I tempi della poesia

di Giorgio Mannacio

1.

A volte sono gli stessi poeti a creare nel lettore curioso qualche incertezza circa il tempo necessario a scrivere un testo poetico. Questa curiosità ad un certo punto incrocia l’argomento della struttura di questa arte e serve a capirne qualcosa di più.

Vi sono poeti che non aggiungono alle loro creazioni alcun elemento relativo al tempo e al luogo di essa, elementi che vengono ricavati ex post da solerti biografi dell’autore.

Al polo opposto si pone il grande G.G. Belli . Basta sfogliare i quattro volumi dei Sonetti nell’edizione UE Feltrinelli con l’esemplare Introduzione di C. Muscetta per accorgersi immediatamente di una singolarità. Tutti o quasi tutti i suoi testi recano in calce una data precisa ( giorno, mese, anno ). In molti v’è anche l’indicazione dei luoghi ( vd. Sonetto 129 ), la frazione di tempo giornaliero ( Sera : vd Sonetto 137 ). In uno – tra i tanti – si specifica che la poesia è stata – scritta ? concepita ? ( questo è il problema ) in “ legno “ cioè in carrozza in un luogo chiamato Alle vene di Foligno . C’ è da sorridere al pensiero del poeta alle prese con gli scossoni del veicolo e la difficoltà di una concentrazione / scrittura connesse a tale particolare condizione. Avverto che gli esempi indicati non sono affatto un’eccezione e a chi ha voglia di trovarne conferma serve solo sfogliare le pagine della raccolta citata.

2.

La prassi (abitudine, mania, ossessione, pignoleria….) solo apparentemente è una conferma della bontà dell’ idea che un testo poetico venga pensato, concepito e tradotto in una struttura scritta nel tempo stesso (comunque misurabile) della sua scrittura. A parte le questioni strettamente fisiche e filosofiche sulla nozione di tempo, basta ipotizzare altra soluzione possibile e cioè che il Nostro – sbarcato dal “ legno “ e approdato in un albergo – abbia voluto solo ricordare ciò che gli è capitato di fare ore prima (dati i tempi: anche molte ore prima ) . Il fare ( poesia o altro ) – del resto – implica sempre un tempo misurabile e dunque nulla prova e nulla può provare che la data apposta segnali un momento di illuminazione/ realizzazione. Certo: scrivere implica una utilizzazione di tempo che è – nel suo minimo – il tempo occorrente per scriverla materialmente.

3.

Se si ammette – col dovuto riguardo all’esperienza storica e alle “ origini “ – che esistita e “ può “ ancora esistere una “ poesia orale, “ la necessità di un documento scritto non attiene all’essenza del testo ma semplicemente a uno strumento tecnico di conservazione e più sicura trasmissione.

Ogni operato dell’uomo – e dunque anche la poesia ( non per nulla il termine deriva dal greco poiein che dignifica fare) sono realizzazione di progetti che hanno “ altrove il luogo “ del loro concepimento. Ma prima di parlare di tale “ luogo” è importante stabilire quali sono i “ fattori scatenanti “ che si concludono con la stesura di un testo poetico. Alcuni sono riconoscibili a prima vista e coincidono con il tema di esso. Ne L’Infinito di Leopardi tale fattore è l’emozione suscitata dal pensiero sul concetto – che si può definire strettamente filosofico – di infinito suggerito , questo, da una “ fuga “ di spazi dei quali non si conosce il confine. Ma tale notazione non basta per affermare che tale mirabile composizione sia nata nel luogo in cui si trovava la siepe e neppure che sia nata in quel preciso tratto temporale in cui l’autore si trovava – “ magari per caso “ – presso quella siepe. A volte ( si fa per dire ) il “ tema “ è così lontano nel tempo e i luoghi della vicenda così remoti ( e spesso ormai sepolti da tonnellate di terra e ruderi da essere irriconoscibili ) che l’ identificazione del “ fattore scatenante “ in una emozione diventa una comoda scorciatoia per eludere un problema con varie facce interagenti. Si può ragionevolmente pensare alla forte incidenza emotiva di un fatto attuale ma ad un fatto affidato ormai ai libri di storia si può assegnare identità qualità ?

4.

Dobbiamo pensare che del fatto passato sia rimasta una “ traccia “ capace di scavalcare “ tempo e spazio “ e renderlo “ emotivamente attuale “.

Intuitivamente e con buone ragioni ci affidiamo alla nozione di memoria. Nelle mie invasioni di campo mi sono imbattuto nella singolare costruzione di un biologo tedesco dei primi del 900. Semon – questo il suo nome – coniò il termine “ engramma “ riferendosi ad una ipotetica rappresentazione neuronale di una memoria. Secondo tale scienziato si determina nei neuroni una traccia mnestica che conserva nel tempo gli effetti di un’esperienza . Come è suggestivo pensare che tale esperienza lasci una traccia materiale nel nostro cervello, una specie di orma o – se si preferisce ricordare la fiaba di Pollicino – una serie di sassolini per ritrovare un cammino altrimenti destinato ad essere dimenticato. Fui così suggestionato da quella ipotesi scientifica espressa col nome “ engramma “ che qualche tempo più tardi ( quanto non saprei dire ) concepii un testo poetico del titolo “ Engramma “. Esso si esprime così:

 C’è una finzione : che la memoria sia  
 una sorta di incrinatura  
 sopra uno  specchio completamente terso,
 quindi un’imperfezione, quasi una malattia
 che il tempo inesorabile ha disperso.
 In questa condizione vive, sta  incatenata
 e non vuole guarire  
 perché il pensiero che non rimanga
 alcuna traccia
 dell’ombra fuggitiva che tendeva le braccia  
 per lei è morire.
 
 
  ( Dalla periferia dell’impero, Edizioni del Leone , 2010, pag. 12 )
 
 

Perché mi presto ad una facilissima accusa di esibizionismo? Perché esso non è la ragione dell’autocitazione ma la premessa per una meditazione essenziale al mio discorso teorico.

Ecco che la stessa opinione di Sem e così le successive correzioni e integrazioni teoriche diventano esse stesse fatti di possibile rilevanza emotiva.

5.

Prescindendo – ovviamente – dal valore estetico del testo è necessario fare alcune osservazioni.

L’opinione di Semon non presuppone la morte dell’amata, non una battaglia antica o attuale piena di sangue e furore, non lo stupendo spettacolo dei fenomeni naturali e e neppure la contemplazione di un’opera d’arte . E’ semplicemente un’opzione cognitiva di un fenomeno neurobiologico. Mi sono detto allora – per qualche tempo solo come ipotesi – che non vi sono “ fatti emotivamente significativi in sé “ e questa conclusione si è via via consolidata nel corso della mia lunghissima traversata del campo dell’esperienza poetica .

Se si esclude la presenza di “ fatti emotivi in sé “ dobbiamo dialetticamente pensare a “ fatti emotivi in quanto “, ma stabilire cosa significhi questo “ in quanto “ , ecco il problema .

Un grande filosofo del passato – Democrito “ che il mondo a caso pone “ – ci ha regalato la visione atomistica che è tutto un sfarfallio di elementi materiali (gli atomi , appunto) nello spazio infinito. E’ il clinamen di essi (il loro tracciato) e il loro incontro fortuito (caso) che ci crea e ci fa vivere. Ne è seguito il De rerum natura di Lucrezio.

E’ associando questa opinione – ancora una volta scientifica – con altre immagini (lo spazio, i misteriosi corpuscoli di materia, il loro volo) che riceviamo qualcosa in più, così come riceviamo qualcosa in più collegando un rudere alla “storia di quel rudere“, ad una fotografia le vicende del fotografato. Ogni oggetto o avvenimento – quale che sia la nobiltà o la ignobilità del suo in sé – diventa emotivamente significativo.

Poiché credo che le nostre strutture cognitive siano identiche per tutti gli uomini ( e in questa affermazione trovo conferma ad una sorta di “ originaria “ eguaglianza) sono portato a pensare che “ quell’ “ in quanto “ che rende il fatto significativo sia essenzialmente identico per tutti.

Esprimo il mio pensiero. E’ il gioco dialettico della associazioni che dà peso e senso agli eventi. Passato e presente, natura e cultura, solitudine e moltitudine, approvazione e riprovazione ….

E’ In questo intrecciarsi di relazioni – di opposizione o di consenso – che qualunque fatto si carica di significato e perde la banalità del qui ed ora dell’evento comune che finisce in un attimo.

Questa carica che lo investe “ pretende “ un linguaggio diverso coerente con il processo che il fatto ha attraversato. Si può dire conclusivamente che l’istantaneità dell’atto è una sorta di illusione ottica , un abbaglio psicologico giustificati dalla istantaneità dell’apparire.

6.

Sono suggestive ma nello stesso tempo rigorose le osservazioni di R.M Rilke che traggo da I quaderni di Malte Laurids Brigge (a pag. 21):

“Ma i versi , ahimè, significano così poco, se scritti presto . Si dovrebbe aspettare a farne, raccogliere saggezza e dolcezza per una vita intera , una vita lunga, se possibile, per riuscire forse, alla fine, a scrivere dieci righe che sono buone. Perché i versi non sono, come si crede, sentimenti che si hanno abbastanza presto, sono esperienze”.

E poco oltre:

“ … E non basta neppure avere ricordi. Bisogna saperli dimenticare e quando sono molti, e attendere, bisogna avere la grande pazienza di attendere che ritornino. Perché neppure i ricordi sono ancora esperienza. Solo quando essi diventano in noi sangue, sguardo, gesto anonimi e indistinguibili da noi, soltanto allora può succedere che la prima parola di un verso in un’ora rarissima si alzi ed esca dal loro centro “.

Mi pare che il termine “esperienza “ racchiuda in sé due elementi diversi: la sensazione e la trama che essa – negli aspetti che ho ricordato – finisce per rivelarsi in ciascuno.

Esperienza è – nello stesso tempo – strumento e risultato.

Novembre 2019.

2 pensieri su “I tempi della poesia

  1. L’esperienza, così come individuata da Rilke, è riferita al passato, da cui si alzi ed esca la prima parola, ecc.
    Forse ai poeti giovani, al contrario, preme la domanda, l’indagine, la poesia inquisisce, ipotizza, si sbalordisce, teme.

  2. …trovo che questo argomento sollevato da Giorgio Mannacio sia di grande importanza sia per capire i “tempi” della poesia, che, in qualche modo, anche quelli della consapevolezza soggettiva e, penso, collettiva…Credo proprio che la memoria sia molto di più di “…una sorta di incrinatura/ sopra uno specchio completamente terso”…Se ho capito bene: un vissuto, per diventare esperienza, soprattutto se legato a emozioni bloccanti come la paura e il dolore, deve poter sommare nella memoria emozione e ragione, cioè una forma di distacco che solo il tempo può dare…

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