Quarantaquattro gatti

 

 di Angelo Australi

Con quel primo venerdì di marzo ultimavano la verniciatura dei quarantaquattro comodini realizzati per un lussuoso albergo di Capri, in anticipo di una settimana sui tempi di consegna. Ci stavano dietro da fine gennaio, senza mai staccare la spina per ben quaranta giorni. All’albergo a quattro stelle la stagione turistica si apriva con la Pasqua, quindi letti e comodini dovevano essere consegnati non oltre la metà del mese. Nel carico erano compresi anche gli accessori per l’illuminazione, già consegnati e riscossi da Spartaco e il suo socio prima di buttarsi a capo basso su quell’ordine per il quale si erano trasferiti a lavorare in un fondo messo a disposizione dal committente al suo paese. Li aveva cercati il padrone di quella ditta che gestiva l’ordinazione dei letti in ferro per la fornitura di lampadari, abat-jour, di applique e di alcune piantane da distribuire nei locali del bar o di corredo alle poltrone della sala della reception, ma visto che apprezzava il loro modo di lavorare, alla fine li aveva coinvolti anche per la verniciatura dei mobiletti. Erano già in affari con il proprietario perché ci acquistavano le strutture in ferro dei lampadari che poi decoravano in argento o in oro a foglia, mentre lui, quando aveva bisogno di qualche accessorio per l’illuminazione da sistemare negli spazi espositivi della sua azienda, si rivolgeva a loro. Uno scambio che pur non avendo grossi margini di guadagno consentiva di non tirare fuori un soldo nell’acquisto dei loro articoli. Va detto che l’azienda di Renato era molto rinomata nel lavorare il ferro, faceva letti, tavoli, sedie, lampadari, qualsiasi cosa servisse per la casa o il giardino, … e anche in ogni tipo di metallo; non avevano a contratto mai meno di tre rappresentanti a gironzolare per l’Italia: uno al sud, uno che si muoveva per il nord e uno sul centro. E ormai, già da un paio di anni, dalla bottega artigianale situata in una storica strada dell’antico borgo intorno al quale si era sviluppato il paese nel dopoguerra, lui e il fratello si erano trasferiti con l’attività nella nuova zona industriale cresciuta in quella periferia allargatasi tra le coltivazioni di granturco e del pregiatissimo tabacco dei sigari toscani, dando lavoro a dodici operai. Il capannone si trovava in un punto strategico della viabilità del fondovalle, chi si spostava in auto non poteva non notarlo. Avevano messo una gigantesca insegna luminosa che si leggeva anche dall’Autostrada del Sole e, sul davanti, oltre l’area adibita a parcheggio dei clienti, l’immobile esibiva un ampio spazio espositivo dove stavano in mostra anche i lampadari realizzati da Spartaco e Siro. Alla richiesta dei proprietari dell’albergo di indicargli qualcuno in grado di realizzare la mobilia in legno da abbinare ai letti, Renato si era subito convinto di riuscire a proporre un’alta qualità ad un prezzo molto competitivo. Per la realizzazione dei mobili grezzi aveva in mente una falegnameria dell’area industriale che lavorava il truciolato, ma poi Spartaco avrebbe nascosto la bassa qualità del legno con la coloratura finale.

Nella sua vecchia bottega adesso Spartaco e Siro già alle otto di mattina accendevano il mangianastri e lavoravano in compagnia della musica. Per andare in quel posto si alzavano molto presto perché al mattino, come del resto il pomeriggio, ad attraversare la valle intasata dal traffico impiegavano circa un’ora. Nonostante i capelli gli arrivassero alle spalle sembravano ancora dei ragazzi, così il loro arrivo dagli abitanti era stata considerata una strana novità. Il rock che ascoltavano di sottofondo era come la colonna sonora di un film dal ritmo convulso, stonava da morire con la statica scenografia dell’antico borgo medioevale. Molti vecchi studiavano quella trasformazione dalla strada con diffidenza, ma qualcuno più socievole si affacciava a curiosare in quelle stanze assalite dagli odori dei solventi e dalla polvere della carteggiatura che veniva effettuata ad ogni mano di vernice data ai comodini. La musica arrivava lì intorno come un’eco allucinante, ribalzava dalle pareti verso l’esterno tramite la porta di accesso ed il riscontro d’aria che si creava con la finestrella della stanza sul retro che si affacciava in un vicolo stretto, umido e buio, dove nel tempo si era sovrapposto uno strato di guano di piccione alto qualche centimetro. Quella finestrella con le inferriate la lasciavano aperta giorno e notte, così la vernice sarebbe asciugata più in fretta. E tutte le mattine, da un mese a questa parte, dopo un po’ che era partito il concerto, l’anziana vedova che abitava proprio sopra il fondo dove lavoravano, si presentava con la moka per offrirgli un caffè bello fumante. Quando sorridendo gli dava il buongiorno era ancora in vestaglia da casa e ciabatte, come se tra loro ci fosse una stretta parentela.

Senza l’aiuto della musica Spartaco non riusciva a lavorare. O meglio, non era lucidamente produttivo. Lui e il socio stavano insieme da cinque mesi e quella era la prima commessa di una certa importanza, fino a quel momento si erano limitati a fornire in conto vendita gli oggetti ad alcuni negozi di arredamento presenti nei paesi sparsi per la vallata, dove si presentavano ogni due o tre settimane per incassare il denaro sul venduto e recuperare delle nuove ordinazioni. Non avevano un catalogo che mostrava gli articoli, vivevano un po’ alla giornata, portando appresso dei modelli da far giudicare ai negozianti.

Anche se non sapeva niente di quel mestiere, l’idea di mettersi a lavorare insieme era venuta a Siro una notte che stavano al bar del cinematografo, dove si erano fermati con altri amici dopo essere stati a vedere un film di arti marziali. Visto e considerato che Spartaco in quel periodo stava tentando di mettersi in proprio, lui fece la proposta di finanziare la società con il denaro ricavato dalla vendita del ferro raccolto rastrellando ogni casa colonica abbandonata del circondario. Stufe a legna, testate di letti, zappe, vanghe, biciclette sgangherate, tubature in rame, grondaie per il recupero dell’acqua piovana; tutto quello poteva stare sul portabagagli o entrare nella sua Cinquecento blu notte targata Genova, acquistata di seconda mano. In poco più di tre mesi aveva fatto settecentomila lire che adesso voleva investire in quell’idea. Mentre Spartaco, senza tirar fuori di tasca un soldo, avrebbe messo a disposizione il suo laboratorio ricavato in una delle stanze dove teneva i libri e la folta collezione di dischi in vinile. Si trattava di un bilocale di proprietà della sua famiglia, avuto in eredità con la morte del nonno. Un sottotetto squallido che lui cercò di vivacizzare inventandosi per le pareti una carta da parati fatta con le pagine di alcuni quotidiani che leggeva ogni giorno. Lotta Continua, Il Manifesto, L’Unità e Paese Sera. Sopra la confusione dei grossi titoli ormai ingialliti, degli articoli e delle foto, aveva appeso alcuni poster di gruppi rock leggendari trovati in riviste musicali o recuperati nel corso dei vari concerti ai quali era stato. Spartaco metteva anche la conoscenza del mestiere, visto aveva lavorato da un vecchio artigiano decoratore che dopo aver fatto il restauratore alle dipendenze dei proprietari di una lussuosa villa rinascimentale, andando in pensione, pur di non stare con le mani in mano si era messo a montare cornici e oggetti per l’illuminazione da interno. Aveva lavorato in questa bottega per quasi tre anni, fino a quando, una notte, Remo non era morto d’infarto. La bottega si trovava accanto ad un negozio di parrucchiera, nella stessa strada dove abitava la famiglia di Spartaco. Lo aveva preso a lavorare con sé appena dato l’esame di terza media. All’artigiano ogni tanto capitava ancora di restaurare qualche vecchio mobile, e Spartaco aveva imparato piuttosto bene tutte quelle pratiche di lavoro per le quali bisognava munirsi di pazienza, avere cura dei dettagli, conoscere il tipo di legno e come miscelare le vernici. Remo non era un soggetto che si teneva per sé i segreti del mestiere, anzi, gli piaceva proprio spiegare al giovane apprendista la specificità di ogni tecnica e di ogni regola. Lo stipendio non era granché, ma a Spartaco piaceva impegnarsi a lavorare in quel modo, in un certo senso pensava che anche se avesse imparato bene a fare le stesse operazioni all’infinito, lavorando con le proprie mani non si sarebbe mai annoiato, ci stava sempre la soddisfazione di provare un qualcosa di nuovo, l’appagamento d’imbattersi in una sorpresa per la quale bisognava approcciarsi con una voglia di capire che non poteva che nascere da lui.

I quarantaquattro comodini erano stati decorati in oro a foglia, un po’ alla maniera del Settecento, che negli anni Settanta del secolo scorso andava così di moda. Bianco il colore base, rosso cardinale o fucsia, verde pisello o celeste madonna alcune scanalature. Oro gli sbalzi della cornice che decorava lo sportello e il piccolo cassetto. Una bella fatica, se si pensa che venivano dipinti nel fuori e internamente, scartati e invecchiati a mano con un paio di passaggi di vernice a tempera e altrettanti di gommalacca, dopodiché si faceva la terza e definitiva rasatura con della finissima lana di acciaio, per far sì che la superficie risultasse liscia e pronta per il terzo e ultimo passaggio di quella vernice trasparente che consentiva alla luce di essere riflessa al meglio dalla superficie. In quel momento stavano creando sui mobiletti l’illusione di avere qualche secolo spalmando della catramina bitumata che rimuovevano stropicciando la superficie con uno straccio ben pulito. Siro faceva la fatica maggiore perché spandeva e toglieva il bitume strofinando energicamente sul legno, mentre Spartaco si occupava delle rifiniture, visto che i comodini andavano abbinati ai venti letti a due piazze e quattro a una singola. Perché quei mobiletti dipinti manualmente avessero una certa uniformità nel colore e nel gioco dell’invecchiamento occorreva fare molta attenzione. In questo Spartaco ci sapeva fare, era stato il vecchio Remo a suggerirgli di spalmare la gommalacca anche sopra le vernici a tempera, anziché il solito fondo alla nitro, perché così i mobili acquistavano un aspetto dalla patinatura più antica. Quando gli era stato raccontato che quella sorta di resina naturale veniva ottenuta dalla secrezione di una cocciniglia che l’uomo poi trasformava in delle lucenti scaglie di colore giallo bruno da sciogliersi nell’alcool, lui era scoppiato a ridere di meraviglia. Proprio non riusciva crederci, gli sembrava un’assurdità veder trasformata della merda d’insetto in un qualcosa di così prezioso da farlo costare come se fosse oro. Remo gli aveva spiegato che prima di tutto era così caro perché l’insetto viveva esclusivamente in alcune particolari zone dell’India, e che solo la femmina spandeva la sua secrezione, per ottenere una solida presa sulla corteccia degli alberi.

*           *          *

Nonostante l’umidità e la circolazione dell’aria proveniente dall’esterno che c’era nella bottega, a stropicciare con forza la catramina sui comodini Siro stava facendo delle gran belle sudate. Di tanto in tanto si fermava a considerare lo scorrere del tempo osservando la parete dove il suo orologio da polso ciondolava appeso a un chiodo, e mentre le ore passavano prima si era tolto il giubbotto, poi il maglione a collo alto, finendo a stropicciare quei mobiletti indossando solo una maglietta di cotone che ogni volta si fermava a riprender fiato gli procurava degli improvvisi brividi di freddo. Aveva già dato alcuni starnuti, con in coda ad ogni serie l’accompagnamento di una bestemmia che veniva in parte nascosta dalla musica. Il mangianastri era appoggiato su di un comodino già finito, sistemato nel disimpegno tra le due stanze, alla destra della porta del piccolo bagno e di fronte alla parete dove erano ordinati i marmi di forma rettangolare che servivano come piano di appoggio, leggermente più larghi della base in legno.

Ad un certo punto, quando l’orologio di Siro indicava mezzogiorno, si erano messe a suonare anche le campane di alcune chiese. Sicuramente a martellare nelle orecchie c’era quella del campanile della chiesa romanica situata nel piccolo centro storico, e almeno un altro paio sembravano replicare da più lontano. In risposta a questo dindolio, per strada c’era un cane che abbaiava come un pazzo.

– E noi non ci fermiamo? … Ha fame anche il cane, senti come abbaia.

Siro appoggiò l’ultimo comodino nella parte centrale della stanza sul davanti, dove Spartaco lo accolse ridendo.

Tra la musica e l’impegno sul lavoro, nessuno si era reso conto di come fosse corso via il tempo. L’anomalia di quella giornata così spenta non aveva subito variazioni di luce e di colore, durante la mattinata il sole era apparso per un attimo, tornando subito a nascondersi dietro quella nebbia compatta come uno spesso strato di cemento che quasi schiacciava il tetto delle case.

– Fra qualche minuto, appena finisco di schizzettare le cacchine di mosca agli ultimi due comodini che mi hai passato.

– Stupendi! … Sono riusciti come dio comanda.

– Si avvicinano anche come tonalità di bianco, non sarà complicato accoppiarli nelle camere d’albergo.

Spartaco si trovava nella stanza affacciata sulla strada principale perché così, stando a ridosso della vetrata, il chiarore del giorno eliminava ogni alone di ombra dai comodini. In quella mattinata la luce naturale era poca e sbiadita, ma sempre meglio del bagliore dell’elettricità diffusa nell’ambiente dall’alto, che tra il giallo e il gioco delle ombre falsava oltremisura il colore bianco avorio della superficie, limitando il giudizio sull’uniformità complessiva. I comodini erano ammassati uno sull’altro per un’altezza di tre file, separati tra di loro da uno spessore di cartone. Stavano tutti nella zona più esposta alla luce del giorno, nella parte iniziale delle due pareti addossate alla vetrata d’ingresso. Con il pennello imbevuto di bitume diluito nel diluente alla nitro, lui schizzettava la superficie degli ultimi pezzi per distribuire sulla patina un più accentuato effetto d’invecchiamento realizzando dei tenui puntolini somiglianti alle feci della mosca, che in teoria si sarebbero incorporati al legno nel corso dei secoli. Stava facendo un’operazione molto impegnativa, perché gli schizzi dovevano creare l’illusione di essere davvero dei microscopici puntolini di merda insettivora.

– Ho una gran fame – disse Siro, mentre lo osservava lavorare.

– Anch’io, ma voglio terminare con questo giochino, almeno Renato nel pomeriggio sarà felice di trovare il lavoro finito.

– Ci pagherà subito?

– Così era il patto.

– In contanti?

– Non penso proprio abbia un milione e mezzo in contanti. Vedrai, ci firmerà un assegno.

– È la prima volta che si guadagnano così tanti soldi, … tutti insieme.

– Se ce la facciamo nei tempi, passiamo a cambiarlo in banca.

– Mi verrà senz’altro un capogiro, a vederli fitti fitti sull’unghia.

– Già, … sono proprio tanti.

– Quarantaquattro, come i gatti della canzone. Come fa? … Quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due. Si unirono compatti in fila per sei col resto di due… E poi non ricordo più il resto – disse Siro ridendo.

– … Coi baffi allineati, in fila per sei col resto di due… – Spartaco continuò, senza distrarsi.

– E dopo?

– … Le code attorcigliate in fila per sei col resto di due.

– … Sei per sette quarantadue, più due quarantaquattro… E siamo arrivati in fondo alla strofa – disse Siro.

 

–  Non mi viene in mente nient’altro – disse Spartaco. – La cantavo spesso da bambino, ma adesso ricordo solo la strofa iniziale. Certe cose dell’infanzia vanno via di testa e neanche te ne accorgi.

– Etci, etciu, etciu, …etciughe!!!  – Siro aveva starnutito di nuovo.

– Salute!!!

– Spero proprio di non peggiorare.

– Come fai a stare in maglietta, con tutto l’umido che gira in questo buco.

– Mi era preso un gran caldo, a forza di stropicciare per togliere il bitume.

– Ne avrai spalmato sicuramente troppo.

– Lo rilasciavo su due o tre comodini alla volta, e poi ripartivo a toglierlo dal primo.

– Ma così quando si asciuga, a strusciarlo via ci sputi l’anima.

– Oramai ho finito. Lavorando in serie immaginavo di far prima…. Etci, etciu, etciu, …etciughe. Eccoci di nuovo, porco diavolo!

– Copriti, non restare in maglietta, intanto che finisco.

– Nella prossima settimana che programmi abbiamo? – chiese Siro.

– Lunedì passiamo da Gino a ritirare i nuovi modelli di abat-jour dei quali gli avevo lasciato il disegno, così faccio la decorazione e li presentiamo ai nostri negozi, al massimo mercoledì.

Gino era il tornitore del legno, lavorava in una frazione sperduta tra i boschi, nella montagna sovrastante la valle del loro paese. Aveva più di settant’anni e da almeno dieci era cieco da un occhio, rovinato quando un ciocco di ontano, spezzandosi durante la tornitura, gli sfregiava fatalmente la faccia. Essendo un artigiano non percepiva una pensione, sicché avrebbe fatto quel mestiere fino a quando esisteva in lui un po’ di salute. Spartaco lo aveva conosciuto in bottega da Remo, già con l’occhio sinistro semichiuso, dal quale traspariva appena il materiale bianchiccio della sclera. Quando lo incontrava provava sempre un certo disagio, ma Gino era tranquillo e pacifico, per lui la mancanza di un occhio non era poi diversa dal perdere un dente. Ti fissava senza il complesso di suscitare nell’interlocutore un’incontenibile sensazione di ripulsa.

– Bisogna darsi da fare, Spartaco. Magari trovare un ordine come questo dei comodini.

– Se Renato è contento, con molta probabilità ci passerà ancora del lavoro.

– Certo se non avessi mandato via quella coppia di sposi che chiedeva di verniciare a tempera i mobili della vecchia camera dei nonni, adesso avremmo lavoro come minimo per un paio di settimane. Armadio, cassettone e comodini, letto matrimoniale da fare in oro a foglia.

– Siro, ne abbiamo già parlato. Non torniamoci sopra.

– E invece sì, perché non riesco a capire questo modo di ragionare. Il lavoro è lavoro, a volte c’è pure bisogno di tapparsi il naso e andare avanti.

– Non è vero!

– Io dico di sì.

– Erano mobili in massello, di noce l’armadio, ciliegio il cassettone e i due comodini. Verniciati rispettando il colore naturale del legno. Fatti da un falegname alla fine dell’Ottocento. Legno pregiato, ricco di tonalità e venature stupende, che oggi non si produce più. Visto costa meno, preferiamo importare i tronchi dalla foresta amazzonica o costruirne dai pannelli di truciolare.

– Te l’ho detto, secondo me ti stai facendo un po’ troppi scrupoli. Quando il cliente paga, lo dobbiamo accontentare.

In quell’accanimento così puntiglioso Siro nascondeva il fastidio per il sudore che stava raffreddandosi e anche un certo appetito, a quel punto non vedeva l’ora di andare al ristorante di Dino, situato dietro il torrione del cassero medioevale. Il pranzo era compreso nell’accordo con Renato, che oltre al milione e mezzo per la verniciatura dei quarantaquattro comodini comprendeva un pasto giornaliero per due, lui avrebbe pagato il proprietario del ristorante in un conto unico, alla fine di ogni settimana.

– Per niente! – Spartaco aveva brontolato, voltandosi a guardarlo.

– Ti stai facendo troppe seghe mentali, che differenza passa tra l’avvicinare oggi dei comodini nuovi allo stile del Settecento e quella di verniciare dei vecchi mobili?

– Anche se non vuoi crederci, c’è lo scarto che corre tra il giorno e la notte. Andrà pure di moda, ma non mi vedrai mai colorare un mobile nato in un certo modo con lo stile di un’altra epoca; … specie se all’origine il legno è stato trattato con tutto il rispetto che ci ha messo l’artigiano. L’hai visto no, prima di cominciare a verniciarli. Questi, anche se ora ti sembrano merce di lusso, sono fatti di un legnaccio sbriciolato, assemblato con della polvere di segatura e alla fine pressato.

– Che ti frega, Dio santo! Loro sembravano convinti di fare questa operazione, e hai finito per confondergli le idee.

– Gli ho dato dei buoni consigli, invece.

– Il marito meno, ma la moglie a sentirti parlare in quel modo sembrava molto dispiaciuta.

– Non ho detto che non lo avremmo fatto, consigliavo solo di dare una o due mani di gommalacca e una passata di cera, perché riemergesse il colore del legno in tutta la sua bellezza.

– Però non era questo che volevano.

– Cercavo di farli entrare in confidenza con la natura dei mobili, tutto qui. Onorando quel legno pregiato, onoravo anche loro.

– E non si sono più fatti vivi.

– Cerca di non essere così pessimista, può anche capitare che sia riuscito a convincerli con la mia spiegazione.

– Certe volte per vivere ti aggrappi a delle cazzate. Li hai fatti sentire dei marrani, a mettere in discussione i loro gusti.

– Ti sbagli, non gli ho mancato di rispetto. Volevo solo capissero che i loro mobili avevano già un valore economico anche così com’erano. L’armadio aveva una cimasa intagliata davvero molto bella. Non tutto si può trasformare in meglio, adattandolo alla moda del momento.

– Faremo mai i soldi, se la pensiamo così?

– Che c’entra questo, con il denaro?

– Dovresti togliere anche tutti quei giornali dalle pareti, a volte sembra di portare i clienti in un covo dei brigatisti.

– Non dire cazzate!

– Forse ne dirò, ma devi ammetterlo, con i clienti che entrano nel laboratorio, non sembriamo poi troppo affidabili.

– Le due stanze le avevo sistemate per me stesso, non avrei mai immaginato di starci a lavorare. È solo un punto di partenza, se troviamo un paio di ordini come questo di Renato, ci prendiamo in affitto il fondo dove lavoravo con Remo. Sono passati quasi due anni ed è ancora libero.

– Andiamo a mangiare, dai!

Siro arricciò il naso, prima di starnutire per l’ennesima volta. L’umidità che c’era nell’ambiente lo faceva ammattire. Nonostante si fosse infilato il maglione e il giubbotto, i brividi di freddo sembravano essersi infilati all’interno del suo organismo tra cuore, polmoni e budella, circolavano attraverso il sangue come un virus contagioso.

*        *      *

– Ho finito anche l’ultimo comodino, … andiamo pure – disse Spartaco.

– Oggi voglio mangiare come un re.

– È venerdì, alla fine prenderò il solito baccalà alla livornese. Così come lo cucina Dino, non lo fa neanche mia madre.

– Anch’io prenderò il baccalà, ma in una quantità industriale.

Siro si mise a ridere e alzò le mani a cerchio sopra la sua testa, fino a mimare l’immagine di un pianeta.

Nel chiudere la porta del fondo con la chiave, Spartaco si voltò a guardare un moscone che stava ronzando rumorosamente intorno alla vetrata dell’ingresso, come se in qualche modo tentasse di attraversarlo.

Nell’attesa il suo socio si guardava un po’ intorno. Sulla strada era stesa una nebbia che rendeva i lecci di una piccola piazza in una forma appena accentuata, e anche i colori delle facciate delle case si confondevano in quell’avvolgimento che sembrava un fumo denso e bianco.  Allora sorrise e cominciò a cantare, chiedendo all’amico di andargli dietro:

Quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due. Si unirono compatti in fila per sei col resto di due. Coi baffi allineati, in fila per sei col resto di due. Le code attorcigliate in fila per sei col resto di due. Sei per sette quarantadue, più due quarantaquattro.

                                                                

marzo 2023

NOTA: I disegni sono tratti dal libro d’artista “La gatta topolina” di Konrad Dietrich, pubblicato nelle edizioni del Circolo Letterario Semmelweis nel 2022, in una tiratura limitata di 30 copie numerate.

10 pensieri su “Quarantaquattro gatti

  1. due capelloni, artigiani scrupolosissimi, all’ultima pennellata ci coinvolgono in una danza sfrenata con comodini e gatti…e il meritato pranzo…
    Della sudata fatica resta la traccia. Grazie

  2. Grazie Annamaria,
    ho tentato di scrivere, con una certa leggerezza, di artigiani e artigianato. Cosa di cui oggi si parla poco, anche e soprattutto in letteratura.
    Grazie

  3. Un mondo autentico che non tornerà più, come i mobili antichi, di legno massello, dei due sposi che Spartaco si rifiuta di riverniciare: il centro storico, con i suoi vicoli che odoravano di secoli (e qualche volta anche di piscio), le botteghe ragnate di salnitro, le chiacchiere e le urla, anzi i berci, dalle finestre che rinfacciavano. Poi, sono arrivati, per il nostro Spartaco, i comodini in truciolato da anticare, da vendere. Come sempre ci sono tante cose nascoste nei racconti di Angelo Australi. Basta grattare appena.

    1. … eppure del racconto esiste ancora qualcosa che, guarda caso, quando lo scrivevo mi è tornata in mente pensando alle tue terre di Valtiberina, tra Sansepolcro e Città di Castello: la coltivazione del tabacco. Fino agli Settanta ancora presente anche in Valdarno.
      Grazie per la lettura

  4. I mestieri artigianali, quanta ricchezza di parole, di gesti, di materie! Un po’ quello che sanno le donne quando fanno una cucina “povera” e saporita. C’è un filone di vita comune che dai vari progressi culturali e politici non riuscirà mai a essere scalzata. Come la semplicità della canzoncina che pure, però, fa “i calcoli”.

  5. Bella lezione di vita, caro Angelo. In tutti i sensi
    Venire a conoscenza di certi particolari delle lavorazioni sul legno è una rarità e quindi ancora più preziosa. Massime in questo nostro oggi frettoloso e povero di scrupoli professionali.
    Grazie di questi piccoli frammenti di passato che ricordano come eravamo e ci invitano a riconsiderare tanti aspetti della vita dimenticati.
    Un abbraccio.
    Lucia

    1. Grazie Lucia,
      se ti ricordi al mestiere di decoratore ho dedicato anche il lungo racconto “L’occhio di Polifemo”. Qui Spartaco non lavora in proprio, ma in una ditta…

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