un sasso
il ritmo delle onde del mare…
La regola, da sola, è monotona
il caso da solo rende inquieti.Gli
orientali dicono:
La perfezione è bella ma è stupida
bisogna conoscerla ma romperla.
La combinazione tra regola e caso
è la vita, è l’arte
è la fantasia, è l’equilibrio.

(Bruno Munari, Verbale scritto, Il Melangolo, 1992)

Un’altra figura fondamentale in questo percorso di ricerca riteniamo che sia Enzo Mari, anche lui inizia come artista e si specializza come designer vero e proprio. Come Munari, nei suoi libri-gioco e nei suoi giochi, riprende l’approccio ludico-creativo mantenendo una coerenza impressionante rispetto al rigore etico del ruolo. Ha un profondo rispetto nei confronti dell’intelligenza dei bambini, tanto da non pretendere di imitarli, come altri hanno fatto: È ovvio che un bambino privo di tecnica realizzi schizzi tutti storti e sbilenchi, ma proprio non capisco perché un illustratore nel pieno delle sue facoltà debba imitarli pensando di renderli così più adatti alla cultura infantile (Enzo Mari, Venticinque modi di piantare un chiodo, Mondadori 2011).

Di Enzo Mari merita citare almeno 16 animali del 1961 (di cui è stata realizzata la versione in libro a leporello con il titolo L’altalena), Il gioco delle favole del 1965, e Il Posto dei Giochi del 1967, tutti prodotti da Danese, e diventati ormai dei veri e propri modelli di progettazione applicata ai giochi dell’infanzia. 16 animali è un gioco-puzzle componibile di legno, fornito di una struttura multipla a incastro e abilmente creato per ricavare da un’unica tavola rettangolare e con un unico taglio continuo, varie sagome di animali. Il gioco delle favole è invece un libro-gioco costituito da tavole sciolte di cartoncino, da comporre, scomporre, costruire, dalle inesauribili possibilità creative. Il Posto dei Giochi consiste in un foglio di cartone ondulato, lungo tre metri, e trasformato in un’unica parete merlata composta da dieci pannelli con forme e decorazioni diverse, per esercitare la fantasia del bambino ad inventare storie e personaggi sempre nuovi.

Ci sono almeno due autori che hanno ereditato la missione educativa della lezione di Bruno Munari. Il primo è il francese Paul Cox, l’altro il giapponese Katsumi Komagata. Cox è un’artista multidisciplinare che partendo dalla pittura ha realizzato libri per ragazzi e manifesti per il tetro e l’opera lirica, scenografie e installazioni ludiche, campagne pubblicitarie e giochi. Di lui è importante ricordare i libri realizzati nel 2002, Le livre le plus long (edito da Les Trois Ourses), e Intanto… il libro più corto del mondo (edito da Corraini), nonché il recente Gioco dell’amore e del caso (prodotto da Corraini nel 2019). Ne Le livre le plus long Cox rende omaggio a Bruno Munari con quattro pagine che ruotano attorno a una spirale: il tempo di una storia lunga quanto la vita del sole dall’alba al tramonto, che ogni giorno ricomincia, all’infinito. Intanto… il libro più corto del mondo, invece non ha un inizio e nemmeno una fine, ma solo un continuo di immagini che focalizzano lo stesso attimo nella vita di tante e tante persone, e il tutto è collegato da una sola parola: “intanto”; forse il libro più corto del mondo, iniziando e finendo nella stessa pagina, visto che rappresenta l’attimo, finisce per divenire il più lungo, addirittura nell’immaginario a toccare lui l’infinito. Sono naturalmente libri-gioco, che però inducono a rapportarsi con uno sguardo diverso sulla realtà. Komagata invece, con i suoi raffinati libri di forme ritagliate in grado di generare un forte stupore visivo, riesce a comunicare al lettore nozioni fondamentali che possono aiutarlo nella sua crescita, senza con ciò scendere a compromessi con la sua forte espressività poetica (vedi i dodici cofanetti pubblicati nella collana “Little Eyes” dell’editore Les Trois Ourses, Blue to Blue del 1994, L’endroit où dorment les étoilles del 2004 e A cloud del 2007).

Nella produzione di giochi degli ultimi anni è interessante ricordare l’esperienza del designer spagnolo Martì Guixé, che ha ideato dei veri e propri libri-gioco in forma di colouring book interattivi, quella del progettista grafico Lorenzo Bravi, del graphic designer Alessio D’Ellena, di Plan Toys, con i loro giochi ecosostenibili in planwood, e le realtà rappresentate dagli studi Parasite 2.0 e I Ludosofici.

Questa breve indagine con gli autori del XX secolo ci ha portato principalmente a considerare il gioco come elemento ludico da tavolo, o comunque da ambiente chiuso. Sappiamo benissimo che le categorie di gioco sono infinite, basta pensare agli eventi sportivi, al gioco d’azzardo, alla caccia o alla pesca, ma a noi interessava approfondire ciò che abbiamo accennato all’inizio di questo capitolo sulla paidia e il ludus, quindi l’aspetto fantasioso e incontrollato del gioco, e il suo opposto che costringe il soggetto a regole chiare, disciplinate, che portano al superamento di ostacoli e ad ottenere un risultato. Abbiamo messo a confronto l’arte con il gioco.

In questo i giochi da tavolo sono degli esempi principe, capaci di contenere entrambe le caratteristiche: la fantasia e la disciplina, il caso e la regola. Gli scacchi a quanto pare, con la loro peculiarità di un’alta preparazione, hanno affascinato molte generazioni (di artisti e non), ma tra i giochi da tavolo in molti sono di tradizione antichissima, come ad esempio il Backgammon o la dama, anche qui ci vuole destrezza oltre che fortuna. Entrambi sembrano giochi nati da un ceto sociale che può permettersi il tempo necessario per lo studio e la preparazione, il cosiddetto allenamento prima della partita.

Vorremmo adesso focalizzare nei prossimi capitoli l’attenzione su quei giochi dove non è necessaria una preparazione strategica, perché il caso e la regola sono gli unici elementi che definiscono l’esito finale della vittoria o della sconfitta. Sono quei giochi dove veramente anche un bambino di pochi anni può competere con un adulto o un vecchio, uomo o donna che sia. Giochi che hanno sì affascinato i ceti medio-alti della società, arrivando ad avere vincite o perdite in denaro, ma anche alla portata dei ceti popolari e di quelli meno abbienti.

Tra questi giochi il più diffuso e antico è senz’altro quello dell’oca, è antichissimo ed ha percorso tutta la storia dell’umanità almeno dal tempo degli Egizi, avendo la capacità di trasformarsi ed adattarsi ai costumi che andavano cambiando, alle tecniche di stampa e diffusione, al contenuto grafico. Data la sua lontana origine, sembra perfino impossibile che le sue caratteristiche formali di base abbiano avuto delle variazioni minime, dove la sostanza è restata pressoché inalterata. Forse perché meglio di altri, nella sua semplicità, riesce a fingere di esprimere la metafora di un percorso esistenziale.

Del resto il Gioco dell’Oca, che sia composto di 90 o 63 caselle, nella sua circolarità fa pensare alla vita di un giorno dove il sole sorge, in un certo momento si trova al centro del cielo e comincia a discendere fino a tramontare. In fondo, nell’arco della giornata, la vita di un essere umano si carica di sorprese, positive e negative.

Gente di Colognom

Prenarratorio  1982

di Ennio Abate

1.

La vecchia e i bambini

Il cortile era un rettangolo di prato verdastro chiuso dal muro basso dei box per le auto. La luce del caldo pomeriggio era intensa e, tranne il gatto nero acquattato sotto l’ombra del roseto, lì c’era solo quel gruppo di cinque bambini e bambine. Trasportavano dei vecchi mattoni, forati, sporchi di calcina e depositati giorni prima accanto al muro del condominio in attesa d’essere trasportati in discarica. Volevano costruire un loro immaginario fortilizio. Ci avevano lavorato da un bel po’, quando dal retro della panetteria che dava sul cortile spuntò d’un tratto la prestinaia. Era una anziana bassa, con le labbra piccole e lo sguardo maligno. I bambini l’osservarono. Dapprima allarmati. Videro che avanzava armata di una zappa. Poi, raggiunto il muretto di mattoni che avevano appena messo su, glielo distrusse, sbraitando. Ed era rientrata nel suo negozio, ancora chiuso al pubblico per l’intervallo di mezza giornata, acquattandosi su una sedia, affannata ma forse pronta a tornare all’attacco. Non voleva che i bambini costruissero qualcosa in quel cortile. Non voleva che vi scendessero di pomeriggio dai vari appartamenti. Non voleva che esistessero.

I bambini s’erano dispersi. Poi i più grandi e tenaci avevano deciso di continuare. Ripararono il danno e ripresero il lavoro di prima. La donna allora era risalita in ascensore nel suo appartamento al sesto piano del condominio e dopo qualche minuto aveva buttato due secchiate d’acqua dal balconcino del ballatoio. In risposta sberleffi .

Persino alcune ore dopo, quando avevano smesso quel gioco e si divertivano a tirar calci a un pallone, era rispuntata con in mano una scopa e aveva cercato di colpire di sorpresa il biondino che le voltava le spalle.

2.

La madre e la bambina

La bambina in cortile.  Era un riquadro di prato. La madre alla finestra della cucina al primo piano. Ogni tanto s’affacciava e la sorvegliava. In un modo asfissiante. Come una che, a sua volta, si sente continuamente sorvegliata e deve dar conto. E per questo, la bambina in mezzo al gruppo era impacciata. Occhi più spauriti di quelli delle altre e la voce così fievole da rimanere soffocata. La madre era riapparsa varie volte col suo faccione apprensivo. La bambina percepiva il disprezzo delle amiche. E queste avevano colto il viscido filo che la tratteneva alla madre. Dopo un po’ cominciarono a canzonarla. Allora sua madre s’affacciò ancora e inveì contro di loro, rabbiosa e isterica. Afferrò dal cestino dell’immondizia una buccia di banana e la gettò con forza contro le bambine. Quella colpita reagì e ributtò la buccia di banana contro la donna. La colpì in pieno viso e tutte si misero a ridere. Allora la donna gridò: maleducate! E richiamò la figlia costringendola a rientrare in casa. La bambina salì di corsa le scale. Piangeva, mentre da fuori si sentiva un crudele canto di vittoria. La donna tirò giù la tapparella e sgridò la figlia appena se la vide davanti. Di tanto in tanto raggiungeva la finestra e di nascosto spiava tra le fessure della tapparella le bambine che continuavano indifferenti a giocare.

3.

I bambini parlavano del cortile come di un territorio che dovevano continuamente difendere dagli adulti invasori. I nemici più insidiosi erano i negozianti al pianoterra del condominio: la barista, che si lamentava per i danni alle sue piante; il fruttivendolo, che voleva tenere sempre pulito il pavimento dell’ingresso di servizio del suo negozio; la prestinaia, che nell’intervallo pomeridiano dormiva e non voleva sentire schiamazzi o urla. E pure un nugolo di mamme, sorelle, nonne – e a volte padri – era spesso in agguato da finestre e balconi. Per sorvegliare, sgridare, intervenire pro o contro qualcuno, richiamare.

4.

In un solo anno s’era indurita. E aveva fatto in successione scelte che nella opacità di quelle esistenze di periferia apparvero drastiche. Finché durante l’occupazione delle case aveva tentato il suicidio. Eppure mesi prima sembrava stesse sbocciando. Impiegatuccia al suo primo lavoro e studentessa in una scuola serale di Milano, era arrivata nella nostra sede per farsi aiutare a preparare il suo primo volantino. E s’era fermata ad ascoltare – in piedi, in un angolo – quella gente strana che, seduta, ammucchiata attorno a un tavolo, fumava e criticava padroni e sindacati. Per farla partecipare a qualche riunione serale, la coppia dei compagni già con figli avevano dovuto parlamentare con sua madre – una donnina piccola, vestita di scuro, tutta dolore, frastornamento e diffidenza. Poi s’era isolata. O l’avevano isolata. E mai si seppe come fosse arrivata al tentativo di uccidersi. Ne parlarono tutti nel giro. Vagamente e sottovoce. Qualche ragione, chi la sapeva se la tenne in segreto. Schizzata fuori dal giro dei compagni di Colognom, la si vide alle manifestazioni delle femministe. Era con le più accese e separatiste. – Me ne vado, mi licenzio, vado in Brasile. Me lo disse all’uscita della metropolitana in Duomo. Una volta che accettò di fermarsi quando la riconobbi e la chiamai. S’era trascinata con sé anche la sorella più piccola. E circolarono notizie brevi, raccontate frettolosamente. Su viaggi in gruppo di donne attraverso paesi sudamericani; e storie di droga e di violenza in cui erano finite. La ritrovai, anni dopo, una sera. Benzinaia a un distributore sulla tangenziale. Il volto sotto il berretto era ancora più affilato e duro. Avrebbe messo da parte un po’ di risparmi e sarebbe ancora ripartita. Poi – ma quando? – qualcuno disse che era morta. Per un po’ vidi ancora passeggiare – separati – per alcune strade di Colognom suo padre e sua madre. Lui fumava e guardava nel vuoto a quell’incrocio di strade, dove c’era un semaforo e le auto si fermavano una decina di secondi e poteva osservare i volti degli automobilisti. La madre girava tra passanti e auto e il vuoto neppure lo guardava.

5.

Il capogruppo consiliare del PCI

Adesso era il capogruppo consiliare del PCI. Occhialuto. Incanutito. Un figlio. Abitava in un appartamento di sua proprietà. Viveva come prima. in fondo in una condizione di modesto benessere impiegatizio. Non dissimile dal suo.  Eppure  rimaneva una tensione  sotterranea tra loro, quando s’incontravano. Negli ultimi  anni  il sudario della sconfitta aveva aveva avvolto  i compagni del  prof: gli estremisti, i mau mau. Così li chiamava la gente che voleva  invecchiare tranquilla. O nel sopore mite delle cene in famiglia o nel frastuono  dei televisori con il volume a palla. Subito dopo, però, dallo stesso sudario erano stati  fasciati stretti  anche loro:  i compagni delle sezioni, i consiglieri, i funzionari mummificati del Partito. Se in uno dei loro casuali e rari incontri per strada avessero accennato a certi argomenti – la Polonia di Walesa, le declinanti Brigate Rosse, i sindacati avviliti, i giovani piegati e piagati dal ritorno al già provato e alla ripetizione – quelle  due loro esistenze,  dall’esterno così simili e ormai opacizzate, sarebbero state di nuovo squarciate. Come da un cono di luce  irritante, insopportabile. E  quali parole avrebbero cercato per dire quel magma che si sedimentava giorno dopo giorno nei riti ombrosi di una quotidianità che per tutti si era   caricata di equivoci, complicità, stanchezze, tolleranze, non detti? Se smossa,  la polvere sottile di una storia bloccata, divenuta quasi sopportabile in assenza ormai dei venti impetuosi  da cui si erano lasciati  sfiorare o trascinare solo una decina d’anni prima –  avrebbe mostrato ad entrambi sempre quelle stesse parole. E, se le avessero pronunciate – ma ora col fiato in gola quasi strozzato – si sarebbero ancora aspramente  divisi e contrapposti.

 6

Una casalinga

La giovane aveva da accompagnare le bambine alla scuola materna. Per la nevicata inattesa l’auto  – una Renault vecchiotta – aveva difficoltà nel partire. L’aria invernale era gelida. E lei, innervosita, avrebbe voluto  rivolgersi al meccanico, che aveva proprio lì a pochi metri l’officina già aperta. Ma quello dalla soglia la guardava indifferente, come se non s’accorgesse della  pena di lei che cresceva. Allora aveva fatto scendere le bambine, aveva chiuso con rabbia le portiere e con la più piccola in braccio e le altre due che la seguivano calme s’era diretta sullo stradone con gli alberelli spogli ai lati. Faticava a non scivolare.

Rientrando trovò le stanze in subbuglio. I letti sfatti avevano le lenzuola consunte  e macchie di sporco. Bambole, libretti  illustrati e altri giocattoli sul pavimento. In cucina sul tavolino di marmo c’erano i resti della colazione da sparecchiare. Si sentì improvvisamente stanca e addolorata. Il marito era partito per uno dei suoi soliti viaggi. Accanto al letto sul comodino aveva lasciato un portacenere pieno  mozziconi e una bottiglia di vermouth quasi vuota. C’erano i soldi  per la droga che dovevano cercare. Si stese sul letto con il cappotto ancora addosso e s’accese una sigaretta. Dall’esterno i vetri delle finestre filtravano i rumori del traffico. Pensò ai due giovani mormoni americani che sarebbero venuti al pomeriggio per proseguire con lei i colloqui religiosi iniziati da qualche mese.

7.

 L’autoscuola

Se ne stava seduta dietro la scrivania bassa, strappata da qualche vecchia casa d’impiegati e che lì sfigurava tant’era  fuori posto rispetto al resto dell’arredo. Teneva sempre addosso il suo cappotto marrone. E aveva capelli spettinati. Il suo faccione grasso pareva una molle prigione per i suoi  piccoli occhi. Nell’autoscuola c’era solo lei.  Di fronte alle sedie plastificate e ben allineate. Sul muro in fondo grandi tavole illustravano la sezione interna di un’auto con le sue parti meccaniche evidenziate da colori diversi. Sull’altro muro il manifesto pubblicitario enorme con un’auto del primo Novecento  e una donna sorridente accanto. E, ancora più sproporzionato per la vicinanza al manifesto, un calendario con le immaginette dei santi. Quando vide che il marito   posteggiava l’auto dei praticanti con dentro, sui sedili posteriori, altri due clienti che dovevano esercitarsi per la patente, si alzò e con furia si accostò alla portiera che quello stava aprendo urlando: – Porco! Sei un porco! Lo devo dire a tutti. Il marito scese e  rimase quieto e silenzioso. Come se da tempo fosse abituato alla scenata. Alcuni studenti della media si erano fermati a guardare la donna che ancora  lo minacciava.

8.

 Un vecchio

Entrò nel bar per comprare  una bottiglia di vino. La solita che suggellava i momenti di accordo con lei. Un segnale di scherzosa solennità per entrambi. E subito restò imbarazzato. A un tavolino era seduto P. Aveva davanti a sé un bicchiere di whisky e guardava,  assente, due adolescenti che macchinavano attorno al jukebox. Lo salutò ma restò catturato da pensieri contraddittori. In quei pochi attimi sentì come rantolava opaca l’esistenza dell’ex compagno. Omosessuale mascherato e ora alcolizzato e disprezzato da parenti e vicini, nella oscura  deriva dei suoi ultimi anni, era stato spinto adesso  proprio in quel bar.  Finì per non ricordare più la marca di vino che aveva tante volte comprato. L’aiutò,  elencando e andando per esclusione, il barista. Dopo aver pagato, prima di uscire, tornò a salutare P che rispose con voce fredda e lontanissima. Quando riferì dell’incontro, lei gli disse che l’avevano cacciato dalla cooperativa che  amministrava e che sempre più spesso se ne restava a casa. In malattia.

9.

Lui, in tuta da meccanico, ordinò due caffè. Lei, biondastra e invecchiata, gli stava dietro, ma poi si staccò e in disparte prese a parlare con la barista. Anche lui, mentre gli preparavano i caffè, si rivolse ad alcuni  seduti ai tavoli del bar che lo conoscevano. Con una voce dura, rauca, lenta, dialettale.  Quando se ne andarono, quelli che  l’avevano ascoltato fingendo attenzione, ridacchiarono sornioni. Era uno che in modi oscuri e quasi mai puliti s’era arricchito.  Proprietario adesso di una villetta che pareva una fortezza.  La sua autorimessa aveva adesso anche un’officina per le riparazioni  e il forno per la verniciatura. Spesso i carabinieri venivano a fargli visita e lui li accoglieva con familiarità ossequiosa. Era arrogante e pronto a menare le mani. Di lei dicevano che  era stata  battona.

10.

Immobile per ore sul marciapiedi vicino al semaforo dove c’era la vecchia  biblioteca. Guarda fisso  la successione dei rossi, dei gialli, dei verdi? Com’è ingrassato! Per medicinali penso. Gli occhi scrutano assorti. Quando gli passo accanto è come se si risvegliasse. Un attimo di leggera sorpresa. E di allarme. Dai bui metafisici della sua mente in disordine ha intravisto il mio volto? E l’ha riconosciuto? Abbozza un sorriso, ma troppo meccanico. Non  so  se mi riconosce al presente. Un passante che ha visto altre volte. O gli si riaffaccia il volto che avevo quando  – lui studente al biennio –  feci da supplente per una settimana nella classe che frequentava al VII ITIS? O  mi vide in qualche riunione politica al Centro studi di Viale Lombardia?

Il futuro dell’umanità: Infanzia e Alberi

Disegno di Giada d’anni 4

di Giuseppe Natale

Fortunatamente condizionato dal mio impegno nell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), sono portato a coltivare la memoria storica e collettiva : in particolare di quella che riguarda le lotte sociali e le conquiste dei diritti umani , la resistenza e il movimento partigiano di liberazione dal nazifascismo, per la libertà e la democrazia, l’uguaglianza e la fraternità tra i popoli. Continua la lettura di Il futuro dell’umanità: Infanzia e Alberi

In morbo salus. Dieci poesie

 di Domenico Melillo

Domenico Melillo vive a Roma. Ha la mia stessa età ed è stato un mio compagno di classe nella scuola elementare e media. Fino a poco tempo fa ha fatto il medico. Nel 2004 pubblicò con la casa editrice Pagine la sua prima raccolta di poesie. La prefazione era del poeta, scrittore e saggista Elio Pecora. La nota, nel risvolto di copertina, la firmò Franco Arminio.

Durante quest’estate ci siamo frequentati molto di più. Ci siamo fatti compagnia nel tempo del Covid 19. Ho riletto a lungo le sue poesie. Alcune contengono versi che rimangono impressi: «Sa di sole / la notte», «Interpretare il giorno, qualche volta, / è coniugare un verbo irregolare», «E sentirete in qualche strana voce / la nostra storia, la vostra, perché ognuno / è la voce dell’altro», «mentre nascondo la vergogna / di sapermi uomo che, per esserlo, / si nutre del sangue della specie». Figlio unico, mi ha raccontato delle sue estati da studente, trascorse a lavorare in fabbriche svizzere dove stavano i suoi genitori: «Ci siamo ritrovati, padre e figlio, / in fabbriche del nord, ed era un tempo / di gioia difficile.» E abbiamo riso insieme per la puntualità con cui la Svizzera gli fece arrivare la pensione. Gli ho chiesto se dal 2004 ad oggi ha continuato a scrivere poesie. Mi ha risposto affermativamente e gli ho proposto di sceglierne qualcuna da presentare al pubblico di Poliscritture. L’ha fatto. I primi quattro testi sono tratti da «Alianti Canopi», gli altri sei sono inediti e fanno tutti parte di una sezione dal sottotitolo “In morbo salus” di una  ipotetica, seconda raccolta. (D.S.)

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Due racconti

di Yuri Ferrante

Ti guardo da lontano

Ho il vestito buono, quello che un tempo si sarebbe chiamato “il vestito della domenica”. Seduto su una sedia all’angolo della stanza. Ti guardo da lontano, come sempre. Come quando da bambini ci incontravamo al parco, io andavo a giocare a calcio sul campetto di cemento, e tu e le tue amiche a spingervi sull’altalena.

Sassi

di Marcella Corsi

           Sara raccolse da terra un sasso, un bel ciottolo grande più della sua mano e abbastanza liscio da poter essere piacevolmente esplorato con le labbra. Camminava da poco sulle sole gambe ed il passo aveva un andamento ondulato e irregolare, ma gli occhi erano pronti e senza paura.

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Aprile 2020

di Rita Simonitto

Fragrante il rosmarino insegue l’aria
ancora timida come il celeste colore
dei suoi fiori tuttora infreddoliti.
 
Giù dalle colline il traffico è lento
torbidi pensieri senza passato incenerito
nella veloce catena delle bare
e il futuro annichilito perché anche le domande
diventano stracci persi nel vento del dolore.
Primavera, addio, addio.
 
Campane che suonano agonie, bambini
che non ridono più e in su guardano
pensosi a chi forse li ha traditi.
 
Pervicacemente soltanto la natura non ferma
il suo rinascimento, non sfoglia abbecedari
non consulta vaticini. Con inconsapevole
grazia spennella declivi che stridono di uccelli,
giardini ormai incolti perché la mano d’uomo
si è declinata nel nulla.
  

Lamentazioni (brindisine) e 5 brani da L’Arrabbìco

Brindisi, Torre dell’orologio

di Antonio Sagredo

Questi due testi di Antonio Sagredo – Lamentazioni elaborato nelle ultime settimane, L’Arrabìco, “racconto lirico-epico picaresco” inedito risalente al 1977-1981 – sono una meditazione poetico-narrativa, autonoma e indifferente al tempo storico, sulla Morte. Attingono ad un immaginario continuamente indagato – brindisino ma anche boemo (per la formazione e gli studi dell’autore-, nel quale su un piano di finzione teatrale s’impongono immagini paurose e terrorizzanti: di malattia, di rituali funebri o magici, di miserie e rivolte sociali represse nel sangue. Ci vorrebbe uno studioso di Ernesto De Martino per penetrare nei meandri di questi testi e coglierne il senso arcaico e apocalittico, che – guarda le coincidenze che la storia dispettosamente propone! – l’epidemia/pandemia da coronavirus di queste settimane sta rimettendo in moto. In mancanza di tale guida, il lettore provi ad indovinarne uno suo anche approssimativo. Pescando magari analogie con il suo di immaginario. [E. A.]

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