«Cosa farò da grande?»

 Riordinadiario 2009. Una riflessione sul lavoro culturale e politico “sott’acqua” di Attilio Mangano

di Ennio Abate

Oggi 10 aprile 2022 Facebook mi ha ricordato che sono passati ben 6 anni dalla morte di Attilio Mangano.  E io ho pensato ancor di più che la nostra storia  si è disfatta. Beh, almeno siamo stati amici e ci siamo detti delle verità. Poi  ho aperto  la cartella del mio carteggio con lui e,  per ricordarlo meno sbrigativamente, pubblico questo scritto che gli avevo dedicato per festeggiare ( a modo mio) il compimento dei suoi 64 anni. [ E. A.]

Non mi sono mai piaciute le feste di compleanno, compresa la mia. Trovo imbarazzante la domanda proposta da Attilio in occasione dei suoi sessantaquattro anni. Io, che di anni ne ho ben 68, la lascerei più volentieri ai giovani. Inoltre temo le esercitazioni letterarie, i panegirici, la convivialità ghettizzata. E tuttavia stavolta scelgo di stare al gioco.
Risponderò innanzitutto e brevemente: nel prossimo e delimitato futuro che intravedo per me, lavorerò a prendere atto della realtà mutata e sempre più ostile al sogno  che ho fatto mio (quello della trasformazione “comunista” della realtà) e a salvaguardare questo sogno.
“Da grande”, dunque, farò, scrivendo e operando dove mi sembrerà possibile, il testimone (un testimone secondario, come suggeriva Cesare Cases) di una vicenda in sé compiuta chiamata “comunismo” e che non si sa se e quando si ripresenterà ancora come possibile senso nella storia umana. E senza soverchie speranze di passarla ad altri – figli, nipoti, giovani – la mia memoria.
Se stavolta sto al “gioco” proposto da Attilio, è perché so che la sua figura accattivante e meridionale s’è insediata nel mio immaginario (concetto a lui tanto caro). Non so se gli farà piacere il posto che essa occupa: quello di un «oscuro fratello» che in questa poesia, scritta molti anni fa, cerca assieme a me «una scorciatoia» in un paesaggio di disfacimento, confusione  e suicidio:

Col suo oscuro fratello, ombra che trascina con sé per mano
tra dirupi e scogli deserti
incombenti su strade poco visibili, abissi di periferia
che danno capogiri da terrazzo o grattacielo
va in cerca di una scorciatoia.

Unico passaggio azzardato
un sentiero di cocci ben murati su una liscia parete
da traversare senza fissare in basso
i gorghi, l’asfalto, il vetro luccicante di un mare.

Non una fune, un appiglio, un corrimano.
Rinuncia, indietreggia, lui assieme alla sua ombra.
Non sa se di là più luce, se vita più dolce ci sia.
Resta al di qua, sul terreno piano, fuori mano
e senza segni di vita (ricorda  il film dell’iraniano Kiarostami).

Qui, altri aspiranti suicidi si allenano
ingoiando,  disciplinati, praline di psicofarmaci
e sorseggiando qualcosa
che quaglia piano sulle pareti sanguigne dello stomaco
un amalgama duro
e addormenta l’inquietudine, i discorsi, le parole.

Certo è una proiezione che ripeto o ho ripetuto anche nei confronti di altri compagni ed amici coi quali cerco ancora il dialogo e la cooperazione fraterna,  ben diversa da quella che ho verso le figure paterne. Ma è grazie ad essa e al mio spostamento verso un livello più umbratile che i nostri due percorsi – il mio e quello di Attilio –  lunghi, contorti, inquieti, mai coincidenti né pienamente collaborativi, possono avvicinarsi anziché respingersi immediatamente.

Iniziai a parlare con lui  nel lontano 1977, quando, precipitate le crisi di Avanguardia Operaia e poi quella di Democrazia Proletaria, lo cercai per la prima volta nella sua casa di Milano, allora in Via Plinio, immaginandomelo (altra proiezione!) come un possibile alleato per difendere quel “qualcosa del ’68-’69”, che con DP ormai consideravo perso e non scorgevo altrove “a sinistra” neppure nelle tracce dell’Autonomia né in quelle, ancora non del tutto sanguinolenti, del brigatismo rosso.
Questo cercare al buio – mio e suo – da allora è l’elemento di umana sintonia, che ci ha accomunati e non ha mai fatto interrompere i nostri dialoghi, gli scambi epistolari o, ora, per e-mail.
Quando invece ci soffermiamo alla luce (pur ineludibile) del Lampione della Coscienza Politica Possibile e io convulsamente ad Attilio  o lui pacatamente a me ci indichiamo la possibile «scorciatoia» («esodo», dico io; «democrazia libertaria», dice lui), scattano rimproveri e distanziamenti reciproci.
Hai dimenticato il valore della tua giovinezza di «rivoluzionario» e preferito la «saggezza riformista» della vecchiaia, dico io. Sei rimasto un fortiniano, un veterocomunista, un negriano, attacca lui. Hai lasciato la “buona” compagnia (Montaldi-Bosio-Fortini) per inseguire  Ferrara, Sofri e la “cattiva” compagnia, replico io. E Attilio, senza mai prendersela, relativizza, smonta le mie analisi, s’affanna a dimostrarmi che il bicchiere della politica, che a me appare mezzo vuoto, è in realtà mezzo pieno. Oppure aggira ogni mio aut-aut e, serafico, ripropone il suo et-et, offrendo anche a me un posticino nel suo micropaentheon politico-culturale, dove l’heideggeriano conviverebbe con l’esodante e il confronto sostituisce (a mio parere) la scelta.
Amici di fatto al buio o nella penombra, confidenti persino su aspetti esistenziali “delicati”, non abbiamo mai potuto collaborare in tanti anni proprio sulle res publicae, a cui – temo – entrambi teniamo di più.
Ci siamo controllati a vicenda le nostre diverse andature, spiati e spalleggiati. Ma né le sue bottiglie né le mie hanno mai portato il messaggio atteso: quello per passare dal dialogo dalle postazioni in cui siamo accampati alla “prova del budino” (cooperazione in una rivista, in un sito, in un seminario o che so altro). Io ho potuto regalargli solo obiezioni e critiche “fraterne”. E lui è andato avanti squadernandomi di continuo un elenco di temi, questioni, convegni da fare. Con un accanimento di erudizione, una vastità di letture, di citazioni, di “tuttologia” che mi ha sempre sconcertato; e che altri amici non so se ammirano o subiscono (lasciandolo  spesso più solo nelle sue “elucubrazioni” di quanto non faccia io.

Col tempo e malgrado le riserve, ho guardato con più affetto a questo suo  rimestare “sott’acqua”, alla sua disinvoltura  nel saltare da un argomento all’altro (vedi il blog duemila ragioni), che pur mi f innervosisce, al suo assestarsi nella gabbia (o necessario rifugio?) del quotidiano familiare, amicale, virtuale, in cui io pure sguazzo, ma con disagio e rabbia repressa. E ho sempre confidato e approfittato della sua capacità di lettore onnivoro, a volte frettoloso, ma colto e disponibile per sottoporgli i miei scritti e farmi incoraggiare da uno che pare mastichi più di me  il “culturalese”.
Ci siamo accostati per vicinanza di ceto? Solo in parte. Da insegnante ho sempre diffidato degli insegnanti. Da intellettuale massa ho sempre frequentato intellettuali massa ma mai illudendomi che il lavoro da fare  potesse non guardare a quello che succede nelle Stanze Alte della Politica e della Cultura o nei bassifondi sociali. Dai quali, crollate le mediazioni della sinistra e invecchiando, ci siamo tutti un po’ distanziati, timorosi e incerti su cosa stanno combinando i nuovi immigrati, i giovani bulli, i precari alla deriva, i razzisti popolari che s’arruolano nelle ronde, i criminali in doppiopetto o sottocasa, le tute blu o i lavoratori della conoscenza.
Questa sua/mia solitudine rispetto al mondo, cambiato e sordo sia al mio «esodo» che alla  sua «democrazia libertaria»,  questa sua e mia debolezza, che a volte ci spinge con una certa disperazione a sottoporci inermi e fiduciosi alle critiche altrui (un altro aspetto che ci accomuna), permette che l’amicizia scorra  tra noi. Ma appunto – dico io – restando «sott’acqua». E sempre  troppo vicini e inascoltati da quanti vorrebbero scivolare senza scervellarsi più su storia,  concetti, ideologie, dimensione pubblica, leggi, conflitti.

Non ci resta che questo scambio “sott’acqua”? Mi scriveva Attilio nel 2003 alla morte di Luciano Della Mea: «io e Luciano eravamo in totale disaccordo, ma questo non ha mai impedito di continuare il nostro rapporto nella stima reciproca (la nostra corrispondenza é andata avanti per quattro o cinque ANNI)».  E a proposito del requiem «impietoso» che avevo dedicato a Luciano: «Tu stesso nel tuo scritto sei più convincente quando ti fai prendere dalla PIETAS e  scopri che  Luciano nonostante tutto aveva una sensibilità particolarissima  e un leopardismo di fondo che, per quanto scolastico,  era la sua  filosofia di vita, fino a comprendere come una stessa maschera di durezza nasconda o riveli altro».
Non resta, dunque, anche a noi che invecchiare confrontandoci? Bisogna portare avanti solo i tentativi di cooperazione che non si pongono il problema  del che fare insieme (per Attilio «il problema della linea»), ma  solo quello del «piacere di stare insieme e di comunicare»?
Il «Cosa farò da grande?» non potrà mai più diventare un «Cosa faremo da grandi?», da rivolgere, ad esempio qui a Milano, a riviste, gruppi, associazioni che fanno del giardinaggio politico-culturale senza pestarsi i piedi ma anche senza più dialogare o litigare? Non si potrà mai più uscire dalla amicalità ristretta e tentare di reinterrogare assieme il convitato di pietra della Realtà che ci sovrasta?

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