Sul Leopardi “recchiò” di Franco Buffoni

di Ennio Abate

Su LE PAROLE E LE COSE è stato anticipato un pezzo di “Sivia è un anagramma” di Franco Buffoni (qui), che esce – con tempismo indicativo sia degli orientamenti dell’autore che della casa editrice Marcos y Marcos – “in occasione della discussione alla Camera della proposta di legge Zan contro l’omofobia”. Riporto gli APPUNTI che ho lasciato in un commento su quel sito. [E. A.]

1.

Leopardi è poeta grande «in virtù del suo orientamento sessuale»? Buffoni sembra negarlo:«Qui non si tratta di affermare la genialità di autore in virtù del suo orientamento sessuale, quanto di comprenderne appieno la vicenda umana e artistica alla luce di una restituzione necessaria. Il fatto che un artista non abbia voluto o potuto manifestare esplicitamente la propria omosessualità non può e non deve inibire lo storico che cerca di recuperare il senso più autentico dell’opera e della poetica dell’artista stesso». Quindi, non lo si può accusare di “determinismo sessuale”. E però, nella stessa frase, lascia intendere (o suggerisce) che « il senso più autentico dell’opera e della poetica dell’artista stesso» vada cercato (soprattutto?) nell’omosessualità. Ci sarebbe, cioè, un « Leopardi più segreto, quello non ancora accettato dall’accademia italiana, il Leopardi omosessuale, esule a Napoli per amore, a mantenere – con il mensile che gli passa Monaldo – il bellimbusto eterosessuale Antonio, e a sfogarsi con gli scugnizzi in cambio di “avarissime mance”».

2.

Prendiamo sul serio la sua tesi e facciamoci un po’ di domande. Vuol forse dire che i lettori – lasciamo perdere gli accademici – che finora non hanno saputo o non hanno dato peso all’omosessualità (vera o presunta o da dimostrare) di Leopardi, non hanno capito nulla della sua poesia? La conoscenza di essa è indispensabile per la comprensione della poesia di Leopardi (come nell’esempio di una poesia analizzata da Fortini [1])? O l’aumenta in modo notevole? Venire a sapere che Aspasia non era Targioni Tozzetti sarà eccitante per gli appassionati di biografie ma un lettore di poesia resterà sconvolto dalla rivelazione e vedrà altrimenti la poesia di Leopardi?

3.

Ammettiamo – sempre per ragionare – che l’omosessualità di Leopardi (vera o presunta o da dimostrare) sia stata centrale nella sua vita. Lo è stata – altrettanto e automaticamente – per la sua opera e, in particolare, per la sua poesia? E, per mantenere le proporzioni: quanto lo furono le condizioni storiche dell’Italia di quel tempo o quanto l’idea di mondo che egli si costruì? Insomma, quanto essa verrebbe a pesare rispetto ai tanti altri fattori che produssero quella sua poesia?

4.

Quanto al rapporto biografia- poesia. Tra i due estremi (poesia ridotta a biografia e testo senza più legami con biografia e storia) ci sono i singoli casi concreti dei poeti. Quale fu quello di Leopardi? E – più in generale – davvero una poesia o un’opera arrivata fino a noi da secoli oscuri, magari di un autore anonimo e della cui vita nulla o quasi conosciamo, non ci dirà nulla fino a quando non sapremo la sua biografia (magari nei dettagli)?

Nota

[1]

«Io vorrei prendere l’esempio di una brevissima poesia di Brecht che ha anch’essa un’epigrafe. “Qui giace/ Karl Liebknecht/ che combatté contro la guerra. Quando fu assassinato/ la nostra città c’era ancora”. Si noti che di fronte a un testo come questo viene a mancare quasi del tutto l’idea corrente che la poesia sia intraducibile perché il baricentro, il peso di questi versi non è interno ai versi stessi, è esterno: consiste nel sapere dei destinatari, dei lettori. Per esempio se i lettori non sanno che questo Liebknecht è un rivoluzionario socialista tedesco che è stato ucciso da militari della destra nazionalista tedesca alla fine del 1918, insieme a Rosa Luxemburg; e se non sanno che “la nostra città” di cui si parla è Berlino e che la distruzione di questa città nella seconda guerra mondiale è avvenuta ventisette anni dopo la morte di Liebknecht, questa poesia ci diventa incomprensibile. Tutte le nozioni storiche, morali e politiche che premono intorno a quelle quindici parole – “Qui giace Karl Liebknecht che combatté contro la Guerra, quando fu assassinato la nostra città c’era ancora” – premono intorno a queste parole non diversamente da quanto faccia per esempio la teologia intorno alla poesia cristiana o la mitologia classica per poter capire il canto di Ulisse di Dante. La “guerra” che ha distrutto la “nostra città” di cui si parla nella poesia non è quella contro cui si batté Liebknecht però il suo assassinio è stato un passo verso quella distruzione; ma questa non sarebbe ancora una poesia, la si avverte, anzi essa diventa una poesia, se si capisce che il rapporto di causa e di effetto per la morte del dirigente rivoluzionario e pacifista e la distruzione di un’intera capitale crea un personaggio, non quello dell’assassinato, il personaggio di colui che parla. Quest’ultimo passa da un pensiero all’altro, “qui giace Liebkneicht che combatté contro la guerra – pausa – quando fu assassinato la nostra città c’era ancora”: c’è lo stupore e la tristezza di questa scoperta e di questa connessione tra epoche diverse. Chi parla non è l’autore Brecht, è un suo personaggio, il visitatore della tomba, il berlinese che fra sé e sé ripercorre sinteticamente un cinquantennio di storia. È questa la forza poetica dell’epigrafe. »

(Da Franco Fortini, Che cos’è la poesia?, RAI Educational 8/5/1993)

10 pensieri su “Sul Leopardi “recchiò” di Franco Buffoni

  1. Trasferisco qui il commento da Poliscritture su Facebook
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    1) A occhio e croce le tesi di Buffoni valgono quanto le numerose tesi trattate in decine di saggi e di libri sul Dante segreto: Dante omosessuale, Dante eretico cataro, Dante praticante di magia ecc. Cioè niente, perché frutto di impressioni soggettive non appoggiate su un percorso critico storico-filologico adeguato.
    Ciò non vuol dire che, in assoluto, è da escludere che Dante o altri fossero omosessuali, ma vuol dire che non ne abbiamo prove certe e, a essere rigorosi, nemmeno indiziarie, perché tutti gli indizi addotti (e fatti passare ingenuamente e acriticamente come prove) possono, soggettivamente, essere spiegati in diversi altri modi e sono, alla luce della documentazione reale, spiegati meglio in altro modo.
    Del resto non è vero che la prevalente omofobia ha posto sempre e a tutti il bavaglio. Nel corso dei secoli i testi letterari italiani ci parlano, sia pure in genere sempre con disprezzo, di omosessualità in tantissime occasioni. Lo stesso Dante ne parla a proposito del suo maestro Brunetto Latini e si potrebbe mettere insieme un’ampia antologia con i testi “classici” in cui l’omosessualità è emersa.
    Ma il percorso di ricostruzione e comprensione critica delle biografie e dei testi non può basarsi su impressioni soggettive, spesse volte da parte di “militanti” che hanno fatto, dell’omosessualità o dell’ereticità o dell’esotericità una ideologia, e della critica storica e letteraria un’arma ideologica.
    Dunque, da parte di chi vuole sostenere l’omosessualità di Leopardi (platonica, attiva o passiva?) mi aspetto un percorso critico più serio e solido dei giochetti sull’anagramma fra “Silvia” e “salivi”, che è ragione ridicola, come le altre due elencate da Buffoni.
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    2) In quanto al rapporto fra biografia e poesia, a mio parere la biografia può illuminare la poesia, ma solo se la poesia, per propria luce, accende quella curiosità che spinge a saperne di più. Una brutta e oscura poesia non diventa bella nemmeno a chiarirne il significato e, viceversa, una bella resta bella, anzi diventa più bella, se se ne chiariscono i significati a prima lettura oscuri. La biografia non muta il giudizio estetico di fondo, ma può permettere al lettore di acquisire qualcosa in più per convalidare e migliorare quel giudizio. In sostanza, l’interesse a conoscere la biografia di un autore nasce dall’interesse già suscitato dalla lettura dell’opera, e di per sé non accresce il valore estetico, ma lo contestualizza meglio. Questo può portare delle variazione in fatto di giudizio estetico perché questo tipo di giudizio non è mai esente da componenti soggettive personali; ma le variazioni saranno tanto minori quanto più il giudizio estetico è basato su una buona preparazione critica e una buona sensibilità culturale.
    Se anche si arrivasse a dimostrare in modo certo che Dante o Leopardi o chiunque altro sia stato un omosessuale, per i lettori esperti non cambia nulla, sul piano estetico. È per i lettori ideologizzanti che può cambiare, poco o molto, il proprio atteggiamento.
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    3) Il percorso biografico ha un interesse storico e culturale in senso ampio e molto meno in senso estetico. Può servire a migliorare, nel senso di precisare, anche il giudizio estetico quando lo arricchisce di elementi capaci di aumentarne il coinvolgimento emotivo, sia nel senso della reazione emotiva legata all’interesse culturale, cioè ai contenuti (che è interesse diverso da quello della curiosità erudita), sia in quello della reazione emotiva per la bellezza della forma poetica.
    Ma la ricostruzione biografica ha questa efficacia solo se stabilisce rapporti certi e ravvicinati fra la biografia e l’opera e non si ferma alla narrazione esteriore della vita dell’autore, che può avere interesse di per sé, ma è altra cosa dall’interesse del lettore dell’opera. Il rapporto certo si ha quando dalla biografia emerge il percorso personale, culturale e mentale seguito dall’autore per scrivere quell’opera, quella poesia o quel singolo verso. Questo permette al lettore di leggere l’opera o la poesia anche nel modo stesso in cui l’autore è giunto a pensarla e a scriverla. Questa ricostruzione di nessi fra biografia e opera non può pertanto basarsi su impressioni soggettive ma deve fondarsi su documenti storici e filologici che portino a quella, e solo a quella, spiegazione. Solo in questo caso, quando la spiegazione documentata diventa accettabile da tutti, si può parlare di prova, e non di semplice e opinabilissima ipotesi personale.
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    4) Faccio un esempio. Dante, nel canto 33 del Purgatorio, verso 43, scrive: «nel quale un cinquecento diece e cinque». Verso carico di mistero e di simbologia che ha dato origine alle più svariate interpretazioni che, raccolte, formerebbero una biblioteca intera. E per un solo verso! Le diverse interpretazioni variano fra quelle del tutto campate in aria e quelle che permettono di guadagnare qualcosa in termini di effettiva comprensione. Le prime si basano su ipotesi personali, più o meno cervellotiche, le seconde sulla ricostruzione della cultura di Dante, dei libri che ha effettivamente letto, dei testi che gli sono serviti come fonte di ispirazione e come modelli anche per aspetti linguistici e filosofici. In questo modo si è arrivati a dare un senso compiuto al verso e, a mio parere, in maniera difficile da controbattere. Significato compiuto non in senso generico, perché a questo ci erano arrivati anche i primi commentatori, ma nello spiegare parola per parola e nel dire perché “cinquecento”, perché “diece”, perché “cinque”, rintracciando il significato di questi simboli numerologici in testi precedenti e coevi a Dante e in contesti analoghi a quello dantesco. Ci è arrivato in modo più completo ed esauriente Domenico Guerri in un lungo saggio del 1907. Tuttavia questa dotta ed eruditissima spiegazione, come tutte le altre, non cambia il senso complessivo del passo dantesco e il giudizio estetico, tanto è vero che ancora oggi i commentatori, soprattutto nei testi scolastici, commentano il verso in modo generico o addirittura in modo sbagliato, traducendo i tre numeri nel sostantivo “DVX”, perché comunque di un “Duce” si parla. In effetti il lungo saggio di Domenico Guerri è affascinante di per sé come esempio di serrata ed eruditissima ricostruzione del percorso culturale di Dante fino al dettaglio, ma per il lettore della “Commedia”, non interessato ai dettagli eruditi, è del tutto inutile perché non cambia la sua reazione emotiva né il gusto della lettura e il piacere che ne può trarre. È invece interessante per chi vuole leggere Dante anche dal punto di vista di Dante stesso, sforzandosi di pensare come pensava Dante nello scrivere i suoi versi.
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    5) Il problema che si è posto Fortini in questo commento a una poesia di Brecht è analogo a quello che ai suoi tempi si era posto Ugo Foscolo nel tradurre il “catalogo delle navi”, passo del canto II dell’Iliade. È un passo che suona noioso, quasi solo elenco di nomi, ma, dice Foscolo, ognuno di quei nomi per il lettore dei tempi di Omero evoca paesi, genti, personaggi, con tutto il carico di emozioni legato a questa evocazione. Anche oggi il lettore, per apprezzare quel brano, deve cercare di immedesimarsi con i greci dei tempi omerici, perché solo in questo modo quei versi gli parleranno e gli riveleranno tutto ciò che contengono.
    Anche in questo caso «il baricentro, il peso di questi versi non è interno ai versi stessi, è esterno: consiste nel sapere dei destinatari, dei lettori». Come dice Fortini. Non lo metto in dubbio. Metto invece in dubbio che la poesia che trova il suo baricentro all’esterno sia davvero poesia e non semplice narrazione ed evocazione che non emoziona per la sua forma e il suo contenuto ma per il contenuto che ha il lettore nella sua testa. La narrazione (che sia in versi o in prosa è uguale), ha in questo caso un effetto retorico che sollecita una risposta adeguata non da parte di tutti ma solo da parte di chi condivide gli stessi contenuti che assumono per forza un carattere “identitario” (di cultura, di ideologia, di affinità etnica ecc.). La poesia sta nel particolare punto di vista psicologico e nelle emozioni che lo accompagnano, non nella forma scritta. Ma il rapporto fra poesia come particolare forma scritta e poesia come sentimento del poetico, come sentimento nutrito da particolari emozioni, è tema pieno di equivoci perché, come fa anche Fortini, è investito dei molteplici significati del termine “poesia”. Mi fermo pertanto col dire che la vera, o comunque migliore, poesia è quella il cui baricentro è interno ai versi stessi, per dirla con le parole di Fortini.
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    6) La poesia con il baricentro esterno ha bisogno di spiegazione, di cultura appropriata, perché la sua capacità di emozionare sta negli effetti oratori e retorici che trovano nella forma scritta lo stimolo di partenza, ma che si concretizzano e completano nella psicologia del lettore. La poesia con il baricentro all’interno può invece essere autonoma e letta e apprezzata senza bisogno di particolari spiegazioni. E la poesia autonoma per eccellenza è la lirica. L’«Infinito» di Leopardi, qualunque cosa si dica dell’autore, qualunque cosa ne sappia il lettore, non muterà in diminuzione o in accrescimento la sua potenza espressiva e poetica, casomai potrà solo meglio spiegare perché ci fa l’effetto che ci fa.

  2. ANCORA DA POLISCRITTURE FB

    Ennio Abate

    “E la poesia autonoma per eccellenza è la lirica.”

    Ma è proprio questa “unicità” (crociana!) che Fortini (e non solo lui( metteva in discussione. Ricordi il dibattito proprio sulla Commedia di Dante? Per Croce certi canti non erano poesia perché carichi di riferimenti “esterni”. Tu – mi pare – riecheggi: “Mi fermo pertanto col dire che la vera, o comunque migliore, poesia è quella il cui baricentro è interno ai versi stessi,”.
    Io sarei più elastico e plurale. La raccolta di Pavese, “Lavorare stanca”, mi è sempre piaciuta.

    Luciano Aguzzi

    Croce esagerava nell’isolare i brani lirici dal resto e scartava anche grandi brani lirici solo perché secondo lui non lo erano. Nella «Commedia» la lirica si insinua anche nella teologia e non c’è un solo passo che ne sia del tutto privo.
    «Lavorare stanca» di Pavese è essenzialmente poesia lirica, sebbene assuma una forma più narrativa e prosaica rispetto alla lirica “classica”. Ma i temi, i contenuti, la tensione emotiva sono propri della lirica, almeno nella maggior parte dei componimenti.
    Elastici sì, pertanto, ma nell’allargare il cerchio della lirica.
    Addirittura, mi sento di affermare che nelle novelle e nei romanzi in versi ciò che lega le parti più decisamente narrative e non liriche sono proprio le parti liriche che permeano di liricità anche la narrazione. Quando manca questa pregnanza lirica la narrazione diventa solo bella o brutta in relazione alla sua efficacia descrittiva e, se bella, è apprezzabile come poesia narrativa, ma difficilmente coinvolge il lettore come le parti liriche vere e proprie.
    Discorso diverso è quando la narrazione, per i suoi caratteri formali, il lessico, le metafore, le immagini ecc. si fa essa stessa lirica, cioè si fa canto che esprime ciò che il poeta ha in sé e solo secondariamente descrive il paesaggio o gli eventi del racconto. In sostanza il poeta lirico parla di sé, ma lo può fare in tanti modi, anche riflettendosi nelle descrizioni e nelle narrazioni.
    A ogni modo anche il romanzo in versi, come, secondo Elsa Morante, erano l’Iliade, l’Odissea, l’Orlando Furioso e tanti altri poemi epici e cavallereschi, riescono di lettura più gradevole quando sono “autonomi” e non richiedono troppe spiegazioni esterne per essere letti e capiti.
    L’unica “spiegazione” esterna che serve è quella che colma la distanza linguistica fra il lettore e il testo scritto in altra lingua o in forme antiquate. Ma se il lettore è culturalmente alla “pari” del testo non dovrebbero essere necessarie altre spiegazioni. Se invece ce n’è bisogno, vuol dire che il testo contiene degli enigmi che ne limitano la possibilità di lettura, o che addirittura indicano che è volutamente diretto ad altri lettori. Ne sono un esempio molte poesie di Giordano Bruno dirette a lettori iniziati a quei segreti di alchimia e di magia di cui parlano in modo criptico. Per me, anche dopo averle decifrate con l’aiuto dei commenti, quelle poesie restano un brutto verseggiare estraneo alla vera poesia. Più simili ai versi che si trovano nelle riviste di enigmistica.

  3. Mi trovano d’accordo le considerazioni di Luciano Aguzzi, frutto di conoscenza della materia e di equilibrata e approfondita riflessione. Il tema, invece, dell’omosessualità di autori in rapporto all’opera, quando fortemente cercato, lo ritengo un fenomeno di sottocultura, che però comporta una riduzione e uno sciacallaggio nei confronti dei valori dell’opera. Sono un lettore di Proust, scrittore notoriamente omosessuale, che ritengo una delle massime espressioni narrative del ‘900; non è possibile trovare riscontri che il suo orientamento sessuale incida sul valore letterario dell’opera, sui contenuti sì; così come, al contrario, per Flaubert. Un’autentica opera d’arte non viene condizionata dagli orientamenti sessuali, perché li comprende entrambi un una autentica sintesi.

  4. …secondo me, Giacomo Leopardi aveva una sua sofferenza affettiva e, probabilmente, sessuale, come trapela ampiamente dai suoi versi lirici..ma il suo amore per la verità, gli altri, la natura…lanciano, attraverso le sue opere, un’eco che di rimando illumina di significati l’esistenza umana, oltre la sofferenza…In quanto all’orientamento sessuale per me ha, in un volto, la stessa rilevanza del colore degli occhi, ma penso che se fosse stato omosessuale l’avrebbe manifestato nonostante vivesse nel cattolico Stato Ponticio, come esplico’ apertamente la sua visione laica del mondo

  5. Annamaria scrive: «secondo me, Giacomo Leopardi aveva una sua sofferenza affettiva e, probabilmente, sessuale, come trapela ampiamente dai suoi versi lirici». Da tutta l’opera, e in particolare dall’epistolario, emerge forte, non si limita a trapelare, la «sofferenza affettiva» e quella «sessuale». Non solo di Giacomo, ma anche della sorella Paolina. La storia dei ventilati ma sempre falliti tentativi di matrimonio è già di per sé una storia tragica, sia a livello individuale (Paolina ci teneva molto a sposarsi, anche con un uomo di rango sociale inferiore, ma la famiglia non arrivò mai a soddisfare le proprie [della famiglia] pretese e concludere le trattative). Anche per Giacomo, falliti tutti gli sforzi per farne un sacerdote o almeno un diacono vestito con tonaca nera e destinato a una brillante carriera nell’ambito degli uffici romani (biblioteca Vaticana o curia o insegnamento o altro), si prospettò l’evenienza di un matrimonio ma il contino, sia per i suoi gusti estetici in fatto di donne sia per il rango sociale a cui non poteva rinunciare senza rompere con la famiglia, non incontrò la donna adatta e non si sposò.
    La situazione sociale di per sé rese problematiche e impossibili le soluzioni che oggi sarebbero invece del tutto aperte. La gestione delle relazione affettive e sessuali nella prima metà dell’Ottocento erano completamente diverse da quelle odierne e se non se ne tiene conto con cognizione di causa si rischia di prender fischi per fiaschi.
    Quindi, ciò che dice Annamaria è giustissimo ed evidente, ma il problema storico relativo al Leopardi è poi vedere in concreto il peso e i modi della sofferenza affettiva e sessuale. Studiando il peregrinare di Leopardi per l’Italia e i suoi soggiorni a Roma, Bologna, Milano, Firenze, Pisa e da ultimo a Napoli, risalta, a mio parere, un elemento: la sua ricerca di indipendenza economica (e quindi di lavoro letterario retribuito o di un impiego o di una cattedra) passa sempre in secondo piano, e spesso è un puro perdere tempo per ingannare il padre mentre Giacomo non aveva effettiva intenzione di impegnarsi in un lavoro che non fosse di suo pieno gusto. La ragione principale dei suoi spostamenti e del suo essere o no soddisfatto dei luoghi in cui vive è quella affettiva: si trova bene dove trova amici (non intellettuali o eruditi con i quali parlare di letteratura ecc., ma proprio amici, e amiche, con i quali avere una soddisfacente relazione affettiva). C’è una continua ricerca di affetti, mai pienamente soddisfatta. Mai, soprattutto, dal lato femminile, e poco anche da quello di amicizie maschili. Ma del resto, obbiettivamente, come ci si poteva attendere, oltre la stima e anche l’ammirazione per il suo ingegno e per la sua opera, del vero affetto e della profonda amicizia dai tanti personaggi che frequentava? La vera amicizia non era e non è mai stata una cosa molto diffusa. Lo stesso si potrebbe dire per altri, ad esempio Manzoni: al di fuori della famiglia e di pochissimi altri non si può dire che Manzoni avesse tanti veri amici, amici carichi di affetto per lui. Ma mentre a Manzoni potevano bastare, per questo lato, le relazioni familiari e quelle di stima e ammirazione, a Leopardi, dotato di sensibilità e psicologia molto diverse e mancando di una propria famiglia coniugale, le normali relazioni sociali non gli bastavano.
    Ma da ciò, e da una certa esuberanza nello stile epistolare nell’usare termini, fra i quali “amore”, a passare all’affermazione che fosse omosessuale ce ne corre di strada, e di documentazione necessaria per affermarlo.
    Del resto anche diversi omosessuali, in quella società di prima metà dell’Ottocento, censuravano rigidamente se stessi, erano spesso sposati e con figli e vivevano l’omosessualità con un senso di colpa e quasi sempre solo a livello platonico, perché passare ai fatti poteva significare la rovina propria, della famiglia e della reputazione della casata.
    In sostanza, in mancanza di documenti espliciti, come testi letterari scoperti e pubblicati a decine d’anni di distanza dalla morte dell’autore (è il caso di Luigi Settembrini, ad esempio) o di testimonianze dirette che emergono da scritture come diari e memorie, anche questi pubblicati a distanza di decenni o di secoli dalla morte dei protagonisti, come accertare comportamenti segretissimi, autocensurati, spesso limitati solo a fantasie platoniche? Gli unici casi in cui l’omosessualità emerge scopertamente, spesso ancora viventi i personaggi interessati, riguardano persone di forte potere che potevano trascurare i pettegolezzi a loro carico, e perlopiù questi sono cardinali o grossi esponenti del potere militare, politico ed economico. Ma i molti pettegolezzi, comunque, raramente diventano prove e giravano a livello popolare e orale più che in giornali e libri e nascono, in qualche modo, come espressione di opposizione politica, a livello di disprezzo e di accusa. Ad esempio Benedetto Varchi nella sua storia di Firenze parla malissimo di Pier Luigi Farnese, figlio del papa Paolo III, criminale che grazie al padre godeva di immunità e che venne accusato di diversi casi di stupro sia di donne sia di uomini e quindi di sodomia. Scritta nel Cinquecento e coeva ai fatti, la storia del Varchi venne però pubblicata solo nel 1721, e già nel momento in cui la scriveva e alcune pagine cominciavano a circolare in forma clandestina, si inseriva negli scontri politici del tempo dove anche le denunce di omosessualità e di violenza sodomita avevano una funzione politica.
    Questo settore di storia sociale, cioè di storia delle relazioni affettive e sessuali, è appena agli inizi e la storiografia in proposito è ancora scarsa. Il libro di Buffoni, se basato su un corretto uso del materiale documentario potrebbe essere interessante, se invece si lascia prendere la mano da istanze ideologiche – come mi pare dalle anticipazioni su Leopardi – sarà un altro dei tanti libri che strumentalizzano la storiografia per fare della propaganda a favore di una tesi o posizione o condizione ideologizzata.

  6. “Da tutta l’opera, e in particolare dall’epistolario, emerge forte, non si limita a trapelare, la «sofferenza affettiva» e quella «sessuale». Non solo di Giacomo, ma anche della sorella Paolina. La storia dei ventilati ma sempre falliti tentativi di matrimonio è già di per sé una storia tragica, sia a livello individuale (Paolina ci teneva molto a sposarsi, anche con un uomo di rango sociale inferiore, ma la famiglia non arrivò mai a soddisfare le proprie [della famiglia] pretese e concludere le trattative).” ( Aguzzi)

    A conferma di quanto scrive Luciano su Paolina, la sorella (in ombra) di Giacomo Leopardi e per dare forza al suo saggio avvertimento (“La gestione delle relazione affettive e sessuali nella prima metà dell’Ottocento erano completamente diverse da quelle odierne e se non se ne tiene conto con cognizione di causa si rischia di prender fischi per fiaschi”), sono andato a rileggermi un saggio di Fortini, “La sorella Paolina” (in “Saggi italiani 2”, pagg. 86-94, Garzanti, Milano 1987) e stralcio due brani:

    1.
    Nei versi puerili di Giacomo la bambina sorella è chiamata due volte col biblico epiteto di “forte”; che, appena sorridendo, vuole alludere alle capacità intellettuali. Queste dovettero essere notevoli, educate dai buoni studi d’infanzia, da quelli delle lingue (Paolina tradusse dal francese una “Vita di Mozart” oltre a non pochi articoli per una pubblicazione paterna) e dalla conoscenza della musica. Eavere scritto sotto dettatura del fratello e copiate tante sue lettere e carte giovò certo alla sua scrittura che è quasi senza affettazione e precisa e vivace. Unita a una salute a tutta prova – a quanto essa afferma più di una volta – in un corpo che però soffriva d’una deformità simile a quella del fratello, tale sua intelligenza naturale fa pensare ad una personalità penetrante e generosa, che abbia a lungo mantenuta una condizione di adolescenza prima di volgere rapidamente ad una vecchiaia estrosa. Di qui, probabilmente, il rifiuto – come il fratello, anche in questo – della vita monastica: per lei, sola vera meta è andarsene da casa, sfuggire alla madre e all’aura di morte che l’accompagna. quasi identiche le locuzioni che fratello e sorella impiegano per parlare di quella loro galera: “certo io scoppierò”, “la mia vita è spaventevole”, io già sento d’essere morto”, “quest’anima assiderata”, scrive Giacomo nel 1819; e, nel 1826, Paolina: “mi prende una voglia terribile di fare qualche pazzia”, “sistema di famiglia veramente spaventevole”, “sono rimasta fredda, insensata”, “la stagione invernale mi agghiaccia quel poco di vita e di anima che mi rimane”.

    2.
    Qui basti aver ricordato al lettore che la condizione di Paolina non è esemplare delle donne del suo tempo perché fu per molti versi peggiore, nello stato di estrema severità di vita e quasi di clausura in cui la segregò il sistema familiare, mentre fu invece privilegiata per la cultura del padre e per la fama del fratello, almeno lungo tutta la seconda metà della vita. “Non essere poi la più grande disgrazia il viver sole quando non sia stato possibile il ritrovare uno secondo il cuore nostro. Sì, di questo mio stato, me ne dolgo sempre di meno, e con un po’ più di libertà sarei veramente felice”. Queste parole del maggio 1845 hanno una doppia lettura: sono atroci e consolanti. Solo le parole di una serva che benedice le proprie catene ma sono anche quelle di chi, come il Filippo Ottonieri immaginato da Giacomo, si appresta a morire “senza fama/ non ignaro della natura/ né della fortuna/ sua”.

  7. …ringrazio molto Luciano e Ennnio per le informazioni, tratte da documenti scritti e altre testimonianze, e per le giuste considerazioni sulla realtà sociale e, soprattutto, familiare che condiziono’ pesantemente la vita affettiva e sessuale dei fratelli Giacomo e Paolina Leopardi…Forse trovarono una consolazione nella comprensione reciproca, perchè a volte è difficile anche spiegare ad altri, che non l’abbiano vissuta, una certa esperienza…Penso che a quell’epoca, come bene dice Luciano, alcuni vincoli sociali e condizionamenti familiari fossero invalicabili, in particolare per le donne solitamente senza una propria indipendenza economica…Tuttavia credo che Paolina, stando all’affermazione che le viene attribuita, abbia maturato una sua posizione interiore, accettando da una parte una sorte che non poteva umanamente ribaltare e, nello stesso tempo, caricandola di un forte significato di dignità e di valore personale…Mi ricorda in un certo qual modo la “lettera scarlatta”, forzatamente subita, ma poi portata con un certo estro e fierezza da molte donne di tutte le epoche, non del tutto piegate dal destino…

  8. Ritorno su questo argomento, anche a distanza di giorni dal suo seppellimento, e pur essendomi già adeguatamente espresso sul disvalore di questo pseudo saggio, per evidenziare, ammesso che ce ne fosse bisogno, che già il suo titolo è vomitevole e che l’epiteto riferito a Giacomo Leopardi, che vorrebbe essere provocatorio, in realtà suona solo come un insulto nei confronti della dignità delle persone omosessuali.

  9. E’ bene che io precisi due cose: – Il titolo dell’articolo di Franco Buffoni è “Silvia è un anagramma”, dunque molto accademico e letterario; – Il titolo che ho dato al mio articolo, ” Sul Leopardi “recchiò” di Franco Buffoni”, riprende – in termini per me di provocazione e non certo di approvazione ( come si può vedere dal tono e dagli argomenti che ho usato)- questo termine dispregiativo, contenuto però nell’articolo di Buffoni ( in questo passo: “La terza perché, nell’esclusione della giovane dalle gioie della vita, Leopardi vede riflessa la propria esclusione, ma non per il suo aspetto fisico – come il neutro accademico eterosessuale italiano ha sempre voluto credere e far credere – bensì per la sua natura di “recchió” in un contesto altamente omofobico.”).

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