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Non è solo un modo come un altro per ricordarsi del Natale

di Angelo Australi

Quel pomeriggio Rutilio aveva faticato come un matto a strascicare fuori dal sottoscala un rotolo di carta enorme, spesso, carico di piegature incartapecorite nascoste da uno strato di polvere. Lo fece cadere dal piano più alto di uno scaffale ma alla fine, visto che non ci stava riuscendo, per poterlo trasportare fu costretto a chiedere l’aiuto di Spartaco. Continua la lettura di Non è solo un modo come un altro per ricordarsi del Natale

… la guida turistica del bar Brio …

di Angelo Australi

Ogni domenica mattina in quella casa si consumava una scena che sconfinava nella forzatura di un film della commedia all’italiana, alla fine del quale, davanti alla banalità di ciò che verrà raccontato, non sappiamo se conviene ridere o piangere per disperazione. Nel nostro caso Virginia spolverava la mobilia fischiettando all’infinito una delle sue canzoni preferite mentre Simone fantasticava nel suo letto, disteso come un ciocco di legno. Lasciava indietro la stanza del figlio, fino a quando non lo avvisava iniziando quell’ossessiva cantilena che spazientiva tutto il vicinato. Virginia era costretta a fare la pulizia a fondo della casa ogni domenica mattina, per sentirsi libera il pomeriggio di incontrare le sue amiche al Circolo Arci, dove avrebbero giocato a tombola per soldi fino all’ora di cena. Lavorando in una fabbrica di confezioni dalle otto del mattino alle sei di pomeriggio, con pausa pranzo di due ore, per fare le pulizie di casa non le restava che il fine settimana. Il sabato mattina faceva la spesa e dedicava le ore del pomeriggio a stare in compagnia degli anziani genitori. Essendo figlia unica nessuno le dava un aiuto, così per dedicarsi alle pulizie non restava che la mattina dei giorni di festa. Per Simone invece la vita di un giorno festivo iniziava all’ora di pranzo, sempre ammesso che sua madre avesse cucinato qualcosa di buono e non fosse andata in rosticceria a prendere alcune porzioni di untuose lasagne al ragù o un pollo cotto alla griglia, o dei pezzi di arrosto girato. Omero, l’uomo di casa, marito e padre, non era di nessun aiuto perché la domenica per lui aveva un significato solo se usciva per andare a caccia con la squadra degli amici. Erano un gruppo così affiatato che quando si chiudeva la stagione venatoria, per non perdere il vizio di andare nei boschi insistevano con la raccolta dei funghi porcini in quel tesoro di fungaie disseminate sulle catene montuose che recintavano la valle, dove anche l’intensità dell’aria che arrivava dal mare dava ai frutti del terreno un diverso sapore. Fungaie rimaste nel mistero per decenni, anche se in molti si riempivano la bocca giurando di averle individuate. Non tutte, ma solo alcune. Da quando il figlio lavorava negli uffici delle Poste Italiane presso la stazione ferroviaria della città, dove smistava la corrispondenza in partenza e in arrivo, le aspettative sul suo oggi e del suo domani si esaudivano parlando di selvaggina e di boschi. Prima o poi si sarebbe aspettato il matrimonio del figlio, di diventare anche lui nonno, ma per il resto non c’erano altri passatempi. Per esempio, di politica, pur avendo sempre votato PCI, si appassionava solo a ridosso delle elezioni, quando anche lui andava al circolo ARCI per capire il clima che si respirava tra i compagni, eventualmente chiedere informazioni sulle persone che componevano la lista elettorale del suo partito. Omero lavorava in una fonderia, mestiere faticoso e pieno di rischi, dove bisognava stare sempre con gli occhi bene aperti perché una banale svista o distrazione potevano costargli molto care, ma nonostante tutto la domenica si organizzava per andare a caccia con gli amici, alzandosi almeno due ore prima di quando si recava al lavoro; proprio in piena notte. Il luogo dove la squadra dei cacciatori si dava appuntamento la domenica mattina era il bar Brio, lo stesso che in altri orari del giorno e della notte frequentava Simone.

I pomeriggi domenicali di suo figlio iniziavano sempre da questo ritrovo abituale per tanti gruppi di persone più o meno giovani. Non a caso il bar era situato in un punto della circonvallazione che stava al centro di un triangolo composto da una sala cinematografica, dalla discoteca, dall’incrocio che immetteva sul viale della stazione dei treni. E poi il bar Brio era il primo che apriva al mattino per servire i numerosi turnisti che prendevano servizio alle sei in due grandi fabbriche dell’area industriale: la vetreria, lo stabilimento che produceva le corde metalliche dei pneumatici. Il proprietario si chiamava Leandro, garantiva la sua presenza dalle cinque del mattino fino mezzogiorno, poi faceva un riposo che gli avrebbe consentito di coprire in serata gli arrivi al cinema, lasciando gestire alla moglie e una commessa quel poco movimento che ci sarebbe stato nelle ore pomeridiane. A detta del proprietario, criterio grazie al quale valutava in un prossimo futuro di vendere locale e licenza, nel suo bar si facevano ogni giorno dai sei ai settecento caffè. Cifre stratosferiche, se è vero che per ogni caffè c’è sopra un margine di guadagno davvero esagerato.

Senza considerare i più saltuari perché avevano la fidanzata, gli amici di Simone che si davano appuntamento al bar Brio saranno stati una dozzina. Dopo il diploma alle superiori la maggior parte di loro si era subito trovato un lavoro. In pochi avevano scelto di iscriversi all’università, Filippo a medicina, Enzo scienze politiche, Graziella architettura. In quel gruppo solo Spartaco e Ivano – che tutti chiamavano Salamandra – lavoravano ormai da diversi anni, essendosi fermati all’esame di terza media; ma Ivano era morto facendosi asfaltare da un camion mentre azzardava il sorpasso di un’auto in curva, e Spartaco in quel periodo della vita stava facendo il servizio militare. Nel gruppo degli amici la morte di Salamandra rappresentò un trauma spaventoso, anche se guidava la sua moto come un forsennato nessuno si sarebbe mai aspettato facesse quella fine. Si erano salutati sul tardi quel venerdì di fine luglio del 1974, davanti al bar Brio, e il giorno dopo la notizia del suo incidente mortale. Spartaco, classe 1954, era partito militare con il terzo scaglione, verso la metà di giugno, con addosso lo spirito costruttivo di chi si sente condannato ingiustamente aveva cercato in tutti i modi di scansare l’anno di naia, ma poi si era rassegnato. Non gli fu consentito di partecipare al funerale di uno dei suoi migliori amici neppure con un breve permesso giornaliero. Il loro gruppo di adesso si era formato intorno al bar Brio da pochi anni, più o meno quando avevano iniziato a frequentarlo nell’attesa di entrare al cinema, ma con Ivano la cosa veniva da molto più lontano, lui e Spartaco erano legati fin dai giochi dell’infanzia.

Visto faceva angolo con il cinematografo e la stretta strada che conduceva alla discoteca, il bar Brio si trovava in una posizione strategica anche per osservare il movimento. Non solo la domenica pomeriggio e il fine settimana, quando apriva il locale da ballo, il bar era frequentato ogni sera perché, qualsiasi pellicola fosse in programmazione, in molti andavano al cinema. Era insomma uno dei luoghi favoriti dai giovani per passare il tempo libero dallo studio e/o dal lavoro. Un punto cruciale, in chi aspirava a fare degli incontri interessanti. Nel gruppo degli amici di Simone erano tutti appassionati di cinema, prima di entrare a vedere un film nasceva naturale darsi appuntamento al bar. Prendevano il caffè alla spicciolata e nell’attesa parlavano un po’ dei fatti del giorno, e appena uscivano, dopo il film, per consentire al tempo di dilatarsi nella notte si fermavano a bere una birra, illudendosi che il momento di farsi sopraffare dal sonno e dalla stanchezza non dovesse mai arrivare. Avevano un’età che non sentivano mai il bisogno di tornare a casa. Era Leandro, il barista, che verso l’una di notte cominciava a brontolare perché liberassero i tavoli. Visto già alle cinque del mattino ci sarebbe stato da gestire in solitaria un fitto via vai di persone, prima di andare a letto voleva pulire il locale. Anche la stazione dei treni era nei pressi del bar Brio, per chi la raggiungeva a piedi bastava arrivare al semaforo e svoltare a sinistra, cinquanta metri, non di più, e subito appariva davanti con tutta la sua ampia facciata. Leandro a quell’ora tarda della notte, tra una bestemmia e l’altra confessava a quel gruppo di ragazzi che aveva calcolato di farsi un culo della madonna per dieci anni, però alla fine avrebbe venduto locale e licenza a condizioni così vantaggiose che nessun altro bar del paese poteva illudersi di ottenere.

E comunque, nelle rare occasioni che decideva di andare in discoteca nel pomeriggio dei festivi, Simone cercava sempre di evitare la calca dell’apertura, gli dava fastidio fare la fila davanti alla biglietteria, in quell’attesa mescolarsi a chi non voleva perdersi neanche un giro di canzoni per scatenarsi sulla pista da ballo, tra tutte quelle sedicenni che si muovevano in branco intorno ai “bellocci” in una competizione per attrarre l’attenzione e appartarsi a pomiciare nei separé del locale, una concorrenza fatta di invidie e cattiverie che nel tempo di una danza poteva distruggere amicizie consolidate e formare nuove alleanze strategiche nella frenesia schizofrenica della luci psichedeliche che inseguivano il ritmo del brano dal centro della pista da ballo fino agli angoli più distanti, rendendo quei movimenti della danza una fibrillazione meccanica di luci bianche e azzurre. Ma quando la domenica pomeriggio non sapeva dove sbattere la testa, verso le sei, visto che a quell’ora non facevano pagare il biglietto, anche lui entrava a curiosare un po’ sul movimento.

Di norma quelli nati dopo il 1950 bazzicavano la discoteca il venerdì, giorno che chiudeva la settimana di lavoro. Arrivavano passata mezzanotte, tutti alla spicciolata, dopo essere stati al cinematografo o a mangiarsi una pizza, per ritrovarsi a parlare come dei nottambuli incalliti, bere della buona birra, fumare qualche spinello. Quella che passava il disc jockey per Simone era della buona musica, stimolante per conoscere meglio se stessi, ma anche per fare dei nuovi incontri; non era fatta solo per ballare, nonostante il volume altissimo creava un’atmosfera che potevi abbozzare ogni forma di pensiero senza sentirti fuori posto. A gente come lui, che aveva superato i vent’anni, quello sembrava l’ambiente ideale per ritardare il momento di tornare a casa perché a quell’ora si poteva parlare di tutto, anche di uccidere un’idea di paese che si costruivano i propri genitori, e se entravi in questo giro di pensieri ossessivo potevi tirare avanti fino allo sfinimento. Il gruppo dei suoi amici appariva alle ore più strane, spuntavano tra la folla come fantasmi, alle due, alle tre di notte, quando Leandro aveva già spento l’insegna del bar Brio.
Il sabato neanche a parlarne perché, a parte la necessità di smaltire i postumi della sbronza che lo avrebbero assillato fino al tardo pomeriggio, ormai da alcuni anni la discoteca era diventata il ritrovo di tardone e di tardoni allupati, un superaffollamento anacronistico di ormoni che volteggiava nelle danze con l’unico scopo di sfruttare ogni occasione per costruire una relazione duratura. Mariti frustrati, affamati di sesso, donne ormai rassegnate ad accettare quello che avrebbe passato il convento, pur di creare una famiglia. Il sabato notte c’era tutto un mondo nascosto che finiva per svelare le sue modeste aspettative esistenziali, che sognava di essere ancora in tempo a stravolgere le proprie abitudini, e contemporaneamente si assisteva ad un ciondolare ingiusto di Simone e degli altri ragazzi intorno al bar Brio, che finito il film si sedevano a ridosso della vetrata e guardavano il tratto di mura medioevali restaurato di recente, esaltato dalle luci di una nuova illuminazione. Mura alte dieci metri e forse più, dove erano state ricreate le antiche merlature della fazione dei guelfi. La cinta muraria misurava un paio di chilometri abbondanti. La fortificazione che chiudeva l’abitato anticamente aveva un fossato bello largo, diciannove torri, il cassero, quattro porte di accesso. Di tutte le alte torri ne restavano in piedi ancora tredici, alcune inglobate nelle abitazioni, due o tre ben visibili dal bar Brio, mentre l’interno del Cassero era stato trasformato in un teatro a palchetti con la capienza di seicento posti. Del fossato e dei ponti levatoi invece si era persa ogni traccia. Quella di Oriale era una cinta muraria realizzata per custodire le aspettative di una comunità che grazie al suo commercio immaginava di moltiplicare velocemente il numero dei suoi abitanti, ma quel progetto ambizioso dal medioevo non si era mai realizzato, visto che, nonostante lo sviluppo urbanistico, tra il perimetro delle mura, la viabilità interna e le abitazioni, rimaneva ancora tanto terreno coltivato con gli orti del convento delle monache, dei frati francescani, con i tanti che mantenevano in vita i privati.

 maggio 2024

Isolato dietro un muro di pensieri

Su PASSEGGIARE DOVE SONO DI CASA di Angelo Australi

 di Teresa Paladin

Passeggiate della mente e del cuore stando “Isolato dietro un muro di pensieri”: con questo titolo inizia il primo di quattro racconti di Angelo Australi presentati in “Passeggiare dove sono di casa”, editrice SEF, febbraio 2024.
Per Spartaco, da poco giunto alla pensione, è diventata una tranquilla necessità vitale fare camminate lunghe in aperta campagna, di quelle che irrobustiscono il fisico e tranquillizzano la mente, lontano dal traffico e in luoghi silenziosi.
Il tempo del covid offre lo sfondo contestuale di queste passeggiate, le quali iniziano in sordina e sempre più si concretizzano in una visione aperta e dinamica multifattoriale. Spartaco si muove dai percorsi labirintici improvvisamente articolati davanti ai centri commerciali fino alle passeggiate lontano dal paese, mentre le quotidiane passerelle televisive dei responsabili o presunti esperti della salute pubblica e della politica cercano di convincere tutti a starsene a casa.
Passare tra elementi della natura osservandoli e ripescare nella lucidità della memoria, dove fatti e persone non muoiono mai: tra questi due confini, la natura e l’andare a ritroso nei ricordi, la ricerca di una pace interiore in queste passeggiate anima il protagonista, che per altro rimane aperto e disponibile agli eventi del tempo presente.
Dalla memoria si affaccia l’inizio della vita matrimoniale vissuta all’insegna dell’avventura. Spartaco e Ambra non avevano prenotato niente e passeranno ben diversamente dal previsto, in chiave quasi cosmicomica, la prima notte di nozze. Ma con un fondo di serenità e senso di libertà che non può non sorprendere i sostenitori di un mondo sistematicamente rispondente a esigenze di funzionale organizzazione. Si scopre così che un certo fatalismo è un compagno sicuro nella vita del protagonista.
L’atmosfera assolutamente positiva dell’imprevisto, che non limita ma arricchisce il viaggio continua infatti anche per le vacanze successive, almeno fino al nascere dei figli, nella comune accettazione condivisa di meraviglie da vedere e scomodità da affrontare. La disposizione d’animo che tutto è rimediabile e ci sia sempre un’altra possibilità guidano Spartaco, mentre la moglie Ambra è contenta di assistere a un’alba stupenda e di ritornare a casa più stanca di quando era partita. Una innocente fiducia per quello che il fato avrebbe offerto e il fascino dell’avventura denotano ottimismo e la certezza di poter contare sulle proprie forze in tutte le situazioni.
Turista improvvisato ma sempre consapevolmente in gioco, Spartaco ama soffermarsi con attenzione e guardare con piacere la macchia mediterranea, le antiche pietre, gli uomini che si ubriacano per dimenticare la loro melanconia.
Mentre osserva attentamente le abitudini della altrui vita quotidiana, la tomba di Italo Calvino a Castiglion della Pescaia e la casa “rossa” di Leonardo Ximenes, ingegnere e matematico gesuita, nella zona paludosa della riserva naturale di Diaccia Botrona sono pause culturali irrinunciabili. Sulla tomba di Calvino si respira un clima di silenzio e preghiera: in un cimitero si capisce la piccolezza umana, che non sempre noi uomini e donne ricordiamo.
L’argine del fiume è un luogo silenzioso di esplorazioni. Se la natura in tutte le sue forme- piante, rovi, laghetti, aironi e falchi pescatori, le oasi del WWF- è scenario intrigante dei racconti, fondamentali sono gli incontri con sconosciuti o amici. La costruzione di una capriata in ferro al ponte del paese, lungo l’argine del fiume che è costeggiato da terreni coltivati grazie al lavoro di bonifica di Pietro Leopoldo alla fine del Settecento, diventa l’occasione per una rimpatriata di paese. Tutti si ritrovano là, amici e compaesani di sempre, a fare commenti in cui, ovviamente, fa capolino la politica.
La politica era stata nel passato una passione attiva per Spartaco, che l’aveva abbandonata da quando i due ruoli di amministratore comunale e di segretario del partito non erano stati più tenuti distinti dai compaesani e lui alla fine si era sentito stretto in questa situazione. Nel presente la sfera politica per come si connota invece non lo appassiona più. Resta in lui viva l’esigenza del protagonismo politico, la necessità che gli operai parlino in prima persona dei propri bisogni, siano in prima fila a difendere i propri diritti più che semplicemente affidarsi a intellettuali e politici di professione barricati nelle loro sedi. La barzelletta dei due frati e della loro disputa teologica in questo caso è nella sua comicità estremamente illuminante.
Durante una delle sue passeggiate un nuovo cartellone attira l’attenzione del protagonista. I suoi occhi, spalancati sulla realtà, registrano stupiti i cambiamenti rispetto al passato. Lo slogan “Il lusso democratico italiano” utilizzato per vendere mobili da parte di una ditta che vendeva mobili da quattro generazioni è nato in piena campagna elettorale e il fatto lo inquieta. Lo sfruttamento di un valore costitutivo e pregnante per uno scopo commerciale lo fa scadere a proprietà privata, pensa Spartaco: un ulteriore segnale della fatica di permanere nei valori del passato, ma anche della perdita di significato nella validità della politica.
Ma non solo: anche interiormente Spartaco fa i conti con sé stesso e la sua progressiva vecchiaia, tra dubbi e paure mentre il caldo dell’estate lo rende apatico. Lo rincuora il fatto che è in ogni caso un uomo d’esperienza, capace di aver fatto carriera a livello dirigenziale in una ditta pur senza essere laureato, grazie al suo prezioso impegno e alla conoscenza maturata.
Il già citato muro dei pensieri durante le passeggiate si affaccia dunque continuamente, ma in realtà è una risorsa esistenziale notevolissima. Il vero muro in realtà è rappresentato da una serie di condizioni oggettive dell’esistenza imposte dall’esterno e che mutano la normalità senza arricchirla.
Troviamo nei racconti il rifiuto di vedere il nonno con la mascherina da parte del nipotino di tre anni che è sempre pronto ad ascoltare i meravigliosi dei rumori della campagna, così come il suicidio di un amico, che al Nord aveva tentato di spezzare i confini di un paesino mal sopportato, in cerca di nuovi orizzonti.
In particolare è significativo l’ultimo incontro lungo l’argine con un ultranovantenne che coltiva l’orto e gli svela le complicanze delle ultime disposizioni perché certe leggi complicano la vita pratica senza risultato: “Oggi è tutto illegale, non si possono più raccogliere neanche le canne per infrascare le piante di pomodoro o dei piselli. Tempo fa i vigili urbani hanno multato un tale solo perché aveva preso una cassetta di terriccio da quel boschetto di acacie”.
Nel mondo di oggi tutto è organizzato e regolato da sempre nuove leggi. L’amore per il lavoro della terra, il prodotto della propria coltivazione che si mangia o regala per dare gusto alle giornate e rimanere attaccati alle radici contadine viene messo da parte dall’insensatezza di problemi e gabelle che si impongono e modificano il tradizionale rapporto di libera autoproduzione di ortaggi.
il vecchio incontrato lungo l’argine ha anche tentato di leggere Moby Dick, un libro difficile da leggere, per la storia di una balena inseguita e ritenuta un demonio dal tormentato capitano Achab. Per il vecchio il suo colore bianco era di per sé immagine di purezza e non di malvagità. Per Spartaco invece il bianco e il nero sono due colori assoluti che annullano gli altri colori. Bianco e nero si assomigliano e rappresentano due facce del male. La balena bianca per Spartaco è l’elemento cattivo che la mente di ogni essere umano contienee il viaggio della baleniera si presenta come viaggio dentro la mente, perversa, di ogni uomo.
In questi racconti si può viaggiare anche in un luogo circoscritto e conosciuto da sempre perché viaggiare è un’arte della mente che conduce a nuove osservazioni e riflessioni, a nuove dimensioni di scoperta e condivisione. Abbracciare il proprio territorio e percorrerlo quotidianamente in cerca di incontri e ricordi non significa però sprofondare in una melanconia nostalgica per Spartaco.
La cifra di questi racconti è la leggerezza lungo la direttrice di una vena pessimistica non assoluta ma ragionevolmente dimostrata, che nasce dal disincanto dello sguardo di fronte all’evidenza dei fatti della memoria come della realtà quotidiana.

Su “Passeggiare dove sono di casa”

di Annamaria Locatelli

Ho letto, ovvero riletto i quattro racconti del libro: Passeggiare dove sono di casa di Angelo Australi (usciti in precedenza su Poliscritture), ma letti insieme generano nuove scoperte sulla sua scrittura, modalità e temi ricorrenti… Racconti molto belli di un viaggio passeggiando vicino a casa, in realtà scavando in territori reali e dell’anima alla ricerca di un segreto, di un mistero che vi si nasconde…
Un percorso che si perde in un labirinto di stati d’animo e spesso perviene allo smarrimento, alla confusione, ma solo dopo aver attraversato argini di fiume, contemplato mari e arcipelaghi di isole, oasi faunistiche e scalato una montagna in pellegrinaggio sulla tomba di Italo Calvino… Memorie del passato si intrecciano con i vissuti al presente di persone amiche, familiari… Su ogni realtà c’è molta attenzione… La disputa teologica tra i due frati del ‘cinquecento, a mo’ di storiella raccontata nelle stalle le sere d’inverno o nell’osteria, riprende il tema di Bertoldo il contadino, dalla gestualità irresistibile, che sbeffeggia i potenti.

Sempre presenti il problemi del quotidiano, le fatiche di tutti i giorni, la clausura in tempo di pandemia e la paura per la minaccia di un virus mortale. Altro tema ricorrente è il degrado ambientale, la calura estiva da cambiamento climatico, ma anche l’insofferenza al caldo di Spartaco, l’io narrante, da età che avanza, il fiume in secca ma anche la lunga biscia che attraversa il sentiero umano, l’imprevisto, mentre Spartaco conversa sull’argine con un ultranovantenne contadino… Le attività dei due pensionati sono messe a confronto: l’uno l’orto, l’altro lettura e scrittura… E così, come in tutti i racconti di Angelo Australi, si arriva sempre a una svolta narrativa. In questo caso l’oggetto è la balena bianca di Melville, un film lettura, che ha colpito straordinariamente entrambi gli anziani signori… La riflessione si fa complessa, visionaria e surreale… terribilmente tragica. Il viaggio sull’oceano di Capitan Achab e la sua nemica, la balena bianca, giocando una partita mortale, in eterno reciproco inseguimento distruttivo “… rappresenta un qualcosa di cattivo che cova dentro la mente di ogni essere umano”, dove il bianco, sintesi di tutti i colori e il nero, assenza di colori, si confondono… La conclusione mi ha ricordato quel romanzo di Conrad Cuore di tenebra, una discesa agli inferi. Ma c’è anche, in sintonia, il racconto del vecchio curatore dell’orto. Parla di un amico ubriaco che, pedalando di notte, non sente la sua testa girare, ma ‘vede’ la strada spostarsi finendo ripetutamente nella scarpata. Non sappiamo, alla fine, se partiamo, arriviamo o ritorniamo, se giriamo semplicemente intorno a noi stessi: il viaggio sul territorio si riflette o meglio si chiude nella mente come una misteriosa realtà ai confini…

I racconti sono pieni di personaggi e presenze, ma sempre avvolti nella malinconica solitudine del narratore, nei suoi dubbi e tormentose scelte, impersonato da Spartaco, nei vari passaggi della vita.
Ho sempre l’impressione, leggendo le opere dell’autore, di trovarmi davanti ad un prodotto di alto e prezioso artigianato oppure ad un lavoro di scavo al rinvenimento di dimenticate vestigia…

Racconti di Angelo Australi

«In un mondo sempre più frivolo dove la lettura diventa cosa complicatissima (un romanzo sembra una montagna da scalare), non possiamo fare altro che consigliare la lettura di questi racconti; ognuno poi vi troverà il proprio, quello più intimo. […] William Carlos Williams […] sostiene che “il racconto, che agisce come la scintilla di un fiammifero acceso al buio, è l’unico vero modo per descrivere la brevità, la frammentazione e allo stesso tempo l’interezza della vita delle persone”. […] Ed è quello che troviamo nei racconti di Angelo Australi perché l’autore mette in scena proprio la vita in tutta la sua frammentarietà e la sua brevità. Ma con grande talento che la vita stessa talvolta non possiede». (dalla postfazione di René Corona)

https://www.sefeditrice.it/catalogo/passeggiare-dove-sono-di-casa/17764