Il comunismo nel buio (3)
di Ennio Abate
@ G. C. che mi ha mandato questo messaggio con foto:
a 58 anni dalla sua morte… ahinoi!!!
Il comunismo nel buio (3)
di Ennio Abate
@ G. C. che mi ha mandato questo messaggio con foto:
a 58 anni dalla sua morte… ahinoi!!!
Il comunismo nel buio (2)
di Ezio Partesana
L’intervento di Fortini su cosa sia “comunismo” è una forma sublime di dialettica, purtroppo la dialettica mal sopporta il sublime; l’idea è raccontata come se fosse in movimento, ma dentro al motore è nascosto un abilissimo nano. La storia non è questa.
La lotta per il comunismo non è già il comunismo. Se un’anticipazione del futuro è entrata nell’esistenza dei compagni, lo ha fatto nonostante il furore, non grazie a esso. L’esperienza che “una volta per sempre” ci mosse, è stata tuttavia anche quella dei limiti, della finitezza, umana; non sono scorsi latte e miele e il deserto non è fiorito.
Lo scritto di Fortini – che ritrovo in Extrema Ratio (Garzanti, 1990) – uscì originariamente per un supplemento satirico dell’Unità, non senza ragione come ricorda in introduzione lo stesso autore, e se fu “una sfida, come una scommessa metrica” la stesura, non lo è meno la decifrazione dei nessi che reggono la certezza e il dubbio intorno a quel concetto.
Non si tratta di mettere ordine e neanche certo di “esattezza”; se nessun pensiero è immune dalla sua espressione, certo quello di Fortini si è vaccinato come pochi altri per studi, autocritica e, si ammetta, una virtù letteraria fuori del comune. L’idealismo, la mossa della volontà che ferma le cantilene sulla “liberazione”, sta tutto nell’invocazione di un passaggio da una contraddizione, oggi dominante (e cioè quella tra capitale e lavoro), a “una contraddizione diversa” che sarà reale una volta raggiunto un luogo più alto, “visibile e veggente”. Mettere il futuro nelle mani degli uomini come se fossero Dio è esattamente quel salto, “in nome di valori non dimostrabili” che il comunismo vuole, ma è una preghiera che sarebbe meglio non recitare nel nostro tempo.
La dialettica di questo articolo è un’allegoria della dialettica, un affresco del Prinzip Hoffnung che non trova, nonostante tutte le precauzioni, il duro oggetto che gli si dovrebbe contrapporre, ovvero la produzione dell’individuo a opera della società. Gli oppressi e gli sfruttati non sono migliori, “cominciano a esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo”, ovvero il primato della coscienza (individuale) sull’essere (sociale); la spuria citazione da Lukàcs non rende meno problematico il passaggio: se la prova dell’esistenza di Dio è che ne avremmo bisogno per riparare ai torti, allora non solo Dio non esiste ma anche l’Illuminismo era un mito.
Fortini è, ovviamente, ben conscio di quale operazione stia compiendo: il “comunismo in cammino” anzi comporta – contro la sentenza dell’Imperativo categorico – di “usare altri uomini come mezzi”, e non come fini, sebbene il Fine sia proprio il contrario; che la coscienza non ne possa emergere pura accampando la “scusa” della necessità e della storia è un memento che vale, ma quale dialettica mai avrebbe con lo “stato presente”, lo scritto non dice, semplicemente perché ogni dialettica deve avere un concetto e un’esperienza che non sono conciliabili. L’arte è una via, certo, ma distratta da una conciliazione – o “consolazione” nel lessico di Fortini – che può ben mostrare il disastro ma, come il povero angelo di Klee, ha le ali impigliate.
La Scienza della logica di Hegel – libro rompicapo e astratto come pochi altri – riconosce fin dal principio che inserire in un ordine molte cose che in verità accadono in un tempo non lineare è una rappresentazione della quale il nostro intelletto finito è obbligato a servirsi per afferrare la Totalità. Non immagino Fortini leggere e glossare la Scienza della logica, non era il suo mestiere né, direi, la sua vocazione. Per altre vie però ha, con tutta chiarezza, riconosciuto la nullità di un concetto di Uomo che faccia a meno degli uomini viventi qui e ora. L’errore di “credere in un perfezionamento illimitato”, eredità dell’illuminismo borghese, fu anche di Marx, annota Fortini, e non dovrebbe stupire che la volontà possa sovente travestirsi da avanguardia militare. La “infermità radicale”, il riconoscimento della quale viene invocato come parte del Comunismo, è però un ritorno, contro tutte le premesse, a una dimensione di “sapienza etico-religiosa” che funziona come lo stupore di Sir Isaac Newton di fronte alle Leggi della Gravitazione universale: So che è così, ma cosa sia è un mistero.
“Al mio custode immaginario ancora osavo, pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare di risvegliarmi nella santa viva selva”; l’impazienza di Fortini è una lezione da apprendere letteralmente come Prinzip Bewusstsein, e rassomiglia in questo alla confessione, dove nulla cambia se non avere visto e avere detto. La contraddizione però così scompare in una disciplina che può anche mettersi al servizio della futura umanità, ma rimane, giustamente, nel mondo delle rappresentazioni e non della cosa in sé.
Sono consapevole di aver accostato due astrazioni: il Comunismo di Fortini, e la Dialettica di Adorno; “Rendere sensibile e intellegibile la materialità della cose dette spirituali” mi valga però come salvacondotto per attraversare un territorio “ch’i non avrei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta”.
Finora abbiamo solo interpretato Fortini, è venuto il momento di cambiarlo.
di Beppe Corlito
La domanda è pertinente per confrontarsi con la puntigliosa recensione di Ennio Abate su Poliscritture.it, che reca appunto un titolo mortuario: “Il compianto del Sessantotto” (qui) come se i giovani di allora, oggi anziani, fossero convocati a un pianto rituale collettivo intorno al cadavere di quell’anno per più versi indimenticabile. È vero che la vecchiaia spesso seppellisce le speranze della gioventù, ma con un atteggiamento mentale simile credo non sia possibile nessuna trasmissione di memoria utile per il presente e tanto meno per il futuro. L’intento dichiarato del nostro libro è proprio questo: una testimonianza rivolta al futuro. Viceversa Ennio Abate pensa che l’intento di tener viva tale memoria sia “un’illusione”(v. ultimo capoverso dell’apertura).
La recensione è molto scrupolosa e merita un confronto punto per punto anche se nella necessaria brevità della pagina. Chi vorrà approfondire è chiamato a leggere il libro come ha fatto Abate piuttosto che trinciare giudizi sommari, quando quello che scriviamo non coincide con i propri schemi precostituiti.
1. Comiciamo dalla negazione del Sessantotto come “spartiacque per cui nulla di quanto esisteva prima, è potuto essere uguale dopo”. Abate sostiene che l’idea si è annacquata a mano a mano che gli anni passavano e il potere capitalistico si imponeva azzerando ogni “contropotere democratico”(punto1). Posso anche convenire sull’ultima affermazione, ma ogni ricostruzione seriamente storica dovrà riconoscere per forza oggi e in futuro che il ‘68 fu un tornante della storia decisivo dei soggetti in campo sia dalla parte dell’organizzazione capitalistica della società tardo-moderna, centrata sulla terza rivoluzione industriale, quella elettronica, sia dalla parte della formazione di un “nuovo proletariato”, quello che sta oggi davanti alle macchine elettroniche (fatto relegato nella recensione all’ultima nota, dove viene citato fra l’altro uno scritto del 2009 di Luperini e altri, tra cui proprio lo stesso Abate). Altrimenti la storia perde ogni connotato materialistico per diventare l’astratta ripetizione di schemi dogmatici, col rischio di fare un’apologia indiretta di un capitalismo invincibile.
2. Constatiamo che una strategia rivoluzionaria nei paesi dell’Occidente, dove è nato e si è sviluppato il capitalismo, non ci è nota, altrimenti non staremo qui a discuterne a distanza di mezzo secolo. Abate critica aspramente la nostra ipotesi, mutuata dalla fortunata espressione di Rudi Dutschke, la “lunga marcia attraverso le istituzioni”, che mettiamo nel saggio in relazione con la teoria gramsciana dell’egemonia e della conquista delle “casematte” del potere borghese. Ci riconosce la critica delle posizioni spontanieste di Dutschke, ma taglia corto dicendo che essa non ha resistito al vaglio della storia sia nella versione gradualista del PCI sia in quella breve e per noi inadeguata di Democrazia Proletaria, a cui contribuimmo. La critica è debole perchè il PCI nella versione togliattiana (infedele alla lezione di Gramsci) aveva abbandonato nella pratica e soprattutto nella teoria qualsiasi ipotesi conseguentemente rivoluzionaria. Se vogliamo parlare della “lunga marcia attraverso le istituzioni” del PCI, che per altro in nessuna sua variante usò tale espressione, dobbiamo prendere atto di questo azzeramento dell’orizzonte. Andrebbe studiata meglio la riduzione togliattiana non solo della teoria gramsciana (ormai nota pure filologicamente sui testi), ma anche dell’idea di “democrazia progressiva” di Eugenio Curiel, morto precocemente per mano fascista nella lotta partigiana, mentre Togliatti se ne stava nell’esilio moscovita all’ombra di Stalin. Sia detto per chiarezza che nel saggio prendiamo le distanze da ogni ipotesi gradualista. Il problema non si pose neppure in DP, nata ormai nella fase calante del movimento del ‘68 e di quella fase di lotte. Fu un’esperienza troppo breve, sostanzialmente residuale e poco illuminata dalla teoria, per fare i conti seriamente con la questione. Così dopo è successo anche per varie ipotesi “rifondative” del comunismo.
3. Se la nostra ipotesi di “lunga marcia” cerca di fare i conti con l’orizzonte rivoluzionario, si pone inevitabilmente la questione del partito, portatore nella pratica e nella teoria di tale prospettiva (p. 124). Consideriamo ancora oggi valida la critica dello spontaneismo dell’epoca. Nel saggio rivendichiamo in maniera critica la scelta leninista di allora e anche quella di partecipare alla formazione di Democrazia Proletaria, proprio in direzione della formazione di un partito rivoluzionario, pur con i limiti già detti. Indichiamo un’altra possibilità: l’organizzazione reticolare del sociologo Gerlach, che messa in relazione alla forma organizzativa del movimento del ‘68, ma non della “forma-partito” (p. 51). La mia ipotesi, ribadita nelle conclusioni condivise con Romano Luperini, è che dovrebbe essere presa in considerazione per “la flessibilità del[…] modello[… ] più rassicurante rispetto al pericolo dell’irrigidimento burocratico sempre possibile” (p. 126), soprattutto nei classici partiti centralizzati della tradizione terzinternazionalista. “I nuovi movimenti […] avrebbero una struttura segmentaria, policefala, reticolare […] sono policefali in quanto privi di una leadership unitaria” (p. 125). E’ abbastanza ovvio che un partito, il quale si muova verso un orizzonte rivoluzionario, non possa che avere una direzione “unitaria” per quanto flessibile. Andrebbe studiato meglio alla luce delle possibili esperienze pratiche come un partito organizzato a rete possa conoscere la realtà e prendere decisioni conseguenti. Oggi sappiamo che la conoscenza e le decisioni umane sono strettamente legate alle reti neurali, imitate dalle macchine elettroniche e dai loro algoritmi. Ma basti ai fini di questa discussione aver chiaro che un conto è l’organizzazione del movimento e altra quella del partito.
4. Veniamo a quella che sembra essere la critica più radicale di Abate, cioè la modalità di presa violenta del potere e poi più in generale sull’uso della cosiddetta violenza rivoluzionaria. Scrive Abate: “non vedo perchè cancellare o svilire altri strumenti – conflitti anche violenti e persino armati – che pur hanno permesso in passato rivoluzioni (la francese, la russa, la cinese) dai risultati apprezzabili” (punto 3). Questa posizione viene giustificata col dire che per quanto complessa la moderna società borghese “resta il ‘guanto di velluto’, che copre il sempre più minaccioso e più tecnologicamente efficace ‘pugno di ferro’ del potere capitalistico”. Come a dire che la violenza del potere borghese, che non abbiamo mai sottovalutato tanto meno ora in questa epoca di guerra, richiede inevitabilmente l’uso di un’altrettanto potente uso della violenza rivoluzionaria. Ciò che contestiamo è la semplificazione dell’affermazione. Non è un caso che, pur nella sua precisione esegetica, Abate non citi mai direttamente la questione cilena, che è invece centrale nelle nostre conclusioni, e poi il passaggio teorico decisivo a cui dedichiamo un intero capitolo del saggio sul rapporto tra “democrazia e rivoluzione (pp. 101-108). Dell’intero discorso sul Cile viene isolato solo il passaggio sul “pacifismo attivo”, cosa che mi sembra un po’ forzata, anche perchè monca della specificazione successiva: tale “pacifismo […] non disarmava, ma puntava alla mobilitazione di massa, e non escludeva come extrema ratio la difesa armata” (pp. 118-119). E’ ovvio che la democrazia di cui parliamo, senza infingimenti, è la “democrazia borghese”, quella nata dalla Rivoluzione Francese, a cui fa riferimento lo stesso recensore, citata poco prima e considerata fin dai tempi di Marx come il terreno più favorevole al processo rivoluzionario. Si tratta non solo e non tanto della cosiddetta “via elettorale” e della difesa delle istituzioni democratiche, ma dello sviluppo della democrazia e del suo passaggio a un livello più alto così come è descritto nel rapporto tra democrazia e rivoluzione.
5. Gli ultimi tre paragrafi della recensione di Abate tendono in vario modo a giustificare il ricorso alla violenza e alla lotta armata, fino al punto da mettere sullo stesso piano tutte le variabili messe in campo dal movimento del ‘68 in poi. PCI, Democrazia Proletaria, Autonomia Operaia e Brigate Rosse sono tutte indistintamente state sconfitte e quindi perchè fare distinzioni? “Tutti sconfitti”, scrive Abate. Così diventa la notte in cui tutte le vacche sono nere e si vede solo buio davanti agli occhi. Soprattutto si rischia di giustificare il terrorismo, che per noi è stata una delle due ganasce della tenaglia c he ha stroncato il movimento. Dall’altra parte c’era la repressione dello stato (p. 119). Dobbiamo ricordare ancora la lezione di Lenin contro il terrorismo, che per noi allora fu una bussola decisiva. Inoltre, pur valutando la sconfitta delle varie ipotesi in campo, non dobbiamo dimenticare una modalità di giudizio decisiva, quella che Gramsci chiama nelle “Noterelle sul Principe” la “linea progressiva”, cioè quella che avrebbe permesso maggiormente il raggiungimento degli obbiettivi della classe operaia e della sua rivoluzione sociale. Il richiamo a considerare il “lato oscuro del 68”, che Abate non precisa ulteriormente, ci rimanda a questa prospettiva buia e cieca. Non trovo “oscuro” ciò che avvenne, se per questo intendiamo il passaggio alla lotta armata clandestina di quale esigua frazione del movimento. Mi sembra che è scritto chiaramente nel libro: fu il frutto di un errore di valutazione della fase, che non era rivoluzionaria e quindi imponeva realisticamente di privilegiare la lotta legale su quella illegale (è ancora la lezione leninista), e il conseguente avvitamento sulla riproposizione acritica e dogmatica del modello insurrezionalista. Era possibile un recupero del potenziale rivoluzionario del BR come tentarono alcuni leader di Autonomia Operaia? Direi proprio di no. Esse non erano fasciste (non lo abbiamo mai detto), probabilmente erano a rischio di essere infiltrate dai servzi segreti come tutte le organizzazioni clandestine, ma su questo non abbiamo ancora una “verità storica” accertata. Sicuramente non servirono alla causa della rivoluzione. Non mi pare che la lezione di Lenin fosse così indulgente verso i terroristi della sua epoca.
«Dopo il 2017 il dibattito sul comunismo (o anche sulla “crisi del marxismo”) è andato scemando e pare oggi cancellato. Nessuno è più disposto a portare questo Anchise sulle spalle». Questa la conclusione cui sono giunto in «Nei dintorno di Franco Fortini» (gennaio 2025), dove ho riassunto i principali interventi della “Conferenza di Roma sul comunismo” (18/22 gennaio 2017)1 e gli scambi avvenuti, sempre nel 2017, nella redazione di Poliscritture dopo la pubblicazione di un mio commento ‘Comunismo’ (1989) di Fortini.2 Da allora il silenzio. E ora, in questo buio presente di guerre, ha senso ancora parlarne? Come? Con chi? Eros Barone, che il tema non l’ha abbandonato, propone queste sue «Tesi sul comunismo». Sono lontane e in aperto contrasto con la posizione di Fortini, per me ancora punto di riferimento e da lui omaggiata ma subito accantonata. e pure con la mia esigenza di un ripensamento non scolastico o da epigoni. Le pubblico, tuttavia, ringraziandolo, perché i rendiconti che da vecchi facciamo delle nostre esperienze vissute e rielaborate vanno rispettati e meditati, anche se non dovessero essere ripresi da altri o servire poco a cercare altre strade. [ E. A.]
di Eros Barone
Tra me e Eros Barone si è avviato un dialogo-resoconto delle nostre esperienze di insegnamento nella scuola italiana. Pubblico una sua meditata risposta ai dubbi che gli avevo esposto sulla Riforma Gentile. [E. A]
viaggio tra i manuali di letteratura italiana
di Velio Abati e Maria Pia Betti
In una scuola che, a forza di “riforme”, il mercato assimila sempre più, intanto che le forme sociali e della comunicazione mutano in profondità le attese e le condizioni delle nuove generazioni, fino al ricorso recente ma in velocissima diffusione all’Intelligenza Artificiale, quale ruolo va assumendo l’istituzione scolastica? E, in essa, qual è il ruolo della letteratura nell’educazione sentimentale, nella formazione della coscienza civile?
Sono temi che ci appaiono fondamentali per chi voglia ragionare sul destino comune, sui quali tocchiamo la mancanza di studi approfonditi e di dibattito pubblico ampio. Noi, muovendo dalla pratica del nostro mestiere d’insegnanti di letteratura italiana, abbiamo ritenuto nostro dovere portare contributi sul contesto concreto in cui la letteratura incontra le giovani generazioni, ossia la materialità e del manuale e della pratica didattica nell’istituzione scolastica.
In un’epoca in cui l’opinione è spacciata per conoscenza, ci è sembrato indispensabile offrire il regesto puntuale dei dati documentali da cui scaturiscono le nostre riflessioni. La prima impressione di chi legge potrà essere che il nostro lavoro di contesto eluda la domanda sulla letteratura da cui siamo partiti, ma a questi lettori rispondiamo con convinzione che sempre il mezzo è parte costituiva del messaggio, per cui niente è più ingannevole del credere che il saggio di critica di uno studioso sia il medesimo di quello che egli eventualmente firma in un manuale scolastico.
Piuttosto, scorgiamo la carenza in un altro campo decisivo, lo studio della politica industriale dell’editoria scolastica, purtroppo fuori della nostra portata di competenze e possibilità.
v.a., m.p.b. Continua la lettura di Scuola, letteratura, mercato
di Annamaria Locatelli
La corsa? Un parolone, direi.
Se per la pace qualcosa si muove
va al rallentatore…
La corsa alle armi, invece, non s’arresta,
vince il campionato del mondo
e stravince il mondo!
La prima, timida ormai,
si nasconde,
rossa di sgomento e di vergogna,
per quel che vede far
dai signori della guerra:
massacri dagli scranni dorati
e lei, inerme, tra le vittime…
Impari e perdente ogni confronto!
Ma la pace infine puo’ rovesciar le sorti,
lei stessa facendosi guerriera?
Assai difficile, penso, finchè non affina
le sue armi
nella ferrea convinzione,
piu’ dura del diamante e del cannone,
di avere assolutamente ragione
a pretender il buon diritto delle genti
alla vita e alla dignità
di Luca Chiarei
Come tanti sono assolutamente allibito dall’indifferenza con la quale la maggioranza assiste a quello che sta succedendo a Gaza e in Medio Oriente. Che lo faccia il governo è nell’ordine delle cose, che società civile, forze politiche, intellettuali, sedicente opposizione non si differenzino è disgustoso. Ho rivalutato Di Battista che mi pare uno dei pochi che chiami le cose con il loro nome, per quello che può contare lui e noi.
In particolare ho notato come per gli amici “poeti”, la cultura in generale, per quello che riesco a seguire non stia succedendo niente e neanche si pongono il problema. Su questo ho scritto sul mio blog https://itempieiversi.org/ due riflessioni che esprimono un disagio personale tra l’angoscia per la tragedia in corso e l’irritazione per la mancanza di reazione.
Nota di E. A.
Le riflessioni di Luca Chiarei si leggono QUI

e QUI

Un altro tragico fatto che vede come vittima una donna, per mano del suo ex-fidanzato. Due giovani dalle facce pulite e dalla vita studiosa, che avremmo detto uguali, fino a una settimana fa, ai nostri figli e figlie. Sottolineo, ai nostri figli, includendo il giovane assassino. È successo anche nella nostra città, solo pochi mesi fa. Un copione molto simile, anche qui da fidanzato accolto in famiglia (quindi evidentemente ritenuto ‘affidabile’) ad assassino. La prima cosa che mi viene da pensare è che, quando questi giovani omicidi sono nati, la giornata contro la violenza sulle donne era già stata istituita, erano dei bambini quando hanno iniziato a diffondersi le panchine rosse e immagino siano cresciuti in famiglie non tanto diverse dalle nostre. Comunque sia, stento a credere che in tutti i casi di femminicidio, nel 2023, gli assassini vengano da contesti in cui la donna è sottomessa al marito, considerata un oggetto sessuale, svalutata. Molti non sembrano neanche (diversamente dagli stupratori da discoteca, che sono tutto un altro capitolo) soggetti particolarmente inclini alle dipendenze o inseriti in gruppi asociali. Ora, sento con un certo sollievo che perfino il governo di destra, dico “perfino”, ammette che non sono gli inasprimenti di pena a risolvere la questione, che va affrontata a livello culturale ed educativo. Tutti d’accordo da Schlein a Meloni. Ho però l’impressione che non si abbia chiaro cosa vuole dire “culturale” ed “educativo” quando si parla di relazioni personali. Della sfera amorosa e sessuale, dove tutto quello che è “razionale” salta completamente. Lo capiamo nelle nostre di vite, ma lo si vede con tragica evidenza in questi fatti di cronaca. Tanto è vero che questi assassini distruggono anche le loro di giovani vite, sconvolgono le loro famiglie di origine e, quando sono genitori, lasciano orfani i loro stessi figli … Insomma, non è che ci guadagnino qualcosa, perdono tutto, si autodistruggono, alcuni perfino si suicidano. Quindi, il piano razionale del “rispetto per la vita, rispetto per la donna” evidentemente da solo non funziona, così come non funziona la minaccia della pena severa. Non dico tutti, ma forse, molti di questi assassini qualche anno prima di compiere i crimini che hanno compiuto, sarebbero stati d’accordo con voi nel dire che queste cose orribili non si fanno, magari saranno pure andati a qualche inaugurazione di panchina, forse hanno perfino fatto un bel tema a scuola. In astratto, se richiesti di un’opinione, non credo vi avrebbero detto che è giusto uccidere un altro essere umano solo perché rifiuta una relazione. Cosa voglio dire con questo? Che, accanto al doveroso lavoro che si fa di sostegno alla donna nel lavoro e nella famiglia, per l’emancipazione, quando si parla di affettività, sentimenti, pulsioni, si deve capire che il livello deve essere un altro. Che parte dal fatto che si deve essere capaci di scrutare il buio che c’è in un essere umano e “accettare” che questo buio esiste e che non si modifica solo con un’educazione “collettiva” al rispetto e alla gentilezza. Bisogna prendere atto che l’essere umano è complesso, guidato da pulsioni irrazionali. Quindi, se ci si vuole assumere questo compito, con la giusta modestia, si tratta di aiutare le nuove generazioni ad essere forti, ad essere indipendenti, a non autovalutarsi in base all’esito di una relazione. A non pensare che “senza” quella donna o quell’uomo, si è finiti, si è qualcosa di meno, non si è realizzati. Vale per uomini e donne, perché anche noi donne siamo partecipi della stessa cultura amorosa. Però, da quel che leggo, riusciamo meglio a smarcarci. Le statistiche, ad esempio, dicono che le donne si suicidano molto di meno (in Italia, ma anche negli altri paesi, il divario è impressionante) e che accedono con maggiore facilità e consapevolezza ai servizi di aiuto psicologico. Non mi sembra poco, a voi? Molti storceranno il naso e diranno che questi ragionamenti ‘giustificano’ i criminali. È un’opinione la mia, che può non essere condivisa, ma io penso che la ricerca delle colpe individuali spetti al tribunale (non solo quello istituzionale, anche il tribunale della coscienza, se vogliamo, ed è ovvio che l’esito sia di condanna), mentre alla collettività competa un’indagine e, se possibile, un’azione che influisca sulle cause. E non possiamo capire le cause, se non capiamo gli assassini. Non possiamo neanche pensare di prevenire, se non ci abituiamo a scorgere la radice del male dentro di noi e lo vediamo sempre e solo negli “altri”.
* Dalla pagina FB ART Lista – Cologno Monzese
di Raffaella Ferraiolo Depero
Questa nota va considerata un’appendice al mio precedente articolo (qui).
Perché è successo l’11 settembre? Molti hanno hanno scritto in proposito e più autorevolmente di me. Basti pensare all’articolo di Dario Fo o alle pacate risposte che Umberto Eco, Tiziano Terzani, Dacia Maraini, diedero a quella ignobile lettera di Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio. Quella che segue, perciò, è solo la mia opinione. Continua la lettura di Perché l’11 settembre 2001