Ancora una riflessione sull’esperienza della rivista “Il Gabellino”
di Velio AbatI
La parabola della rivista “Il Gabellino” descritta perfettamente da Walter Lorenzoni (qui) è parte della vicenda della Fondazione Luciano Bianciardi. Una piccola storia, di un’area geografica e sociale marginale come la provincia di Grosseto. Tuttavia può ammaestrare sull’epoca.
Sono convinto che la sofferenza più grande nel nostro tempo sia la ferita dell’impotenza. E dico ferita nel senso di strappo interiore, silenzioso, oscuro. Impotenza: dell’agire, certo; ma anche del comprendere, del vedere il domani.
Quante volte, ascoltando la parola istituzionale rimbalzata contemporaneamente da quindici diversi canali comunicativi, sentiamo insopportabile l’offesa della falsificazione spudorata, sbalordiamo di fronte alla faccia tosta dei più impensati capovolgimenti di senso? Un’esperienza quotidiana da così tanto tempo, che ho dovuto chiedermi perché quella tal distanza della propaganda dalla realtà non spinga al riso, invece che alla rabbia. Tutto nasce dalla differenza verticale, incolmabile tra il singolo grido – eppur si muove! – che non ha eco e quel rimbombo istituzionale.
C’è un passo di Pierre Bourdieu che insegna come il corteo di una manifestazione costituisca la soglia che fa trapassare una certa richiesta o un certo giudizio da opinione personale a giudizio e richiesta legittima. Quella rabbia e quell’impotenza patite sono appunto la ferita di tale mancanza. Dobbiamo tornare a imparare che senza un progetto e un agire collettivo le nostre ragioni sono destinate a rimanere ridicole perché assurde, che noi abbiamo i capelli rossi perché siamo maliziosi e cattivi.
Grosseto è un incrocio di campagna. Fino alla fine dell’Ottocento d’estate si svuotava per la malaria, fino alla seconda guerra mondiale era quasi tutta compresa dentro la piccola cerchia muraria cinquecentesca, abnorme, perché fuori tempo massimo, struttura militare che – sghignazza Bianciardi – serviva tutt’al più a difendere la campagna dalla città. Giustamente Bianciardi e Cassola ironizzarono impazienti con i cultori di “glorie” locali. Poterono farlo perché i minatori, i braccianti, i contadini trovarono nei sindacati, nelle forze politiche della sinistra – partito comunista e socialista, in particolare – i luoghi per comprendere e dove parlare, gli strumenti per farsi sentire. Non può essere un caso che in quella stagione ricostruttiva del secondo dopoguerra due scrittori importanti vi operarono e uno vi crebbe. Che cosa avrebbe scritto Luciano Bianciardi senza quel clima e quella presenza? Come avrebbe potuto andare a Milano, nel gruppo di redattori con cui Giangiacomo Feltrinelli faceva nascere la casa editrice? Per questa ragione profonda ho sempre ritenuto puerile, quando non ipocrita ogni etichettatura “anarchica” – in realtà anticomunista – di Bianciardi.
Che il transito di Cassola a Grosseto sia stato breve e che Bianciardi sia emigrato a Milano, rientrano nella legge generale che fa del centro l’attrazione delle periferie. Sarebbe semmai da vedere perché nel ventennio italiano del centro-sinistra e dello sviluppo quella spinta a Grosseto si sia dispersa, perché, anzi, le effervescenze della contestazione studentesca e operaia del Sessantotto siano rimaste largamente inefficaci, ovvero non hanno potuto dar vita a novità culturali paragonabili ai due scrittori degli anni Cinquanta. Credo che le ragioni di tale fenomeno siano in parte le medesime che spiegano come proprio con l’avvio della crisi del Pci, principiata con la svolta occhettiana della Bolognina, alcune energie nutrite dai movimenti del Sessantotto abbiano coagulato nella nascita della Fondazione Luciano Bianciardi. Per giudicare l’operato di quel gruppo durato quasi un quindicennio, basta avere la pazienza di andarsi a computare i volumi pubblicati con Editori Riuniti, Giunti e infine Società Editrice Fiorentina, i convegni di studi, le ricerche e le produzioni filmiche, la promozione delle tesi di laurea con un premio nazionale, la chiamata di scrittori e scrittrici della migrazione da aree del Mediterraneo, i lavori con le scuole, la raccolta di carte, carteggi, testimonianze bianciardiane, la produzione delle Concordanze dell’opera in volume di Bianciardi, la bibliografia di Bianciardi, la costruzione del Fondo autori contemporanei, la costruzione del Fondo riviste di cultura, il semestrale “Il Gabellino”, l’organizzazione di seminari, incontri pubblici su un amplissimo raggio di temi.
La differenza fondamentale tra il sodalizio dei due scrittori negli anni Cinquanta e l’operato del gruppo della Fondazione Luciano Bianciardi è stato l’intento esplicito di quest’ultimo di creare a Grosseto un nuovo istituto culturale, che avesse la funzione di sedimentare energie locali non ignare dell’orizzonte complessivo e quindi possedesse la capacità di interloquire e far da filtro. Ma allorché la vecchia organizzazione politica del Pci uscì convulsamente dal suo smarrimento – l’amministrazione comunale grossetana fu la prima vittoria elettorale di Forza Italia nella ‘rossa’ Toscana – e tornò al comando mutata in quello che è oggi, ossia un partito di notabili in lotta per il comando di pezzi di territorio e dello stato, quell’esperienza fu abbattuta con un fuoco di fila a mezzo stampa, che tutto – opere e persone – ha falsificato, lordato, calunniato, ridicolizzato, nel giro di una ventina di giorni condotti senza esclusione di colpi di giornali compiacenti.
Anche a Grosseto, il Novecento è finito: con le forme politiche e sindacali, è consegnata alla storia una certa figura d’intellettuale, di cui il gruppo della Fondazione Luciano Bianciardi ha fatto parte. Le gallerie della vecchia talpa non sono visibili, ma come sono convinto che quanto si erge è in gran parte simulacro, così ho ferma fiducia che tra quanto appare rovina radicano operosi nuovi germogli.
Ennio, capisco che sia durissima, con la tua formazione ed esperienze, non provare da una parte nostalgia (ideologista o meno che sia, poco conta per quel che voglio dire) e dall’altra speranza , che non sia tutto perduto o che qualche germoglio sia ancora possibile, ma proprio per amore di quella causa chiamata erroenamente “comunista” , che ora si è fatta ancora più grande e complicata, non sarebbe meglio, anzichè rivolgersi ai due predetti stati d’animo, puntare lo sguardo, più che il dito, sui motivi che ne hanno determinato la sconfitta? sia endogeni che esogeni, chiaro, ma con un occhio attento a quelli interni.
Sono peraltro gli stessi, che di riflesso contrario, determinano per più di un post (e non solo gli utlimi due uniti da tema omogeneo) un’ assenza, un vuoto totale, un silenzio assordante, peraltro, di fior di commentatori intellettuali più tuoi pari che miei , visto che non ho i vostri strumenti teorici -critici, letterari o politici?
io credo di si
🙂
…ciao Ro, solitamente sono d’accordo con te sulla necessità di svolgere anche un lavoro di autocritica per comprendere le cause di una sconfitta, ma nel caso della felice esperienza quindicinale della Fondazione Bianciardi e la rivista “Il Gabelino” a Grosseto penso non sia opportuno, offrendo “ragioni ” in più ai prepotenti che l’hanno affossata…Piuttosto sarebbe necessario approfondire le combinazioni ambientali ed umane che l’hanno favorita perchè potrebero fornirci ottimi esempi…Inoltre, come dice Velio Abati, scoprire come “…tra quanto appare rovina radicano operosi nuovi germogli”
Ma..ma Annamaria , da quando siamo d’accordo sul lavoro per capire le cause di una sconfitta? anzi, no, di più, della sconfitta per antonomasia
🙂
poche pagine addietro, mi indicavi che la strada in cui ero era ben poco costruttiva
🙂
simpatie e affetto a parte:
1 non mi sembra, a vedere da qui, dove qui ovviamente è uno sperduto posto della rete rispetto a una fondazione che porta il nome di Bianciardi, che a parte una mia provocazione, sia germogliato qualcosa fra addetti ai lavori;
2 se non si mette a fuoco il campo di battaglia, che è pure peggiorato, dove se ne vanno i germogli? nelle prossime fondazioni fabio volo?
@ Velio Abati e Walter Lorenzoni
Cari amici,
avendo seguito e collaborato all’esperienza del “Il Gabellino”, mi permetto alcuni appunti critici sulle vostre due oneste ricostruzioni del ruolo svolto dalla rivista e dalla Fondazione Bianciardi nel decennio 1996-2006. Spero che su di essi si apra la discussione:
1.
Ho sempre pensato «Il Gabellino» come un isolotto da frequentare e collegare ad altri che emergevano dal mare tempestoso di quegli anni: «Qui. Appunti dal presente» di Massimo Parizzi»; quelli che, da solo o con altri, cercavo di far emergere io (Samizdat Colognom, Il Monte Analogo, Inoltre, poi Poliscritture); e quelli dei tanti che parteciparono numerosi a Grosseto al convegno sulle riviste di cultura oggi. Al di là delle differenze, ci somigliavamo. Almeno nell’intento di tener aperto un discorso critico. Ma è finita male per voi e non è che vada bene per me. Gli altri li ho persi di vista o ne ritrovo alcuni nei “loculi” del Web. Concordo, dunque, con il bilancio di Velio: «il Novecento è finito: con le forme politiche e sindacali, è consegnata alla storia una certa figura d’intellettuale, di cui il gruppo della Fondazione Luciano Bianciardi ha fatto parte». Nessuna nostalgia. Non c’è da piangerci su. Tuttavia, non resisto a dirvi – e spero di non apparirvi saccente o presuntuoso – che secondo me commetteste due errori.
2. Uno di valutazione politica. Ripeteste, cioè, l’ errore di Vittorini ai tempi de «Il Politecnico». Come lui considerò imprescindibile il rapporto della sua rivista con il PCI, (il Principe di allora), così voi avete considerato imprescindibile il rapporto con la realtà istituzionale grossetana a cui vi eravate legati: la CGIL locale, che aveva promosso la «Fondazione Luciano Bianciardi» nel 1993; la famiglia dello scrittore, « il comune e la provincia di Grosseto, gli enti che garantivano le risorse più significative». In sostanza col potere economico e politico e culturale del centro-sinistra di Grosseto. Che sembrava sostenere la vostra funzione di intellettuali liberi e pensanti, ma in realtà la sovrastava e la condizionava.
3. L’avete sentito così imprescindibile (e forse “organico”) quel legame che, anche quando è stato spezzato da un atto di prepotenza dei vostri alleati e mentori politici, avete scelto di non proseguire in altri modi il vostro impegno pubblico. Dal mio punto di vista e considerando che si aveva alle spalle l’esperienza del ’68-’69 e, lungo tutti gli anni Settanta e Ottanta, la lezione “disobbedente” di Fortini (di sicuro per Velio, non so se anche per te, Walter), avreste dovuto essere come minimo più cauti e vigili verso l’operato di quelle formazioni politiche miste e consociative.
4. Sono convinto che avevate valutato seriamente sia gli ostacoli che i possibili vantaggi di quel legame stretto con quei poteri. Lo scrive lealmente Walter quando ricorda che «risultavano necessari anche dei compromessi (solitamente di tipo qualitativo), non potendo rifiutare ospitalità a chi si muoveva entro le coordinate istituzionali da noi tracciate e che era nostro compito stimolare e far crescere»; e quando fa presente che « l’essere istituzione era una sorta di garanzia di credibilità, apriva porte che altrimenti sarebbero rimaste chiuse, permetteva una molteplicità di contatti intellettuali che sarebbe stato difficile avere presentandosi come semplice rivista». Anzi a me pare che accettaste con convinzione quel “matrimonio”, se ancora oggi Walter scrive: «quell’equilibrio particolare tra profilo militante e istituzionale […] fin dagli inizi era stato, per «Il Gabellino», non un elemento di ambiguità, ma un ingrediente vitale».
5. Così facendo, vi siete risparmiate le fatiche e le delusioni che ho incontrato io (ma anche altri), rimanendo nel girone basso delle riviste: quelle “scalze” o quasi (perché «Inoltre», a cui non rifiutai di partecipare, per la mediazione di Luciano Della Mea, visse all’ombra della Jaca Book) , autofinanziate, con redazioni poco “scientifiche”, costrette a una distribuzione amicale dei numeri faticosamente prodotti, poco attraenti per accademici e docenti universitari e spesso ridotte a vivai per intellettuali più o meno rampanti o giovani di primo pelo, che vi fanno apprendistato in attesa di intrufolarsi in istituzioni più “prestigiose”.
6. Inevitabile porre anche la questione se sia stata più efficace e giusta la vostra scommessa o la mia. Ma dichiaro subito che penso sia da lasciare aperta (e che sia per certi versi) insolubile. Non ho mai pensato che chi sta fuori o ai margini delle Istituzioni abbia più ragione di chi scommetta nella possibilità di lavorarci dentro. L’efficacia va misurata sul progetto che uno o un gruppo ha in mente. E per parte mia ritengo che, se esso non va oltre quello istituzionale, si finisca per essere fagocitati dal progetto altrui. O, come a voi è successo, di essere scacciati proditoriamente dalle lobby che l’istituzione usano per loro scopi personali e politici assieme.
7. Perché ritengo errata la valutazione politica che vi aveva indotto alla collaborazione fiduciosa con la Fondazione Bianciardi (e quei poteri)? Perché, se fosse stato reale e non immaginario «quell’equilibrio particolare tra profilo militante e istituzionale che fin dagli inizi era stato, per «Il Gabellino», non un elemento di ambiguità, ma un ingrediente vitale», mai sarebbe potuto avvenire il «traumatico defenestramento politico che riguardò tutto il gruppo di lavoro della Fondazione». E a stupirmi di più è il fatto che voi non vi aspettavate, credo, che la «bella idea» di occupare e smantellare la Fondazione venisse, come dice Walter, proprio alla « nuova giunta di centrosinistra»; e che «chi, per ruolo istituzionale, avrebbe potuto bloccare questa deriva, vuoi per insipienza vuoi per opportunismo» tacesse o saltasse rapidamente sul carro dei vincitori.
8. È bene, malgrado tutto, non sottovalutare e non farsi svilire la parte buona del lavoro che portaste avanti in quelle condizioni e con quegli alleati, poi dimostratisi così infidi e ostili, ma permettetemi di ricordarvi – e qui indico il secondo errore – che anche l’idea base del vostro lavoro, e cioè che « la marginalità potesse essere trasformata in risorsa, che costituisse un punto di osservazione in qualche modo privilegiato per portare lo sguardo oltre l’imperante omologazione mediatica» non poteva mai essere accolta da quelle istituzioni, da quei poteri. Che lavorano affinché la marginalità resti tale, non diventi mai risorsa. E meno che mai sono disposti a un reale confronto con chi – per visione politica contrapposta alla loro – volesse farne un «punto d’osservazione» che contrasti l’«omologazione mediatica».
9. Un’ultima osservazione, che in effetti è una domanda: fu giusto tirare i remi in barca e indietreggiare dal noi all’io, scegliendo di non «continuare con una nuova testata» quella esperienza, magari non più con il cartaceo, per un problema di costi, ma online? Anche in questa decisione, al di là dello sconforto per la sconfitta subita, pesò secondo me la vostra convinzione che una rivista, senza «quell’equilibrio particolare tra profilo militante e istituzionale» non avesse senso e che, essendo risultato illusorio, fossero preferibili «scelte individuali differenti». Rispettabili e forse alla lunga anche feconde. E tuttavia , proprio prendendo in prestito le parole di Velio, credo che non si debba mai dimenticare che « senza un progetto e un agire collettivo le nostre ragioni sono destinate a rimanere ridicole perché assurde» e che «i luoghi per comprendere e dove parlare, gli strumenti per farsi sentire», quando ci vengono sottratti, vadano subito in qualche modo ricostruiti. Meglio i samizdat o le catacombe che il silenzio o l’impotenza.