9 pensieri su “Dantedì?

  1. *
    Saltate il DanteDì, poi riprendete
    a legger Dante in tutti i suoi volumi
    approfittando che le opere complete
    *
    in critica edizione e con acuti
    nuovi commenti e messa a punto
    dei versi più discussi e sconosciuti,
    *
    sono già uscite e a quelle si è aggiunto
    una caterva di saggi nuovi e vite
    che han rinnovato il dantesco assunto.
    *
    Faccio un esempio solo: il Monte Viso,
    da cui nascon del Po le grandi acque,
    diventa Monte Veso ed ha il sorriso
    *
    d’Acquacheta che da quel monte nacque
    e scendendo di là per l’Appennino
    tosco-emiliano, nel Monton si tacque,
    *
    e mescola correnti in piccolino
    fiume che corre e sfocia poi a Forlì.
    Le parole e i commenti hanno un destino
    *
    torbido a volte e occorron molti dì
    perché dica un filologo, un Malato,
    o altro bravo dantista: «Qui è così».
    *
    E rilegge da capo l’operato
    di secoli di storia e di edizioni,
    perché tutto sia ancor perfezionato.
    *
    Leggete Dante e nella sua missione
    nuove cose pur sempre troverete,
    ma dei dantisti anche la lezione
    *
    va studiata e in essa voi vedrete
    che chi scrive e chi legge fanno un gruppo
    che separare mai voi non potrete.
    *
    La tradizione sta in questo inviluppo.
    *
    Nota: Il passo della “Commedia – Inferno XVI, vv. 95- 99 è quello dove la tradizionale lettura “Monte Viso” (Alpi) è diventata, nelle nuove edizioni critiche, “Monte Veso” (Appennino), il che sposta il significato, almeno geografico, del passo dantesco, che da:
    94 Come quel fiume c’ha proprio cammino
    95 prima dal Monte Viso ‘nver’ levante,
    96 da la sinistra costa d’Apennino,
    97 che si chiama Acquacheta suso, avante
    98 che si divalli giù nel basso letto,
    99 e a Forlì di quel nome è vacante,
    ecc., diventa:
    94 Come quel fiume c’ha proprio cammino
    95 prima dal Monte Veso ‘nver’ levante,
    96 da la sinistra costa d’Apennino,
    97 che si chiama Acquacheta suso, avante
    98 che si divalli giù nel basso letto,
    99 e a Forlì di quel nome è vacante,
    ecc.
    Infatti, che c’entrava il Monviso con l’Appennino, col fiume Acquacheta affluente del Montone che sfocia a Forlì, in Romagna? Sembra una variante di poco conto, ma, se accettata dalla comunità dei lettori di Dante, pone fine a oltre quattro secoli di discussioni su quel problematico riferimento al Monviso e alle Alpi e alla sorgente del Po. Leggendo Monte Veso (Appennino), tutto diventa semplice e chiaro.

  2. “oltre quattro secoli di discussioni su quel problematico riferimento al Monviso e alle Alpi e alla sorgente del Po” ( Aguzzi)

    Potessi
    allinearli dinanzi a me
    or, qui, quei dotti professori:
    bravi, bravi – direi – ma fessi.

    1. Fessi? Perché? Il lavoro filologico è da fessi? Rendere i testi antichi leggibili e il più vicino possibili alla redazione originaria degli autori è lavoro da fessi? Salvo pochissimi esperti oggi nessuno sarebbe in grado di leggere i testi antichi se venissero presentati nelle forme originarie, che significa: in grafie di difficile lettura, in abbreviazioni d’uso che oggi solo gli specialisti comprendono, senza punteggiatura che è d’introduzione post-medievale o con punteggiatura molto difforme da quella in uso oggi; con diversissimo uso delle maiuscole e minuscole, degli andare a capo, della separazione fra parole, fra l’uso non uniforme degli stessi nomi e termini, che lo stesso autore e a volte nella stessa pagina ora usa in una forma morfologica ora in un’altra perché l’attuale sensibilità per l’uniformità grafica e morfologica ha impiegato molti secoli a svilupparsi. Per non dire delle diversità sintattiche e lessicali, delle “licenze d’autore”, delle particolarità regionali e dialettali ecc. ecc. E il tutto trasmesso a noi spesso in codici non originali, ma copie di copie, con errori e varianti dovute a questa trasmissione, e che si riflettono anche nelle successive edizioni a stampa. La prima edizione della “Commedia” di Dante è del 1472. È a stampa, è in italiano, ma è illeggibile per chi non ha una certa pratica delle forme allora in uso.
      Lavorare perché ogni generazione di nuovi lettori disponga di edizione pulite, leggibili e affidabili è un lavoro da fessi? Chiarire i dati di fatto e le intenzioni dell’autore: nomi di luoghi e di persone, riferimenti di vario tipo, oscurità, metafore e figure retoriche di cui si perso il senso originario ecc. ecc., è un lavoro da fessi?
      Mi piacerebbe sapere in base a quale concetto di cultura e di storia dei testi e della lingua te ne puoi uscire con questo giudizio: “fessi”.
      Se è una battuta, non l’ho capita. Se è un giudizio critico serio, me ne preoccupo.
      Alcuni saranno anche fessi, e allora saranno cattivi filologi. Ma i migliori filologi, i migliori dantisti, a partire dal Boccaccio, sono una razza di gente che non ha nulla a che fare con la fesseria culturale. (Né con quella accademica o giornalistica).

      1. La filologia è una cosa seria e la mia era una battuta riferita esclusivamente al dato che hai riportato. Quattro secoli di studi su un aspetto oscuro sì ma irrilevante per capire la poesia di Dante a me pare spreco di tempo, attività da perditempo. E certe discussioni pignole (come ad es. quella sull’upupa de I Sepolcri) da “addetti ai lavori” compiaciuti della loro erudizione mi fanno sorridere. Quella intelligenza – ammetto che non mi appartiene (e potrebbe essere un limite) – avrebbe potuto applicarsi meglio ad altro, più urgente o importante. E’ un mio parere spassionato.

        1. Caro Ennio, tu scrivi: «aspetto oscuro sì ma irrilevante per capire la poesia di Dante». Oscuro sì, ma perché e per chi irrilevante? Se per te è irrilevante, avrai le tue ragioni collegate al tuo modo di leggere Dante (e in genere tutto ciò che leggi), cercando nella lettura ciò che interessa a te. Ma altri possono avere altre ragioni collegate ad altri modi di leggere, e se su tante questioni hanno consumato tempo ed energie personalità di grande cultura e intelligenza vuol dire che quelle questioni, per loro, non erano irrilevanti. E in effetti non sono irrilevanti, se appena ci si colloca da un diverso punto di vista. Il punto da cui sono partito è solo un esempio fra centinaia di esempi possibili (e tutti limitati al solo testo della “Commedia”), e se può essere irrilevante il suo peso nel determinare il giudizio estetico, non è sicuramente irrilevante nel determinare il rapporto fra Dante e la cultura geografica del suo tempo, il rapporto fra la “Commedia” e i tantissimi riferimenti a luoghi e personaggi, il rapporto fra le conoscenze di Dante e il modo come le utilizza nella sua opera, e così via. Il piccolo caso da cui ho tratto l’esempio nasce dal fatto che il Monviso era conosciuto da tutti, come toponimo e come realtà geografica, ed era dunque nell’immaginario di tutte le persone colte. Mentre il toponimo locale di monte Veso era sconosciuto pressoché a tutti e sconosciuto restò per secoli perché di uso molto limitato. Allora i primi interpreti ed espositori danteschi interpretarono il verso di Dante alla luce della loro cultura, forzandone il significato e riferendolo al Monviso. L’errore – se di errore si tratta, come oggi sostengono gli autori di nuove edizioni – ci dice diverse cose, fra le quali la maggiore conoscenza, precisione e realismo di Dante rispetto ai suoi lettori e interpreti. E ancora oggi Dante ci appare autore superiore alla nostra lettura, alla cui grandezza possiamo avvicinarci di lettura in lettura, rimeditandolo continuamente, pur continuando a sentirlo superiore a ciò a cui arriviamo a comprendere. Ci dice anche che Dante, probabilmente (non sicuramente, perché pochissimo conosciamo di sicuro della biografia di Dante), è stato di persona nella zona di cui parla e ha visto di persona il fiumicello Acquacheta e il fiume Montone di cui è affluente e la zona geografica tosco-romagnola di cui parla, e quindi che, anche, ha appreso sul posto il toponimo monte Veso. In questo caso, come in tanti casi anche più importanti (Paolo e Francesca, Brunetto Latini fra gli altri), Dante ci dice cose che i suoi contemporanei non conoscevano e che oggi, spesso, noi conosciamo solo attraverso ciò che ce ne dice Dante e gli studi fatti sulla base dei suoi versi. Il lavoro dei filologi e dei commentatori ha anche avuto, ed ha, il compito di colmare queste lacune che potevano essere colmate solo gradualmente, nel corso dei secoli, e con l’accumulo di conoscenze frutto del contributo di molti. Oggi noi leggiamo Dante padroni di una conoscenza più vicina a quella propria di Dante e superiore a quella dei suoi lettori contemporanei. E non mi pare poco. Lo stesso si può dire di ogni autore antico, sia un classico famoso o un oscura autore di oscure opere. La differenza fra la loro cultura e la nostra può essere colmata solo dalla filologia (insieme a tutte le discipline sussidiarie della storiografia) e solo il frutto della filologia ci rende capaci di leggere quelle opere con l’intendimento dei contemporanei. La storia non può prescindere dalla filologia, anche quando sembra perdere tempo in cose irrilevanti, come ad esempio dedicare libri interi alla ricostruzione del percorso storico-linguistico di un solo termine.
          Mi sembrerebbe molto più irrilevante scrivere migliaia di libri – come è avvenuto e avviene – per interpretare frasi di Marx e trarne decine di diverse prospettive e conclusioni, e spesso prescindendo dall’analisi filologica, dalla conoscenza del contesto e da ciò che Marx ha veramente detto e voluto dire, più interessati a ciò che l’interprete vuol dire di suo strumentalizzando Marx. Lavoro interpretativo “dialettico” lontano, e spesso contrario, a quello più “scientifico” del filologo.
          Il filologo, come lo scienziato, costruisce convergenze, sapere comune, condivisione nell’ambito della comunità dei lettori. In sostanza costruisce un tipo di “noi” che deriva dalla condivisione delle stesse conoscenze. Il lettore che si basa solo sulle proprie opinioni non esce dal proprio “io”, né esce dal proprio “io” confrontandosi con altre opinioni, finché si resta solo nel campo delle opinioni e non si entra in quello del sapere condiviso che è sempre frutto di un controllo metodologico che privilegia il “noi”.
          E il discorso potrebbe continuare, distinguendo la condivisione basata sul lavoro scientifico da quella basata solo sul sentimento e sulle mode. La prima è frutto di esercizio critico, la seconda disprezza l’esercizio critico.
          Nel campo letterario è la filologia, non la critica letteraria e non la storia della letteratura, a fornire gli elementi critici di base e di critica più radicale, nel senso etimologico di risalire alle radici; mentre la critica letteraria e la storia della letteratura, senza filologia, sono spesso solo l’esposizione dell’io di chi scrive, che scrive di se stesso (e delle proprie opinioni, del proprio mondo di vedere il mondo) prendendo come pretesto gli autori di cui parla.

  3. Irrilevante per me, rilevante per altri. Ottima sintesi. Il che non significa essere un «lettore che si basa solo sulle proprie opinioni non esce dal proprio “io”, né esce dal proprio “io” confrontandosi con altre opinioni». Al contrario. Per me venire a sapere che « Dante, probabilmente (non sicuramente, perché pochissimo conosciamo di sicuro della biografia di Dante), è stato di persona nella zona di cui parla e ha visto di persona il fiumicello Acquacheta e il fiume Montone di cui è affluente e la zona geografica tosco-romagnola di cui parla, e quindi che, anche, ha appreso sul posto il toponimo monte Veso» può sorprendermi e incuriosirmi, ma blandamente. Non cambia quasi nulla nelle reazioni che ho verso la sua opera né l’immagine di lui che nel tempo la mia mente si è costruita; né mi far venire la voglia di comunicare questo nuovo dato scoperto da uno studioso ad altri come fosse notizia importante.

    Altra cosa, invece, mi succede se incontro un autore che di Dante mi dà una lettura imprevista o che mi apre nuove prospettive sulla sua opera (e sul mondo). Penso, ad esempio, all’uso che di Dante fecero Primo Levi e Osip Mandel’štam in ambienti di sicuro meno confortevoli di quelli frequentati da tanti accademici:

    « Commuove la testimonianza dei compagni del lager, dove Mandel’stam fu internato nel 1938. In questo spicchio di arcipelago Gulag si diffuse la leggenda di un poeta che non accettava di farsi ridurre a bestia e “consolava i detenuti cantando o recitando con il melodioso timbro di voce descritto da Lidija Ginzburg le sue traduzioni di Petrarca, vicino al fuoco…”. La poesia dantesca penetrò come una lama di luce anche in un altro tristo carcere: il lager. Quello di Primo Levi; e sarà la struggente rievocazione memoriale del canto di Ulisse, narrata in Se questo è un uomo. La “scienza degli addii” è la presa di coscienza che non esiste scrittura tessuta sulla gioia, perché la gioia parla una lingua povera e manchevole. Lo sapeva Mandel’stam e lo sapeva Dante. Si inizia a scrivere imparando la lingua del dolore e della perdita; guardando le cose da lontano, trafitti da una puntura malinconica. Cercando di assottigliare il peso di orfanità che ci abita. Cavando dall’esistenza una ‘scienza’ che nel poeta è ammaestramento del cuore in lotta contro l’aridità.»
    ( da ” Conversazione su Dante” di Osip Mandel’štam, di Davide Pugnana
    http://recensione.blogspot.it/2012/03/conversazione-su-dante-di-osip.html)

    Ecco qui non solo m’incuriosisco ma m’appassiono. Non mi interessa, cioè, l’accumulo di conoscenze erudite su Dante (o su Marx, visto che l’hai tirato in ballo) spesso fine a se stesso e in buona parte inutilizzato perché in fondo circola solo tra pochi specialisti ed io non ne incontro quasi mai nelle mie giornate. M’interessa quel sapere che fa scattare qualcosa fra me lettore e l’autore studiato o interpretato (dal filologo, dal critico, dallo storico) e che posso far entrare in una comunicazione con altri – pochi o tanti che posso raggiungere – mirata a criticare e contrastare quel che ci blocca.

    1. @ Ennio
      Dici bene scrivendo: «all’uso che di Dante fecero Primo Levi e Osip Mandel’štam in ambienti di sicuro meno confortevoli di quelli frequentati da tanti accademici».
      C’è di che appassionarsi e lo fai tu e lo fanno tanti altri, e va benissimo. Ma è bene tener presenti due fatti:
      1) L’uso è un settore del vasto mondo della circolazione di un’opera, ma non aggiunge nulla a ciò che sappiamo di Dante: né alla storia del testo né alla biografia dell’autore. È un settore che non si oppone alla filologia ma che la presuppone. Infatti la lettura di chi “usa” un testo si basa su edizioni preparate dai filologi. Forse, dalla sola prospettiva dell’uso, leggere una nuova edizione o una edizione di cento anni fa potrebbe anche fare poca differenza. Dipende da che tipo di uso se ne fa e da chi lo fa.
      2) L’uso fa parte della storia della fortuna di un testo e della sua circolarità fra “autore – testo – lettori” da un lato e “autore – testo – lettori – circostanze storiche e ambiente” dall’altro. Studiare il rapporto di Primo Levi con Dante o i classici in genere può essere interessante e appassionante, ma quel rapporto ci parla di Primo Levi e della storia in cui è immerso, e della “fortuna” di Dante o dei classici, ma nulla, ripeto, del testo e della biografia dell’autore e del periodo storico in cui è vissuto e ha scritto. Due cose diverse, due cose entrambe interessanti e studiate da molti, ma non da confondere. E poiché è giusto che ognuno segua le proprie inclinazioni mi pare giusto che ci sia chi studia di più l’uno e chi di più l’altro aspetto, entrambi contribuendo a conoscere meglio la tradizione letteraria, nei suoi “monumenti”, nei suoi autori, nel suo svolgersi nella storia.
      ***
      Che poi i contributi della filologia nel mettere a punto i testi siano meno rilevanti, non per te o per altri, ma per tutti e per principio, non lo credo. Del resto la storia ci dimostra una circolarità reciproca e complementare: il maggior uso spinge a più studi filologici e a più edizioni di volta in volta più corrette e complete; più e migliori edizioni spingono a un maggiore uso. Ed è un circolo virtuoso, quando c’è della buona intesa e il concorso delle circostanze storiche.
      Uno dei momenti di più rilevante “uso” culturale e politico di Dante, anzi, della costruzione del mito dantesco, è il periodo del Risorgimento. Non per nulla in questo periodo abbiamo decine di nuovi commenti e un’immensa quantità di studi danteschi, come mai non si era avuta nei secoli precedenti. Personaggi come Ugo Foscolo e Giuseppe Mazzini, oltre a saggi importanti, scrivono dei commenti alla “Commedia”, unendo il lavoro culturale-politico a quello filologico; Cesare Balbo scrive una fortunata e diffusissima «Vita di Dante», oltre a illustrare il suo secolo in parecchi scritti di storia medievale; di Dante scrivono tutti, ma proprio tutti, fra gli inizi dell’Ottocento e il 1870 e preparano il terreno a tutta una serie di iniziative e di studi danteschi nuovi che porteranno alle prime edizioni veramente critiche delle opere fra fine Ottocento e primi decenni del Novecento. Vincenzo Monti e Giulio Perticari, marito di sua figlia, rinnovano un altro aspetto degli studi danteschi, quello linguistico. E tutti questi studi hanno sempre un legame ravvicinato con le questioni e le battaglie politiche, oltre che con la cultura, gli indirizzi letterari, le scelte linguistiche ecc.
      L’uso si è poi esteso dai centri urbani maggiori a tutta la periferia, fino ai più piccoli paesi. Non c’è piccola città che, a partire dai primi decenni dell’Ottocento, non abbia avuto un proprio dantista, autore di conferenze, di opuscoli, qualche volta di libri. E anche se la maggior parte di questa produzione è rimasta, e rimane, a livello locale, non è meno significativa, sia come fenomeno culturale, sia come fenomeno che possiamo anche dire ideologico, di diffusione di determinate idee, sia come contributo dato alla conoscenza del rapporto fra Dante e la sua opera e le varie parti d’Italia. A volte anche con eccessi campanilistici in molti casi di luoghi e personaggi che Dante menziona nelle sue opere. E poiché gli storici locali spesso conoscono meglio certe particolarità della storia locale, hanno potuto dare anche dei contributi di chiarimento ripresi poi dai commentatori e biografi danteschi ed entrati via via nelle nuove edizioni, comprese quelle scolastiche.
      Attualmente, per il settimo centenario della morte, si sta avendo di nuovo un “picco”, sia pure più modesto, dell’uso di Dante. Si è scomodato persino il Papa con una specifica lettera apostolica («Candor lucis aeternae»), e Mattarella, con interviste e discorsi “danteschi” ecc. ecc. Oltre alle diverse nuove biografie di Dante a livello divulgativo e giornalistico, di cui alcune, come quella di Aldo Cazzullo («A riveder le stelle. Dante, il poeta che inventò l’Italia»), che denuncia fin dal titolo un uso strumentale e attualizzato, sono operazioni chiaramente ideologiche o commerciali. Come al solito, poi, i due maggiori quotidiani italiani, «Corriere della Sera» e «La Repubblica», escono, imitandosi e in concorrenza, con in allegato una propria collana di volumi danteschi, sia ristampe sia novità preparate apposta.
      L’uso è pertanto un fenomeno complesso che ha i suoi aspetti appassionanti e positivissimi e altri meno appassionanti e più modaioli e strumentali, ma non può prescindere dal lavoro, apparentemente più umile perché meno conosciuto, dei veri studiosi di Dante, dei filologi e degli storici che dicono cose nuove sull’effettiva conoscenza che noi abbiamo dell’opera e della biografia di Dante.
      Se pensiamo a Dante come a un “monumento”, fra i maggiori che abbia l’Italia, possiamo paragonare l’uso alla visita al monumento: appassionata, lacerante, esaltante, carica di propositi, di spinte educative ecc., oppure distratta, retorica, turistica, frettolosa ecc. Chi usa il “monumento” lo può fare in moltissimi modi diversi e per diversissimi motivi e con diversissimi esiti. Ma il monumento deve essere tenuto pulito, studiato in sé, spiegato, inserito nella sua propria storia, restaurato quando necessario. E questo lo fanno i filologi e gli storici, non chi usa Dante per altri motivi, sia pure nobilissimi.

  4. « L’uso è pertanto un fenomeno complesso che ha i suoi aspetti appassionanti e positivissimi e altri meno appassionanti e più modaioli e strumentali, ma non può prescindere dal lavoro, apparentemente più umile perché meno conosciuto, dei veri studiosi di Dante, dei filologi e degli storici che dicono cose nuove sull’effettiva conoscenza che noi abbiamo dell’opera e della biografia di Dante.» (Aguzzi)

    D’accordo, ma ripeto quanto detto: «la filologia è una cosa seria e la mia era una battuta riferita esclusivamente al dato che hai riportato». Su Dante “monumento” mantengo le mie riserve. Le avevo espresse già nel lontano 1999 in una “critica dialogante” con Pietro Cataldi (http://immigratorio.blogspot.com/2011/07/su-pietro-cataldi-perche-leggere-dante.html). E le avevo riprese in un commento su LE PAROLE E LE COSE nel 2012 (http://www.leparoleelecose.it/?p=7577#comment-53450). Oggi, per stanchezza e distacco da certi discorsi, mi sono limitato a un invito: evitare la celebrazione imposta dall’alto.

  5. @ Ennio
    Ho letto tutto ciò a cui rimandano i due link da te indicati. Credo che, per quel che penso io, la sintesi di tante pagine si possa cogliere in queste parole della lettera di Cataldi che riporti: c’è un «bisogno generale di valori (cioè necessità antropologica di dare significato alla vita: la vita in generale e la propria)».
    Tutto il resto, sia ciò che condivido sia ciò che non condivido, lo sento un po’ estraneo alla mia esperienza. Quasi tutto il dibattito risente dell’esperienza di persone che hanno fatto il liceo classico e poi sono diventate insegnanti. Salvo William Canciani e l’interessante esperienza di Dante letto in seconda elementare. Hanno studiate Dante al liceo e poi hanno continuato, per approvare o per contestare, ad avere quel modello come riferimento. Logico e naturale. Ma io non ho fatto nessuna scuola superiore, non ho mai frequentato un solo giorno e non ho mai preso un’ora di lezioni private. Mi sono trovato – non ho mai capito bene il perché e il come – a leggere di tutto, classici letterari compresi, da solo, per mio interesse, per mia passione, per mio divertimento. Senza riferimenti scolastici. Nel mentre lavoravo ora in fabbrichette locali, ora in cantieri edili, poi come commerciante ambulante e infine, dai 17 anni, come sindacalista responsabile del settore mezzadri della mia città e campagne attorno. Solo a partire dai 19 anni, frequentando studenti liceali e studenti universitari e accorgendomi che quello che sapevano loro lo sapevo anch’io, ho pensato di presentarmi come privatista per prendermi la licenza media, poi una maturità, poi fare l’università e costruirmi una carriera come insegnante, non perché ne fossi particolarmente interessato ma perché mi sembrava comunque un lavoro più comodo che mi avrebbe concesso il privilegio di molto tempo libero da dedicare allo studio per mio conto. E così ho fatto, pur continuando a lavorare perché bisogna pur mangiare, visto che non provenivo da una famiglia borghese con possibilità di mantenermi.
    Ho letto per la prima volta la “Commedia” fra i 14 e i 15 anni, per intero, perché non ho mai pensato che ci si potesse limitare a leggerne una parte. L’ho letta nell’edizione della vecchia BUR con la copertina grigia.
    Di tutto il dibattito a cui tu mi hai rimandato commento una sola frase di Cataldi che tu riprendi: «Bisogna leggere Dante perché è lontano e diverso». No, non ho mai pensato che Dante fosse lontano e diverso (né che lo fossero altri classici). Dante l’ho sempre sentito vicino e simile per tanti aspetti, ma solo, provvisoriamente, lontano come può esserlo un amico trasferitosi momentaneamente in un’altra città. Una lontananza che è anche vicinanza e che si può colmare camminando verso la città dove per il momento risiede. E il cammino è l’apprendimento di quelle nozioni storiche e linguistiche che ci permettono di capire meglio il testo. E, posso dire, cammino ancora. Ciò che di Dante (e di altri classici) mi prende di più non è ciò che si può utilizzare in una lettura di parte, in una attualizzazione di parte, ma proprio il fatto di sentirlo al di sopra delle parti, non perché ignori le parti, anzi, ci si tuffa dentro, ma perché sa elevarsi più in alto. Perché sa che la battaglia fra le parti è, tutto sommato, ciò che sfugge via nel tempo e con la fine della vita. Sa che è importante, ma che va finalizzata a mirare più in alto, a costruire un destino che non finisca col tempo breve della vita. Approvare, o contestare, Dante da un punto di vista “di classe” mi pare, sinceramente, un avvilimento per Dante e per chi lo legge in quel modo.
    Quando, dopo la laurea, ho messo piede per la prima volta in un liceo come insegnante, senza esserci mai stato come studente, non avevo nessun modello di docente e di liceo a cui rifarmi. Mi sono rifatto alla mia esperienza e ho proposto ai miei studenti lo studio della filosofia e della storia sulla base degli interessi che mi avevano spinto da adolescente a studiare per mio conto. E sono due: la conoscenza del passato, per ciò che è stato, senza attualizzazione e senza strumentalizzazioni (se non quelle inconsapevoli che spingono sempre lettori e studiosi a ripiegare in una certa misura sulla propria esperienza); e la comprensione di ciò che di quel passato ci riguarda ancora e ci serve ancora per capire il presente. E come – e questo era il mio obiettivo – questa conoscenza ci rende più critici e più padroni di noi stessi e delle situazioni in cui viviamo. La storia e la filosofia, come la letteratura, non insegnano un mestiere, se non a chi voglia diventare insegnante di queste materie, ma insegnano a padroneggiare meglio la propria vita, a trovarne le ragioni, a delinearne i percorsi. E leggere Dante è, in questo senso, una grande e inesauribile esperienza. È una conquista che arricchisce.
    Frequentando, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, il mondo contadino, ho fatto in tempo a partecipare, in qualche serata d’inverno, alle recite a memoria di Dante o dell’Ariosto al caldo di una stalla, da parte di “dantisti” contadini. Per loro Dante era una lettura di stupore e meraviglia e insieme di forte realismo, fonte, anche, di frasi icastiche, ammirate per la precisione dell’immagine e del modo di dire, da ripetere come proverbio. Non una lettura “di classe”, ma al di sopra delle classi, che però della situazione di classe incorporasse ed elevasse certi aspetti, come, ad esempio, una certa critica alla Chiesa e al clero, una certa immagine di mascalzoni ficcati all’inferno. Aspetti che diventano simboli di una situazione generale e sempre, purtroppo, attuale.
    Ma quando a un mezzadro, capo-lega e attivista del sindacato, e poeta contadino che aveva come modelli Dante, l’Ariosto e il Metastasio delle poesie (non del teatro), e che ogni tanto faceva stampare in un foglio volante un suo componimento e lo distribuiva agli amici, quando gli morì la moglie in età precoce, scrisse un’elegia, in sé modesta, che si ispirava ad alcuni passi danteschi dove Dante non ha riferimenti storici né sociali ma dove sembra dialogare con la bellezza pura, con il senso religioso del cosmo, con l’eternità. Non tutto è lotta di classe, nemmeno per un sindacalista, per un capo-lega contadino, per un operaio incazzato. C’è una «necessità antropologica di dare significato alla vita: la vita in generale e la propria», di comprendere la morte, di pensare, come nostro, in qualche modo, a un futuro che non conosceremo.
    ***
    Dante a scuola non è troppo, ma poco, come poco sono tutti i classici e come poco sono i cosiddetti autori minori. Da docente e da preside ho conosciuto molti studenti che avevano solo una conoscenza manualistica e antologica degli autori “maggiori” e nessuna conoscenza, nemmeno solo dei nomi, degli autori “minori”. Ma come è possibile conoscere e apprezzare i “maggiori” se lasciati navigare fra le nubi e isolati da tutto il contesto letterario in cui sono nati e con il quale hanno dialogato? Non è che manchi il tempo: manca un suo uso migliore, più razionale e più motivato. Ho conosciuto tanti studenti che, mentre i docenti, e loro stessi, si lamentavano della mancanza di tempo per “svolgere il programma”, trovavano tempo per leggere tante altre cose non richieste dalla scuola. Non era dunque una questione di tempo, ma di ben altro e più complesso e grave. Era, ed è, questione di impianto, di modello scolastico, di programmi, di organizzazione didattica, di preparazione dei docenti. E questo non c’entra con Dante, ma con una tradizione autoritaria che identifica l’educazione con l’addomesticazione: piegare e modellare i giovani a ciò che gli adulti si aspettano da loro. Molto conformismo, poca creatività. Salvo quel tipo di creatività che serve a destreggiarsi nell’ambito del conformismo e a percorrerne le tappe nella propria carriera professionale.

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