Su Daniele Del Giudice

di Angelo Australi

La morte di Daniele Del Giudice non mi ha colto di sorpresa, da anni era affetto da una grave malattia neurologica che non gli permetteva più di scrivere. Di questo grave male, del suo non più scrivere, lo abbiamo saputo dai giornali, più o meno nel 2019, quando Einaudi ha ristampato Atlante occidentale arricchito, rispetto all’edizione del 1985, del diario scritto nei giorni del sopralluogo al Cern di Ginevra, fatto prima di scrivere il romanzo. Ma del resto non ci aveva abituato a uscite troppo frequenti dei suoi libri, è sempre stato uno scrittore molto parsimonioso. Dal 1983 con Lo stadio di Wimbledon, alla raccolta de I racconti, pubblicato nel 2016 (racconti in massima parte già editi), Del Giudice ci lascia in eredità sei/sette libri davvero straordinari, usciti a distanza di anni l’uno dall’altro. E questa parsimonia dice tanto della sua serietà, del suo amore per una letteratura in grado di interpretare le tematiche del reale in anticipo sui tempi, di una narrativa capace di prendere le distanze da certi stereotipi, di stare allo stesso livello delle altre aree del sapere, di tentare una sua originale e sincera forma di ricerca, una sua idea di sperimentazione. Scrive Italo Calvino nella presentazione a Lo stadio di Wimbledon, apparsa nella quarta di copertina della prima edizione (uno dei motivi per il quale fui incuriosito ad acquistare il libro): Dalle domande che egli pone, pare lo interessino le ragioni per cui quell’uomo (Roberto Bazlen), pur avendo una coscienza letteraria molto esigente – anzi, forse proprio per questo, – invece di scrivere preferisce agire direttamente sulla vita delle persone. È la scelta tra « scrivere » e « non scrivere » che il giovane vuol risolvere?  Personalmente, da questo punto di vista, proprio perché si pone un certo tipo di dubbi, penso che Del Giudice sia uno degli scrittori più importanti degli ultimi decenni del Novecento, e non solo per il panorama italiano, uno dei pochi da tornare a leggere più volte, scoprendo nella sua scrittura sempre qualcosa di nuovo del suo mondo, e del mio, del perché nell’uomo ci sia questo bisogno di raccontare delle storie, un bisogno sempre da rimettere in discussione giocando sull’equilibrio tra un metodo imposto dalle regole e la sorpresa dell’imprevisto che può nascere sorprendentemente dalla finzione.

Non voglio e non posso scrivere un saggio, dico solo che tutte le volte che leggo un suo libro, per alcuni giorni sento addosso il peso e l’importanza della scrittura, e per un po’ la bellezza della lettura fa dimenticare anche il bisogno di scrivere. Al mio paese negli ultimi anni abbiamo messo in piedi un gruppo di lettura che si incontra presso il Centro Sociale Il Giardino, dove mi è capitato spesso di proporre una discussione sui suoi libri. Del racconto Nel museo di Reims, per esempio, ne ho parlato e fatto letture pubbliche in svariate occasioni, questa storia che si sviluppa tra un uomo che sta perdendo la vista e una donna che con la sua voce lo guida per le sale del museo, inventando dettagli sensoriali intorno ai colori dei quadri, racchiude in sé il forte potere evocativo della parola sospesa tra capacità creativa e menzogna, racchiude in sé quel misterioso vortice di pensieri e sensazioni che è la letteratura, attiva la discussione sui dettagli e ampia la prospettiva su cosa sia il reale.

Dal 1983, con Lo stadio di Wimbledon, romanzo che si sviluppa come una ricerca sulle tracce del triestino Roberto Bazlen, personaggio quasi da romanzo lui stesso, grande amante della letteratura e consulente di importanti case editrici, che però non ha mai scritto opere creative, passando poi per Atlante occidentale, un romanzo che si misura con le nuove scoperte della fisica per portarci a riflettere su alcune trasformazioni irreversibili del nostro tempo, e poi le raccolte di racconti Staccando l’ombra da terra (1994) e Mania (1997), e lo strano romanzo/diario/documento storico Orizzonte mobile (2009), nel quale Del Giudice, raccontando del proprio viaggio in Antartide sulle tracce scritte di precedenti spedizioni fatte da uomini avventurosi e spesso finite tragicamente, racconta l’urgenza, il dovere che ha uno scrittore di allargare i punti di vista sul limite di una frontiera del reale dove persiste un fondo estremo, crudo, atroce, da guardare in faccia, da toccare, sperando di raggiungere ancora dei segreti da svelare. Sono solo questi i libri che ha scritto, oltre a In questa luce, una raccolta di saggi uscita nel 2013, saggi che poi sono sempre anche un po’ racconti che custodiscono le ossessioni, le manie dell’autore, come quest’ultimi, cioè i suoi racconti, sono sempre anche un po’ dei saggi.

Ho avuto la fortuna di conoscerlo, prima per corrispondenza, a fine agosto 1987, quando con il Circolo Letterario Semmelweis organizzavamo una serie di conferenze dal titolo MOVIMENTI CONTRATTI – Il ruolo dello spazio quotidiano di azione individuale in una società tecnologicamente avanzata. Il mondo negli anni Ottanta stava cambiando drasticamente le sue prospettive sociali, non aveva più nelle città un centro di diramazione propositiva e noi in provincia volevamo capirci qualcosa, raccontare la nostra esperienza in modo autentico proprio con l’aiuto della letteratura che in questo ciclo di conferenze si confrontava ad ogni incontro con una diversa forma espressiva. Daniele Del Giudice accettò volentieri di partecipare al confronto tra letteratura e scienza insieme al fisico fiorentino Giuliano Toraldo di Francia, a me e a Fabrizio Bagatti. Nelle sua lettera di accettazione scriveva: Partecipo volentieri, dato che il tema mi interessa e lo sento abbastanza vicino a quanto cerco di fare con il mio lavoro. Questa comparazione tra scienza e letteratura era stata inserita proprio pensando a lui e al suo libro Atlante Occidentale (era ancora il tempo in cui la presenza di un libro – se importante – sul mercato poteva resistere alcuni anni), dove i protagonisti sono il vecchio scrittore di successo, in odore di Nobel, Ira Epstein, e il giovane fisico italiano Pietro Brahe, che lavora nel grande centro di ricerca di Ginevra, dove si trova l’acceleratore di particelle del Cern.

L’iniziativa si tenne poi il 7 maggio del 1988, presso la Biblioteca Comunale Marsilio Ficino di Figline Valdarno. Del Giudice ci raggiunse in treno arrivando con mezz’ora di ritardo, suscitando un po’ di insofferenza nei partecipanti, ma poi la discussione fu interessante e ricca di spunti di riflessione per tutti, almeno io e gli amici dell’associazione ne parlammo per giorni. Non esistevano ancora i cellulari, sicché aspettavamo impazienti sperando nel suo arrivo. Ricordo che entrando nel salone della biblioteca sorrise timidamente scusandosi, il treno da Venezia era partito in ritardo ed aveva perso la coincidenza alla Stazione di Santa Maria Novella. « Fortuna che nel pomeriggio ci sono molti treni locali per il trasporto dei pendolari che lavorano a Firenze » gli dissi scherzosamente, mentre ci presentavamo. «Australi, … molto bello; un cognome da scrittore ». Lui sorrise di nuovo, e mi strinse la mano.

  

3 pensieri su “Su Daniele Del Giudice

  1. molto belli sia la presentazione dell’autore recentemente scomparso che il ricordo del medesimo, conosciuto dal vivo nell’ambito delle iniziative promosse da Angelo Australi e dal suo Circolo Letterario…Vorrei almeno leggere uno dei libri di Daniele Del Giudice, in particolare “Atlante occidentale” per i riferimento al CERN che nel 2007 (2008?) visitai grazie all’invito di un amico fisico di mia figlia…Capii poco delle spiegazioni sull’esperimento-progetto sempre in divenire e molto osannato, ma rimasi colpita dalla enormità-mostruosità della realizzazione sotterranea…letteratura e scienza e molto altro… Grazie

  2. Annamaria, a questo punto di consiglierei di leggere “Atlante occidentale”, edizione del 2019, con una prefazione del fisico Guido Tonelli, che ha lavorato al Cern per molti anni, e in appendice troverai le pagine del diario tenuto da Del Giudice per scrivere il romanzo.
    Buona lettura!!!

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