finalmente una buona notizia: la teoria economica è morta

Keynes, Graeber, Krugman

introduzione, Paolo Di Marco

Come ha detto recentemente un estremista come Giorgio La Malfa (v.3) alla presentazione dell’edizione dell’opera di Keynes curata da Anna Carabelli:
alla Bocconi negli ultimi trent’anni ci hanno insegnato fuffa
Va detto che la notizia non è nuova, i più informati lo sospettavano già cent’anni fa, quando Piero Sraffa pubblicò ‘Sulle relazioni tra costo e quantità prodotta’ e l’anno dopo una versione inglese, ‘The laws of return under competitive conditions’, dove con molto garbo dimostrava che la teoria di Marshall si reggeva su gambe estremamente fragili; tanto che senza protesi radicali non stava in piedi. Per chiarire si pensi che la teoria neoclassica-marginalista presuppone che dall’incontro tra (curva della) domanda e (curva della) offerta scaturisse un punto di equilibrio che garantiva l’esistenza di un sistema di prezzi di equilibrio.
Quello che Sraffa mostra è che le condizioni affinché questo avvenga sono estremamente particolari e irrealistiche.
E non pensiamo che Sraffa si riferisse ad elementi speciali e condizioni non generali (come l’equilibrio). Nel linguaggio rarefatto dell’economia matematica quelle analizzate sono le condizioni di esistenza di un sistema economico descrivibile, con un sistema dei prezzi unico e ben definito e quindi la possibilità di ricavarne leggi di comportamento.
È bello vedere come Sraffa introduce il suo lavoro rilevando come i dubbi sui piedi d’argilla della teoria fossero abbastanza universali, ma relegati in note a margine e accenni discreti. Perché la stessa sorte toccherà a tutte le critiche successive, la sua compresa.
L’ultimo chiodo sulla bara della teoria l’ha messa Keynes per tramite di Anna Carabelli che ha appena presentato e commentato una edizione magistrale della sua opera. (v. 4)
In qualche modo anche John Maynard Keynes, nonostante la sua influenza profonda sia sulla pratica (dalle profetiche ‘Conseguenze economiche della pace’, al New Deal Rooseveltiano, alle politiche espansive che portano il suo nome), sia sulla teoria (la scuola keynesiana per quanto minoritaria è viva e vegeta) era stato reso innocuo: come ci ha mostrato Anna Carabelli, si utilizzano acriticamente il suo modello economico e quantità come il PIL che Keynes riteneva privi di valore se non si prendevano con le pinze, in quanto riferiti a quantità misurabili poco e male.
La misura è uno dei problemi critici della teoria economica:
è fondamentale nell’economia classica dove si cerca il fondamento che rende i beni scambiabili e permette quindi di trasformare gli oggetti in merci;
è quindi alla base della teoria del valore e della ricerca sull’origine del profitto;
ma anche quando i marginalisti abbandonano queste ricerche e si concentrano su proprietà ‘matematiche’ la misura comune è ciò che permette alla matematica di stare in piedi. (v. 5)
Quando Keynes mette in dubbio la possibilità di misurare scuote alle fondamenta l’albero del marginalismo.
Che d’altronde somiglia più a un cespuglio, più ornamentale che pratico:
non solo la teoria è stata dimostrata logicamente e matematicamente inconsistente, ma anche dal punto di vista pratico è un pupazzo buono per tutte le stagioni:
a giustificare politiche restrittive che in tempo di crisi strangolano i paesi e, con gli stessi protagonisti (v. l’ineffabile ex direttrice del Fondo Monetario Internazionale) a propugnare l’opposto quando la convenienza politica spinge in quel verso. E incapace sia di prevedere le crisi (2008) sia di fornire ricette utili per uscirne (quando le banche centrali hanno cominciato a stampare moneta a gogò e han fatto dimenticare la crisi i più stupiti erano gli economisti).
Resta solamente la sua funzione ideologica, che viene da lontano: l’hobbesismo dell’homo homini lupus come natura umana originale, l’egoismo e la proprietà privata, la competizione e l’oppressione ancora come natura, istinti inevitabili.
Ma anche qui smentiti dall’antropologia moderna che abbiamo incontrato in Suzman e Graeber, che ci mostra una storia umana assai più ricca di libertà e di scelta di quanto la filosofia economica ci abbia raccontato.
Quando Marx ci dice la storia è storia della lotta di classe parla solo di quel pezzo di storia che fino al secolo scorso era ufficiale, quella teleologica indicata dalla freccia caccia/raccolta —>agricoltura/surplus —>signori/servi —>complessità/stato/burocrazia/forza all’esterno e interno.
Quello che non fa parte di questo percorso veniva volta a volta indicato come secoli bui o periodi di caos, e invece erano secoli e millenni, in Asia come in Africa e America, dove vigeva un regime di libertà, non ‘in attesa del progresso e del surplus’ ma per scelta cosciente (sancita spesso dal taglio delle teste di signori e preti), l’agricoltura veniva tenuta come sussidiaria, le città non avevano padroni e servi. Non solo i cacciatori-raccoglitori che vivevano bene con 20 ore di lavoro la settimana, ma città di centomila abitanti autoorganizzate con assemblee e comitati di quartiere, che prosperano per centinaia di anni senza signori nè sacerdoti. E senza un’economia nel senso moderno, ma gestendo con una raffinata organizzazione sociale sia la caccia-raccolta sia greggi e coltivazioni, come l’algoritmo di cooperazione sociale che permette a una città di più di ventimila persone come Nebelivka più di 4000 anni fa di organizzarsi senza neppure comitati.

Ma la funzione ideologica nonostante tutto serve ancora, perché non sia evidente che le politiche restrittive servono solo alle banche mentre quelle espansive servono alle industrie e al commercio -e nessuna alla popolazione nel suo insieme.
Se andiamo sul NYT a leggere la dotta dissertazione di una persona per bene e neokeynesiana come il Nobel Paul Krugman sull’inflazione nasce irresistibile il paragone con la prima dinastia cinese, Shang, che prima di qualsiasi decisione attendeva il responso degli astrologi: questi mettevano sulle braci gusci di tartaruga e cervici di bue e ne leggevano segni e linee di frattura, intepretandole poi secondo un codice tanto rigoroso quanto arbitrario. (v. 7)
Che poi mai si sospetti della teoria come semplice ancella della guerra tra stati, in tutte le sue forme, anche se la miriade di misure e organismi catenaccio che occupano lo spazio mondiale, dal WTO ai brevetti all’idolatria di feticci di letame come la concorrenza perfetta, si rifanno formalmente a lei.
Chiariamo con un esempio recente: uno stato africano fa una legge con cui stabilisce che per tutelare la salute dei cittadini i prodotti venduti, farmaci, fertilizzanti, anticrittogamici, devono certificare di non essere tossici. Viene citato in giudizio sia presso il WTO sia presso una corte degli USA in quanto questa norma rappresenta un impedimento alla libera concorrenza. (Molti stati rinunciano prima di fare queste leggi, visto che tanto perderebbero, altri come l’Italia fanno una norma che impone ai Comuni che fanno servizi pubblici, dall’acqua alle case alla manutenzione, di dimostrare preventivamente che questi sono migliori di ogni possibile gestione privata). Questo perchè il dogma dell’immacolata concorrenza dice che questa genera per sua natura e volontà divina il miglior risultato possibile. E contemporaneamente perchè questo dogma è uno degli assunti che permette di far funzionare (anche se male come detto) i modelli matematici dell’economia. Ma soprattutto, aggiungiamo, permette alle aziende USA di obbligare gli altri paesi a comprare prodotti tossici.
Ma se la teoria dominante e insegnata è morta, cosa resta?
Su questi due poli vogliamo iniziare un ragionamento, un percorso di lavoro anche plurimo, che approfondisca i termini della crisi della teoria e insieme ne studi i fondamenti.
Vorremmo poter escludere che le università vogliano restare un centro di culto dei morti (anche se è ritenuto molto scortese farlo notare a professori che basano stipendio e prestigio su quella forma di astrologia), tutte le altre scelte sono sul tavolo; ma per capire e proporre conviene stavolta ripartire da fondamenta solide e affrontare i problemi che sono rimasti in sospeso.
Una volta tolte le sterpaglie (che com’è noto crescono là dove l’uomo è passato, ha lavorato male e se n’è andato) siamo finalmente in grado di rivedere campi valli e boschi e capire cosa ci serve per tracciare un cammino.

Per citare un haiku ironico di Mizuta Masahide,
蔵焼けて 障るものなき 月見哉
kura yakete sawaru mono naki tsukimi kana
Il tetto è bruciato
e ora
nulla ostacola la vista della luna

Magari scoprendo che non abbiamo bisogno di oggetti troppo complicati: qualche tavola delle interdipendenze settoriali (secondo la tradizione di Queneau e Leontiev) e poche ma rigorose idee sui fondamentali.
Come dovrebbe essere una buona teoria economica e una buona prassi?
Ripartiamo dalle fondamenta: la parola a Sraffa.

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1-Piero Sraffa, Sulle relazioni tra costo e quantità prodotta, Annali di economia, 1925
2-Piero Sraffa, The Laws of Return under Competitive Conditions, The Economic Journal, Dic 1926
3-Anna Carabelli, La rivoluzione incompiuta di Keynes, seminario online alla Fondazione La Malfa, Novembre 2021
4-Anna Carabelli, Keynes on Uncertainty and Tragic Happiness, Springer, 2021
5-Anna Carabelli SRAFFA VERSUS KEYNES ON THE METHOD OF ECONOMICS: MEASUREMENT, HOMOGENEITY AND INDEPENDENCE  Annals of the Fondazione Luigi Einaudi Volume LII,  2018
6- D. Graeber, D. Wengrow, The Dawn of Everything, Allen Lane 2021
7- Paul Krugman, The Year of Inflation Infamy, NYTimes, 16/12/2021
8-Paolo Di Marco, Valore, tempo e forze produttive,in studi in onore di Palazzolo, Giuffrè 1984
9- Paolo Di Marco, Scientificità dell'economia, in Requisiti per un sistema economico accettabile, De Finetti ed,F. Angeli 1972

 

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