Appendice

di Ezio Partesana

Due ragazzi muoiono in un incidente stradale, è una “strage”; al torneo di tiro a segno il trionfo è stato ”epocale”; il vento soffia e le raffiche sono “devastanti”. Come cambiano le parole.
A teatro il pubblico applaude “in delirio”, a conferma di aver assistito a una rappresentazione “storica”, mentre sulla strada provinciale poco distante, da settimane è in corso una “mattanza” e è persino morto un guidatore. “Mai visto prima” è il freddo invernale; “catastrofiche” le emergenze; il “genocidio” è sulla bocca di tutti.
Nella lingua comune gli aggettivi adornano ogni evento con termini che ne sanzionano l’unicità irripetibile al di là di ogni dubbio; la fame di emozioni cancella la percezione della somiglianza, che pure è la forma primitiva della conoscenza. Così che la vita appare essere un eterno giudizio universale dove un po’ di salvezza è concessa solo a osservatori straordinari che sappiano cogliere il lato tragico, o romantico, anche in un ufficio postale di periferia chiuso per ferie nel mese di agosto.
La pubblicità, le recensioni dei libri, gli articoli di giornale, le frastornate poesie degli adolescenti e l’agenda politica dei partiti seguono un medesimo schema: l’esagerazione sistematica. Al posto di una valutazione critica si usa un roboante aggettivo o un elogio sperticato o un insulto, non fa alcuna differenza purché la comunicazione tocchi il cuore prima di essere digerita. Senza differenze di genere, classe o titolo di studio.
L’effetto principale di questa corsa allo sdegno o allo spavento è, ovviamente, l’assuefazione. Se al principio è sufficiente qualche avverbio e un punto esclamativo, con il passare del tempo niente sembra abbastanza immenso da conquistare la nostra attenzione, o giustificare la nostra presenza, e alla lingua si aggiungono le immagini, le private sofferenze e persino i rancori più lontani. È una gara facile, nella quale vincono tutti, ma il traguardo è sempre spostato qualche metro più in là. Dunque si affilano le armi, perché la competizione tra i venditori di scalpore è feroce e più di tanto dai sentimenti non si può spremere.
L’oggetto che si propone sul mercato esiste ancora e ha un suo valore d’uso ma è come sepolto da un pathos grondante che rende simili, al limite della non distinguibilità, un paio di scarpe, una notizia di cronaca o il noleggio di un appartamento per le vacanze. E se il fenomeno era già evidente per alcune merci, soprattutto nel settore della moda, negli ultimi dieci anni sono diventati marchi da sfruttare anche funzioni e strutture che si supponevano al sicuro da questa deriva; si parlava di esibizione dello status sociale per un acquisto costoso e ingiustificato, e ora qualunque oggetto – dal più umile all’astratto letterario – è confezionato suggerendo che il possesso del medesimo è la chiave per confermare la propria identità.
Si è buoni, coraggiosi, intelligenti, non per bontà, coraggio e intelligenza, ma perché si è aderito alla propaganda che cede quelle virtù gratuitamente, a patto che si consumi, nel frattempo, anche la prevista quota di odio, smarrimento e narcisismo. Insomma, un tempo tutto era uguale di notte, adesso lo si fa alla luce del giorno.
Il sospetto che l’uso apocalittico degli aggettivi e la ricerca dello stupefacente estremo vadano d’accordo con la povertà della vita consumata oggi da quasi tutti è reale. Come un organismo vivente reagisce alla mancanza prolungata di certe sostanze sviluppando malattie, così l’individuo contemporaneo segnala la propria alienazione abbuffandosi di emozioni non sue sino a ammalarsi, incompreso narciso, di tutto quello che è disponibile sul mercato.
Un ragionato silenzio è la prima vittima dell’esaltazione consumistica. Tutti devono sapere che è d’obbligo avere opinioni e forti su qualsiasi argomento, non importa quanto distante sia dalla loro esperienza o complessa la questione. È una legge e l’ignoranza non è ammessa. Non è difficile parlare e un insulto può andare bene come un seducente elenco di banalità. Se la vendita è quella della sfera che dovrebbe essere intima, chi tace per pudore, o semplicemente perché non sa o non ha capito, si sottrae momentaneamente al vincolo del valore e del suo equivalente universale. Diserta, per così dire, e non serve più a nulla.
Una fenomenologia del valore di scambio dovrebbe oggi cominciare dal presupposto che ogni merce circola insieme al suo fantasma, e è nel consumo determinata più da questo che dai costi di produzione. Si parla molto di Capitale linguistico ma senza mai dire che tale forza non ha niente a che vedere con le conoscenze utili e necessarie e molto in comune con i vecchi notiziari di cronaca nera dove, la sera, esasperati uomini e donne trovavano una sciocca e salutare distrazione nel leggere le sventure di qualche malcapitato e giocare a far gli investigatori, o i preti.
Le avanguardie artistiche del Novecento, avendo avvertito questo mutamento, reagirono rendendo sempre più astratto, asettico e concettuale il momento della produzione e a seguito il suo concetto. È difficile piangere sopra un quadro di Mondrian o un’opera per pianoforte si Webern. È vero che i critici per sbarazzarsi dell’imbarazzo parlavano di rivelazioni e rivoluzioni, ma il danno era oramai fatto e l’arte, o meglio il mercato dell’arte, ci ha messo più di un secolo per riportare i cani all’ovile e lasciare libere le pecore di brucare.
Non è più la chiacchiera a distrarci, con buona pace dell’ontologia, né la tecnica a forgiare il destino dell’Occidente, ma piccole scuole di scrittura, seducenti cataloghi e la povertà quotidiana.

2 pensieri su “Appendice

  1. “La pubblicità, le recensioni dei libri, gli articoli di giornale, le frastornate poesie degli adolescenti e l’agenda politica dei partiti seguono un medesimo schema: l’esagerazione sistematica”… sono comunicazioni *scritte*. E abbastanza ufficiali. La “competizione tra i venditori di scalpore” concerne forse il decrescere di lettori nonché la sfiducia crescente (vedi l’astensione) nei confronti delle élites politiche e culturali?
    Nei rapporti orizzontali, di amicizia, lavoro, familiari esiste forse la stessa ricerca paradossale di eccezionalismo? Non mi pare proprio (anche perché in quei rapporti hanno spazio l’umorismo e l’ironia).

    1. Capisco l’obiezione, ma nei rapporti personali non si fa, di solito, propaganda, che è l’oggetto del mio discorso.
      Un saluto.

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