Quale primavera?

di Antonio Sagredo

 
Io riprendo a camminare sul viottolo spinto
dalle novità dei bocci guardinghi come cuccioli,
come bambini che dalla soglia paterna
spiano le giostre battagliere dei gattini.
 Non ho più il tempo di osservare tutti i secoli,
da quando i miei occhi di càrparo risero degli umani
terrori. Soltanto i liberi pensieri entreranno arsi,
spezzati gli snodi come alle marionette, nella Storia.
 
 
E come in un delirio lo spazio è ristretto dai cardini
e smania di altri mondi, e beve numeri da sistemi
senza fondo e non scorge nemmeno della sorgente
quella pietra miliare che segna i limiti e i sogni.
 
 
Non t'abbandonare alla compassione dietro le quinte,
non lasciare che lo scompiglio delle parti si versi dal nero
pino, come in un destino tutto ciò che sarà ci fu contrario
per le chiacchiere maligne  di estranee parole.                               

 
Sul tavolo, oggi, vedo la primavera di una foglia
farsi viva per ingelosire il cielo coi suoi colori sconcertati, come a un battello, quando si lascia dietro la certezza  
e dai moli si lanciano corone per scongiurare le tempeste.

 
Assergi, 21 aprile 2019
(ora terza della notte)
 

39 pensieri su “Quale primavera?

  1. Sagredo ci regala uno altro stupendo componimento – senile? – oppure non lo è affatto: mi ha telefonato dicendomi che spera che questi versi siano per lui l’inizio dell’ultima primavera e che desidera che la Musa che ha ripudiato anni fa si ripresenti di nuovo – a lui! – per farsi perdonare dal Poeta. Gli ho risposto che veramente toccava a lui andarle incontro e muovere i primi passi, così come certe volte è vano riportarsi al passato, quando gli stessi Poeti (quelli di certo amati di più) da questo passato si muovono verso il nostro presente – il loro futuro – per incontrarci. E come un cucciolo si è emozionato: dove è la sua antica durezza e severità?
    Ma conoscendolo bene, probabilmente ci provoca al fine di cavare da noi amici e lettori giudizi lusinghieri.
    Insomma questi versi di “Quale primavera? – mi dicono che siamo ad una svolta, cioè che con versi apparentemente pacati ci comunica, come al solito, tragedie – ancora una volta : teatrali o reali? – Non sappiamo. Ma è poi una svolta?
    Comunque da vecchia amica gli ho consigliato di eliminare qualche “come” di troppo, come del resto il poeta Mario Gabriele gli ha già scritto.
    Siamo tutti curiosi del suo futuro.
    Giulia Rivelli

  2. Non c’è che dire… e cosa dire davvero non so, certo i versi di Sagredo, almeno questi, sono chiari, ma come dietro le quinte teatrali si nascondono i (suoi) fantasmi, o si tratta di tragedie annunciate; ma quando avvengono? Il tempo è di continuo spostato come in un verso della quarta strofa: ” come in un destino tutto ciò che sarà ci fu contrario”… cerco da stamattina di comprendere il senso (se senso c’è) di questo “destino”, dove il tempo stesso si gioca la sua sopravvivenza; e l’inutilità di sapere se c’è una sorgente all’origine del nostro dire e fare… lo spazio ristretto mi fa pensare ovviamente alla “relatività ristretta”… davvero non so cosa pensare. Rispetto ai versi del passato, questi versi recentissimi non possiedono il delirio barocco-metaforico che sosteneva quelli, eppure la lettura è complicata, almeno io non ne esco fuori dalla mia stessa impasse.
    Attendiamo speranzosi che il Poeta ci illumini, perché noon sappiamo se questa oscurità o se questa luce non sia infine che un trucco scenografico – e se fosse invece materiale realtà?

  3. che inattesa semplicità, un libero dialogo con sé, che gli fa compagnia, e non si chiedono più niente, reciprocamente

  4. La semplicità di cui dice la Fischer è davvero inattesa e c’è da augurarsi che il discorso poetico di Sagredo si faccia sempre più semplice; ma la semplicità qui è soltanto apparente, e penso che Sagredo tema moltissimo la perdita della sua ineguagliabile metafora… ma è pur vero che in questo componimento (spero per lui non sia l’ultimissimo) l’immagine si distende, insomma si fa meno aggressiva, è più quieta senza perdere o smarrire l’efficacia e la bellezza. Ma il penultimo verso dell a quinta strofa riconferma la volontà del poeta di lasciarsi dietro le certezze e di andare verso l’ignoto, che è il mondo preferito di Sagredo, che lo ama tanto perché gli permette di scandagliare meglio le sue possibilità espressive, che noi suoi lettori conosciamo e che siamo coscienti sono uniche nel panorama della poesia europea: nessuno, per ora, come lui usa la metafora come forma, senza pietà, di scavo all’interno e all’esterno della Poesia stessa.
    D. P.

    1. @ dario pella: e non noti invece il gioco tra “io riprendo a camminare”, “non ho più il tempo”, “come in un delirio lo spazio è ristretto … e smania … e beve … e non scorge”
      poi c’è il passaggio intermedio di “Non t’abbandonare … non lasciare”
      fino al, sottinteso finora, plurale di “come in un destino tutto ciò che sarà *CI* fu contrario”.
      Da qui salpare tra la chiarità di acqua cielo foglie, e i colori.
      Ma ora sappiamo che sono due, il poeta e un indefinito doppio. Che non può che essere il doppio del poeta, quindi il suo sé umano. O almeno, questa evidenza appare.

    2. «Ma il penultimo verso della quinta strofa riconferma la volontà del poeta di lasciarsi dietro le certezze e di andare verso l’ignoto, che è il mondo preferito di Sagredo, che lo ama tanto perché gli permette di scandagliare meglio le sue possibilità espressive» (Pella)

      Ma quali sono queste «certezze»? E cos’è l’«ignoto»? Le «certezze» dei tempi di Dante sono ancora «certezze» per i poeti d’oggi? L’«ignoto» dei tempi di Rimbaud è ancora quello d’oggi? Perché l’«ignoto» sarebbe preferibile al “noto”? (E non esiste, ad esempio, come diceva Giancarlo Majorino, un “ignoto del noto”?)…

  5. E si che hai ragione, Cristiana, e come Te ho notato tutti i passaggi che citi. E il mio punto di riflessione è che i colori sono “sconcertati”… perché? E di quali colori sono fatti o appaiono?
    Il Poeta non lo dice, ma subito dopo, forse per questi colori – anomali?- è pronto alla partenza … e nota: non è una barca e né nave o altro, ma “battello” (si riferisce a Rimbaud?) o è infine un finto viaggio, come quello verso Citera (Watteau!) che non accade mai: sia reale che finto!
    D. P.

  6. Rispondo a Ennio Abate.
    Per quel che ho compreso – e la mia comprensione è limitata – Per “certezze ” intendo che il Poeta non è più sicuro di poter dominare la materia poetica che prima dominava senza alcuna incertezza: è il passato poetico di Sagredo.
    Io intendo di “certezze” private e personali davanti alla difficoltà del comporre il verso, e tutti hanno notato la differenza! e cioè la conferma viene dal fatto che si avvia verso una semplicità compositiva; che sia poi qualcosa di più complesso o no, lo sa soltanto il Poeta. A noi lettori o critici spetta di chiarire, se c’è da chiarire; ma il Poeta vive indifferentemente di luce e di oscurità, anche compositive.
    Da questo punto di vista , Dante o altro poeta non centra nulla: non sono certezze esistenziali, metafisiche, religiose, ecc.
    E quando dico di “ignoto” quello del “battello è soltanto una mia supposizione, come tante altre che si possono fare. Così non è detto che l’ignoto si porti dietro, come una zavorra il”noto” e viceversa: con tutto questo si cade, si scade a giochetti linguistici anche se possiedono qualche significato.
    Non conosco affatto Majorino, ma se questi scrive di “ignoto del noto”, per quanto mi riguarda posso ribattere o rintuzzare con un “noto nell’ignoto”!
    Che senso ha tutto questo?
    Ho sempre creduto con umiltà, e non sono un conoscitore di Poesia, che al Poeta non si debbano porre troppe domande, come da loro non si debbano aspettare troppe risposte.
    D. P.

    1. Scusi, Dario Pella, ma io le domande le ho posto a lei, che sembra essere un critico o almeno un lettore attento. Non al Poeta. ( A parte il fatto che le domande di questi tempi non sono mai “troppe”; e che anche il Poeta può – per me – domandare e rispondere alle domande. Mica è un handicappato, no?)

  7. Mi scusi, forse è stat colpa dell’empatia – di solito io mi identifico col poeta che sto leggendo, infatti la prima cosa è cercare il suo volto per farmene una idea, poi la lettura dei versi completa il quadro che mi son fatto dell’autore.
    D. P.
    ——————————-
    Comunque, come Lei, spero che il poeta intervenga.

  8. “Ma ora sappiamo che sono due, il poeta e un indefinito doppio. Che non può che essere il doppio del poeta, quindi il suo sé umano. O almeno, questa evidenza appare”.

    Ho sempre pensato che Cristiana Fischer è una critica acuta, perché nel capovolgimento delle parti ha compreso che il “doppio” caro ai poeti romantici (Nerval p.e., o lo stesso Poe) in Sagredo non esiste, o almeno è qualcosa altro dal doppio classico e già classificato, perché poi infine questo doppio si rivela più umano, e perciò da non considerare!
    A questo punto sembra che affermi qualcosa di diverso da quanto scrive Cristiana Ficher: è invece esattamente la medesima cosa, ma intesa in altra maniera.
    Il centro è questo (o almeno suppongo che lo sia) che questo “umano” debba essere reale o non-reale e, peggio, se fittizio, e peggio ancor di più se finzione – teatrale?-
    Il gioco non può essere più duplice, che è una limitazione gravissima… risulta essere all’inizio molteplice e quindi un superamento definitivo della doppiezza.
    Lo stesso molteplice deve essere superato: non deve esistere più!
    Pirandello pensava di ampliare dal “nessuno al centomila la sostanza della esperienza umana, io umilmente sottraggo il mio ego dalla quantificazione e arrivo allo “indefinito” della Fischer, con una differenza che non è un “indefinito doppio”, ma un indefinito che si sottrae alla sua stessa in-definizione, che anche essa non è più quantificabile; e tutto ciò dopo che la definizione come pensiero e concetto non esiste più; allo stesso modo il suo opposto.
    Il definito e l’indefinito cessano di essere e di esistere: soltanto così la Poesia può continuare…

    1. “Il definito e l’indefinito cessano di essere e di esistere: soltanto così la Poesia può continuare…”
      Ben detto. Nella P maiuscola di Poesia io ci metto anche parola, pensiero, “in potenza”, e possibile.

  9. ““Il definito e l’indefinito cessano di essere e di esistere: soltanto così la Poesia può continuare…” (Sagredo)

    Sarà “ben detto”, ma – o menti eccelse! – vi sfido a spiegare cosa significa.

  10. Caro Ennio,
    spero che in Te non ci sia ironia provocatoria (il piglio è questo) o altro.
    Intanto “vi sfido”.. spiegaci questo Tuo atteggiamento.
    Intanto il POETA è una sfida vivente già di per se.
    Intanto se Ti invio una poesia di Velemir Chlebnikov (quasi di certo il più grande poeta del ‘900), che fu il primo a parlare in poesia di definito e indefinito, spiegarne i concetti e i loro incrocicchiamenti e poi andare oltre. Ma se Ti invio la sua poesia in questione ho timore che non la comprenderesti affatto, perché i motivi sono tanti: in primis una preparazione di filologia slava di primo ordine, la conoscenza dell’epos slavo, … la sua evoluzione e i suoi miti, ecc. … la riconoscenza verso di lui di tutti grandi poeti russi del ‘900: da Mandel’stam a Brodskij, ecc.
    Questa poesia si snoda e si affranca dal passato, dopo averlo sezionato, e vola verso il futuro, meglio verso un futuro che ANCORA NON CONOSCIAMO e che lui conosceva, perché già definito e indefinito li aveva posti in una teca di un museo di una poesia in fieri.
    Ma io non Ti invio questa poesia.
    a. s.

  11. Caro Antonio,
    e scrivere una sentenza di quel tipo, come fosse evidente di per sé, non è una provocazione? (Ironica o seria non so e perciò ho chiesto spiegazione).
    Mi comparisse davanti lo stesso Velemir Chlebnikov rifarei a lui la domanda. E se, invece di rispondermi direttamente, mi rimandasse a suoi scritti, li andrei a leggere (in traduzione ovviamente). Se poi, invece, mi facesse un predicozzo del tipo: “Ma tu, pirla, non hai « una preparazione di filologia slava di primo ordine, la conoscenza dell’epos slavo, … la sua evoluzione e i suoi miti, ecc», cosa vuoi comprendere?”, puoi ben immaginare, credo, come reagirei.
    Snodatevi e affrancatevi dal passato, dopo averlo sezionato, volate verso il futuro sconosciuto, che Lui o Voi conoscete, ma io per valutare la poesia dalle patacche ho bisogno di *capire* non di ossequiare. Non accetto nessun Ipse dixit.

  12. A me la questione appare invece chiara e determinata. “Pirandello pensava di ampliare dal nessuno al centomila la sostanza della esperienza umana, io umilmente sottraggo il mio ego dalla quantificazione … la definizione come pensiero e concetto non esiste più; allo stesso modo il suo opposto”: e cosa resta?
    Tutto passa attraverso la vita personale, anche la storia in quanto è memoria (scritta, detta, ragionata, condivisa, taciuta… a piacere). L’unico soggetto siamo noi umani. Il mondo, l’universo stesso, senza gente, non esiste. O meglio, può esistere in sé ma non per qualcuno (per sé diceva Hegel). Non che il pensiero faccia esistere il mondo, ma come avrebbe senso il mondo se non ci fossimo noi che lo pensiamo?
    Richiamare il doppio “più umano … e quindi da non considerare” (come doppio o molteplice) per me corrisponde al doppio livello poesia (pensiero scrittura esperienza-condivisa scienza senso) e persona. Indefinite ambedue perchè Tutto è in esse. Che si corrispondono.
    Cosa c’è di difficile o da respingere o da mettere in dubbio?

  13. «Cosa c’è di difficile o da respingere o da mettere in dubbio?». Eccolo un piccolo elenco ragionato:

    1.
    « io umilmente sottraggo il mio ego dalla quantificazione».

    Sia l’umiltà (per me sospetta e smentita da altre affermazioni di Sagredo: vedi l’uso tutt’altro che umile dell’autorevole Velemir Chlebnikov). Sia la non spiegazione di come si possa sottrarre il proprio ego dalla quantificazione. Come avviene questa ”sottrazione”? È reale o soltanto immaginaria? Fammi o fatemi degli esempi.

    2.
    « Tutto passa attraverso la vita personale, anche la storia in quanto è memoria (scritta, detta, ragionata, condivisa, taciuta… a piacere)»

    Cos’è «la vita personale»? Come fa la storia a passare (interamente?) nella «vita personale»? La storia è riducibile a memoria o coincide (interamente?) con la memoria?

    3.
    « L’unico soggetto siamo noi umani»

    Tutto da dimostrare. (E, tra l’altro, dichiararsi «umani» o dichiarare «noi» come «umani» è una precisa *definizione*, che contraddice l’altra affermazione che considero tuttora da te o da Sagredo indimostrata: « Il definito e l’indefinito cessano di essere e di esistere»).

    4.
    « Il mondo, l’universo stesso, senza gente, non esiste. O meglio, può esistere in sé ma non per qualcuno (per sé diceva Hegel)»

    Quindi quello che è stato chiamato «universo» prima della comparsa dell’uomo (meglio: dell’uomo capace di *pensare*) non sarebbe “esistito”? Ed è sicuro che, per esistere, quello che chiamiamo «mondo» abbia bisogno di un «senso»? ( O il bisogno di «senso» è nostro, cioè di chi s’interroga sul «mondo» o sul posto che lui ha in esso?). Il suo essere «in sé» del mondo c’è o non c’è? Il «per sé» è indispensabile a «noi» o al «mondo»?

    5.
    « Richiamare il doppio “più umano … e quindi da non considerare” (come doppio o molteplice) per me corrisponde al doppio livello poesia (pensiero scrittura esperienza-condivisa scienza senso) e persona. Indefinite ambedue».

    Trovo incomprensibile questa frase. Meglio risalire a quanto scrive Sagredo (commento del 28 Aprile 2019 @ 19:40). Qui almeno capisco che per lui:
    1. « il “doppio” caro ai poeti romantici (Nerval p.e., o lo stesso Poe) in Sagredo non esiste»;
    2. « o almeno [sarebbe, perché è da dimostrare] qualcosa altro dal doppio classico e già classificato;
    3. « questo doppio si [rivelerebbe] più umano ( e qui non è chiaro se Sagredo si riferisca al “suo” doppio o a quello dei romantici: suppongo al secondo, perché in altri testi suoi ho notato questa aspirazione al sovra-umano o all’extra-umano);
    4. « questo “umano” debba essere reale o non-reale » ( e qui non si capisce perché «debba»; e se sia così indifferente che esso sia «reale» o «non-reale»: una bazzecola, insomma!);
    5. « Il gioco [tra il poeta e il suo indefinito doppio?] non può essere più duplice, che è una limitazione gravissima» (ma non è chiarito perché lo sia);
    6. « Il gioco [tra il poeta e il suo indefinito doppio?] risulta essere all’inizio molteplice e quindi un superamento definitivo della doppiezza. ( e qui non si capisce come intendere questo «all’inizio»: forse che fin da subito – cioè già in epoca romantica? O ancor prima?- il «doppio» non era uno solo ma fatto di molti? E quindi ci si sbagliava a non vedere questa molteplicità “pirandelliana” del doppio?);
    7. « Lo stesso molteplice deve essere superato: non deve esistere più!» ( e qui – come al solito – non è detto perché «deve essere superato» o non debba «esistere più»: chi lo vuole questo superamento? Avviene realmente? Vien solo immaginato? Ecc.);
    8. « Il definito e l’indefinito cessano di essere e di esistere: soltanto così la Poesia può continuare…» ( e qui arriviamo alla vexata [e irrisolta per me] questio, da cui sono partito con la mia “provocazione”).

  14. Caro Ennio,
    sei troppo analitico.
    E i POETI non lo sono: sono sintetici.
    Vanno per salti, come il salto del cavallo negli scacchi.

    a. s.

    1. Caro Antonio,
      troppo comodo liquidare così le mie critiche e richieste di spiegazioni e
      confondere i generi (critica e poesia). Qui stiamo facendo CRITICA e bisogna essere ANALITICI.

  15. 1 La quantificazione in questione sarebbe il “doppio”, o i centomila. L’autore si sottrae a queste categorie, usate già in letteratura per il soggetto.
    2 E certo che tutto passa per la vita personale, e dove passa se no? Nella coscienza di una pietra? Di un fiume? Il “mondo” esiste per noi, qualcosa è esistito prima della specie umana, ma non era “il mondo”, quello lo nominiamo e lo costituiamo come tale noi, anche per il passato quando non c’era la nostra specie.
    La storia dei libri, delle cattedre, dei convegni passa comunque attraverso le parole e le teste. Non coincide con la memoria individuale, ma senza la facoltà di ricordare, e quindi immaginare, nessuna storia sarebbe possibile.
    3 A quali altri soggetti pensi? Dio? O a una soggettività animale? Vegetale? E’ “definita” tra di noi, con le nostre discipline e espressioni, e ugualmente “indefinita”: chi infatti può delineare dai primi anni di vita di un altro il futuro delle sue esperienze?
    4 Come dicevo prima, il mondo che c’era prima di noi, o quello che sarà dopo, comunque lo “diciamo” noi, storicamente, scientificamente, artisticamente. E questo come tale significa dargli un senso.
    5 Quel tipo di analisi è… inutile. Si può smontare qualunque frase in pezzetti, e anche contrapporli tra loro. Ma serve a capire? o a cosa?

    In ogni caso le affermazioni precedenti sono mie, non so cosa pensi Sagredo, mi corrisponde però la sua disposizione all’apertura e al futuro.

    1. 1. «L’autore si sottrae»: « Come avviene questa ”sottrazione”? È reale o soltanto immaginaria? Fammi o fatemi degli esempi.»
      2. « è esistito prima della specie umana, ma non era “il mondo”». Certo, ma quel “qualcosa” ha influenza o no su come costruiamo il cosiddetto “mondo” (nel pensiero e intervenendo su quel “qualcosa”?
      «La storia dei libri, delle cattedre, dei convegni passa comunque attraverso le parole e le teste. Non coincide con la memoria individuale, ma senza la facoltà di ricordare, e quindi immaginare, nessuna storia sarebbe possibile». Certo, ma presuppone quel “qualcosa” o ne fa felicemente a meno?
      3. « E’ “definita” tra di noi, con le nostre discipline e espressioni, e ugualmente “indefinita”: chi infatti può delineare dai primi anni di vita di un altro il futuro delle sue esperienze?». Quindi, c’è sia il “definito” che l’”indefinito”. E allora perché sostenere: ““Il definito e l’indefinito cessano di essere e di esistere: soltanto così la Poesia può continuare…” (Sagredo)? E acconsentire a questo oltrepassa mento indimostrato di definito e indefinito?
      4. « il mondo che c’era prima di noi»? Ma non stai sostenendo che è una costruzione del “noi”? Semmai è quel “qualcosa” che sta prima di “noi”.
      5. Ho “smontato” il commento di Sagredo perché la frase tua mi era incomprensibile. Non capisco perché smontare/analizzare sia inutile. Serve a capire, spero. Non certo a far dispetti.

      1. 1. si sottrae nel modo più semplice (e per iscritto): dice che nella tradizione del doppio e in quella dei centomila non si riconosce! tutto qui. Se poi qualcuno lo vuole incasellare comunque in quella tradizione letteraria…
        2. e come no? ma – sarà il destino cinico e baro – sempre nel nostro discorso restiamo, di altri punti di vista da cui si parli non c’è notizia (altro che… dove parla dio!). “Quella” storia, indipendente da chi ne scrive, sarà comunque scritta (e riscritta pure! ahi…). Per il resto, è memoria, è tradizione orale, è “condensazione” in esperienza collettiva… ecc. E chi ha mai detto che se ne faccia a meno? Anzi. ”
        3. Questo punto è questione di logica: se una cosa è la stessa e il suo contrario, allora non esiste: è il famoso terzium non datur. Se poi, al contrario, non è definito e non è indefinito, ecco è altro, possibile. Credo che la questione stia nel quadrato logico, ove si colleghino due positivi o due negativi, per esclusione.
        4. Tipica obiezione speciosa: vuoi chiamarlo qualcosa invece che mondo? Ma il referente si intende, no?
        5. No, non dispetti. Ma non voglia di mettersi a comprendere.

  16. Prima di rispondere “analiticamente” a Ennio Abate (non so ne sarò capace, poiché ho scritto che i poeti vanno a salti, ecc,) devo precisare che abbiamo dimenticato (noi?, uno solo, centomila? )– non certo io analizzando – la poesia in questione che mai l’autore avrebbe pensato di suscitare tanto vespaio!
    Insomma devo precisare che Cristiana Fischer ha sintonia con me, non so se anche empatia. Lei stessa ne è consapevole e lo dichiara in questo suo ultimo intervento.
    —-
    Comincio la risposta per Ennio…
    ma la consorte mi dice che dovrei schiacciare prima le noci per la torta che mio figlio porterà a sua nonna di 95 anni a Brindisi… e quindi rimando.
    Questo evento p.e. è il salto del cavallo, cioè in qualche modo: una cosa (mossa) imprevista.

    as

  17. * In riferimento alla ” non voglia di mettersi a comprendere” ( Fischer), all’essere “troppo analitico” (Sagredo) e al «definito e […] indefinito [che] cessano di essere e di esistere» (Sagredo). [E. A.]

    AL VOLO/ RISVOLTI POLITICI – oh, si’! – DEL RIFIUTO DEI GENERI LETTERARI

    A un’area di generico risentimento sociale viene invece dato spazio proprio nel centrosinistra, all’ombra del Pd, con il partitino anti-corruzione di Di Pietro. Come se non fosse arcinoto che c’è qualcosa di peggiore della corruzione – e sono proprio i gruppi anti-corruzione che tendono a screditare tout courtla politica. Chi scrive, bambino negli anni cinquanta a Napoli, ricorda gli striscioni elettorali “contro la partitocrazia” fatti appendere da un capo all’altro delle strade dal leader monarchico Achille Lauro, già qualunquista e prima ancora fascista. La polemica contro i partiti, del resto, ha in Italia una storia molto lunga: andando a ritroso, troviamo senz’altro il qualunquismo di Guglielmo Giannini che se la prendeva con i partiti usciti dalla Resistenza, ma, più indietro ancora, certo con altri argomenti, c’è perfino Benedetto Croce. Questi nel 1912, nella rivista di Salvemini “L’Unità”, pubblicò un articolo[2] in cui sosteneva che i partiti sono delle astrazioni al pari dei generi letterari, i quali secondo l’estetica crociana sarebbero puramente estrinseci rispetto all’opera d’arte.
    Se è contestabile una prospettiva che, nella teoria estetica, metta da parte la questione dei generi, lo è ancor più una teoria politica che voglia sbarazzarsi dei partiti per subordinare le loro lotte all’imperativo dell’unità sociale, con una finalità esplicitamente antisocialista contraria alla lotta di classe. La democrazia, invece, è fatta proprio di generi differenti, cioè di partiti, ciascuno con la sua specificità, e di lotte tra partiti.

    ( da http://www.leparoleelecose.it/?p=35478)

    1. Incredibile quella seconda parte di Genovese (non solo il brano citato), tutta astratto politicismo: “Questo equivale a dire che, secondo la mia analisi, la vera e propria svolta della politica italiana risale ancora al 1994, cioè all’anno in cui, con la dimostrazione di come fosse abbastanza facile introdurre nella vita democratica il virus populistico-plebiscitario attraverso il partito azienda, tutti gli altri populismi sono stati resi possibili”. Di “comunicazione” in “comunicazione”! Insomma c’è questo virus del populismo, introdotto dal Berluska, che si è disseminato, moltiplicato e alla fine ha infettato, eccetera.
      Nessuna analisi sulla fine del bipolarismo e quindi dei partiti di “sinistra”, che hanno sposato la terza via e il globalismo; né sul successivo clintonismo-obamismo (con Siria Libia Kossovo); nessuna analisi di 20 anni di impoverimento dei paesi meridionali europei dopo l’euro, e così via. Il nemico è il *fantasma* del populismo.
      E allora? Mi sembra, seriamente, che Genovese non voglia mettersi a comprendere: occorrono parametri nuovi di fronte al mondo così cambiato (destra e sinistra sono dette “la distinzione fondamentale”, ma “sinistra” e “socialismo” non sono la stessa cosa) e anche in poesia credo sia meglio una disposizione all’apertura che un impossibile realismo: infatti il realismo non è riproduzione ma anche esso lettura interpretante.
      Certa poesia oggi fa meglio se traccia parabole anche ampie, che arrivino lontane, non essendo sicura di poter leggere correttamente la direzione nel presente. E’ un realismo del futuro, necessariamente profetico e impreciso sui dettagli.
      C’è un bell’articolo su Avvenire di recensione a un libro di Antonio Polito: anche il “centro” si sposta su temi antropologici, bisogna ricominciare, il passato è concluso. https://www.avvenire.it/agora/pagine/se-il-laico-polito-come-nicodemo-cerca-nuova-vita

      1. Non era l’analisi politica di Genovese in sé che ho segnalato, ma uno stralcio che mi è parso collegabile a certe posizioni estetico(-politiche) espresse da te e Sagredo.

  18. Carissimo Ennio, ho sempre considerato le mie composizioni come dei saggi, e così Ti rispondo con dei versi:

    ———————————
    Liberati dal Tempo resteremo infine orfani felici
    in un dove che Padri e Figli non sapranno mai
    che quella riva è un altro uomo, ma una fiumana immobile
    scorre mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.

    1. E vabbè, siamo alle solite!
      In questa Oscurità s’annega il pensier mio!
      Ed io sono uno dei più disponibili a non considerare di per sé l’Oscurità sicuramente un difetto o a pretendere in qualsiasi caso la *comprensibilità* (Ne avevamo discusso qui nel 2014:https://www.poliscritture.it/2014/07/03/su-comprensibilita-e-incomprensibilita-in-poesia/).

      Ora le tue composizioni saranno anche dei saggi, ma la cosa non è di immediata evidenza. Lo sono per te ma non per i lettori (almeno quelli critici).
      Quindi ci sono tre possibilità:
      1. che tu ne dia le prove;
      2. che qualche critico, capace di penetrarle a fondo, ne dia le prove;
      3. che nessuno sa darne oggi le prove e quindi il dubbio permane.

      1. Sui 4 versi di Sagredo leggo una meditatio mortis.
        “Liberati dal Tempo”: preparazione col distacco; “resteremo orfani felici”: distacco dalla relazioni più intime e biologiche (mentre dove vige il legame padri-figli quel distacco non può compiersi); “che quella riva è un altro uomo” o almeno speriamo… scherzerei io; la “fiumana immobile” è l’occhio fissato sul passato… che più immobile di così, mica torna!; “scorre mirando del mio corpo il non agire” il poeta non si agita per interagire con quello che è stato, il non-agire accetta e si stacca; “e poi non più”: ecco, è quanto.
        Non so se Sagredo potrebbe accettare, ma a me questa lettura viene immediata e facile. Sarà l’età… Quale oscurità, quindi?

  19. Amatissimo Ennio,
    mi pare che tu affronti la POESIA con troppa logica – e la logica non né il segno e né il regno della POESIA – meglio la logica della poesia è altra, e non solo: è anche altrove.
    Allora, dovresti affrontare i versi (non solo miei, che non sono volutamente oscuri, perché in fondo non li controllo del tutto. Da qui la differenza tra la POESIA e la FILOSOFIA – questa è controllo, e se non controlla si sfascia, come del resto centinaia di filosofie nei secoli… mentre la POESIA non si sfascia (se mai sfascia tutto quel che le gira intorno!) per questo noi leggiamo ancora Omero, quei poeti prima di questi, Dante e via dicendo.
    Quel che scrive la cara Cristiana non è analisi, ma comprensione, cioè tenta di comprendere quel che il poeta scrive, e direi di più: scrive al di qua o al di là del poeta stesso. insomma infine non è piccata affatto, come…
    Comunque Vi ringrazio entrambi e Vi abbraccio
    as

    1. “mi pare che tu affronti la POESIA con troppa logica”

      No, non ho affrontato la Poesia ma i DISCORSI sulla poesia che qui avete fatto tu e Fischer.

      Anche io vi ringrazio per lo scambio di opinioni.

  20. dai versi di “Quale primavera?” ho eliminati tutti i “come”, tranne l’ultimo (ultima strofa).
    Il componimento mi pare più agevole e lo riporto:
    —————————————————————–
    Quale primavera?

    Io riprendo a camminare sul viottolo spinto
    dalle novità dei bocci guardinghi come cuccioli
    – bambini che dalla soglia paterna
    spiano le giostre battagliere dei gattini.

    Non ho più il tempo di osservare tutti i secoli,
    da quando i miei occhi di càrparo risero degli umani
    terrori. Soltanto i liberi pensieri entreranno arsi,
    spezzati gli snodi alle marionette, nella Storia.

    E in un delirio lo spazio è ristretto dai cardini
    e smania di altri mondi, e beve numeri da sistemi
    senza fondo – non scorge nemmeno della sorgente
    quella pietra miliare che segna i limiti e i sogni.

    Non t’abbandonare alla compassione dietro le quinte,
    non lasciare che lo scompiglio delle parti si versi dal nero
    pino – per un destino tutto ciò che sarà ci fu contrario
    per le chiacchiere maligne di estranee parole.

    Sul tavolo, oggi, vedo la primavera di una foglia
    farsi viva per ingelosire il cielo coi suoi colori sconcertati,
    come a un battello, quando si lascia dietro la certezza
    e dai moli si lanciano corone per scongiurare le tempeste.

    Antonio Sagredo

    Assergi, 21 aprile 2019
    (ora terza della notte)

  21. Restano due “come”, il primo accosta due immagini, boccioli e cuccioli, che introducono un’idea: i bambini prima di avventurarsi sono sospesi tra fascino e paura.
    Il secondo come, alla conclusione della poesia, riprende il concetto dell’avventurarsi, ma segnala la cancellazione della sospensione: il cielo non raggiunge la viva foglia, le corone lanciate confermano il distacco del battello.
    I quattro altri come soppressi erano figure tradizionali di similitudine.

  22. Cristiana hai ragione, restano due “come”; va bene comunque. Quella strofa che inizia con “Liberati dal Tempo….” è una delle mie preferite perché concilia armoniosamente il senso con la musica e si stacca dalla realtà, diciamo “terrestre” per lanciarsi in un futuro – non so se probabile o improbabile – di certo alligna chissà dove e quando una sicura “riva” che è un “altro uomo”… è anche una strofa ottimista: cosa rarissima nei miei versi.
    Ma Tu hai saputo commentare bene, dietro e oltre le quinte senza alcuna riflessione filosofica – analisi razionale, come fa il buon Ennio.
    Aggiungo che è anche un strofa che fa viaggiare il lettore – non credo lo studioso- leggero verso altri lidi, speranzoso dopo la rovina…
    questo termine ricorre molte volte (scopro ben 55 volte) nei miei versi; p.e. in questi versi dedicati a una donna:
    ——————————————————-
    Per te, per il futuro che disturba il mio pensiero, per lo scacco
    che trasmetti alle mie azioni e mi fai andare a un mondo certo
    di delitti, a quel caos delle fedi e degli dei, a quei concetti
    che del canto e della musica non hanno una idea d’immortalità.

    E pure mi dovevi sulla via dei Tormenti almeno una gioia decorosa,
    perché a un cielo azzurro-azzurro avevi promesso una modica finestra.
    Te ne sei andata, voltando le pagine dei tuoi amplessi, senza appello.
    Con il tuo viso multiplo e i tuoi occhi appuntiti hai beffato il tradimento,

    e non ti accorgi della bava della notte che sui lampioni come una parrucca
    ti nasconde dei pensieri il tuo malaffare, e nel trivio il rossastro riso
    e l’ignominia. E sbadata hai abbandonato i tramonti e il futuro in una tazza,
    e mi hai detto: lascia che la vita ti vinca, e hai vinto la rovina!

    antonio sagredo
    Roma, 13 febbraio 2011

  23. che iddio mi straf… e dov’è la strofa che inizia con Liberati dal Tempo? E la riva? Giochi, eh?
    Che però io commenti “senza alcuna riflessione filosofica – analisi razionale”: il modo ancor m’offende e non lo faccio più.

  24. La strofa è più dietro… intervento di Ennio del 1° maggio….

    Liberati dal Tempo resteremo infine orfani felici
    in un dove che Padri e Figli non sapranno mai
    che quella riva è un altro uomo, ma una fiumana immobile
    scorre mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.
    ——————————
    perché t’arrabbi…

    ” il modo ancor m’offende e non lo faccio più”.

    anzi era una lancia in Tuo favore a discapito di Ennio.
    a. s.

    1. La lancia in Mio favore? e che, c’è qualche tenzone? Ma ti pare che dietro e oltre le quinte, e senza riflessione filosofica, si facciano altro che letture empatiche piuttosto che ragionamenti?

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