Riflessioni sulle “poeterie” (2)

Tabea Nineo, Raggomitolato, 1978

Riordinadiario

di Ennio Abate

1978. In Italia anno angoscioso e di resa dei conti. Per me fu quello del “raggomitolamento” e della  scelta di Fortini come «maestro a distanza» (Cfr.  Due lettere). Primo passo: «Questione di frontiera»  mi aiutò a capire nodi rimasti in latenza durante la mia militanza in Avanguardia Operaia: dissenso e autorità; socialismo reale e maoismo; operaismo e totalità sociale; PCI e intellettuali tradizionali o di massa; letteratura e politica.  Secondo passo: «I poeti del Novecento» (Laterza 1977) e «Saggi Italiani» (nella prima edizione De Donato, 1974)  mi riaccostarono a letteratura e poesia italiana. Con timori. Non diventavo un  pentito. Non  cancellavo la politica per un ritorno alla letteratura, che nei discorsi di quegli anni sapeva troppo di ritorno all’ordine. Ma  era chiaro che entravo, con tanti altri del ’68, dentro una crisi lunga (poi lunghissima) da epigoni.

In questo clima, dall’antologia «Poesie e realtà 1945-75» di Majorino – un manualetto per  poeti “proletarizzati” –  ricavai un incoraggiamento a scrivere sulla “condizione periferica”, quella degli immigrati di Colognom, come me sempre un po’ spaesati in tutto quel che facevano. I libri di Fortini, invece,  mi svelarono i buchi e le incertezze  dei travagliati apprendistati  esistenziali, culturali  e politici che avevo fino ad allora tentato. Che ingenuo solipsimo coglievo ora nel mio  autodidattismo giovanile e che  assenza di relazioni dirette con scrittori e poeti! Confrontando  la mia lettura giovanile di Pavese con quella di Fortini, mi accorgevo che avevo ignorato o sottovalutavo troppe cose: quel lavoro di traduttore e di funzionario della Einaudi, il suo ambiguo  legame con la Resistenza e il PCI, i suoi studi sul mito. Ero stato attirato soprattutto dagli  echi dei miei problemi adolescenziali o di memoria dell’infanzia che,  per risonanza, ritrovavo nelle sue pagine. E poi avevo accostato autori  difficili e complessi – Dostoevskij, Kafka, Proust, Joyce ed altri – facendone letture voraci e non  ruminate, più   per ansia di “accumulo” che per  necessità; e quindi  suggestionato dalle offerte  – Oscar Mondadori, Medusa – della nascente industria del libro di massa.

Riconosciuta ora  quella mia “condizione di perifericità”, come viverla senza cedere al nichilismo a causa della rivoluzione fallita  o ad una orgogliosa  chiusura individualistica? Contro  le mode del riflusso e del ritorno al privato m’imposi un ennesimo apprendistato: scavo nella perifericità , studio per colmare o correggere i limiti emersi dalle esperienze fatte, riflessione sulle «buone rovine» da salvare che Fortini scaverà   fino alla morte. E, infine, tentativo di tessere assieme a lui «un filo tra Milano  e Cologno Monzese» (Cfr. qui). Non  potevo  riallacciarmi (almeno nell’immediato) al mucchietto di poesie giovanili  che avevo salvato;  e scrissi partendo da una  base diaristica di riflessione giorno per giorno. Su di essa nacquero le “poeterie”, i “narratorî”, i “samizdat”, i grafismi-scarabocchi.


1978

2 gennaio 1978

Roversi, I diecimila cavalli. Bellissimo il dialogo fra i due amanti che si separano e la descrizione dell’intervento della polizia contro i manifestanti. E poi parla con passione dei meridionali e con rabbia della polizia. Accorcia il romanzo veristico, lo stravolge. È un lavoro da scrittore maturo. Non cerca spiccioli.

6 gennaio 1978

1.

Perché invadere gente che incontri/ di discorsi secolari/dei nostri discorsi/carta assorbente del discorso Secolare/ciascuno – solitario o assieme…..

2.

Leggo l’attenta critica di Fortini ai romanzi di Pavese, che io divorai fra ’60 e ’64. Che rapporto unilaterale e chiuso ebbi con quei suoi scritti! Ma con chi potevo discuterne? Allora il mio era un solitario innamoramento culturale. Neppure  andavo a leggere le opinioni critiche su uno scrittore che mi “prendeva”. Tutti i tipi di rapporto, anche quelli nella vita quotidiana,  erano allora esclusivi e attraversati da gelosie.

3.

Dopo aver confrontato le opinioni di Fortini (Saggi italiani) e di Raboni (Poesia anni ’60, pag. 206) sulla metrica. Poco e male ne imparai al liceo; e quel poco è oggi sepolto. Irrecuperabili i libri scolastici che allora usai. Oggi la metrica non mi attrae. È per me tradizione perduta. Nei confronti degli autori greci e latini, che pur studiai al liceo, oscillo fra ossequio, timore e rifiuto spiccio. Vedo che Fortini riesce ad occuparsi contemporaneamente di cottimo e di metrica senza smarrire la collocazione (personale, sociale e storica) da cui si parla. Io no. Sono in affanno su domande quasi elementari: perché certe cose si scrivono in versi e non nella prosa dei documenti? Perché, scrivendo in versi, ci si rivolge a un pubblico ristretto (di poeti, di letterati)? O si cerca un rapporto (più profondo) con gli  altri (poeti e non)? Mi è chiaro che una poesia non è un intervento politico. E che il poeta non è un giornalista.

4.

Metrica, traduzioni, critica, letture. Potrebbero tornare ad essere per me la ginnastica quotidiana che prepara lo scatto poetico? Da giovane, partendo dal vissuto quotidiano, questo  feci. Oggi, smessa la militanza politica, lo faccio ritagliandomi i tempi dal lavoro di insegnante e dagli impegni di famiglia. Per lo più scrivo  appunti, documenti, sunti, note di diario. Legato al giro dei compagni e la realtà sociale di periferia e di scuola, a volte mi dico che potrei fare il poeta-intervistatore. In pratica, però, l’intervistatore  o il cronista  hanno la meglio sul poeta. Il contatto diretto che ho con la gente m’impone una poesia vicinissima al diario.  

5.

Fortini, Traduzione e rifacimento, Saggi italiani (pag. 332). Fortini mette in luce (fuori dalle illusioni nazional-popolari) la tensione esistente tra l’italiano  subalterno, del quale mi sono impossessato a fatica, e il «metalinguaggio della cultura dominante». Altro che sentirsi  privilegiati  per essere arrivati alla lingua nazionale! Cosa vuoi che si emozionino o siano attratti da una poesia che nasca dalla condizione di subordinati quelli che  operano nel “metalinguaggio della cultura dominante” che è poi quello delle case editrici, delle università, dell’editoria scolastica.  Mi sento come un guastatore solitario di fronte a dei Golia.

6.

Scrivere per risonanza o  leggere per risonanza. Mi fa uscire dal guscio a cui più sono abituato (o costretto): quello del rapporto tra me e il “mio” passato o il “mio” quotidiano). La lettura di scritti altrui mi spinge a una scrittura più aperta, più “socializzata”. Non trovo però mai il tempo sufficiente per andare oltre la scelta attenta di brani o articoli che vorrei usare come pro-memoria per futuri commenti o approfondimenti. Ma lo farò mai? Comunque, tra i compiti che mi do ci sono: lettura-traduzione di alcuni classici studiati al liceo; accostamento a testi di stranieri in originale, vietandomi di ricorrere a traduzioni già fatte. E per il dialetto?

7.

Dopo la lettura di «Questioni di frontiera». Nella Lettera a Fortini, che vorrei inviargli, evitare ogni tono  troppo complice.

12 gennaio 1978

1.

Sono passato (e  le conseguenze ci sono) attraverso il rifiuto della poesia. Perciò così scettico e insofferente verso quelli che  l’hanno praticata senza farsi catturare dal “movimento”, dalla “politica”?

2.

Accumulo cataloghi delle case editrici (Feltrinelli, Einaudi) e recensioni dai giornali (il manifesto, Lotta Continua, il Quotidiano dei lavoratori, poche volte L’Unità). Sollecitazioni disordinate. Do un’attenzione spropositata ad alcuni autori e trascuro altri. Le mie scelte non partono da un problema.  E so di non avere ho un panorama ampio della produzione poetica contemporanea.

3.

Tessa (Cfr. Fortini, Poeti del ‘900, pag. 110). Per Fortini la sua attenzione all’“orrido, al putrefatto” nasce sempre da un pessimismo conservatore. Mai esclusivamente dalle cose. Leggendo di Tessa,  penso al cattolicesimo in cui mi sono formato a SA. Non vi sono condannato. È possibile riordinare altrimenti quel vissuto e portare alla luce aspetti allora soffocati. (“L’introduzione di nuovi contenuti già di per sé comportava un’alterazione dei significati, quand’anche il sistema dei significanti potesse sembrare immutato”, Fortini, I poeti del ‘900, pag. 119)

4.

Trasformazioni della mia scrittura. Anche dopo il ’68 ho continuato a scrivere. Non più poesie, ma volantini, documenti, appunti. Impoverimento? O un impratichirmi di altri generi? Rispetto a SA è cambiata la gente che frequento. Sono cambiato io stando con loro. Andandomene da SA e scegliendo poi la militanza in AO, sono diventato uno sbandato? Sì, rispetto a quanti hanno – pare più di me –  tenuto conto della “realtà”. E se se ne  fossero semplicemente distanziati? C’è un’enfasi individualistica sospetta nelle autocritiche che sento sul periodo della militanza. Io non scelgo Fortini  contro Lenin. E per me tornare a studiare letteratura non significa cancellare i problemi politici. Non mi ritrovo nei discorsi del ritorno alla letteratura da contrapporre alla “politica”. Voglio tentare un rendiconto della mia contorta formazione – religiosa, culturale, politica. Non ingabbiarmi in uno dei suoi segmenti.

5.

Pavese. Elementi anticonformistici ed epici pur dentro un tessuto decadente (Fortini, Idem, pag. 120). Mi predisposero alla rottura con SA, ma erano inadeguati a quello che trovai a MI.  Qui, dopo aver  trovato un impiego, i primi libri che acquistai o consigliai furono  i suoi. Continuai per un po’ a sentire Pavese, soprattutto quello del Mestiere di vivere, come un complice: uno che aveva il problema di cui soffrivo io: la donna “che fa male”. Poco afferravo del suo lavoro di traduttore e collaboratore Einaudi (un preciso lavoro). O del suo essere stato “compagno”, perché a  SA e poi a MI, fin quasi alla vigilia del ’68, non avevo attenzione alle cose politiche. Con Joyce, Proust e la pittura moderna tra fine e inizi del Novecento Pavese  fu una delle reliquie dei miei studi — universitari o da autodidatta – interrotti che mi trascinai a MI. Con la mia partecipazione al ’68 e la militanza successiva, la presa della sua immagine su di me svanì. Ma, già prima, attorno al ’65-’66, appena sposato e finito a Colognom, provai  fastidio leggendo un passo contro i meridionali nei suoi Diari appena usciti dalla Einaudi e che avevo subiti acquistato.

6.

Montale. Esorta Arsenio, il suo doppio «ad affrontare il temporale, ossia (simbolicamente) un’esistenza meno protetta e più audace» (Fortini, Idem, pag. 132). Non mi permette immedesimazioni di nessun tipo. È così medio-alto borghese. Ma quanto protetta era la mia esistenza a SA? E che tipo di “temporale” ho affrontato venendo a MI? SA non era più città fascista, ma democristiana. I fascisti sconfitti operavano in ombra. (Certo, anche le mie poesie ‘61-’62 tendono ai simboli).

14 gennaio 1978

1.

Dario Bellezza. Concitazione che non riesco a condividere. La Roma degli artisti, il “letto”, la “vita peccatrice”. Sui 17-18 anni avevo avuto (forse) tentazioni simili. Mi chiedo quali sconvolgimenti si sono prodotti in lui rispetto ad altre vite. E quali parametri mi servirebbero per intenderlo oggi. Mi procura angoscia. M’avvicina a qualcosa di rimosso. Mi succede anche di fronte a quelli dell’Autonomia.

2.

Spatola. «Assunzione di un punto di vista cosmogonico, originario, smisurato. Dal quale la storia tende ad apparire […] come pura vicenda biologica» (Fortini,Idem, pagg. 23-24). Qualche suggestione del genere mentre scrivevo Poesia della crisi lunga. Mi chiedo quali possano essere i punti d’incastro fra la realtà-linguaggio di questi poeti e la realtà-linguaggio mia (dei miei studenti, dei compagni che ancora frequento). Droga, violenza, omosessualità: sono esperienze da cui mi sono “preservato”. Le ho vissuto da spettatore, da esterno. Mai, però, fino a smarrire il  fondo comune che mi lega a quanti hanno agito in queste realtà.

3.

Fare poesia continuando a stare con quelli che non ne scrivono o lo fanno di nascosto. Intervistare poeti clandestini e no? Contenere il desiderio di dire a chi ti sta attorno che ci stai provando anche tu.

4.

Nel ’63, il primo anno trascorso da impiegato a MI, non ero, non potevo essere contemporaneo del «Gruppo ’63». Delle tante altre iniziative letterarie a MI dei primi anni ’60 m’informo adesso. Si svolsero non solo altrove ma su un altro piano rispetto a quello mio: di impiegato, poi disoccupato e poi studente-lavoratore. Forse, se fossi rimasto a SA e avessi continuato l’università,  avrei avuto occasioni per accostarle. Questa distanza non l’ho però sentita nei confronti del realismo ottocentesco e poi del neorealismo, che mi attrassero attraverso la lettura di Verga, Pavese e anche dei racconti di Domenico Rea, che leggevo su Il Mattino comprato da mio padre tra 1956 e 1960, credo. E non è che fossero scrittori meno distanti da me. È che  mi “prendevano”, mi attraevano. Un mio racconto, che ho perduto ma che avevo scritto attorno ai 18 anni a Salerno e mandato persino ad un concorso indetto da una rivista (forse era Noi donne), trattava secondo moduli neorealistici la mia crisi di adolescente in rotta con la famiglia. La suggestione delle avanguardie storiche del primo Novecento mi raggiunse, invece, attraverso le riproduzioni della pittura moderna. Ne conobbi le opere attraverso gli inserti di Epoca e le cartoline che trovano alla Scuola di ceramica, frequentata di sera verso la fine del liceo. Fui contagiato dalla passione per la pittura di uno studente del liceo artistico divenuto mio amico, Giovanni Pesce, di Mercato San Severino. Ulisse di Joyce l’avevo acquistato nella sua prima edizione a SA nella libreria di Vicolo dei Mercanti. Lo lessi  allora solo in parte e in fretta prima di partire per MI. E così le altre letture, sempre convulse, che feci a SA: di America  di Kafka, quasi tutta la Recherche. (Poi a MI acquistai Jean Santeuil  e La prigioniera, ma non li lessi). Erano già letture  “di accumulo”, nate da un assorbimento passivo delle proposte della nascente industria culturale di massa (gli Oscar Mondadori, la Medusa). Non rispondevano più al bisogno oscuro  ma potente e forse legato alla mia esperienza infantile in campagna che mi aveva  fatto soffermare su Pavese. O al bisogno di ripensamento del periodo di militanza o di vita  tra periferia e metropoli che mi hanno portato a leggere Fortini e Majorino.

5.

Che pensare del lavorio febbrile che in certi ambienti letterari fanno attorno a i temi del folle, dell’assurdo, del gioco? Dalla mia collocazione mi appare un fenomeno per raffinati. Mi ritraggo, me ne disinteresso.

6.

Avanguardisti e tradizionalisti. I primi mi suggestionano, mi sconcertano, ma mi fanno restare passivo. Verso i secondi ho un atteggiamento più curioso, problematico e attivo.

7.

Sanguineti. Riassumendo quel che ho capito: – il linguaggio è sempre ideologia, cioè stravolgimento della realtà; quindi critica del linguaggio “naturale”, mimetico, realistico; – ma il linguaggio – privo di corrispondenza con la realtà, nuvola che non lascia indovinare la materia da cui emerge, irrazionale – non per questo diventa inutile; – il linguaggio-ideologia (usato nella consapevolezza di quanta ideologia contiene) serve a spiare la realtà: il conflitto di classe che agita anche il linguaggio e lo rende veicolo di miti.

8.

La poesia nasce da una particolare sensibilità storico-linguistica (orgoglio dannunziano, vergogna gozzaniana) costruitasi attraverso le pratiche dei poeti; ed è accompagnata anche da una particolare miopia e censura. Cadute le speranze di una rivoluzione sociale, l’antipoesia resta all’interno (spesso ai margini , bassi o alti) di questa pratica secolare, non fuori; è una variante della tradizione (G. Sica, Sanguineti, Il castoro, 1974, p. 21). Forse la vera negazione della poesia la fa chi la ignora. (Poeti, antipoeti, non poeti).

15 gennaio 1978

1. 

Che differenza c’è fra il rifiuto della poesia grezzo dei ‘68ttini e quello letterariamente ipernutrito di Sanguineti.

2.

A volte – non sempre – la preferenza per un poeta è preferenza (non dichiarata) per il corrispettivo socio-politico implicito nell’opera di quel poeta. Si apprezza Montale e si accoglie anche la filosofia del Corriere della Sera, l’ideologia liberale, lo stile di vita della media borghesia. Come si fa a trovare interessante Balestrini, se non lo colleghi all’area dell’Autonomia? O ad aver stima di Fortini senza riversarla anche un po’ su il manifesto e la sua area di lettori? Ogni scrittore ha il suo alone politico, che magari non cogli subito. (Pavese aveva quello “comunista”, ma io allora non lo coglievo).

3.

Cos’è la storia di cui parla Sanguineti dalla sponda (esplorata però) della cultura psicanalitica? Come per Eliot, un «immenso panorama di futilità e anarchia» (Sica, Sanguineti, Il castoro, 1974, p.38)

4.

Dada, surrealismo, psicanalisi. Campi appena assaggiati che vorrei attraversare. I novissimi, che stanno invecchiando in mezzo a noi, l’hanno fatto. C’è oggi uno smarrimento storico (della storia) simile a quello degli anni ‘50-’60? Forse soprattutto per i giovani, che lo vivono però in termini diversi da noi.

5.

Sanguineti sta al sublime del primo Montale e del primo Pasolini come Gozzano a D’Annunzio. Contro il sublime-aristocratico borghesizzato (ma anche contro il neorealismo) gioca la “semplicità” medio-piccolo borghese.  «In Sanguineti c’è sempre questa medesima celebrazione di una vita prosaicamente mediocre, modulata sui toni di un realismo piccolo borghese tragico e onesto [?], virile e squallido al contempo, che, ormai frustrata ogni tensione eversiva e crollata ogni illusione, non offre alternative se non la rinuncia» ( Sica, p. 55).  A questo mi-ci stiamo avviando?

“Quotidiano e fin troppo realistico elenco di oggetti, figure, forme che, svuotati di ogni valore, sono costipati in uno spazio letterario in cui ogni pretesa logica a formulare gerarchie e dislivelli viene radicalmente negata… citazione caotica e sgangherata di segni… il caos della realtà (Sica, p.73). Caos reale o rappresentazione caotica  per paura della realtà? Sica parla della letteratura come «paradiso artificiale e asettico di una cultura in perpetua ritirata dalla realtà» (p.73). Letteratura da letteratura: «Il giuoco del Satyricon non è che un’operazione di riscrittura». Come mettere il naso fuori dalla finestra dei mass- media, allora?

Sempre su Sanguineti: «È evidente che l’eliminazione [dall’Antologia dei poeti del ‘900] di tutto il filone “realistico” [anche dialettale] o, per così dire, impegnato ha un significato preciso» (in Quaderni Piacentini n. 39, p. 24 dell’Antologia dei Quaderni piacentini)

  12 agosto 1978

1.

Prima di rivolgerti a Fortini, decifrati. Non chiedere ad altri di decifrarti. Pubblicare non dev’essere per me una rivincita (su chi?) né un darmi in pasto. Conservare nel cassetto le poesie è stato segno di prudenza e non solo di timidezza. La prudenza di allora serve ancora oggi. Altri ostacoli si sono aggiunti nel frattempo: prima c’era il purismo militante; oggi il bisogno di poesia è così facilmente riconosciuto da far temere operazioni losche. Non voglio arruolarmi nelle schiere dei poeti di movimento. Sono senza partito sia in politica che in arte. Nel frattempo quanti anni sono passati e quanti danni derivati dall’oscurità e dall’isolamento! Forse nella lotta col tempo sarò sconfitto. Resta la rottura del ’68. Non perderla di vista.

2.

Poesie ‘62-’63. Non c’è nostalgia dell’infanzia, ma voglia di spiegarmi alcuni nodi (famiglia, donne) che mi hanno ossessionato. Le scrissi in preda a un’ansia violenta di farmi adulto, di andare all’assalto di una città ignota, di innamorarmi, di avere amici. Volevo “aggredire” la realtà  da cui mi sentivo separato.

16 ottobre 1978

Poesie ‘77-’78 [Poi Prof Samizdat].  Rileggo con commozione il dattiloscritto. In copertina l’elenco di almeno una sessantina di nomi di compagni/e, amici/che che avevo conosciuto negli anni della militanza. Scrivendo poesie così intessute del quotidiano e del sociale, nel quale soffrivo normalmente, ho afferrato qualcosa che mi premeva (e opprimeva). Ho anche bruciato le residue velleità di essere poeta-letterato. Essere uno dei tanti mi va bene.

25 ottobre1978

Due appunti sulla rielaborazione che ho fatto, nel 1975, di alcune poesie ‘62-’64:

1.

Ho trasformato Venere paesana in Lady Chatterly. Non ci siamo. A un’immagine assorbita culturalmente e non vissuta  ne sostituisco una altrettanto culturale ed esterna. Poco importa che siano immagini classiche o vitalistiche (lawrenciane o pavesiane).  Da letteratura a letteratura. Qual è il reale che ho trascurato in questa operazione?

2.

Appuntamenti. Tento di far emergere il singolo avvenimento e i personaggi prima trattati in modo impersonale (la ragazza, l’immigrato). Redazione proposta: la ragazza/ (credo in dio non ai preti)/ ha ricevuto/ la stretta serale/ e ritorna nel buio/ a labbra stanche/ ma decide lo sguardo/ e il suo passo/ Le scarpette rosse/ si piegano sicure/ consumate/ sfiabate/ Io intasco quel tramonto:/ ho una ragione/ di un centinaio di passi/ per la mia disperazione.

25 novembre 1978

1.

Raboni, Poesie degli anni sessanta. Stimolato dall’Antologia dei Quaderni piacentini, ho riletto quanto dice su Roversi e altri poeti. Ne ho parlato a Grandinetti, anche lui schivo ma tenace scrittore di poesie. Entrambi non vorremmo rivolgerci ai “personaggi” (Fortini, ad es.) per il timore di essere scambiati per “arrampicatori”. Lui poi all’industria culturale non ci vuole neppure pensare.

2.

Volontà di riprendere la poesia. Farlo senza struggimenti e immedesimazioni, mi ripeto. Ho in questi anni accostato poeti “grandi” e “difficili”. Ma un lettore di poesia non si costruisce solo sui “grandi”.  Devo fare attenzione anche ad una mia  base poetica “popolare” e narrativa.

Lettera di Fortini

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