I viventi

di Antonio Sagredo

Walter osservò come ciondolava stancamente, sullo schienale della sedia a dondolo di una tarlata Thonet, lo sparato bianco che la sera prima s’era accomodato in fretta per andare al ballo dei parenti insieme ad Elisa.

Era stato organizzato in loro onore dalle zie materne più anziane.

L’anno prima, fu lei che glielo regalò. Lo aveva comprato a Praga in via Parigi quel tessuto voille bianco in piquette nido d’ape che poi si fece confezionare e applicare.

– Con bottoni di madreperla senza fori e col collo guru! – le raccomandò, Walter.

Non scelse, se ne ricordò, quello pieghettato che a lui non piaceva affatto.

Subito dopo il ballo non si sentì depresso, ma stanco per l’andirivieni di scarpe, scarpine, tacchi e tacchetti che a malapena si divincolavano dai cardini di malleoli sfiniti e dalle note frenetiche, quasi tarantolate, che dagli strumenti a percussione e dalle batterie, si scaricavano spiaccicandosi sull’impiantito sporco e colmo di coriandoli.

Non aveva che da levarsi, sprofondato e affossato com’era, non nei pensieri, da quel consunto e spelacchiato divano privo di molle, quando lei lo chiamò con voce sottile e leggermente rauca.

– Walter, Walter – disse – andiamo via, fuori, a respirare le leggende che i rami dei salici si raccontano sopra le acque stagnanti di storie recidive!

Lui, annuì, spegnendo il mozzicone – Si, andiamo, forse il respiro e il corpo si riprenderanno.

Quelle note che gli sembravano malate lo avevano sempre asfissiato.

Cercarono di trattenerli la zia Cia e la zia Iole… sarebbero restate vedove di zio Peppino e di zio Oscar, poco tempo dopo.

Queste zie materne erano state insospettite dall’ignavia che aveva manifestato questa giovane coppia di cugini fin dal loro arrivo, quando furono presentati a tutto il parentado. Avevano anche notato subito in loro, nipoti stranieri in tutto, una pazienza mal dissimulata, come una tolleranza mal celata nei loro occhi e nei gesti dinoccolati delle braccia.

Tutte le gradazioni del sangue sembravano che si fossero riunite quella sera per rendere un omaggio dovuto a questi due cugini sconosciuti che chissà, pensarono complici le due zie a cui non sfuggiva nulla… chissà perché erano troppo affiatati e vicini.

Questo omaggio, però, a Walter e Elisa non sembrò affatto naturale.

E furono decine e decine le strette di mano, i baci a labbra umide o secche, i bacioni interminabilmente soffocanti, le dita aperte sulle spalle come rastrelli appuntiti e gli abbracci a uncino fortemente calorosi, quasi fino a far male alle loro ossa, che dovettero sopportare.

Elisa – disse lui mentre guardava dalla finestra i merli umidi di pietra tufacea – lo sai che un po’ di quel sangue loro ce l’abbiamo anche noi, dentro… ma come siamo diversi, come siamo taciturni e riflessivi, e loro chiassosi, allegri!

Fissava ancora quei merli che gli parvero come denti cariati, pelosi di muschio, dell’antico castello aragonese di Acaia. Da bambino gli piaceva giocare, giù, lungo i fossati baronali che risaliva per conquistare le mura!

Aveva appoggiato pesantemente la testa, come quella volta, alla dorsale angolare lucida e viscida di un grattacielo di San Francisco. In questa città c’era stato appena due mesi, giusto il tempo per capirci qualcosa di una fra le tante banali metropoli americane… questa immensa città gli sfuggiva – lui, fin da bambino, aveva amato soltanto l’accidia delle lagune salentine! – e allora si dette alla fuga… di botto lasciò l’america agli scrittori europei del secolo trascorso, quei tre o quattro che ne avevano sviscerato la barbarie: la nuova frontiera!

Walter abbassò lo sguardo inesausto sui cespugli sballottati dalla violenta tramontana salmastra, poi, ripiegato, disse fra sé – quell’ideale presuntuoso, recidivo e nefasto, causa di tanti stermini!

Fu al ritorno da quella terra oltreatlantica che, proprio nei fossati del castello di Acaia, conobbe la cuginetta Elisa… se gli apparve come una iguana dagli sguardi di bronzo, lei lo credé un animoso guerriero medievale.

Gli ricordava il volto di Bruna, la prima amica d’infanzia, uccisa diciannovenne dal ferro-motore sulla strada sterrata per San Cataldo.

Intanto la musica si affievoliva sempre più. Le note declinavano, imitando i colori esangui dei tramonti rancidi che, da bambino dal promontorio del Monte dell’Ovo sullo Ionio, aveva invano cercato di dipingere ad acquerello, come fossero reali.

Walter! – disse Elisa – rientriamo, non sta bene star qui, la festa dopotutto è in nostro onore. I parenti si arrabbieranno. Rientriamo prima che arrivino Roberto e Consiglia.

Come un Orfeo, a malincuore e disincantato, la precedetti, mentre già violente pallottoline di grandine ci si frangevano contro e pure contro le finestre illuminate a petrolio. Ma già sulla soglia si era formata una strisciolina orizzontale bianca e insidiosa. Le luminarie erano sferzate già da gelidi venti e sballottavano con sibili sinistri.

Attenta – dissi – puoi scivolare, entra!

Mentre con le mani ci spazzolavamo i vestiti per la grandine che s’era già appiccicata per il caldo ingresso venne verso di noi defilato zio Peppino… barcollava con quei due bicchieri colmi di un vino così nerorossovivo, come gli occhi di Diomede durante le stragi.

Che vino è? – disse – Elisa.

Lo zio con voce arrochita – qui abbiamo soltanto il De Castris o il Primitivo di Manduria! Ma per Walter invece ho conservato il mosto caldo delle cantine brindisine… proprio quelle che una volta s’affacciavano, in una serie infinita da ambo i lati, lungo tutta la via Appia! Oggi, dovete sapere, ingegnose amministrazioni comunali le hanno distrutte, tutte! Ma non pensiamoci più. Ieri è stato l’ultimo giorno di vendemmia. E adesso, bevete!

Elisa cominciò a gustare compiaciuta l’ottimo vino che andava sorseggiando. D’un tratto mi si avvicinò una ragazzina già alticcia con passo dinoccolato e accattivante, indicandomi doni e strenne che già fin dalla vigilia erano stati deposti su un tavolo d’ulivo addossato in un angolo della sala vicino al vestibolo imbandito di leccornie.

Mi chiamo Gloria – disse – sono figlia di uno dei tanti tuoi primi cugini. Abbiamo in comune gli stessi nonni materni. Tua madre, mia zia, mi ha raccontato la storia d’amore fra tuo padre Lucio e Gianna.

Le risposi irritato – questi parenti non sanno mai tenere la bocca chiusa! Una così bella storia d’amore sulla bocca di tutti! Come se fosse la storia di una puttana famosa!

Walter si allontanò, lasciandola sola di stucco, infastidito. Si ritrasse intristito, piegando il capo. Si avvicinò di nuovo alla finestra, alzò gli occhi inavvertitamente giusto per vedere la grandine che s’era fatta più fitta e pungente. Si preannunciava, dunque, una notte gelida e un freddo da lupi, davvero singolare, per quei luoghi!

Sai – disse a Elisa – noi siamo qui, ma i luoghi del passato ci sovrastano e ci dominano. Per esempio, ora sto ricordando le cave tufacee della muschiosa città barocca. Erano in periferia, allora, erano davvero pericolosissime per i ragazzi. Una sorta di labirinti e tranelli ingannevoli per le avventure degli adolescenti. Ricordo pure il mio tragitto quotidiano verso la scuola media. Attraversavo la Villa Comunale, e mi fermavo ad ammirare il busto muschiato e il volto di pietra di un giovane uomo. Seppi dopo che era lo sventurato Vanini.

Lasciavo cadere ogni giorno, non sapevo bene perché, sotto la colonnina, due o tre papaveri di un rosso accesissimo. Era il colore dei suoi furori libertini! Ma al ritorno dalla scuola, di pomeriggio, sulla via di casa quel rosso s’era già aggrumato in nerastro disfacimento, come il suo sangue… nel fuoco!

Walter quasi gridò – Povero cristo, quella sera, a Tolosa, anche le gerarchie degli Angeli piansero!

Alcuni cugini lo sentirono e si voltarono di botto senza capire a chi si rivolgesse, restando sorpresi e attoniti.

Elisa, allora, si distaccò delicatamente da Walter, pareva un abbandono, forse non voleva ascoltare quella tristissima storia. Era sempre sulle labbra del suo Walter! Temeva tanto per lui l’avverarsi dei sintomi di una malattia inguaribile e grave.

Una notte insonne di qualche anno prima, si rammentò, era furioso e in preda a una rabbia incontrollata.

Ripeteva sempre le stesse frasi: è contro natura credere in un dio qualsiasi o in un dio unico! È naturale non credere a nessun dio!

La musica, intanto, s’era pian piano acquietata del tutto. Restarono soltanto due coppie a danzare ancora.

La cena era prossima.

Odori e profumi inebrianti e arcinoti fin dall’infanzia già si spandevano in tutte le stanze e per il vasto salone. Alcuni coloratissimi festoni furono ancor più intrecciati e poi annodati al grande lampadario di cristallo di Boemia per disporli a raggiera così da formare una cupola variopinta per tutto lo spazio del vastissimo tavolo. Altri ancora furono raccolti e depositati in un angolo, o appuntati sulla carta da parati floreale.

Già si approntavano le tavolate. Walter girò lo sguardo verso le donne affaccendate. Sua madre gli rispose con un sorriso rassegnato: da poco tempo era restata vedova di Lucio.

Ricordò le abbondanti libagioni di un tempo andato, ma a cui ritornava insanabile con dolce tristezza. Le bevute interminabili del nonno materno con suo padre e i cognati e i nipoti più adulti. Eppure sapeva bene che non era un nostalgico. Non sopportava però un passato che, come un signore-tiranno d’altri tempi, voleva dominarlo totalmente.

Intanto Elisa non fece in tempo a sedersi che fu subito circondata da festanti cugini e cuginette. Accavallò le lunghe gambe e prese a fumare le sue inseparabili sigarette gauloises. Conversava e sorrideva, fumava e parlava, ogni tanto interrotta da un ah! o da un oh! Non è vero! Non è possibile! Quando partirai portami con te!

E così via…

A Walter, dopo il cenone, il parentado chiese di fare un discorso, perché era sconosciuto quasi a tutti loro. Volevano, per la prima volta, ascoltare la sua voce che tra l’altro possedeva minimali inclinazioni dialettali. Forse era per questo motivo che si sentiva distante da tutti.

Al contrario, non era passato mai in mente ai suoi parenti che un problema di genere linguistico potesse essere un ostacolo a una comprensione qualsiasi; e poi, suvvia, fra consanguinei, è un assurdo!

Elisa ascoltava le sue parole estasiata, riconoscendo in esse un sincero affetto che prodigava per tutti indistintamente. In particolare erano gli zii materni più stretti che ricordava fin dall’infanzia e che suscitavano in lui ricordi cari. Quelli paterni erano lontani e tutti concentrati nel salernitano.

Ma ai cugini primi riservava un affetto particolarissimo poiché erano stati i suoi primi compagni di strada… poi elencò i nomi delle vie uno per uno, in primis la leggendaria e natale Vittorio Veneto, poi via Udine, via Malta, via Strabone, la piazza dei Cappuccini (oggi sfigurata da una orrenda costruzione cementizia: la solita imbecille amministrazione comunale!), via Fulvia, ecc., ma era la consolare via Appia che primeggiava su tutti i restanti luoghi rionali … nei suoi sogni di scolaro elementare, confessò, di averla percorsa numerose volte al giorno, immaginando di camminare sull’antico selciato!

Più volte gli parve di auscultare, ovunque intorno, le virili chiodacciate degli antichi soldati romani.

Poi enumerò i marciapiedi logori e consumati delle varie straduzze laterali, i lastricati rovinati dal via vai incessante dei tràini dall’alba al tramonto specie durante i tempi della vendemmia, gli angoli maleolenti e infine le miserevoli coorti dove sopravvivevano, non so come, le genti più tragicamente affamate, come quelli della rrabbìa abbarbicati fra i vicoli e i chiassetti della marina.

Non poté fare a meno di rammentare quello schifoso rigagnolo… un luridissimo scolo perimetrale – ancora esistente fino al 1965! – che circondava il carcere affacciato, incombente e inconcludente, sulla consolare Appia.

Questa schifezza a cielo aperto era percorsa da nerastre e grandi zoccole per tutto il giorno e per tutta la notte, e stracolmo delle deiezioni canine, equine, ovine, caprine e umane… e chi sa cosa ancora!

Si commosse, ringraziando la propria memoria, quando descrisse l’alto recinto murario con le mattonelle disposte a forma di rombo che circondava la scuola elementare di via Veneto e il cancello di ferro a forma di enorme H proprio di fronte alla sua casa natale (che son ben 57 anni che non la vedo!).

Poi disse di sentire ancora lo stridore innaturale dei cardini arrugginiti quando veniva aperto o chiuso dalla bidella (una amica di famiglia)… e altro ricordò, di cui dopo dirò, se avrete un po’ di pazienza.

Non smetteva più di parlare.

Con voce quasi strozzata rammentò i nonni materni: nonno Eugenio, e nonna Sara sempre vestita di nero e ancora più nera quando restò vedova. Accennò ad alcuni episodi infantili e della primissima adolescenza, che si riservò poi di raccontarli più dettagliati a chi volesse sapere… e qui esplose la felicità dei figli dei cugini primi che volevano conoscere, conoscere… e lo pregarono se fosse stato il giorno dopo disponibile a riferire più dettagliatamente.

Si ricompose, quando disse, umilmente quasi scusandosi, che essendo uno studioso delle scienze umanistiche comparate, lo dovevano perdonare se la ragione in lui primeggiava e la usava contro tutte le manipolazioni che le superstizioni, i rosari e letanie facevano contro le libere coscienza e conoscenza. Sapeva bene il significato del termine religione, che si guardò bene dallo spiegare al parentado.

Questo legare e annodare tortuosamente qualcosa per lui significava nel corso della storia far prigioniere tutte le libertà umanistiche e scientifiche della mente pensante con una rete di avviluppamenti sempre più tortuosi e soffocanti. Il suo compito nella vita era di tagliare una volta per tutte questi terribili e nefasti nodi gordiani.

Sua madre e le sue sorelle, zie materne, furono deluse e scossero il capo con un diniego che fu visto da tutti, ma Walter aveva dalla sua parte tutti i cugini e i giovani nipoti.

Vi fu un applauso sincero e caloroso. Walter ringraziò e sorrise stancamente. Sua madre prese a lacrimare: avrebbe voluto che ci fosse presente anche il suo Lucio per vedere come suo figlio era tanto apprezzato in famiglia!

Si sedette e bevve un po’ di vino. Elisa lo baciò sulla guancia, seguita da tutte le cuginette. Se ne stette allibito e meravigliato per tanta attenzione e affetto. Non si schernì per nulla e non suscitò ad alcuna gelosie devastanti.

Fuori la grandine si mutò in neve, dapprima piccoli fiocchi s’intrecciavano in mulinelli bizzarri e incantevoli. Cominciarono ad imbianchirsi i rami degli alberi che cingevano il grande giardino e pure i merli del castello. Poi si mutò in grosse falde pesanti che coprirono totalmente alberi, cespugli e tutta la terra circostante, finanche il cancello principale non si vide più.

Il vento spazzando ogni cosa cominciò a formare minuscoli cumuli di neve, che s’ammucchiavano preferibilmente sotto i cespugli e gli alberi. Le bestioline, poi, avevano fatto in tempo a rintanarsi e stringersi nei loro giacigli sotterranei. Quei cumuli si trasformarono in veri e propri tumuli: bisognava già mettersi lunghi gambali se si voleva far qualche passeggiata.

Era sera tardi, ma nessuno mostrava stanchezza o voglia di andarsene. Elisa e Gloria parlottavano in un angolo, sicuramente spettegolavano. La cuginetta, Loredana, si avvicinò a Walter, gli prese il palmo della mano e cominciò a leggere le varie linee intricate.

Fu preso alla sprovvista, ma accettò il gioco.

Intanto si erano formati vari gruppi che discutevano sulla disposizione dei posti e per questo scoppiarono animate discussioni, pacifiche ovviamente. Il primo piatto, fumante, si faceva davvero attendere, nonostante giungessero di continuo e insinuanti dalla ampia cucina zaffate di odori e profumi strabilianti.

Avevano tutti fame, poiché gli antipasti e decine di vari litri di vino erano stati già del tutto consumati. Insomma si era in dolce e non accettata troppo attesa.

Alcuni giovanissimi nipoti sostituivano i monconi delle candele consumate con altre nuove: è che oltre ai paralumi elettrici, a decine sparsi per la grande sala, si erano volute, a furor di parenti, le luci calde e suadenti delle candele. Si sarebbe mangiato e bevuto con più gusto!

– Walter – disse Loredana – avrai una vita lunga e forse felice… tutto dipenderà da come amerai la tua donna!

Lui osservò i suoi occhi glauchi davvero splendidi, di certo avevano preso da suo nonno materno, che poi era anche il suo. Ammirò anche i suoi capelli rovani, come quelli di zia Elvira… questa era una simpaticissima ziastra.

Aveva un fratello. Il mio nonno materno era il loro fratellastro, nato da una unione illegittima. Il loro padre, dunque, era il mio bisnonno materno.

Questa zia, ora novantenne e ancora frizzante, in gioventù mi diceva mia madre, era stata di una bellezza unica con quegli occhi e capelli dai colori così rari nelle regioni meridionali, ma non sapeva, lei, che qui molti popoli di origine nordica avevano dominato per diversi secoli questa nostra terra. Come anche l’oriente levantino.

Era stata sfortunata, aveva avuto molti amori, ma nessuno definitivo. Si trovò a cinquanta anni sposa di un attempato genovese arzillo e partì dunque verso il nord, verso quell’altra cara città marinara, ma pochi anni dopo restò vedova e ritornò alla sua casa natale. Cambiò due volte mare.

La città di Genova era amatissima da Walter per i geniali cantautori, specie il Conte!

E adesso, Elvira, è di nuovo qui con tutto il parentado che aveva sempre amato, in primis mio padre, a divertirsi e a continuare ad amare tutti, essendo a sua volta amata, indistintamente.

La ricordo con affetto e so che mi voleva molto bene.

Il suo unico nipote, figlio del fratello, è un personaggio assai noto per il lavoro che svolge in città e nella provincia.

Mentre continuavano fra i parenti divertenti e risevoli conflitti per la disposizione dei posti a tavola – e gli anziani ci tenevano a una precedenza rispetto ai giovani – Walter notò che Elisa parlava animatamente con un giovane elegantemente vestito e dal portamento corretto.

Chi è? – domandò Walter a zia Elvira, con voce discreta e recitante

indifferenza. Era restato interdetto e sorpreso dalla sua stessa domanda, e poi non voleva destare in questa sospetti di gelosia che già provava e di cui non riusciva a credere, proprio lui, di essere succube di tale sentimento! Credeva ingenuamente che, avendo una cultura mitteleuropea e un suo mondo di pensieri alti e profondi, la gelosia non potesse mai allignare in lui.

Eppure quella domanda l’aveva fatta, spinto più da un desiderio di conoscere la qualità dell’interessamento di Elisa per quel giovane, che di sapere chi fosse in realtà.

Dimostrava di avere non meno di 25 anni e di non essere un provinciale. Di certo era un suo parente, pensava, oppure era lì presente perché solo un invitato. Ma chi era dunque questo giovane che aveva affascinato e incuriosito Elisa!… e si tormentava.

Ma era davvero un parente, lontano o vicino?

E se lo era da quale luogo d’Italia, se non d’Europa veniva?

Chi era stato a presentarglielo con tutti i riguardi?

E poi indossava uno sparato pieghettato, che non aveva mai potuto sopportare!

Aveva notato in Elisa, mentre gli stringeva la mano della presentazione, un rossore e una timidezza che, sapeva da tempo, non le appartenevano più da quando si erano capiti. Perché d’un tratto aveva mostrato e dichiarato proprio a quello sconosciuto (anche loro erano degli sconosciuti parenti!) quella debolezza femminile senza alcun velo e che solo lui aveva in un caro e prezioso istante, non lontano, conosciuto?

Era stato questo a incuriosirlo e a fargli domandare a zia Elvira – Chi è?

Allora con orrore pensò fra sé – Non conosco questa donna così bene come pensavo!

Non aspettò nemmeno la risposta della zia. Non vedeva il momento di chiederglielo ad Elisa, insomma voleva, era doveroso che lei glielo presentasse!

Aveva attraversato la grande sala quasi spintonando almeno un paio di piccoli cugini. Si trovò a pochi centimetri da loro due, incurante di un affanno e di una sorta di stizza mal dissimulata.

– Elisa, chi è? – disse con impazienza, e notò che era alto quanto lui.

– È Riccardo-Tommaso – abbassando gli occhi – scrive versi, è un famoso poeta!

E, sciogliendosi i capelli, con voce entusiasta e quasi infantile, quasi gridando e di tenero rimprovero – Sai, Walter, ha scritto molti anni fa un poema straordinario! L’Opera… Il grande burattinaio della città felice! È forse il più grande poema del secolo trascorso!

Gli occhi di Riccardo lo fissarono per alcuni, soltanto per lui, interminabili secondi. Si strinsero le mani. Walter accennò un debole sorriso di circostanza. Aveva indovinato i dubbi di Walter se con voce suadente e molto intonata, disse:

– Non sono un tuo parente diretto, ma sono di casa da quando sono nato. Sono stato adottato. Abito a Salisburgo, una città di provincia che disprezzo più di Thomas!

Thomas, chi? – rispose Walter!

È ovvio – disse Riccardo con sufficienza – lo dovreste conoscere bene e anche averlo letto chissà quante volte! Bernhard, Thomas Bernhard!

– Si, è vero, lo conosco fin troppo bene. Non si può che essere d’accordo con lui in tutto, specie col disprezzo che ha nutrito verso il mondo e il pensiero provinciale!

Ma d’un tratto sopraggiunse l’ordine, preceduto da tre colpi di tamburo battuti dai due fra i più anziani degli zii materni, i fratelli Pasqualino e Peppino, di disporsi a sedere secondo i gradi di parentela e di età. E qui il destino giocò un brutto tiro a Walter.

Elisa si era trovata accanto alla sua destra proprio Riccardo e alla sua sinistra Gloria. Walter tra le cugine Anna e Loredana, ma dalla parte opposta dell’immenso tavolo. Unica sua consolazione era che poteva controllarli quei due stando proprio di fronte.

Si era inquietato.

Batteva l’indice sul tavolo con ritmo asincrono dando ai nervi a Loredana, che l’apostrofò con uno – smettila! Come puoi essere così geloso! Non vedi che ti osservano tutti!

Si guardò intorno. Era vero. Gli sguardi, specie degli zii anziani erano fissi su di lui. Si scusò remissivamente, e così cessarono di rimproverarlo.

La cena iniziò con un brindisi generale rivolto ai nipoti semisconosciuti. Walter si rincuorò e tornò sereno. Le due cugine sedute accanto gli dettero quasi simultaneamente un bacione su ciascuna guancia. Elisa gli sorrise e gli mandò un bacino col dito, mentre Tommaso-Riccardo alzò il suo bicchiere più in alto di tutti, salutandolo con un sincero sorriso.

Ma un losco pensiero gli suggerì che il sorriso di quel poeta, tanto ammirato da Elisa, non era ben accettato dalla sua mentalità.

Si sentiva in colpa, e non cessava di pensare al proprio stato di insofferente anche verso se stesso, verso il proprio corpo che lo sosteneva in vita e di cui nulla gli importava, verso il suo pensiero che lo dominava intermittente e al quale mostrava una antipatia viscerale. Penso fra sé – lo avresti dovuto distruggerlo tanto tempo fa quando ti si affacciò alla mente l’idea utopistica di una giustizia sovrana regnante eguale su tutta l’umanità!

Eppure questo ideale lo aveva mantenuto attivo per tantissimi anni… quelli giovanili lo avevano cullato… quelli della prima maturità lo avevano sostenuto quando gli studi si erano fatti più seri e più profondi… e ora lui stesso inerte con quell’ideale che da più d’un lustro s’era frantumato davanti ai giochi luridi dei poteri individuali e universali!

La Giustizia – rifletteva – è un inganno, come l’anima distinta dalla materia! Non voleva sapere più nulla! Il Nulla stesso un inganno, come il suo opposto! Tutto non era che un gioco di parole, la parola stessa un inganno a cominciare dal Verbo scellerato di tutti i profeti!

Così pensava mentre gli altri mangiavano e brindavano senza interruzione. Ma Tommaso-Riccardo lo scrutava, ma non se ne accorse.

Non Elisa, ma la cugina Anna, nata un anno prima, e a cui era legato da ricordi d’infanzia davvero straordinari, come quello della prima battaglia a palle di neve, la prima neve d’infanzia!, nel cortile della scuola elementare proprio dirimpetto al portone della casa materna di via Veneto.

Soltanto Anna vide il suo tormentato e viscerale umore, lo conosceva bene il cugino ch’era stato, fra tutti i cugini, quello che sapeva più di tutti le cose perché semplicemente leggeva più degli altri e dunque più pieno di riflessioni e pensieri, di immagini e fantasie!

Anna lo guardò quasi maternamente e gli sussurrò – Non fare così come quand’eri bambino. Adesso, ma da tanto tempo, puoi dominare la tua mente con la ragione. Hai distrutto gli dei che t’opprimevano. Gli altari, per te e per tutto ciò che ti circonda, non esistono più ed è per questo che hai strappato fin da bambino la gioia ai giorni futuri. Ora, sei un predestinato al fare, all’azione… Anna fu interrotta da fragorosi applausi e da un assordante brindisi… da innumerevoli hurrà! hurrà! e poi da un evviva non si sa a che cosa.

Ritornò fra i commensali un tono compiaciuto, quasi una sorta di pausa apparente per successivi applausi più chiassosi, quasi un segno, dunque, che la festa non era che all’inizio poi che una calma ingannevole era spezzata, qua e là, da un brusio pettegolo e complice, e da risatine sguaiate, a intermittenza seguite da sorrisi furtivi, e da schiocchi di lingua delle piccole cugine che non smettevano di ammirare il proprio cugino… Walter!

Le ragazzine furono rimproverate bellamente dalle zie e da mia madre, mentre Elisa si divertiva con Anna indicando, ai cugini più adulti, il rossore e l’agitazione, forse presunta, che avvolse a sua insaputa Walter.

Irritato davvero per tanta attenzione nei suoi riguardi, si alzò fingendo una fuga verso l’uscita, ma fu bloccato con un abbraccio troppo affettuoso dalle maggiori delle cuginette, Maddalena, che più delle altre sentiva e percepiva già i sommovimenti acuti del suo sesso, erecitando, come una languida attrice di fine ottocento, in falsetto:

– Walter, dove vai? Non vedi che qui sono più le donne ad amarti! E ti amano, perché sei dolce e perché, io lo so, fai finta d’arrabbiarti… è tutta la sera che ti ammiro e ti invidio! Ma pure gli zii e le zie ti vogliono bene, e la nonna che dall’alto, fra un grano e l’altro del suo rosario – anche in cielo! – ti guarda di sottecchi, se la ride, sbuffa e scuote la testa per non ridere troppo!

Walter, che aveva già da tempo adocchiato questa cuginetta assorta e apparentemente silenziosa, già donnina, si addolcì d’un tratto come se avesse bevuto un infuso di forti calmanti, e le carezzò le guance, e mentre si piegava in avanti per darle un bacio sulla fronte, lei si divincolò, dicendo – è ancora presto per i baci: si comincia dalla fronte e chi sa dove si va a finire!

Walter restò esterrefatto e scoppiò in una gran risata… gli si avvicinarono Elisa ed Anna che lo riempirono di carezze più esperte e civettuole, e lo invitarono a sedersi accanto a loro con gran disappunto delle piccoline che dovettero trovarsi altre sedie più lontane.

Maddalena gli stava proprio di fronte e non faceva altro che affondare il suo sguardo nei suoi occhi con gran disappunto di Tommaso-Riccardo.

Elisa, che s’accorse dell’imbarazzo di Walter, si alzò e si diresse verso Maddalena, le origliò qualcosa come un ordine perentorio – vai da Walter e scusati, poi ritorna al tuo posto sorridente e, senza sculettare troppo mi raccomando, raggiungi le tue cuginette!

Intanto la cena sembrava che continuasse da sola, poi che tra un brusio e uno scoppio di risa, avanzavano di continuo altre portate, come se i piatti invece di essere posati, sulla lunghissima e coloratissima tovaglia, dalle mani delle zie, se ne venivano dalla vasta cucina sulle ali dei profumi e degli odori, come sospesi in aria tanto da parere opera di miracoli di santi o di sante in quei luoghi ancora troppo venerati.

Una processione dunque, di pietanze e di effluvi, che Walter ed Elisa più non vedevano o più non ricordavano fin dai tempi della lontana infanzia, con cui le donne deliziavano i loro mariti e i loro figli maggiori, ogni sera, dopo le raffiche e le sferzate della tramontana violenta che tutto il giorno avevano dovuto sopportare per i lavori di campagna.

E ci si riuniva, tutti e tutte, torno il grande camino della vasta cucina, subito dopo gli arrivi degli uomini, a cui venivano offerti boccali di vino primitivo o addirittura il dolce e caldissimo mosto!

Il profumo della farina impastata rallegrava gli animi, ma Walter che all’epoca aveva meno di dieci anni ogni sera diveniva sempre più triste…

3 pensieri su “I viventi

  1. Un raccontino dimesso, semplice in apparenza poiché tra le pieghe nasconde sentimenti e colpe che non si devono chiarire e quanto mai riferire. I personaggi immaginari si mutano in reali e concreti se il lettore è capace di insinuarsi dentro la trama per divenire uno degli invitati, e senza disturbare alcuno ascolta, e ascolta senza intervenire… gode insomma lo svolgimento di varie esistenze che a loro volta subiscono i riti antichi della ospitalità… sono i sentimenti di ciascu invitato, parente o no, che vengono fuori per misurarsi con altri sentimenti e non si tratta di conflitti aperti e chiassosi, ma se mai detti a bassa voce o con occhiate o gesti percettibili, e sul tutto e tutti domina una atmosfera che non sai se di festa o contenuta gioia o il trionfo del pettegolezzo detto a mezza voce. Notevoli sono poi le gestualità e le parole femminili, le piccole gelosie mascherate da amicizia o viceversa; gli anziani poi si capiscono al volo ripetendo come rosari le stesse parole da quand’erano più giovani…
    i vari gradi di parentela vengono fuori alla chitichella senza enfasi, così come dalla cucina in continua effervescenza le portate fumanti si posano sul lungo tavolo e vengono inaffiati da decine di bichhieri di buon vino… mentre fuori fa tanto freddo che è possibili che nevichi e col vento furioso ne sca una tempesta. Insomma a me piace questo raccontino (l’ho letto tre volte!), come può piacere un grazioso scrigno.

    paola rufflli

  2. …è un bel racconto, ma anche una rappresentazione teatrale con un grande primo attore, Walter, che é anche la voce narrante…La scena è affollata di presenze, curiose e anche un po’ pettegole, ma indubbiamente animate da simpatia, spirito di ospitalità: zie, cugine di diverso grado, amici e apparizioni indesiderate perchè rischiano di allontanare l’attenzione dal narcisista Walter, soprattutto da parte della cugina del cuore…Ma Walter è anche uno straordinario osservatore, misura costantemente il polso degli umori, comprende i complessi rapporti anche attraverso la gestualità e sa apprezzare il corteo generoso delle vivande…Viene da lontano, ogni donna presente ne è ammirata, ha viaggiato e vissuto, ha intrapreso un cammino di ribellione nei confronti delle istituzoni, si identifica mentalmente ed emotivamente con il tragico personaggio di Vanini…pero’ quando, invitato, Walter prende la parola fa un resoconto entusiasta dei sui ricordi d’infanzia, della sua terra, Lecce e dinorni, spaziando nello spazio e nel tempo. Cosi’ il nomade, il vagabondo, nel calore della sua tribu’, riscopre il legame profondo con la sua gente e le sue radici…Ci appare, ed è l’ultima scena, Intima e raccolta l’assemblea di parenti e amici intorno alla grande tavola, mentre Walter tiene tutti in ascolto e fuori imperversa una strordinaria nevicata

  3. Sono un vecchio amico di Antonio Sagredo e conoscendo a fondo la sua poesia posso dire con certezza che difficilmente un critico penserebbe che questo racconto “i Viventi” possa essere stato scritto da lui. Perché, in primis, questo racconto si snoda con una semplicità sconcertante, visto che Sagredo non è poeta affatto semplice e che predilige parole pronte ad esplodere in immagini espressionistiche prima che barocche: e nulla di tutto questo è presente in questa brevissima prosa che, appunto, sconcerta chi ben lo conosce, E allora ben venga perché ci pone davanti a un Sagredo equilibrato, misurato e per nulla inquietante, così come da sempre ci aveva abituato.

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