Nei dintorni di F.F. – Frammento 3

Per un libro da scrivere

Andiamo a un anno prima. Fine 1967. Sempre alla Statale di Milano, nel bar del sottoscala «Veglia per il Vietnam». Una piccola folla di studenti e studentesse aspettava il ritorno della delegazione che era andata a trattare col rettore. I manifestanti avevano deciso di restare in università fino a mezzanotte od oltre. Scintille minime di ribellione. Tutto qua, sì. Le folle, le botte, i morti, gli sconquassi della società nei due anni successivi. Lui era lì. Bevendo un caffè, aveva parlottato con uno studente di filosofia, un piacentino. Poi nella sua memoria un volto senza nome, pallido, squadrato, occhiali con la montatura nera e spessa. Come quelli – di moda allora? – che vedrà nella foto sulla copertina di «Una volta per sempre» di F. F. Il piacentino assieme ad altri libri aveva sottobraccio Verifica dei poteri. Di quel tale, sì. Di F. F. Gli mostrò la copertina. Edizione «Il Saggiatore». Gli consigliò di leggerlo. Quando ne acquistò una copia? Passarono almeno tre anni prima che potesse leggerlo. Convulsamente. Erano e sarebbero state sempre così le letture. Leggeva e sottolineava brani.  Di  giornali,  di volantini, di opuscoli politici, di riviste.  Giovane critica, Classe e stato, Che fare,  Classe, Lavoro politico, Nuovo impegno, Montly Review. Quelli che lo colpivano per un legame con suoi pensieri. Quelli che potevano forse accendere  la fantasia dei compagni durante una riunione, una conversazione. O da copiare in un volantino. Incamerava, ingurgitava. Fin troppo. Con affanno. Di soppiatto. Anche nelle pause dei turni di notte all’Ufficio Telegrammi. Letture senza godimento. Non sarebbe mai più stato un lettore felice. Lo era stato un poco da ragazzo e da giovane a SA. Forse.

Saltiamo dalla sera invernale del 1967 al 1977. In quell’anno di F.F. lesse Questioni di frontiera appena uscito. Insegnava ora ma sempre in periferia. ITIS di Sesto San Giovanni. Da lì si scorgevano ancora gli ultimi fuochi della ribellione in via di spegnimento. (Ne parlerà in «Prof Samizdat», se ci riuscirà). Gli ultimi per lui e i suoi compagni. Inatteso un cane proprio un cane/ sbandando percorso/ emerge nella nebbia/ fioco animale di smarrite generazioni/ rassegnato agli asfalti. Nel 1977 e non all’improvviso. Dopo anni che di F.F. aveva leggiucchiato gli articoli su «il manifesto», la poesia al padre sulla «Guida al Novecento» di Guglielmino, Principato, Milano 1971. E, all’inizio della sua carriera di prof – media sperimentale di Senago – l’antologia firmata da F. F. e Augusto Vegezzi, «Gli argomenti umani», Morano, Napoli 1969.

Proprio nel 1977, leggendo  quel libro dello scrittore in varie foto meditabondo, si chiarirono e ricomposero  vari messaggi in bottiglia.  Li aveva raccolti da «Militanti politici di base» di Montaldi, dalla prefazione di Vittorio Strada al «Che fare?» di Lenin   – afferrato allora qualcosa dello scontro Lenin-Martov? -, nell’urto stridente sui «Quaderni  piacentini» tra «Il desiderio dissidente» di Fachinelli e «Il dissenso e l’autorità» di F.F. E si chiarirono – ma non ricomposero allora. Eh, ce ne vuole! – gli appunti smozzicati che aveva preso nei dieci anni di militanza fino alla scissione del 1976 dell’organizzazione comunista Avanguardia Operaia.

9 pensieri su “Nei dintorni di F.F. – Frammento 3

  1. Di quella veglia, che si protarrà fino al mattino successivo, chi scrive era stato il proponente. La mozione, votata da quasi un migliaio di studenti plaudenti-la prima occupazione della Statale, anche se quasi simbolica- vedrà prima della notte sfilarsi quasi tutti: restano dentro una trentina di giovani. La mattina dopo sfiliamo insonnoliti ma fieri di fronte alla polizia che aspetta. Fortini non c’era. Come si sfilerà più avanti dalle molte sollecitazioni dei compagni che, prima militanti di Quaderni Rossi e poi del movimento, gli chiedevano partecipazione. E ancora oggi non saprei perchè.
    Per saltare là dove arriva il brano, ero anche al convegno congiunto fra Avanguardia Operaia e la mia organizzazione che doveva sancirne l’unificazione. E dove il mio intervento concludeva ” non vogliamo fare le pulci cocchiere del PCI”, seppellendo così un tentativo che probabilmente meritava di meglio. Ma qui usciamo dai ricordi ed entriamo nell’analisi storica.

    1. Sì, ricordavo vagamente che c’eri tu nella delegazione. Ma allora ancora non ti conoscevo. Sai i nomi di altri partecipanti? ( Magari sui ricordi possiamo scriverci in privato, se lo ritieni opportuno).

      1. Mi sembra interessante allargare il discorso su un piano più ampio, poi si vedrà…
        Pochi nomi, fra cui Cafiero, che da allora in poi ho rispettato per la coerenza. E’ una delle cose che allora mi colpì: la mozione di occupazione che avevo presentato aveva raccolto la grande maggioranza di quasi mille persone. Ma la paura dell’intervento della polizia e il richiamo dei deschi familiari aveva ridotto i partecipanti effettivi a poco più di trenta.
        Ma val la pena di sottolineare due cose: la prima che quella fu la prima occupazione di Università in Italia, e per di più su un tema politico come il Vietnam.
        La seconda e più importante fu che era il frutto di un percorso cominciato pochi anni prima al congresso di Rimini dell’UGI (l’Unione Goliardica Italiana che raccoglieva gli studenti di sinistra nei parlamentini locali e nazionali). In quel congresso, grazie ad un accorto gioco di mancati accreditamenti e compra dei soliti voti in vendita (fascisti in genere), la destra interna (socialisti e ortodossi della FGCI…come cambia il significato dei termini..) prese la maggioranza. Come risposta la sinistra (PSIUP e sinistra della FGCI) fondarono la corrente ‘Attila’, che uscì dalla logica parlamentarista classica di allora per buttarsi nel lavoro di massa: che in pratica voleva dire lavorare direttamente nelle facoltà.
        Alla Statale di Milano dove avevamo la maggioranza (e io ero presidente dell’UGI) riuscimmo, d’accordo coi cattolici dell’Intesa, a cambiare lo statuto della rappresentanza universitaria , fondandola sulle assemblee di facoltà come organo deliberativo e di voto. E’ da queste assemblee che nacque non solo una nuova rappresentanza ma soprattutto un’abitudine alla discussione collettiva come embrione di democrazia diretta, dando voce e strumenti a tutte le tensioni che percorrevano i giovani, che un anno dopo, nelle tesi della Sapienza, sarebbero stati definiti ‘forza-lavoro in formazione’.
        E non credo fosse semplice militanza politica che fece sì che molti dei protagonisti di allora si ritrovassero l’anno successivo davanti ai cancelli delle fabbriche, ripercorrendo nel concreto i temi già agitati nei Quaderni Rossi.

  2. @ Paolo Di Marco
    “E non credo fosse semplice militanza politica”. Nemmeno io lo credo, perché la militanza politica( di tipo nuovo, allora) veniva a conseguenza d’un progetto politico condiviso.
    “… il mio intervento concludeva ” non vogliamo fare le pulci cocchiere del PCI”, seppellendo così un tentativo che probabilmente meritava di meglio”. Questa considerazione non l’ho capita.

    1. Entravamo senza accorgercene nella stagione della dissoluzione del movimento, e nel mio intervento vedevo la pagliuzza nell’occhio altrui e non la trave nel mio: poco dopo metà dei miei, quasi un migliaio, entrarono nel PCI.
      Quando parlo di ‘non semplice militanza’ accenno a quello che era stato tema centrale dei Quaderni Rossi, questo proletariato allargato che si andava creando con l’allargamento del piano capitalistico al di fuori della fabbrica. E la soggettività che ne conseguiva. In questo senso i giovani del sud che erano avanguardie di lotta nelle fabbriche erano omologhi dei giovani dell’Università di massa che lottavano nella scuola ma ne uscivano anche per andare ad incontrarli. Non come profeti ma come compagni di lotta.

  3. “Letture senza godimento. Non sarebbe mai più stato un lettore felice. ”
    Questo lo capisco molto. Per me la felicità della lettura è andata un po’ oltre l’adolescenza. Poi pian piano è sparita. Credo che succeda quando della lettura ci si fa un dovere – e sia pure un dovere morale, e sia pure una necessità.

    1. Io lo scrivo in modo polemico.
      Avevo dedicato alcuni versi acidi a un amico teorizzatore del “piacere della lettura”:

      IL LETTORE FELICE
      è un personaggio altrettanto noto
      e più stimato
      e non solo a Cologno Monzese.
      Vive dentro la città, ma nel testo, una nicchia
      ora quieta ora malinconica,
      non senza asperità e lacerazioni
      o crepe.
      Vi può accogliere – dice –
      solo i simili.
      Agli altri, a lungo o per la vita intera
      non lettori,
      masse di naufraghi alle prese con la tempesta
      che squassa il mondo,
      e imploranti non parole ma salvagenti,
      per timore di strumentalizzarli,
      offre del piacer solo l’ esempio.

      (22 nov 1997)

      P.s.
      In questi giorni l’amico (FB) Adriano Barra ha pubblicato su questo argomento le parole di un esperto:

      Adriano Barra

      LA QUESTIONE DEL DIARIO / 564

      “ 7 luglio 1994 – « 13 settembre 1936 – Tra i segni che mi avvertono esser finita la giovinezza, massimo è l’accorgermi che la letteratura non mi interessa più veramente. Voglio dire che non apro più libri con quella viva e ansiosa speranza di cose spirituali che, malgrado tutto, un tempo sentivo. Leggo e vorrei leggere sempre più, ma non vivo ormai come un tempo le varie esperienze con entusiasmo, non le fondo più in un sereno tumulto pre-poetico. La stessa cosa mi accade passeggiando per Torino; non sento più la città come un pungolo sentimentale e simbolico alla creazione. Già fatto, mi viene da rispondere ogni volta. » (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950) “.

      1. Feroce e azzeccata la poesia, con l’iperbato dell’ultimo verso su misura per l’estetico lettore.
        Sul testo di Pavese (che mi appunterò da qualche parte): fino a “è l’accorgermi”, stilisticamente, sembra di leggere Leopardi. E questo nel 1936. Dice qualcosa sulla prosa italiana.
        Il punto è l’esperienza (d’autore) di cui parlavamo. Ampliata al paesaggio, qui urbano. Questa cosa mi interessa molto, perché quando leggevo Pavese (da adolescente appunto), credo che la cosa che mi legava di più a lui fosse proprio il paesaggio, la rappresentazione e l’importanza del paesaggio.
        Si parva licet, fino a tempi recenti anche per me il paesaggio è stato fondamentale. La sua eclissi ha significato anche per me la fine della giovinezza – ma nel senso più duro del passaggio alla vecchiaia (temo di non aver avuto stadi intermedi).

  4. @ Paolo Di Marco,
    grazie della risposta. Ho capito meglio.
    “… ero anche al convegno congiunto fra Avanguardia Operaia e la mia organizzazione che doveva sancirne l’unificazione”. Se posso: qual era l’organizzazione ? Te lo chiedo perché all’epoca militavo nella Lega dei Comunisti, che confluì nel ’77 (mi sembra) in AO per dar vita poi a Democrazia Proletaria.

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