Un compagno perso di vista

Ricordando Lucio Paccagna

di Ennio Abate

Lucio Paccagna era nato il 19 marzo 1955 in provincia di Padova, a Megliadino (poi dal 2018 Borgo Veneto, un comune di circa 7000 abitanti nato dalla fusione dei comuni di Megliadino San Fidenzio, Saletto e Santa Margherita).  La sua famiglia di origini contadine immigrò dal Veneto nel milanese nel 1961. Suo padre  fu operaio  alla Falk di Sesto San Giovanni e sua sua madre casalinga.  Poi si aggiunse Carlisa, una sorella più piccola.  Già da studente del Settimo ITIS di Milano, durante le vacanze estive, fece lavori di facchinaggio (“partiva la mattina e arrivava alla sera”) o d’altro tipo e sempre temporanei in piccole ditte.  Per pagarsi i libri e per aiutare la famiglia. Diplomatosi in meccanica nel 1974, fu assunto in un’azienda elettronica, la Marconi S.P.A. di Milano. In un primo tempo come addetto al settore automazione e strumentazione di  qualità, passò poi all’ufficio acquisti e  ne divenne responsabile. Al Settimo ITIS ebbe i primi contatti  politici con  militanti di Avanguardia Operaia, che lì  operavano; e fu in prima fila nelle lotte studentesche d’istituto. Poi, da quando cominciò  a lavorare, svolse attività sindacale come delegato nel consiglio di fabbrica; e fu attivo per oltre 30 anni nelle RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie, istituite nel 1998). A Cologno Monzese, dove  ha  abitato,  partecipò alla Commissione piccole fabbriche della cellula di Avanguardia Operaia. Nel 1976, anno della scissione di quella organizzazione, entrò in Democrazia Proletaria e fu  consigliere di zona dal 1985 al 1990, per continuare poi la sua militanza in Rifondazione Comunista per circa 15 anni, sempre restando iscritto alla CGIL. Pensionato, nelle ultime elezioni  a sindaco di Cologno Monzese nel 2020,  fu nella lista di Sinistra Alternativa.

A queste notizie biografiche essenziali – amici e amiche di Lucio, se vogliono, ne riferiranno altre qui su Poliscritture  –  posso aggiungere quelle  che ho raccolto negli ultimi giorni. Lucio amava  viaggiare. Se ne andava da solo alla scoperta di paesini poco conosciuti  del  Lazio, dell’Umbria o della Toscana. Seguiva «Sereno variabile», un programma televisivo di esplorazione del territorio italiano, in onda su RAI 2 dal 1978 al 2019 a cura del giornalista e conduttore Osvaldo Bevilacqua; e si preparava i suoi  itinerari, viaggiando poi da solo e scattando foto (“si alzava persino all’alba per fotografare”). Amava molto  camminare in montagna  e in agosto passava  quasi sempre  le vacanze in  Trentino.  Sentiva forte il richiamo  per la vita di campagna, dove tornava periodicamente, essendo molto  legato al nonno che ci viveva.  E, appena andò in pensione,  poté soddisfare   la passione, che era stata già di suo padre: coltivare un piccolo orto attorno a una   sua casetta sul lago di iseo. Una caratteristica di Lucio è stata il suo altruismo. Periodicamente faceva beneficienza ad alcune associazioni di volontariato che aiutano poveri e disagiati. Nei rapporti umani e  politici non accettava nessuna  via di mezzo  ed era mosso da un  forte sentimento  di giustizia.
Da questi pochi e scarni dati,  che pur non dicono cosa  Lucio pensava o sentiva nella sua esistenza di lavoratore, di compagno e poi di marito, di padre, di pensionato, abbiamo comunque l’immagine di un giovane che, formatosi nelle lotte sociali e politiche degli anni ’70,  è restato per tutta la sua vita  un compagno serio e rigoroso. Ma significa ancora qualcosa essere stati compagni per tutta una vita? In un mondo mutato, che ha visto  la sconfitta delle speranze del ’68-’69 e la distruzione di tutte le organizzazioni politiche allora nate e anche di quelle storiche della Prima repubblica e in cui  quasi tutti si sono assuefatti  al  diluvio di  pettegolezzi e   immagini, che danno spazio solo ai vip o ai personaggi che compaiono sui giornali e alla TV, è purtroppo necessario chiedersi quale attenzione può più suscitare la biografia di un compagno comunista.
E’ venuta meno  quella cultura legata  alla storia movimento operaio così attenta alle biografie degli esponenti delle “classi subalterne”, degli operai, dei “militanti politici di base”. Io stesso, che continuo a ricordare appena posso l’opera quasi dimenticata di Danilo Montaldi – da “Autobiografie della leggera” a “Milano, Corea”  a “Militanti politici di base”, provo un sentimento di sconcerto. Ancor più quando mi sono accorto che di Lucio  mi restano pochi ricordi, abbastanza vaghi e tutti risalenti agli anni ’70.  Tranne   uno più recente –  forse  un  5 anni fa – di un incontro fortuito con lui durante una passeggiata al Naviglio della Martesana tra Vimodrone e Cernusco sul naviglio. Lucio mii disse che aveva delle foto di quegli anni ’70. Ci proponemmo di vederci, di mettere insieme    quelle foto e  i pezzi  di quella storia che avevamo vissuto (cosa che ci è riuscito di fare con la pubblicazione del libretto “Storie di periferia. Cologno Monzese negli anni ’70” a cura del gruppo “on the road again” nel 2020), ma poi  non ci siamo più cercati. Non esistendo più quella  comunità politica di Avanguardia Operaia che ci tenne davvero insieme per alcuni anni, tutti abbiamo sempre più faticato ad uscire dall’isolamento o dalla frequentazione limitata a pochi amici e a gruppi comunque chiusi.
Il perché ci siamo reciprocamente persi di vista con Lucio e con tanti altri compagni di allora, superstiti di quegli anni di giovinezza, è noto: siamo andati in direzioni diverse e a volte contrapposte nella crisi che ha sconvolto la Sinistra e Avanguardia Operaia. Io, fuori dai partiti,  costretto  alla mezza solitudine  dei miei samizdat o dei precari tentativi di “fare gruppo” con riviste e associazioni  di “intellettuali” (Laboratorio Samizdat, Ipsilon, Poliscritture). Lucio tenace nella sua militanza sindacale e politica in Democrazia Proletaria prima  e poi  in  Rifondazione Comunista, che a lui parevano partiti che avevano ereditato  e potessero continuare a far vivere almeno  una parte delle speranze del 68’- ’69.  E anche alle ultime elezioni del sindaco di Cologno del 2020 – le elezioni sono tuttora un’occasione per incontrarsi e confrontarsi – ci siamo trovati  divisi. Io ho  polemizzato con la lista in cui lui si era candidato e posso immaginare le sue reazione di fastidio ( ecco gli “intellettuali”!). Ma  mi sento di dire che Lucio non aveva una mentalità  settaria. Ed, infatti,  ho ritrovato il suo nome tra quelli che avevano firmato un Appello PER UN COMITATO DI LiberAzione a Cologno Monzese il 15 giugno 1994 [1], uno dei rari tentativi, fallito purtroppo, compiuti in questa città  per tenere uniti democratici e compagni con una visione ancora comunista.

Riflettendo amaramente su queste divisioni dopo la sua morte, devo riconoscere che Lucio è restato purtroppo un pezzo di me che non ho più capito. Come io sono stato per lui, credo, il pezzo che lui non capiva più. La trasformazione della realtà, la sconfitta politica, le vite private ancora più separate di prima non hanno più permesso d’incontrarci. E davvero ci siamo allontanati.  Io non  sono riuscito più ad attirarlo nel mio discorso di ricerca e di resistenza. Lui e i compagni con cui ha  scelto di continuare la sua ricerca e la sua resistenza non hanno avuto più interesse a coinvolgermi nelle loro iniziative. A volte mi è venuto persino il dubbio che, sì,  un poco indubbiamente – quel tanto che ha permesso di conservare una certa  stima  tra noi – ci siamo conosciuti.  Ma è stata, però, una conoscenza generica, inattiva e non priva di diffidenze.  Perché –  è  fin troppo chiaro oggi –  che  ci siamo proprio divisi (e ci siamo fatti dividere), che quei rapporti di allora non potevano più essere mantenuti  neppure con un eroico sforzo di volontà. No, non c’è stato più motivo di incontrarsi, di collaborare, proprio perché era  venuto meno  quel progetto comune e comunista (quello che poi è stato  presentato dalla propaganda ostile dei nemici e dei pentiti come “ideologia” o  “illusione”).  E ci siamo dovuti arrangiare. E con la sconfitta  sono tornate  in vista  quelle differenze tra “intellettuali” e “militanti di base” , che un po’ in quei lontani anni, quando eravamo in Avanguardia Operaia, certamente persistevano ma eravamo riusciti ad alleggerire.
Ah, tutti quegli incontri, i seminari (di domenica addirittura!) al Centro studi di viale Lombardia 49. Chi si ricorda più cosa dicevamo o facevamo? Dove sono più le bandiere rosse al vento, gli striscioni, le discussioni animate in piazza Castello, al bar Paoletto di Corso Roma, per non dire quelle che facevamo all’inizio  del  ’69, come Gruppo  Operai e Studenti appena nato, nel sottoscala del  bar  della Elsa in via Kennedy? O la Cologno  attraversata dalle tute blu in bicicletta o sui motorini nella pausa pranzo di metà giornata?Quel mondo  è finito.

E ne frattempo è arrivata la notizia della morte anche di Lucio.  A me ad ogni morte di amici vengono in mente  i versi di Esenin, Noi adesso ce ne andiamo a poco a poco (qui). E questa volta ho pensato anche  agli altri morti – compagni o amici conosciuti  negli anni della militanza politica  degli anni 70 a Cologno, di un tempo che  per me è rimasto – lo so di mitizzare e dei rischi che ciò comporta –  una specie di “età dell’oro” della mia vita: Vito Galofaro, Franco Franchini,  Balice, Giovetti,  Saccaà, la Pina Canu, Licio Licciardi (l’ottico), Valente, Formenti, Marotta, Peppino Salzarulo, Ledo Cervi, Michele Turi…
Nella mia mente si compone una immaginaria  foto di gruppo di compagni morti. E non so ben dire se chiedono o no di essere ricordati.  Né se noi superstiti siamo più in grado di poterlo fare insieme,  da vecchi. Né se abbiamo ancora una memoria in comune e se siamo capaci di contenere l’angoscia del tempo che passa e non tacere la stanchezza dell’oggi  e la pena della malattia e della morte.
Ho pensato soprattutto al dramma finale della vita di Lucio, quando si sarà sentito vicino alla morte. Non ho osato neppure interrogare i suoi familiari su questo, ma in maniera indiretta voglio ricordare il rilievo di questi momenti  finali nella esistenza di ciascuno di noi. E ricorrerò alle parole crude ma vere di Fortini malato, copiandole da  una intervista del 5 marzo 1994 (aveva subìto già due operazioni e morirà il 28 novembre dello stesso anno):

«Ho il massimo dell’angoscia, il timore di perdere completamente la personalità nella fase terminale. Per alcuni giorni dopo l’operazione ero sveglissimo, ma davo i numeri. Me l’ha raccontato mia moglie Ruth. Ero sotto narcosi…Ci penso sempre [alla morte]. «La morte è il vino dei poeti»: non ricordo chi l’ha detto. Secondo una famosa frase di Hegel, occorre introdurre parcelle di morte nella vita di tutti i giorni: intrattenersi, stare accanto alla morte, all’annullamento; non per esorcizzarlo, ma per rafforzarsene. Bellissimi discorsi, che possono essere annullati da un dolore fisico o da un’alterazione mentale. Dio mio, quanta gente vediamo diventare…Questo è il mio terrore. Com’è morto Manzoni? Bestemmiando e vomitando cose insensate, picchiato a pugni da due infermieri di Pavia. Hanno trovato le ecchimosi… Quello che di te rimane, che di tutti rimane non è rappresentato da quei, quattro, venti o cento libri che puoi aver scritto, e neanche dagli affetti e dall’insegnamento, perché basta passare una certa età per accorgersi di quanto questo sia vano, ma è una quantità di modificazioni che la tua via, come quella di altri, ha introdotto nei rapporti fra gli uomini»

(Claudio Altarocca, Fortini. Italia orribile ti dico addio, «Tuttolibri», supplemento di «La Stampa», 5 marzo 1994, in F. Fortini, «Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952- 1994», pag. 699, Bollati Bornghieri, Torino, 2003)

Non so dire, dunque,  se esista ancora  il compito di ricordare  un amico morto. Io questo compito ancora lo sento  e l’ho  assolto qui nella mia maniera. Non  mi vanno i modi generici. Non sopporto la retorica facile di chi  parla ancora della “meglio gioventù”  che voleva lottare e cambiare il mondo. Non ho più la speranza  che presto si possa costruire un nuovo quadro di idee dove noi, dopo la nostra morte,   possiamo durare ancora un po’  nei ricordi di amici e comunità reali. Dopo la sconfitta, indipendentemente dai loculi in cui siamo stati costretti a rifugiarci, mi sento di dire soltanto  che  la mia resistenza da “intellettuale” che pone dubbi e quella di Lucio che si è voluto aggrappare alle certezze della militanza sindacale e partitica sono due forme diverse di una medesima cosa, forse ancora vicine e da rispettare.

 

 

Nota

[1] E. Abate, G. Alessandrello, S. Alpino, V. Ballabio, V. Beretta, V. Brusa, A. Cairoli, C. Carlotta, D. Carissimo, A. Casula, G. Cocciro, M. De Tuglie, M. Diaco, R. Fabbri, G. Facchi, M. Felisari, G. Galardi, R. Grossi, M. Guerra, R. Guzzo, L. Lana, A. Lorenzo, M. Madella, R. Mapelli, N. Martinazzi, B. Narici, D. Palumbo, L. Paccagna, C. Piazza, E. Picozzi, E. Radaelli, C. Rosini, D. Salzarulo, A. Tagliaferri, R. Turi.).Adesioni: PDS, Sinistra giovanile, Circolo Pertini, Ass. Culturale Ipsilon

 

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