A matine prieste


di Ennio Abate

Guaglione quacche vote
me scetave a matina prieste –
matine cu e nnuvole strisciate
animale addurmute
o mare na tavula nera
e criature ro vicule scaveze.

Nnanze a chiesa e san Pietre
a puvarell’e cu l’uocchie cummugliate.
(Mammeme diceve ca mbrugliava
ca ce vereve meglie e nui).

Mo pure me scete priest quacche vote
e a gatte contente se mette sott’a lampadine e s’allecca.

Ma me sente arravugliate
rint’a parole grosse
gunfiate ra paure ro munne;
e tutte sti cumpagnie
m’hanne misse n’faccia
na maschere r’omm’e nziste
ca e tutte se ne fotte
pe ghi’ chiu’ nnanze
pe mpara’ a cummannà.

Semp chiu’ ambresse va a museche re sentiment’ antiche
e a sfugliatelle da fantasie a mmozzeche cu e riente
chine e fiele.

 

Di primo mattino

Da ragazzo a volte | mi svegliavo di primo mattino – | un mattino di nuvole a strisce | animali addormentati | il mare una tavola nera | e bambini scalzi nel vicolo. / Davanti alla chiesa di san Pietro | la mendicante con la benda su un occhio. | (Mia madre diceva che imbrogliava | ci vedeva meglio di noi) / Anche adesso mi sveglio presto a volte | e la gatta contenta si piazza sotto la lampada e si lecca il pelo. / Ma mi sento attorcigliato | dentro paroloni | gonfiati dalla paura del mondo; | e i legami con gli altri | mi hanno procurato | una maschera da uomo caparbio| non intimorito dalle difficoltà | per andare oltre | per imparare a comandare. / Sempre più veloce scorre musica di antichi sentimenti | e la sfogliatella della fantasia la mordo con i denti | pieni di bile.

(da E.A., Salernitudine, Ripostes, Salerno 2003)

12 pensieri su “A matine prieste

  1. Caro Ennio,

    più volte ho scritto che ho una invidia e gelosia morbose verso chi è capace di scrivere e parlare in dialetto (qualsiasi dialetto, è ovvio). Da ragazzo (in)seguivo i poeti dialettali salentini e tantissime volte ho ascoltato mia nonna (originaria di Manduria) parlare e cantare (una cantilena) nel suo dialetto: ero estasiato; lo ero anche quando mio padre mi parlava (spesso su mia richiesta) nel suo dialetto (originario di Cava dei Tirreni) e colorava quel suo parlare con una mimica degna di Peppino De Filippo (molto più lo gradiva rispetto ad Eduardo): capivo i dialetti benissimo, ma ero incapacissimo di scrivere (più volte ci provai).

    P.E. Franco Loi ha sempre avuto il mio rispetto. Poi ho conosciuto (anche personalmente – ogni estate ci incontriamo nel sud del sud) la talentuosa Annamaria
    De Pietro a cui ho dedicato tanti versi e che è un prodigio vivente la sua meraviglia di scoprirsi a una non giovane età capace di scrivere in dialetto.
    Che dirVi allora se non di continuare ad estasiarmi!
    a. s.

  2. Un contrasto, del padre, tra una grande meraviglia del mondo (nuvole a strisce e il mare tavola nera), e le misure, necessarie, di diffidenza verso il mondo (mia madre diceva che imbrugliava, che, addirittura, ce vereve meglie e nui). L’autore si prosegue in quella malevola distanza, forse secolare. E oggi addenta con fiele sfugliatelle da fantasie.
    Non è una storia personale. È una parabola, ma senza indicarne un esito che non sia ripetizione, quindi non lo è propriamente.

  3. …questa poesia mi sembra ripercorrere il cammino del poeta senza giungere a un finale, ma comunque rimanendo aperto e, in qualche modo, circolare…Guaglione, la mattina presto, si apriva all’incanto del mondo e godeva la sorpresa e l’immensità delle cose: il cielo, mare, gli animali addormentati e i bambini scalzi nei vicoli…La lentezza e la rotondità della parlata dialettale accentuano il sentimento di stupore e di gioia intensa, anche se già l’adulto, nelle vesti della mamma, insinua il dubbio dell’inganno…Crescendo pero’, la durezza della realtà e delle compagnie impongono una maschera, che finisce a volte per prendere il sopravvento sulla natura stessa della persona…Arrivano ancora alcune mattine quando resuscitano, da grandi lontananze, sentimenti dimenticati, come dolci sfogliatelle del passato, ma ormai il disincanto e la velocità dei tempi impazziti vi mescolano inesorabilmente il loro amaro fiele. Ormai contaminati e contaminanti. Una bella poesia, nostalgica e triste

  4. Qui parla un ragazzo e del padre non c’è traccia (almeno diretta). La diffidenza materna è in secondo piano (tra l’altro vi si accenna tra parentesi e che sia *necessaria* non è detto). In primo, invece, c’è l’impatto sul ragazzo del mondo circostante (nuvole, animali, mare, scugnizzi: che potrebbero scorrere sotto i suoi occhi o essere immaginati). Non c’è parabola in positivo né ripetizione. Solo consapevolezza del contrasto irreparabile: tra due tempi (il mattino dell’infanzia, il mattino dell’età adulta); tra visioni incantate (nel primo tempo) e parole o legami mal sopportati (nel secondo); tra sentimenti di dolcezza perduti («museche re sentiment’ antiche») e amarezza presente. Alla dolcezza o forse alla poesia («a sfugliatelle da fantasie») non ci si può abbandonare più. E’ possibile solo il gesto un po’ violento dell’affamato («a mmozzeche»).

  5. Ci trovo tutto il cuore di Ennio Abate.
    Una malinconia sostenuta dalla forza del coraggio.
    Passato e presente si tengono per mano, a volte litigando per poi riappacificarsi.
    Così è in tutta la sua “Salernitudine”, che io considero un vero capolavoro.

  6. È vero, non è nominato nessun padre! Ho collegato evidentemente la poesia al post pateme dint’a prima guerra mondiale, leggendo automaticamente la poesia come fosse il padre che si racconta, e attacca rivolgendosi al figlio “guaglione, io mi svegliavo al mattino… ecc”. Un ricordo in cui sono evocate due persone, i genitori, un padre più assimilato al paesaggio e una madre più concreta nei rapporti.
    Quindi l’autore, in continuità con quel passato – di altri – e però con emozioni comuni.
    Anche riletta, la poesia regge il teatro che avevo immaginato, e in verità preferisco quella coralità a una dimensione di opposizione di sé con sé. E se il testo non la sconferma, posso anche mantenerla, in fondo.

  7. A proposito di ‘poesia in dialetto’ e non già semplicisticamente ‘poesia dialettale’, di cui Ennio Abate, nei versi di recente postati di ‘A matine prieste’, ci dona fine testimonianza stilistico-linguistico-tonale, con luoghi antropologici contrapposti ai non-luoghi di Marc Augè, fral’altro, invito alla visione di una mia nota su un Poema epico ‘in dialetto’ di 32 Canti, di cui fornisco
    il link
    https://lapresenzadierato.com/2018/11/28/giuseppe-gallo-arringheide-citta-del-sole-2018-nota-di-lettura-di-gino-rago/

    Grazie per la Vs lettura,
    gino rago

    1. @ Rago

      Sotto il link suggerito ho lasciato questo commento veloce:

      Interessante il dialogato tra moglie e marito, ma la crudezza del primo e l’insoddisfazione di lei sono rese in modi troppo convenzionali.

      Quanto all’introduzione di Gino Rago mi pare che si adagi troppo in una sorta di “patriottismo” letterario regionalistico.

  8. Ringraziando Ennio Abate per il commento postato su La Presenza di Erato, rendo nota la mia risposta:

    Ho dovuto farlo, gentile Ennio Abate, per quasi disperatamente richiamare l’ attenzione su quella che ancora cade sotto il nome di “La lunga marcia degli scrittori calabresi” per poi soffermarmi sul caso di Virginia Tursi e del suo capolavoro “Io Virginia” (ancora non conosciuto per quel che merita) anche per la qualità della scrittura adatta alla crudezza della autobiografia da donna-emigrante a Torino nella alienazione della catena di montaggio… Ho avvertito la necessità di redigere la nota cui Lei si riferisce
    stigmatizzandone la valenza patriottico-regionalistica anche perché Arringheide è stato da me presentato, con altri/e, allo Spazio5 di Roma, alla fine di settembre 2018, con una marea di ‘calabresi’-romani che non conoscono, purtroppo, la Letteratura italiana fatta dai calabresi, non già la ‘letteratura calabrese’ come spesso, limitandone la vastità del respiro, comunemente si dice. E’ dunque la mia nota, calata in quella serata e con quel pubblico (numeroso e anche attento), di lettura del Poema di Peppino Gallo un rimprovero-invito verso i calabresi della diaspora, che poi sono un esercito, a rivolgersi anche agli autori e alle autrici ‘calabresi’. Grazie anche a nome mio della Sua Lettura, gentile Ennio Abate.

    gino rago

  9. Breve nota su Virginia Tursi, donna- emigrante-comunista-sindacalista-alla-Fiat.
    Nata nel 1944 in un paesino alle porte di Cosenza, autodidatta,ragazza povera, orfana di padre, madre cronicamente malata, patrigno violento, vive randagia.
    Virginia Tursi, una ragazza bellissima, la cercano, la desiderano, la insidiano.
    Giovanni la prende con la forza, brutalmente. Virginia aveva 16 anni. Rimane incinta… Scappano a Torino. Ma la città è nemica dei meridionali, nemica anche dei calabresi:
    “Non si affittano case né ai meridionali né ai cani”, erano i cartelli che tappezzavano i quartieri torinesi. Prima Giovanni, poi Virginia, entrano in FIAT….
    Nella Letteratura della emigrazione la donna non è mai una energia autonoma.
    In Io Virginia di Virginia Tursi lo è.
    E’ un peccato che, come succede all’agave, Virginia Tursi sia fiorita una sola volta.

    gr

  10. Caro Ennio,
    trovandomi a passare da queste parti (ma lo faccio di tanto in tanto pur senza lasciare tracce) ho riletto questa tua poesia che mi ha subito richiamato alla mente certe atmosfere intense e sofferte della tua “Salernitudine”: termine che, sì, è il titolo di una tua raccolta di poesie, ma che è innanzitutto una condizione del tuo spirito, un aspetto della tua realtà interiore con cui -credo- dovrai fare i conti per tutta la vita. Anche perché certi strappi non sono mai totalmente rimarginabili: “Poi la disobbedienza. / E ammutoliti i carillon / il burattino sventato / ha marciato sull’orlo della notte” (Il presepe del mondo); anche se, magari, un’altra opzione -quella di restare- non sarebbe stata foriera di esiti felici o almeno convincenti: “Fossi rimasto / quanta untuosa la mia cattiveria / immalinconita la solitudine / cadenzate d’invidia le lamentele” (Nel sud della mente). A proposito della tua poesia, credo che si possa dire – come già ti scrissi – che “si fa leggere volentieri, perché arriva immediata e bruciante come uno schiaffo; quasi sempre dolente o, quanto meno, perfusa da vene pessimistiche; feroce nel dire anche l’intimo, l’inconfessabile, ma dolce in alcuni momenti affettivi. Intensamente poematica nel fare del piccolo mondo della fanciullezza/adolescenza un campo di battaglia, proiettato –credo- nell’età adulta con i dovuti ampliamenti e aggiustamenti”.
    Lasciami dire, però, che nel tuo primo commento, invece di limitarti a una parca rettifica, hai spiegato troppo, anzi tutto, togliendo al lettore ogni curiosità esegetica.
    Alla prossima!
    Pasquale Balestriere

  11. @ Pasquale

    Che piacere risentirti!
    Spiegato troppo? Ma è solo una mia lettura. Magari anche depistante!
    Un carissimo saluto

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