di Donato Salzarulo
- – Contravvenendo al noto proverbio che “Di Venere e di Marte / né si sposa, né si parte / né si mette mano all’arte”, decido di salire su una freccia rossa da Milano Centrale per Roma Termini la mattina di venerdi 25 settembre, alle 10 e 15.
Sono in compagnia di Lucia, la mia seconda figlia, conosciuta nella tribù famigliare per i suoi ritardi o per i suoi arrivi trafelati, all’ultimo minuto. Prendo perciò le mie precauzioni e le dico che il treno l’abbiamo alle dieci e che ci conviene partire dalla stazione metropolitana di Cologno Nord verso le nove. «Così abbiamo anche il tempo di prenderci un caffè insieme».
Con qualche minuto di ritardo rispetto all’orario concordato delle otto e quaranta, la figlia arriva. Mentre acquistiamo i biglietti, la voce dall’altoparlante annuncia che la circolazione sta subendo rallentamenti per un incidente tra le stazioni di Gioia e Porta Garibaldi.
«Ah, sì!…» mi fa Lucia «…ho accompagnato poco fa Edoardo a scuola e alcune mamme amiche, che sapevano della mia partenza, mi hanno detto di una persona suicidatasi in metrò…»
«Cominciamo bene!…» le rispondo e un po’ inveisco contro questi suicidi narcisisti che non scelgono, se proprio vogliono scomparire dalla luce del giorno, modi più discreti di farlo.
«Come sei insensibile, papà!…»
«Ma dai, Lucia!…Pensa al pilota che per suicidarsi ha mandato l’aereo a schiantarsi contro una montagna in Provenza…Centocinquanta persone disintegrate!…»
La figlia tace. Il mio corpo, intanto, è entrato in allarme. Prevenire il suo demone dei ritardi un po’ posso, quello della circolazione metropolitana, mi è impossibile. Salvo decidere subito di farsi portare in Centrale con un mezzo alternativo. Però, siccome l’incidente è capitato tra le stazioni di Gioia e Garibaldi, che vengono dopo quella Centrale, e siccome verso le nove partiamo regolarmente, m’illudo che tutto possa continuare a filare come previsto.
A Gobba, invece, comincia l’avventura. «Questo treno ferma qui la sua corsa » annuncia inaspettatamente la voce del conducente. Allora, tra mormorii vari e con una buona dose di pazienza, scendiamo scale, ne risaliamo altre, ci portiamo su un altro binario e ci infiliamo speranzosi su un altro treno. I nostri occhi dicono che ce la faremo, ma cominciamo a nutrire timori.
«Vedi, Lucia, meno male che ci siamo avviati un’ora prima…»
«Hai ragione, papà…»
«La vita è piena d’imprevisti…Meglio abituarsi ad attenderli e disporsi ad affrontarli…»
«Si, papà…»
La figlia mi prende un po’ in giro. Sa che per queste azioni il suo demone è il ritardo. Ma sa anche di farcela. Sempre sul filo del rasoio, ma di farcela.
Noi a scambiarci queste pillole di saggezza e il treno ad accrescere i nostri timori. Improvvisamente si ferma nel buio del tunnel. Si riavvia lentamente, procede a singhiozzo.
Giunto a Udine di nuovo l’annuncio: «Questo treno termina qui la sua corsa.»
Scendiamo. Banchina traboccante, affollatissima. Anche se ne arriva un altro, tutti dentro non ci staremmo. Continuare ad affidarsi alla MM, in questa situazione, sarebbe da imprudenti.
«Lucia, usciamo e prendiamo un taxi.»
La figlia è d’accordo. Anche altri fanno la nostra stessa pensata. Così prima di noi, nell’area di sosta, troviamo un gruppetto di persone in attesa. Una è particolarmente agitata e fa avanti e indietro impaziente. Proviamo ad organizzarci. Ci scambiamo le informazioni su dove dobbiamo andare. Una signora gentile continua a telefonare per richiedere altri taxi. Dopo una decina di minuti, riusciamo a prenderne uno. Con noi c’è un inglese che deve andare oltre la Stazione Centrale. Si siede davanti e inavvedutamente sta per schiacciare gli occhiali da sole del taxista. Questi s’inalbera e impreca contro la fretta. Finalmente si parte.
«Ce la faremo, papà…» Lucia guarda le strade, le riconosce; ecco che ne imbocca una che abbrevia di molto il percorso.
«Questa strada non la conoscevo…» fa rivolta al taxista.
«Sì, ma è riservata…» le risponde.
Siamo a Loreto, la macchina taglia per via Andrea Doria, gira a destra, poi a sinistra e si ferma infine sul piazzale laterale della stazione
Stiamo per scendere. Lucia chiede all’inglese quanto dobbiamo dargli. E lui, gentilissimo: «Niente…Tanto, in ogni caso, avrei dovuto pagare l’intera corsa…»
«Grazie!…» gli risponde mia figlia e aggiunge: «A buon rendere, se avremo occasione di rivederci…». L’inglese sorride. Occasione, appunto. Kairos.
Messi i piedi a terra:
«Dai, papà, corriamo!…Sono le dieci meno cinque e rischiamo di perdere il treno…»
A questo punto, la rassicuro e le rivelo che parte alle dieci e quindici e che abbiamo un buon quarto d’ora a disposizione.
«Tu fai come mio marito che anticipa sempre…».
- – In carrozza otto, comodamente seduti di fronte, lei al posto 9B, io al 10 B commentiamo l’accaduto. «È stata una piccola avventura…» dice Lucia.
«Certo…» le rispondo e le accenno a un libretto dal titolo semplice ed essenziale, che sto leggendo in questi giorni. Si tratta de «L’avventura» di Giorgio Agamben (Nottetempo, 2015, pp. 77, € 7,50)
«E cosa sostiene?…»
«Molte idee interessanti. Ad esempio, fin dalle prime pagine, seguendo un’indicazione dei “Saturnali” di Macrobio sostiene che ognuno di noi deve pagare il proprio tributo a quattro divinità: il Demone, la Sorte, l’Amore e la Necessità…Lui lo dice anche in greco: Daymon, Tyche, Eros, Ananche, ma la sostanza non cambia… »
Mentre parlo, frugo nella mia borsa rossa da viaggio, tiro fuori il libretto e leggo a pagina 6: «Il modo in cui ciascuno si tiene in rapporto con queste potenze definisce la sua etica.»
«E cioè?…»
«E cioè, Lucia, cosa sia il Demone, lo sai!…Ognuno di noi ce l’ha. È una forza che ha a che vedere con il proprio carattere, con la propria natura, con il proprio essere. Ce l’abbiamo dentro, ma sembra venire anche dal di fuori. Mia madre lo chiamava “destino”. Ma il destino un po’ ce lo facciamo, un po’ ci plasma. Agamben porta l’esempio di Goethe e cita le pagine in cui cerca di definire il suo Demone…»
Apro il libretto e leggo le parole di questo grande poeta: «Non era divino, perché pareva irrazionale; non era umano, poiché era privo di intelligenza; non era diabolico, poiché era benefico; non era angelico, perché rivelava spesso qualcosa di maligno. Somigliava al caso, poiché non mostrava nessuna coerenza; somigliava alla provvidenza, perché alludeva a una connessione. Tutto ciò che ci limita sembrava per esso penetrabile; pareva governare a suo arbitrio gli elementi necessari della nostra esistenza; abbreviava il tempo e ampliava lo spazio. Pareva compiacersi solo dell’impossibile e respingere da sé il possibile con disprezzo.»
«Difficile…» commenta mia figlia e rimane silenziosa. Sono, infatti, parole da meditare. Intanto, mi porto avanti con le altre potenze:
«Cosa sia la Sorte, lo sai pure. C’è chi si becca un tumore e muore a cinquant’anni e chi vive fino a cento; chi per un contrattempo perde un aereo che si schianta a terra e chi vi sale regolarmente…Quanto all’Amore è potenza di legami, relazioni, desiderio, curiosità, conoscenza, fecondità…Sulla Necessità c’è poco da dire: il nostro corpo e tutta la Natura rispondono a leggi precise. La nostra temperatura corporea, ad esempio, può oscillare intorno ai 37°. Al di sopra, abbiamo la febbre…»
Lucia è attenta, ascolta. Sembra interessata.
«D’accordo…ma tutto questo cosa c’entra con l’avventura del titolo e con la nostra piccola avventura di stamattina?…»
«Beh, dammi il tempo!…Bisognerebbe, innanzi tutto definire il termine “avventura”. Per quanto mi riguarda credevo che derivasse dal latino come molte altre parole della nostra lingua. Pensavo si trattasse del neutro plurale del participio futuro di advenio. Sbagliato. Per Agamben è più probabile che il termine derivi dal latino classico e cristiano di adventus (avvento) o da eventus (evento). In ogni caso, “avventura”…»
Apro il libretto a pagina 20 e leggo: «designa l’accadere a un certo uomo di qualcosa di misterioso o di meraviglioso, che può essere tanto positivo che negativo.»
Richiudo il libro e riprendo il mio discorso: «È chiaro: per chi prende la metro tutti i giorni, non vi è nulla di “misterioso” in un blocco della circolazione dovuta a un suicidio…Ne capiteranno un certo numero all’anno. Per chi la prende ogni tanto come noi e la prende di venerdi mattina per partire e andare a trovare a Roma un amico gravemente ammalato procura un certo turbamento il fatto che il tizio o la tizia abbia cercato proprio oggi la morte sotto un treno…È un segnale brutto, negativo…Meno male che siamo riusciti a tenerlo abbastanza sotto controllo…E poi non ti sembra meraviglioso che nel taxi ci sia capitato come compagno di viaggio un inglese generoso?…Non abbiamo compiuto, indubbiamente, nessuna grandiosa impresa…Il rischio che correvamo era al massimo di perdere il treno, ma in certe occasioni e in compagnia di persone ritardatarie come te, anche non perdere un treno può diventare una piccola avventura…»
«Babbo, adesso mi offendi!…»
«Ma no, cara, ti sei riscattata abbastanza bene con l’inglese…». E, mentre cerco parole, per addolcirla, squilla il suo cellulare. Risponde. Si aggiusta l’auricolare e s’immerge nella conversazione telefonica…Passano cinque, dieci, quindici minuti e la conversazione continua…
Mi rendo conto d’aver perso per strada la figlia e, rileggendo, torno ad interloquire da solo con Agamben. Un dialogo silenzioso e immaginario, come tante volte cerco di fare, con gli autori.
- – «Quindi, lei sostiene che il significato originario del termine “avventura” possa essere colto nei romanzi e nei poemi cavallereschi. Lei cita l’Yvain di Chrétien de Troyes e i Lais di Maria di Francia, sua contemporanea, che fa di questo vocabolo “il termine tecnico per eccellenza della sua poetica”…»
«Esattamente. Importante è capire il nesso che in questi poemi viene posto tra avventura intesa come “evento”, “accadimento” e avventura come “racconto”. I due significati, fin dall’inizio inseparabili, finiranno per coincidere e fondersi, dando vita al metallo del destino, concepito, come scrivo a pagina 24 “come una serie di eventi detti o predetti da una voce autorevole” »
«Cioè il dio Apollo, la Sibilla, un profeta…»
«Certo…»
«Se non ho capito male, in questi autori medievali l’avventura coincide con la vita, con gli eventi e gli accadimenti che capitano quotidianamente. Non solo, essa si fonde col racconto che se ne fa. Si può dire che cercano l’avventura per cercare il racconto…»
«Sì, però, è importante non perdere di vista che l’evento (o l’accadimento) diventa significativo e, in un certo senso, “avventuroso” solo grazie al coinvolgimento di chi lo vive. Come scrive Carlo Diano da me citato a pagina 55: “Che piova, è qualcosa che accade, ma questo non basta a farne un evento: perché sia un evento è necessario che codesto accadere io lo senta come un accadere per me”…»
«Chiaro…La nostra piccola avventura di stamattina è diventata tale perché non solo ci ha coinvolti, ma perché subito siamo stati presi dalla voglia di raccontarla – Lucia, ad esempio, appena saliti in treno l’ha raccontata ai compagni di viaggio seduti vicino al finestrino – e, ancora più importante, ci siamo messi a cercare, per dirla alla maniera di Baudelaire, “corrispondenze” in ciò che ci stava accadendo, segni, sensi…»
«Proprio così…»
« Intesa in tal modo l’avventura, come lei sostiene, ha certamente a che fare con una determinata esperienza dell’essere, un’esperienza non compresa o fraintesa dai moderni e da autori come Hegel o Simmel…C’è poi il caso di Dante che addirittura non usa mai o quasi mai il termine…»
«Vero…Per i moderni l’avventura è qualcosa di eccentrico, di stravagante; un’esperienza eccezionale, collocata al di fuori del contesto dell’esistenza comune…Hegel fraintende completamente l’intenzione dei poemi e dei romanzi cavallereschi, ritiene che le loro gesta e le loro imprese siano del tutto esteriori rispetto ai soggetti che le vivono; Simmel non riesce a venire a capo della doppia natura dell’avventura: da un lato l’essere soltanto una parte dell’esistenza, dall’altro il conferire ad essa una superiore unità. Dante, invece, ripudia le avventure, le bellissime “ambagi”, come le chiama lui, dei cavalieri arturiani. Lo fa per ragioni teologiche e filosofiche. Lo fa perché ha una concezione della vicissitudine umana che procede, come scrivo a pagina 51, “in linea retta, dal peccato alla redenzione, senza nulla concedere alle incertezze e alle casualità, alle digressioni e alle tergiversazioni dell’avventura cavalleresca”…»
«E il nesso Eros-avventura?…»
«Nei romanzi cavallereschi Eros ed avventura sono spesso intimamente intrecciati. Se ciò avviene – lo chiarisco bene – a pagina 45 “non è perché l’amore dia senso e legittimità all’avventura, ma, al contrario, perché solo una vita che ha la forma dell’avventura può incontrare veramente l’amore.”
L’ultima proposizione è un aforisma perfetto, penso tra me e me, mentre vedo la figlia togliersi gli auricolari e deporli nella borsetta insieme al cellulare.
«Era tanto importante ciò che avevi da dire da restare al cellulare per più di un’ora?…»
«Papà, non puoi sapere cosa sta succedendo…
«Cosa?..»
«Te lo dirò…» e si gira a parlare con i compagni di viaggio seduti vicino al finestrino: una simpatica coppia di Magenta che sta andando a Roma per assistere al concerto Baglioni-Morandi.
- – A casa del mio amico, quando mi capita di restare solo, clicco su Google “Parole primordiali di Goethe” oppure “Parole orfiche di Goethe”. Cerco la poesia che Agamben ha richiamato nel primo capitolo del suo libretto. Ha citato soltanto due strofe (la prima ispirata al Demone, l’altra alla Necessità) ed io sono curioso di sapere cosa scrive per la Sorte, per Eros e per la Speranza.
Per Goethe, infatti, le potenze con cui fare i conti sono cinque. Agamben sostiene che di fatti il poeta paga il suo tributo soltanto al Demone, che in qualche modo ci rende irresponsabili delle nostre azioni, e tratta Eros in “una luce decisamente sfavorevole”.
L’osservazione mi incuriosisce e voglio leggere l’intera poesia. Nulla da fare. Forse il famoso motore di ricerca non porta nel suo programma tutto lo scibile umano come spesso ci diciamo o forse non ho cercato a sufficienza, sapendo che la mia curiosità avrei potuto soddisfarla, rimettendo i piedi a casa e tirando giù dagli scaffali i due Meridiani con tutte le poesie di Goethe.
Azione che puntualmente compio. Ricopio la poesia per imprimermela meglio in testa.
DAIMON, Demone
Come nel giorno che ti ha donato al mondo
stava il sole al saluto dei pianeti,
così giorno per giorno hai progredito
per quella legge che regola la tua vita.
Così devi essere, non puoi fuggir te stesso,
fu detto già da Sibille e da Profeti,
e non vi è tempo né forza che frantumi
forma plasmata che vivendo evolve.
TYCHE, Caso
Ma attorno al rigido limite si muove seducente
qualcosa di mutevole che attorno e con noi vaga;
non resti solitario ma diventi socievole,
e ti comporti come tutti gli altri:
così è la vita, ora cede, ora resiste,
è un giuoco gentile e va così giocato.
Già il ciclo degli anni, silente, si è compiuto,
la lampada attende la fiamma, che l’accende.
EROS, Amore
Non si fa attendere! – Prorompe da quel cielo
verso cui si innalzò dal caos antico,
si fa vicino, librato su aeree penne,
fronti e cuori sfiorando a primavera,
sembra fuggire, poi dalla fuga torna:
dolce e trepida la gioia nella pena.
Nell’indefinito molti cuori si disperdono,
ma il più nobile si dona a uno soltanto.
ANANCHE, Necessità
Così è di nuovo, come gli astri vollero:
limite e legge e ogni volontà
è solo un Volere, poiché così dovemmo,
e dinanzi alla volontà tace l’arbitrio;
caccia il cuore, sgarbato, le cose più care,
al rigido «si deve» cedono volere e capriccio.
Liberi, in apparenza, ma con gli anni
siamo solo più alle strette che all’inizio.
ELPIS, Speranza
Eppure di tal limite, di tale bronzeo muro
vien disserrata la più avversa porta,
fosse anche salda come antica roccia!
Un essere vibra lieve e senza impacci:
dalla cappa di nubi, da nebbia, da piovaschi
ella ci innalza con lei, ci dona le ali,
oh, vi è ben nota, lei erra in ogni zona –
un colpo d’ali – e dietro a noi gli Eoni.
Leggo e rileggo queste cinque stanze. Sottolineo alcuni versi. Ad esempio: “Così devi essere, non puoi fuggir te stesso,” “e non vi è tempo né forza che frantumi / forma plasmata che vivendo evolve.” Oppure: “così è la vita, ora cede, ora resiste, / è un giuoco gentile e va così giocato.”
O ancora: “Nell’indefinito molti cuori si disperdono, / ma il più nobile si dona a uno soltanto.” O: “Liberi, in apparenza, ma con gli anni / siamo solo più alle strette che all’inizio”. Infine: “un colpo d’ali – e dietro a noi gli Eoni.” Ossia, i lunghi cicli temporali che formano l’eternità…
Leggo, rileggo e m’accorgo di quanto mi affascini il dettato di questa voce. Vorrei commentare. Ma un rimpianto mi si insinua dentro. La prima edizione di questi Meridiani è del 1989. Giovanni Raboni sul Corriere della Sera del 24 febbraio 1990 giudicò questa pubblicazione come “un vero, grande avvenimento culturale” e Franco Fortini, traduttore del «Faust», sognò di poter costringere i trentamila poeti italiani a leggere e meditare per un anno intero su questi roseti e allori…
Dal 1989 ad oggi son trascorsi ventisei anni ed io non ho ancora letto tutte queste poesie.
Altro che perdere un treno!…Rispetto a me, Lucia è una ritardataria perdonabilissima.
2 Ottobre 2015
Grazie un bel modo di scrivere recensioni vedere la lettura come un ‘avventura!
Leggere la vita come un grande libro
E… bellissima l’immagine scelta da Ennio. Continuate vi seguo
Angela
Gli incroci di un carattere ritardatario, col destino di un suicida, con l’incontro di un estraneo gentile; i diversi mezzi del viaggio, metro taxi treno; le intenzioni umane tra padre e figlia, di ambedue verso un amico malato, della figlia al telefono per l’amica; la riflessione memoriale verso due autori, che a loro volta hanno offerto pensieri sui nessi e gli incroci delle intenzioni con le circostanze: è un continuo gioco di rispecchiamenti e riflessioni in scale e sotto angolature diverse, e il tutto avviene contemporaneamente in un non-finito, inesauribile, e in un continuo, in una successione lineare e piana.
Sembra un racconto semplice e colto, ma non è solo questo.
Grazie Angela, per i tuoi apprezzamenti e continua pure a seguire il sito di POLISCRITTURE, diventato sempre più luogo di confronto vivace, ricco e interessante. Questo, soprattutto, per il preziosissimo lavoro di Ennio.
La lettura come avventura? Si, direi la vita anche. La lettura che non si deve separare dalla vita e dal suo racconto. La riflessione di Agamben su questo termine apre effettivamente sentieri abbandonati e/o inesplorati.
Grazie anche a Cristiana. È vero, questo scritto non è per me solo un racconto. Sto cercando di comprendere meglio il confronto-scontro fra certe costellazioni e “linee politico-letterarie”: ad esempio: Dante-Tasso-Manzoni-Fortini oppure Dante-Ariosto-Galileo-Leopardi-Calvino…Comprendere per definirmi e prendere posizione con la maggiore consapevolezza possibile. Una parola come “avventura” è, insomma, tutt’altro che neutra. Tant’è che Dante non la usava mai e nel vocabolario odierno ha soltanto due significati: o impresa insolita, straordinaria, rischiosa, audace o relazione amorosa breve e poco impegnativa…Forse avventura può essere altro.
Bellissimo racconto! C’è tutto Donato Salzarulo e non solo.
Un vero e proprio stimolo alla lettura che nella vita resta ancora la migliore compagnia!
Per quanto riguarda l’avventura…Beh, leggerti è davvero un’avventura. Grazie a te e a Ennio che ha voluto mandarci questo pezzo di vita ,direi da vivere, ma soprattutto da apprezzare!
Uno scritto eccellente che fa riflettere sulle molte forme di un quotidiano sempre più superficiale.
Rilancio con i versi di un poeta che mi è caro
“Ora già tutto è diventato breve:
la luce, il passo e lo stesso mio corpo
e breve è il tempo e breve la distanza
tra me e la fine se anche la durata
della vita è immensa”
Michele Ranchetti
Ben venga l’avventura …e che sia altro!
Eleonora
No, no! prima le avventure. Le spiegazioni sono lungaggini noiose.
(Da Alice nel paese delle meraviglie)
…bello questo racconto di Donato Salzarulo che collega con ponti acrobatici fatti, pensieri e scritture del presente a pensieri e scritture di autori classici, medioevali e moderni intorno al tema dell’avventura. Le riflessioni che mi ha suggerito in parte concordano, in parte discordano con il percorso seguito dall’autore…Penso che se è vero che cinque potenze governano e proteggono la nostra avventura umana (Goethe) e che con il termine avventura si intendono eventi ed accadimenti in cui l’io ha necessariamente un forte coinvolgimento emotivo (Agamben), allora un certo livello di narcisismo ci accompagna sempre…E quando una o più delle potenze ci abbandona, vuoi la speranza, l’amore, o il demone oppure ci deprime come la sorte o la necessità, allora potrebbe avvicinarsi la fine quanto desiderarla…Come forse capitò a quella persona che decise il 25 Settembre di lanciarsi in metropolitana, procurando diversi disagi ai viaggiatori (non si trattò certo del pilota che, insieme alla sua, decretò la fine di 150 persone…), ma soprattutto ritardi sulla tabella di marcia degli impegni del giorno…Ma non è forse che l’irrompere di un evento imprevisto, noi che vorremmo controllare tutto, ci destabilizza, soprattutto se ci richiama l’idea della morte? Una società efficiente come la nostra insomma non può governare tutto? L’avventura non lo prevede perchè il protagonosta in questo caso non potrà mai raccontarla?
Con la morte c’è un doppio approccio: uno a tu per tu (ma il tu-morte è un inganno, una oggettivazione, una distanza) e uno corale, un racconto di tutti: in nessuno dei due casi manca il discorso dell’eventus, infatti l’imprevisto sta oltre le parole.
Allora le due linee di cui scrive Salzarulo nella nostra letteratura mi si chiariscono un poco, ma poco, chiederei lumi.
p.s. Posso ricordare che “be'” va con l’apostrofo, apocope di bene, e che beh… fanno le pecore, come commentava da qualche parte qualcuno?
Grazie ad Emilia, Eleonora, Anna Maria e Cristiana per gli interventi e gli apprezzamenti.
Ad Eleonora voglio dire che i versi di Ranchetti sono stupendi. È un autore che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente (insieme ad Ennio) e non credo che questi versi e la sua opera siano in consonanza con una visione della vita come “avventura”. Però, siccome certe risonanze e suggestioni travalicano le intenzioni autoriali, non mi meraviglio se una lettrice o un lettore legge anche “altro” in certe frasi o in certi pensieri. Proprio per questo ringrazio Anna Maria per la sua osservazione: la morte di una persona indubbiamente destabilizza. La reazione della figlia Lucia, quanto a sensibilità, è sicuramente più adeguata di quella dell’io-padre narrante che mal sopporta il narcisismo di chi si suicida coram populo. Forse ne ha paura? Forse reprime il suo narcisimo?…Chissà.
Cristiana chiede lumi sulle due costellazioni o “linee politico-letterarie”. Diciamo che sono miei schematismi. Per me è importante ciò che, a proposito di Dante, scrive Agamben. Egli, infatti, sostiene che il nostro poeta ripudia per ragioni teologiche e filosofiche le avventure cavalleresche; questo perché ha una concezione della vicissitudine umana che procede «in linea retta, dal peccato alla redenzione, senza nulla concedere alle incertezze e alle casualità, alle digressioni e alle tergiversazioni dell’avventura cavalleresca». Fra le tante differenze fra Calvino e Fortini – due autori di cui mi sono in qualche modo interessato – forse c’è anche questa.
Quanto a “beh” e “be’”, non mi sembra che il contesto evocasse le pecore. Sullo Zingarelli – edizione 1995 – leggo che sia legittimo l’uso di ambedue. Grazie, comunque, non è escluso che la prossima volta tronchi il “bene” in “be’”.
(E’ vero, è vero, anche la Crusca ammette il “beh”! Il fatto è che da quando uno, credo Bagnai nel suo blog, ha parlato di pecore… ogni volta che leggo “beh” sento belare la bestia. Dev’essere perché anch’io, come Bagnai, sto in abruzzo e di pecore ne sento un bel po’… poh?)
Non credo che quel beh vada inteso in luogo di “bene” un professore mentre spiega userebbe il be’ (bene) …in questo caso il protagonista é un padre che racconta alla figlia e quindi usa proprio l’esclamazione giusta quasi confidenziale: Beh…una sorta di intercalare e secondo me è più giusto scriverlo così. É in linea con il personaggio del racconto. Che ha uno stile e molti elementi teatrali. Un particolare piccolo ma importante una sfumatura che aggiunge caratterizza. Questo per valorizzare anche le pecore che sono animali adorabili…aiutarono Ulisse a scappare dal ciclope…il testo ha contenuti di approfondimento che richiedono più letture un file virale…
Angela
Anche dalla lettura di precedenti lavori di D. Salzarulo emerge questa qualità dell’artista che è quella di costituire dei legami, delle connessioni, delle linee di lettura che si intrecciano tra loro (come, peraltro, suggeriscono anche gli altri commenti al suo pezzo).
I suoi racconti, pur incentrati su fatti di cronaca, non sono mai ‘cronaca’, fissata e circoscritta ad un certo evento, ma, appunto ‘avventura’, un movimento, un ‘darsi’, un ‘avvenire’ che fuoriesce dal qui ed ora dei fatti ‘crudamente’ riportati e si snoda in storia personale individuale (la ‘simpatica’ relazione con la figlia); in storia collettiva i cui tempi vengono richiamati dalle citazioni di autori (Agamben) i quali, a loro volta si richiamano ad altri autori (Goethe) e così via, facendo la spola tra il passato e il presente, tra la filosofia e la letteratura. Ed è in questo modo narrativo – e non didattico – che ci viene presentato un mondo di relazioni (e un modo possibile di relazioni) là dove si può intuire il ‘noi’ del poeta che si racconta, tal quale viene messo a disposizione del lettore. E quest’ultimo, a sua volta, metterà in movimento le sue ‘avventure’ interiori, le sue curiosità sollecitate da quelle trame.
Davvero meritevole. Complimenti.
R.S.
…davvero un bel racconto, peripatetico dei nostri giorni, in movimento tra metropolitane, taxi e treni e in viaggio nel tempo…
Signor Salzarulo non sono una viaggiatrice non amo viaggiare, ma il suo modo di viaggiare fra i familiari gli amici e i grandi autori del passato é un modo affascinante per cominciare a farlo.
Complimenti per questo testo fluido e denso.
Marialuisa
Rinnovo a tutte i miei ringraziamenti per gli interventi e gli apprezzamenti. In particolare condivido le annotazioni di Rita Simonitto: “costituire dei legami, delle connessioni, delle linee di lettura che si intrecciano tra loro”…Proprio vero: è questo il mio intento ed è questo lo sforzo maggiore di diversi miei scritti. Come dicevo all’inizio, non separare la vita dalla lettura…Ancora grazie a tutte.
Come al solito Donato ha un folto pubblico femminile!
E’ un problema?…Sarà perché ho lavorato anni ed anni in compagnia delle donne e, forse, mi hanno un po’ “sensibilizzato”. Un bacione, Emilia!
È sempre piacevole leggere i suoi scritti, che prendono e catturano. Il viaggio poi sembra, come una premonizione,scaturita direttamente dai versi di Agamben. Mi manca il suo ” mecenatismo” il suo invogliare a leggere e a scrivere, a coltivare sete di sapere. Con affetto Rocchina