Sulla poesia esodante. Intervista (2013) di Ezio Partesana a Ennio Abate

giacometti esodo Sia pur nel contesto “estivo” della riflessione avviata sui concetti di moltinpoesia e poesia esodante, pubblico anche su POLISCRITTURE  questa approfondita e per me ancora attuale  intervista  che mi fece Ezio Partesana.  Era apparsa sul blog POESIA 2.0 (qui). [E.A.]

Questa intervista è il risultato di un amichevole e fertile duello tra me e Ezio Partesana, filosofo agguerrito, uomo di teatro e poeta tuttora in disparte e “in clandestinità” (quasi quanto me). Partendo dal mio saggio «Appunti – Per una poesia esodante. Sulla ex-piccola borghesia o ceto medio in poesia» e dalle «Quattordici tesi per una poesia esodante» del settembre 2012, Ezio mi ha incalzato con una serie di domande mirate soprattutto a scandagliare i punti che più potrebbero interessare un lettore esigente, non frettoloso né compiacente. La prima domanda porta la data del novembre 2012, l’ultima del luglio 2013. Ne è uscito un testo  più che meditato, che spero dica di lui e di me e di una comune esigenza di rigore e sincerità.  Lo pubblico suddividendolo in  sezioni e premettendo  brevi indicazioni sui temi trattati. [E.A.]    

I

Ipotesi di lavoro, padri e compagni di strada, correnti poetiche odierne

Caro Ennio, prima di cominciare a parlare del contenuto del tuo saggio, vorrei farti una domanda di carattere più generale, che è questa: il tuo è un tentativo di descrivere una situazione di fatto, di descrivere un certo tipo di poesia che già esiste e della quale vuoi mettere in evidenza alcune caratteristiche, oppure si tratta di un vero e proprio “manifesto letterario”, un appello basato su criteri etici ed estetici?

No, non descrivo una situazione di fatto. La mia è soltanto e da tempo (dal 2000 circa) una ipotesi di lavoro. Se vuoi, è un segnale che continuo a trasmettere ad altri in assenza di ricezione attendibile. Ciò non mi incoraggia. Come pensare a un manifesto letterario, che presupporrebbe un gruppo promotore relativamente coeso o in buona sintonia? E poi non siamo – credo – in epoca di manifesti, né politici né poetici.

Se si tratta di un’“ipotesi di lavoro”, prima di addentrarci in quel che scrivi, puoi indicarci brevemente quali siano, o possano essere, i “padri”, gli antecedenti o i “compagni di strada” di questa tua intenzione?

Innanzitutto e senza esitazioni Franco Fortini, per me riferimento mai venuto meno dal ’78 in poi. Da lui ho assorbito un’attenzione inquieta al rapporto tra poesia e realtà (in particolare nei suoi risvolti storico-socio-politici). Sul lascito principale di problemi fortiniani hanno però interferito influenze precedenti e successive. Per limitarmi solo agli scrittori, farei i nomi di Verga, Pavese, Proust, Joyce, Brecht, Majorino, Ranchetti.

Si vede forse una linea, per quanto tortuosa, tra i nomi italiani che citi, mentre un po’ più difficile mi viene immaginare che cosa possa legare gli scritti di Brecht, per esempio, a quelli di Proust… ma questo lo capiremo meglio addentrandoci nelle idee esposte nel tuo saggio. Per intanto volevo chiederti se non ci sia nessuno tra chi scrive poesia oggi, tra i viventi intendo, che tu consideri un interlocutore, seppur magari solo interiore e privato.

Questa domanda mette a nudo un dato per me dolente: un mio prolungato isolamento rispetto ai poeti viventi. Non vorrei, però, esagerare perché  alcuni amici poeti, noti o poco noti, con cui qualcosa scambio ne ho: Majorino, Neri, Ferrieri, Salzarulo, Simonitto, Corsi, Linguaglossa, Partesana stesso…).  Ma un interlocutore affine e privilegiato – magari un critico invece che un poeta -, che pur vorrei, non l’ho trovato.

Ah… ci sarei anche io tra gli “esodanti”! Va bene, faremo finta di non aver sentito… C’è un punto, nel tuo scritto, che mi interessa particolarmente (lo vedremo tra poco), ed è quello dove ti sforzi di individuare la classe, per così dire, dei possibili autori e interlocutori di una poesia esodante. Vorrei chiederti, per completare questa prima ricognizione sul tuo universo di riferimenti, se a partire dalle stesse premesse si delineano anche altre “correnti” poetiche che tu ritiene valide o almeno degne di nota?

La situazione della poesia italiana è oggi talmente confusa e il lavoro della critica su una produzione spuria e mal indagata così in ritardo che mi pare difficile distinguere vere e proprie correnti. Siamo immersi in una “nebulosa poetante”, estesasi ora anche sul Web.  Delle sue dimensioni e della qualità, varietà e singolarità di voci è difficile l’accertamento. Anche i poeti più in vista possono essere classificabili solo con categorie approssimative. E dopo il «Gruppo 63» i tentativi di darsi un programma (come fece, ad esempio, il «Gruppo 93») sono stati rari o non sono neppure decollati. Abbiamo, sì, varie antologie, che inseguono e selezionano come possono la produzione arrivata alla pubblicazione, ma, quando l’attenzione non si riduce alle cerchie amicali più vicine, si muovono davvero faticosamente. Un’antologia accademica ma abbastanza seria che ho letto risale al 2005. Si tratta di «Parola plurale» di autori vari coordinati da Andrea Cortellessa. Selezionava 64 autori nati tra il 1945 e il 1975. A dimostrazione di quanto sia improprio parlare di correnti, li raggruppava in categorie lasche del tipo: «Il domestico che atterrisce. Tematizzazioni del quotidiano», «Stili semplici», «Deformazioni. Comico, grottesco e altre vie», «Dialetto e post-dialetto». Poi ci sono alcuni tentativi di solitari e generosi outsider, come Giorgio Linguaglossa, ma passano quasi sotto silenzio e sono tenuti dai mass media e dall’accademia come in ghetto, “invisibili” loro e i poeti che seguono.

 

II

Legami espliciti o impliciti con la storia, strumenti per una rottura

Forse avremo modo di tornare su questo punto in conclusione di intervista,  ma adesso vorrei cominciare a entrare nel vivo di quel che scrivi a proposito della “poesia esodante”. Che la poesia vada “misurata con qualcosa di esterno alla poesia”, mi sembra un’affermazione evidente, quasi un postulato; c’è però un punto dove tu parli di “misurare una poesia dai suoi legami espliciti o impliciti con la storia”, e vorrei chiederti: riusciamo a tratteggiare una prima “mappa” di questi “legami impliciti”? A cosa stai pensando quando li affianchi o contrapponi a quelli espliciti?

Per “legami espliciti” tra poesia e storia intendo in primo luogo quelli che la poesia intrattiene con tutto il sistema dei saperi umanistico-scientifici. E poi quelli con tutti i linguaggi (gestuali, visivi, simbolici, astratti) che sono delle vere e proprie correnti oceaniche. Ma non basta. La poesia è legata ai  corpi. I poeti stessi sono corpi che interagiscono con altri corpi (di singoli, di gruppi, di folle; e ci metterei persino i corpi “istituzionali”…). E poi non ha forse legami col tempo? Con gli anni in cui quel determinato poeta vive, ma pure con gli anni o i secoli che il poeta riesce a riassumere in sé, quando accoglie ora una Tradizione durata a lungo o ora solo pochi anni “rivoluzionari”? Quindi la mappa dei “legami espliciti” potrebbe essere cercata in un conglomerato che potrei chiamare: poesia-saperi-linguaggi-corpi-tempo(esistenziale,storico). Tali legami, però, diventano “impliciti”, se occultati, velati, ridimensionati, trascurati da quanti pensano la poesia come fosse o dovesse essere la negazione della storia o del “reale”. Per costoro il testo varrebbe soltanto “in sé”. Più esso ha “dimenticato” le sue radici(esistenziali, storiche) o  più esso attinge a ben altre radici (sogno, inconscio, Altro) più sarebbe poetico. Eteronomia e autonomia della poesia, insomma. Per esemplificare i due poli farei i nomi di Brecht e Mallarmé.

Quindi, se ho capito bene, “impliciti” nel tuo scritto sarebbe sostituibile con “non esplicitati”; vorrei allora chiederti quali siano gli strumenti di chiarificazione o, detto altrimenti, se tu scrivi che: “La poesia esodante è il tentativo di rompere gli steccati […] in cui oggi sta una certa poesia”; vorrei tu indicassi in primo luogo quale sia la necessità (anche politica, naturalmente) di questa rottura e, in secondo luogo, quali siano gli strumenti attraverso i quali questa rottura dovrebbe consumarsi.

Vedo la poesia italiana d’oggi adagiata o peggio succube della crisi (generale e non solo economica). Anche le buone cose che si scrivono in un mare di tentativi più confusi e banali mi paiono venire da “cellette monacali”. Il dibattito, quando c’è, sul Web ad esempio, è un carosello ininterrotto ed effimero, incapace di pause di riflessione e di sia pur provvisori bilanci. Lo vedo promosso per lo più da giovani che cercano  il loro “spazio vitale”. Ma a me pare che si autoconsumi per assenza di dialogo vero con altri interlocutori. I poeti con più esperienza, ad esempio, tacciono o continuano a farsi “le loro cose” tenendosene alla larga (e non sempre per buone ragioni). Non vedo posizioni ambiziose, capaci di misurarsi almeno sulla questione forse più urgente: se, in poesia, la globalizzazione comporterà uno sfaldamento completo dei residui recinti delle (ex) “patrie lettere” o susciterà una resistenza “nazionale” al postmodernismo cosmopolita americanizzato. Si ripercorrono invece sentieri già battuti (neo-orfismo, post-avanguardismo, mito-modernismo, “poesia civile”). E non ci si ascolta. Non ci si dà credito (reciprocamente). Per lo più si affrontano i problemi ammessi nella propria ristretta cerchia di “amici” o di “parrocchiani”. (Se segui un blog, dopo un po’ vedi che i commenti sono sempre quelli dei “fidelizzati”). Tutto ciò mi fa pensare a un sabotaggio inconsapevole, a una rassegnazione da epigoni. O comunque a un rifiuto di assumersi responsabilità di fronte alla crisi che incalza e si prolunga. Non so se si possa parlare di necessità di una rottura. Non vedo, infatti, energie decise a vere rotture (che andrebbero  pensate innanzitutto). In campo poetico poi non so neppure quanto sia auspicabile una forma generica e confusa di rottura, specie dopo le avventure (o disavventure) paraistituzionali della neoavanguardia. Un “grillismo” in poesia sarebbe scelta infelice. Personalmente ho continuato a tentare di fare gruppo o laboratorio, ma è stato un mezzo fallimento. L’idea di  una poesia esodante non interessa. È rimasta un mio tic.

È rimasta in sospesa la parte della domanda che riguarda gli eventuali “strumenti” di una rottura… Anche se la tua adesso è una visione piuttosto sconsolata della “patrie lettere”, così come dei “patri lettori”, vuoi comunque delineare, per favore, attraverso quali mezzi si potrebbe  consumare questa rottura? Intendo chiedere: si tratta più di organizzazione della sfera del consumo della poesia, e quindi della sua funzione sociale, o pensi al momento produttivo, e quindi a elementi propri di quel genere letterario che chiamiamo poesia?

Ripeto. Non ho indicato «gli eventuali “strumenti” di una rottura» perché, nella confusa crisi che viviamo  dopo l’eclisse di qualsiasi Progetto “forte”, evocare o auspicare genericamente delle rotture in assenza di  soggetti chiari e affidabili mi pare un azzardo. Se ci troviamo al buio, meglio non agitarsi. Tanto più nel campo della poesia. Anche qui le conclusioni di certe rotture “rivoluzionarie” (ancora la neoavanguardia!) le abbiamo pur viste. Si sono avute mere spartizioni, del tutto ”endo-accademiche”, del potere culturale: al tradizionale baronato universitario s’è associata una quota di nuovi baroncini (anche sessantottini),  tra i più svelti a  legarsi, qui in Italia, prima all’industria culturale e poi a quella dello spettacolo. E oggi la sfera del «consumo di poesia» è del tutto congeniale a un «momento produttivo» sì, ma direi di poesia “per universitari”. La produzione e la distribuzione dei testi poetici vengono amministrate secondo una logica complementare e pseudo-gerarchica: una nicchia gratificante per la poesia “alta”; e un’altra – imitativo/”alternativa” – di poesia/similpoesia/falsa poesia. Di consumo, appunto. E che ora defluisce nei canali disordinati e in via di espansione delle piccole case editrici, dei festival, dei siti Web. C’è quasi da ritirarsi e tacere. Mi appare generosa ma scaduta persino l’ipotesi fortiniana di «ecologia della letteratura»; e ti ho detto del mezzo fallimento del «Laboratorio Moltinpoesia», con il quale ho cercato ancora di coniugare poesia e critica e far confrontare i discorsi elaborati nei cosiddetti livelli “alti”  con quelli elaborati nei cosiddetti o realmente livelli “bassi”. Non vedo quasi più punti d’appoggio per un intervento di gruppo. Perché – ripeto – soggetti, capaci non di consumare ma di usare/riusare criticamente la poesia (passata e presente) in vista di un possibile nuovo progetto, non se ne vedono. Che «un esodo dalle forme istituzionali consolidate» (da tutte, comprese quelle che “istituzionalizzano” la “rottura”) possa avvenire solo alla spicciolata? Sperando almeno di evitare sia gli eremitaggi orgogliosi dei singoli sia le derive da gruppi “tribali” che comunque si formano?

 

III

Esodo come fuoriuscita, esempi

Capisco… è per questo allora che hai scelto il termine “Esodo”? Se la risposta è affermativa mi rimane però un dubbio che la derivazione filosofica della parola da te usata da, diciamo, Toni Negri, non chiarisce: la fuoriuscita è solo dalle istituzioni poetiche, quella che potremmo chiamare la sfera della circolazione della merce-poesia, o anche dalla poesia in quanto tale? Ti domando, insomma, se credi si debba uscire dalle contraddizioni della poesia verso qualche cosa d’altro, e se sì, cosa?

La parola ‘esodo’ ha un affascinante alone, soprattutto biblico e più recentemente politico-filosofico (Walzer soprattutto; e poi da noi Negri, Virno ed altri). Vorrei però, senza respingerlo del tutto, che restasse sullo sfondo del mio discorso. E perciò, più terra terra, partirei da  alcuni versi finali di una mia poesia, intitolata appunto Esodo: «Nell’esodo dunque. / La tana di sempre sfondata. / La gabbia approntata da secoli / aperta, finalmente deserta…». Non li commento o spiego. M’interessa quella immagine della gabbia. In essa vedo adagiata anche una certa poesia: quella cortigiana che produce la merce-poesia, mentre la poesia più inquieta – romantica o critica – ha tentato sempre di uscirne. E, in certi momenti eccezionali, ha persino, come tu dici, voluto uscire «dalla poesia in quanto tale». Verso cosa? Più di un trentennio fa, azzardando, avrei ancora dato un nome alla «cosa». Avrei detto: comunismo. Oggi il nome manca. Non dico che ci sia una rinuncia generalizzata e definitiva ad ogni forma di esodo. In giro non vedo solo resa. Possiamo negare, però, che i tentativi di sfondare la gabbia, oltre che falliti, non abbiano (più? ancora?) un nome; e che siamo in gravi difficoltà?

Scusa se ti interrompo, ma credo sia necessario a questo punto un chiarimento sul termine “esodo”; io l’avevo interpretato come “fuoriuscita”, l’atteggiamento, diciamo così, di chi pensa che il confronto sia falsato, o che non sia “lì” il vero punto, e abbandona quel luogo per eleggerne un altro (più corretto e centrale) al suo posto. Ma dalla tua ultima risposta sembrerebbe che tu abbia in mente una sfumatura diversa quando parli di esodo e esodante

No, anche per me esodo è “fuoriuscita” proprio nei termini da te indicati. La sfumatura diversa tra noi consiste forse nell’accento. Io lo pongo sull’assenza (o opacità) dello scopo da raggiungere (e, perciò, anche del nome per designare tale scopo). Potrei quasi dire che siamo oggi come atleti proiettati ancora in una corsa, ma che si accorgono d’un tratto che il traguardo non si vede più o, addirittura, che stiamo avanzando su un terreno non più fermo come ci pareva prima. Da qui la reale difficoltà (più che l’incertezza) nell’abbandonare quello che pur vogliamo abbandonare. Ho vari e vecchi disegnini miei,  in cui si vedono degli omini (aggiungerei ora: esodanti) in una difficile posizione di dinamismo frenato o impacciato. A me pare di cogliere questo dramma  persino in alcune formule usate dagli studiosi di Marx. Ricordi il Marx oltre Marx di Negri, che sembra suggerire un oltrepassamento che ripropone la cosa oltrepassata? E  La Grassa non continua a parlare di «uscire da Marx dalla porta di Marx», insistendo al contempo su quanto sia  arduo indicare «l’altra  strada»?

Quindi “esodo” per uno scopo? Continuo a credere che il termine possa dar luogo a equivoci, ma per chiarire, a noi stessi in primo luogo e poi anche a altri, il concetto, forse è più semplice che tu ci mostri qualche verso e ci faccia vedere questa uscita dalla poesia…

Non dispongo di prototipi di poesia esodante da mostrare (le mie tesi, infatti, s’intitolano banalmente Per una poesia esodante…). Posso, però, scegliere la poesia di un autore in cui scorgo tratti o buone premesse per avviarsi a una poesia esodante.

Leggiamo questa poesia di F. Fortini:

Gli ospiti

I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari.
La sola cosa che importa è
il movimento reale che abolisce
lo stato di cose presente.
Tutto è divenuto gravemente oscuro.
Nulla che prima non sia perduto ci serve.
La verità cade fuori della coscienza.
Non sapremo se avremo avuto ragione.
Ma guarda come già stendono le loro stuoie
attraverso la tua stanza.
Come distribuiscono le loro masserizie,
come spartiscono il loro bene, come
fra poco mangeranno la nostra verità!
Di noi spiriti curiosi in ascolto
prima del sonno parleranno.

Tenendo sott’occhio le mie «14 tesi» (di cui citerò tra virgolette dei passi), mi pare di trovare, in buona parte e soprattutto nei primi otto versi di questa poesia, molti punti in sintonia con la mia idea di poesia esodante.

Li riassumo quasi a mo’ di titoli:

– attenzione vigile a «pensare l’orrore del mondo e della storia» che viviamo e subiamo, ma allo stesso tempo convinzione che «pensare in poesia l’orrore del mondo non può significare cedere a tale orrore, al  Niente». (Vedi qui il verso: I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari), anche se Tutto è divenuto gravemente oscuro);

– sforzo di destarsi dal «sogno della poesia» (non esiste in questi versi nessun abbandono all’«oasi di piacere-libertà-bellezza della Poesia». Piuttosto piena consapevolezza che la poesia, di per sé, non è libertà. E – aggiungerei – che i poeti esodanti «sanno di non essere liberi». E che, quindi, devono anche “uscire dalla poesia” (se questa finisce per combaciare con la gabbia di cui dicevo prima); ed essere, in altri termini, poeti-critici, evitando la dissociazione impostasi – direi dopo gli anni Settanta del Novecento – tra poesia e critica;

– tenacia nello stare addosso alla realtà  e ai conflitti sociali (La sola cosa che importa è / il movimento reale che abolisce / lo stato di cose presente); il che non comporta una ottimistica o volontaristica «ripresa dell’impegno (etico, politico) in poesia». In questi versi, anzi, si insiste  sia sulla  necessità  destruens (Nulla che prima non sia perduto ci serve) sia sulla modestia e l’assenza di tronfiezza e sicumera nel lottare: Non sapremo se avremo avuto ragione»;

– la  capacità di «maneggiare la politicità del linguaggio» mira interamente a un dialogo, a un discorso persuasivo e problematico, da condurre tra persone che agiscono nella storia e hanno problemi da affrontare in comune; da qui un lessico concreto, la solida sintassi, la coincidenza tra metrica del singolo verso e frase compiuta nei versi più asseverativi: I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari; tutto è divenuto gravemente oscuro; La verità cade fuori della coscienza);

– la scelta di muoversi in una zona lirico-politica, che io chiamerei dell’«io/noi», evitando sia il puro lirismo, sia il discorso politico diretto; anche perché questo poeta «sa che la realtà sfugge alla forma»; e lo ricorda qui  nel verso: La verità cade fuori della coscienza.

Ecco, resterebbero da aggiungere oggi – ma in questo contesto è secondario – alcune mie riserve verso il contenuto “utopico” presente nell’ultima strofe, che evoca, sia pur sobriamente, un’allegoria di comunismo.

 

IV

Metrica sì, metrica no

Ci sono due passi della tua analisi che mi paiono particolarmente interessanti e, forse, da chiarire meglio, e si tratta degli ultimi due, ovvero della zona lirico-poetica e l’accenno che fai alla metrica. Cominciamo dal secondo e vorrei chiederti: nelle tue tesi non mi pare sia presente una particolare attenzione né alle forme della poesia (dal sonetto alla ballata, per intenderci) né alla metrica; è perché ti paiono discorsi poco interessanti rispetto a una “poesia esodante” oppure vuoi cogliere l’occasione di precisare meglio il tuo punto di vista?

In effetti – ho controllato – il termine ‘metrica’ manca nel mio scritto. In tutta sincerità sull’argomento c’è da parte mia una “controllata” rimozione. Da una parte nella mia formazione scolastica la metrica come sapere specialistico dei metricisti restò per me come la matematica: un sapere di cui riconosco in astratto l’importanza e persino il fascino, ma che mi respinse per i suoi tecnicismi. Anche nei discorsi interessanti e da me condivisi (in particolare ho cercato lumi negli scritti di Fortini e specie in Metrica biografia) non sono mai riuscito a trovare spunti che mi appassionassero fino ad entrare consapevolmente nella mia pratica poetica. E certe letture di manuali scolastici (ad es. di Ramous) le ho fatte sempre con un atteggiamento scrupoloso ma in fondo scettico, come di uno studente ormai adulto e arrivato in ritardo alla lezione. Tutte queste letture sono rimaste come in sospensione. Non le ho “incorporate“. Mi resta dunque un buco. Ho voluto tenerlee fuori (contraddittoriamente) dalla  mia pratica di poeta? Oppure ho lasciato che le loro suggestioni sedimentassero in profondità per conto loro? Non so dirlo. In conclusione, sento che una metrica reale nelle mie poesie pur c’è, ma potrebbe essere evidenziata  soltanto con uno studio sistematico (mio, ma non ho mai trovato tempo per farlo; o d’altri). Di  sicuro c’è che sono rimasto estraneo sia alle metriche “anarchiche” dell’ultimo Pasolini o dei neoavanguardisti sia ai tentativi di ripresa dei metri “classici”. Questa è la mia  esperienza. Che conta quanto può contare un caso singolo. E tuttavia conferma, mi pare, il venir meno tra una buona parte dei praticanti la poesia del secondo Novecento di una solida conoscenza della metrica tradizionale (o “dei metricisti”). È  solo un limite, un deficit? O, facendo di necessità virtù, stiamo procedendo a tentoni verso altre metriche? Il dibattito, per quel che ne so, seguendo le ricerche di Paolo Giovannetti e di altri studiosi, è del tutto  aperto.

È curioso che tu indichi la metrica come elemento rigido, formale. Certo lo sforzo e lo studio che si richiederebbero per apprendere qualche rudimento di quella classica (chiamiamola così, per quel che serve a noi adesso per intenderci) sono impegnativi, e pur tuttavia mi viene in mente subito che ritmo e metro dovrebbero far parte del canto della poesia, della parte seduttiva, non-concettuale, come la rima nelle filastrocche dei bambini. Quindi vorrei chiederti: nella poesia esodante che tu stai cercando di immaginare e scrivere, il potere seduttivo della poesia è sempre negativo, illusione di un bene che non c’è, oppure ha anche altri volti dei quali non abbiamo ancora parlato?

Sarà curioso, ma è così. Per me (e forse per molti altri).  Non si tratta di rifiuto dello sforzo o dello studio. E almeno i rudimenti della metrica classica ce l’ho pure io. Sto solo dicendo che restano inoperanti oppure operano in me a livelli profondi e più inconsapevoli, che non saprei ora illustrare o teorizzare.  Li avverto dopo.  Faccio l’esempio di  alcuni versi miei in dialetto:

Sette ‘e figlie e zi’ Assuntine.
Franch’Alfane, e frate e sore,
o primm’ere e tutt’e quante. 

Franch’Alfane, o raggiuniere!
Proprie n’zicch’a Lungomare,
n‘front’ e palme, n’front’o mare, 

mamma noste quacch’e vote
pe parlà cu stu nipote
dint’a banche nge purtave 

Non mi pare che manchino le rime da filastrocca, il ritmo è quasi cantabile e ho usato persino la terzina. Ma il tutto è venuto fuori “quasi da sé”. Non pretendo comunque di abolire o rinnegare  il potere seduttivo della poesia, ma non mi propongo l’obbiettivo di sedurre. A me preme una cosa: partire da un “garbuglio” iniziale, da parole venute fuori “di getto”. E non da un programma (“adesso provo a scrivere un sonetto”) o da un chiaro e consolidato schema metrico divenuto per me abituale. Punto alla “cosa” (l’immagine-pensiero, la figura), ma senza averla chiara in mente o intravvederla attraverso un modello approssimativo o regolativo che inforco come fosse un paio di occhiali. La costruisco man mano: per approssimazioni, correzioni, cancellazioni, ripensamenti a distanza di giorni. E, quando la raggiungo,  vedo che  metrica è venuta fuori e di quanto s’avvicini o s’allontani da quelle altrui. (E allo stesso modo opero in pittura, che pratico: raramente ho fatto “copia dal vero”, parto sempre da uno “scarabocchio” di  linee o colori). Questo è il mio modo di stare in poesia. Ad esso, negli ultimi decenni, ho dato il nome di poesia esodante, supponendo di poter riconoscere pratiche somiglianti alla mia in altri e ipotizzando un possibile incontro/confronto dei vari percorsi. Penso, tra l’altro, che l’esodo  sia oggi (per me, per altri) proprio un ritrovarsi in un “garbuglio”. Perché è imposto da situazioni d’emergenza; e, dunque, non è un percorso programmabile e, come detto, non ha (per ora?) una meta. I modelli sedimentatisi nella memoria – oscuri fantasmi o ricordi più netti – possono sia agevolarci che ostacolarci. La ”cosa” da afferrare, da costruire, alla quale dare forma, è innanzitutto l’esodo stesso. La questione, che tu poni – se il potere seduttivo che la poesia ha sempre avuto sia da salvare o da respingere – mi pare secondaria. Passerà nella poesia esodante da fare o da immaginare? O gli aspetti ascetici, duri, drammatici o magari tragici (calchi spesso fin troppo fedeli delle realtà storiche in cui  si resta a volte schiacciati) vi prevarranno e lo diminuiranno? Non so dirlo. Resta per me che l’immaginazione stessa di altri “volti” della poesia ora incogniti, per irrobustirsi e non  annegare nelle astrattezze dell’utopia, ha da fondarsi su rapporti sociali che devono diventare – e non è certo – più elastici e dinamici. L’esodo, poi, non può essere solo quello immaginabile e praticabile dai poeti, spesso portati ad un utopismo astratto o semplicemente capriccioso. In questo mi sento ancorato al vecchio Marx che non voleva sprecare tempo a immaginare la futura società comunista.

V

Sfera della circolazione della poesia oggi, possibile diffusione di una poesia esodante

Bene. Mi sembra che abbiamo discusso sufficientemente di come tu veda la produzione di poesia di questi tempi. Il nostro discorso dovrebbe proseguire adesso sul secondo passaggio, ovvero quello che riguarda la pubblicazione e la diffusione, la sfera della circolazione insomma, che mi pare potremmo dividere in due parti: una prima dove avviene la decisione su cosa pubblicare, e una seconda che consta di come e dove promuovere i (pochi) libri di poesie che oggi si pubblicano in Italia. Vuoi dirci come vedi le cose in generale rispetto al tuo lavoro, alla “poesia esodante” che proponi?

Oggi come ieri a decidere quali testi pubblicare sotto la voce ‘poesia’ sono tre attori socio-storici abbastanza precisi: le case editrici e gli organizzatori di premi di poesia; gli “intenditori di poesia”,  di solito poeti e/o critici che hanno già pubblicato; gli «scriventi versi» (Majorino), termine che equivale in parte al mio «moltinpoesia» e a «pubblico della poesia» (Berardinelli). A differenza del passato (all’incirca fino agli anni Settanta), oggi la novità (o complicazione) sta nel fatto che ciascuno dei tre attori agisce in una filiera di pratiche che ha dimensioni di massa. Perciò caso, caoticità, contraddizioni (micro e macro politiche) – presenti in verità da sempre – oggi incidono di più sulle tre tappe principali che portano alla circolazione di un’opera: approdo alla decisione di pubblicare; accertamento critico del valore dell’opera; diffusione dell’opera selezionata tra i potenziali lettori. Ne derivano effetti disordinati, ambigui e prima impensabili: fretta di pubblicare e innumerevoli sollecitazioni a farlo (a pagamento); apparati critici risibili; idee confuse su se stessi, sugli altri poetanti, sul ruolo della critica, sui lettori reali di poesia. La “perdita dell’aura” ha suscitato – e non è una novità – da una parte entusiasmi ingenui, come si fosse raggiunta una vera liberalizzazione o democratizzazione della poesia. E dall’altra allarmi per una «dittatura dell’ignoranza» (Majorino ancora), che sembrerebbe fenomeno spontaneo, ma che invece a me pare pilotato. Come in politica, anche in poesia ci si dibatte tra populismi ed elitarismi, entrambi dannosi, perché offuscano una visione critica delle permanenze del passato e delle innovazioni (reali o possibili). È come se fosse avvenuto un  “fall-out della poesia” (o delle “patrie lettere”). Scuola di massa, industria culturale  e ora il Web diffondono la “radioattività poetica” oltre la solita cerchia dei “cultori della materia”, in Italia sempre ristretta, raggiungendo strati sociali acculturatisi (da poco e come possono) ai saperi moderni. È questo il fenomeno che io chiamo dei moltinpoesia, ma si potrebbe parlare anche di un fenomeno dei moltincritica o dei moltineditoria.

Da una parte assistiamo alla semplificazione, velocizzazione, moltiplicazione delle pubblicazioni e della loro (spesso incerta) diffusione. E, come detto, si pubblica con eccessiva facilità, si valuta all’ingrosso, si promuovono a tutto spiano reading e premi. Dall’altra la ruminazione lenta del poeta, la critica seria, la diffusione ragionata di opere valide sembrano eclissarsi. La critica, in particolare, è quasi azzerata o stordita. Come se si fosse trovata di fronte a un nubifragio o a un’invasione barbarica. O si è ritirata, vedendo vilipesa la sua funzione autorevole/autoritaria, che prima aveva una indubbia, seppur relativa, efficacia. In assenza – dico con un po’ di ironia – di un “Lenin della poesia”, capace di raccordare punti di alta elaborazione poetica (che ci sono) e punti di ricerca poetica naif o selvaggia (da non disprezzare), la mia idea di poesia esodante invita a non cedere né alle semplificazioni populiste né all’individualismo elitario-corporativo. Ma la crisi generale, nella quale non dimentico mai di iscrivere quella della poesia, si prolunga e s’aggrava. E temo che la «distruzione della ragione» possa avere occasioni di replicarsi (da noi magari in modi farseschi).

Non avremo il tempo di approfondire tutto, però queste mi sembrano considerazioni importanti. Vuoi dire qualcosa anche rispetto ai meccanismi di diffusione (o distribuzione) della poesia in Italia? Dove pensi possa esserci spazio per un “sfera della circolazione” della poesia “esodante” che non sia quella delle poche collane sopravvissute in Italia o del Blog di poesia? Oppure forse non c’è alternativa secondo te?

Sappiamo che in Italia la poesia è stata sempre un fenomeno socialmente marginale e che oggi l’invadenza dei mass media e la crisi determinano una sua diffusione, dovuta comunque alla scolarizzazione di massa, appena più ampia rispetto al passato. Ciò detto, io leggerei i processi in corso alla luce di una dialettica molti-pochi (mai escludendo che positivo e negativo possono trovarsi in ciascuno dei due poli); e cercherei di capire se, proprio nei margini o nelle nicchie, si stanno costruendo alcune premesse per una futura, più ampia  ma seria diffusione della poesia; oppure se vengono alimentati soprattutto comportamenti di arroccamento difensivo: settari o corporativi.

Due mi paiono oggi i centri  più vivaci di divulgazione della poesia: da un lato le piccole case editrici, i blog e le riviste, che accolgono con grande tolleranza la produzione poetica “di massa” e quella vagamente “militante”; le grandi case editrici e i blog o le riviste accademiche e di studio collegati al circuito universitario, che adottano filtri selettivi “professionali” fin troppo rigidi e a volte miopi.

Entrambi però questi “mondi separati” e chiusi a riccio su se stessi – e qui avverto il segno paralizzante della crisi della poesia e della crisi generale – non puntano più né a confrontarsi né a confliggere in modi chiari. Così tutto stagna e i problemi s’agitano irrisolti sul fondo. In primo piano si vedono gli snobismi dall’alto, tipici di chi si limita ad amministrare  qualche maggior potere di promozione e di veto editoriale o le più ampie e spesso preziose conoscenze specialistiche (filologiche, critiche, storiche); e gli snobismi dal basso: quelli di chi, partito da posizione di svantaggio, supplisce il deficit di visibilità (ma spesso anche di saperi) enfatizzando la propria esclusione o emarginazione e cedendo a un ribellismo antiaccademico che oggi – non siamo più all’epoca dinamica che permise l’exploit del Gruppo ’63 – non smuove nulla.

Che fare? Bisogna sempre provarle tutte prima di arrendersi. Si può tentare di convincere gli insoddisfatti, i dissidenti, i moltinpoesia ad esodare; e cioè a costruire spazi autonomi di vera secessione o di circolazione minoritaria (ma critica e rigorosa) dei propri testi più validi, come del resto hanno sempre fatto tutti i movimenti innovativi nella loro fase nascente. Oppure si può tentare di sviluppare una intelligente  “guerriglia critica”. (Lo faccio sistematicamente dove mi riesce; ad esempio, sui blog POESIA E MOLTINPOESIA e LE PAROLE E LE COSE). Senza illusioni però. Fare gruppo oggi per quest’intellettualità di massa è più che mai arduo.  Mille fili sentimentali, ideologici e pratici la trattengono in posizioni gregarie, attendiste, opportunistiche. All’estremo, se tali tentativi di costruzione o confronto dovessero fallire, resta la testimonianza individuale, il messaggio in bottiglia.

VI

Sulle poetiche della ricezione

Mi sembra di capire che tu sia favorevole, seppur con poche illusioni, a un “movimento dal basso” e che non veda possibilità attuali e concrete di dialogo o conflitto con il circolo accademico-editoriale della poesia. Ora, se sei d’accordo, finirei questa nostra breve chiacchierata con qualche domanda su “a che cosa serva” la poesia, e in particolare naturalmente, su quale funzione vedi tu possibile per una “poesia esodante”. Comincerei col chiederti se hai qualche familiarità con le così dette “poetiche della ricezione”, o per dirla in altro modo con l’impostazione kantiana dell’estetica. Credi sia un approccio utile a ragionare sulla funzione della poesia oggi?

Delle opere di autori come Iser e Jauss e del lavoro della scuola di Costanza ho solo conoscenza indiretta per aver letto articoli di giornali e riviste. Nutro però una istintiva simpatia per  le poetiche e le estetiche della ricezione che a loro fanno capo. L’importanza che danno ai lettori ha il merito di spostare il riflettore puntato spesso soprattutto su (pochi) autori e (pochi) critici. Penso, ad esempio, al nume di una visione elitaria della letteratura, Harold Bloom, fautore di un «canone sublime» fondato esclusivamente sul giudizio del «lettore eccellente». Se invece le moltitudini di lettori, a detta di questi studiosi, pongono essi stessi delle domande a un’opera e incidono sul riuso di una tradizione, cioè sul lavorio per mezzo del quale essa supera il tempo, il fatto è rilevante. È un’ottica ben diversa da quella di Bloom. La divulgazione non è opera solo del critico o dei lettori eccellenti. E s’incontra con la mia idea di poesia esodante che prevede o sogna un lettore, anzi un lettore/scrittore attivo, capace di fare domande, tante domande spiazzanti come quelle dei bambini o di chi arriva ai libri e alla poesia dopo aver conosciuto i morsi dell’esperienza e della storia. E poi mi pare di cogliere una sintonia tra il lettore plurale pensato dai teorici della ricezione e il mio tentativo di laboratorio rivolto ai moltinpoesia. Questi ultimi, in effetti, sono lettori (o lettori/scrittori) incoraggiati a uscire dal loro isolamento proprio partecipando a laboratori di scrittura, a circoli di lettura o ora ai blog. Non si deve temere un confronto anche teso tra il messaggio dell’autore e quello che un lettore attivo (ingenuo, malizioso o semplicemente con altri pensieri in testa) trova o crede di trovare in un testo. Invece di fermarsi all’interpretazione firmata dal grande critico, sarebbe bello raccogliere migliaia di voci o interpretazioni da parte dei lettori effettivi di un libro. Di solito i critici hanno l’ultima parola su un libro perché dicono cose acute e ben meditate. Ma  se le opinioni degli anonimi lettori  venissero sollecitate con metodo e registrate con attenzione, per essere magari riprese e rielaborate dai critici stessi, si produrrebbero ulteriori approfondimenti. Certo, non mancano gli inconvenienti. Un lettore “semplice” può essere fin troppo tendenzioso o travalicare spudoratamente il testo per vederci solo quello che hai già in mente. Ma  questi non sono difetti  da attribuire alle teorie della ricezione.

 

VII

Giudizio di valore e questione estetica

Se ho capito bene, tu auspichi una sorta di liberazione dalle strettoie della critica letteraria ufficiale, verso una più ampia collettività di lettori-critici. Mi pare, però, che tu abbia saltato a piè pari il “giudizio di valore” sull’opera poetica. Come ben sappiamo spesso hanno successo opere di livello assai mediocre, fortunate perché l’autore è già noto per altre faccende, o perché spinte da gruppi con potenti e non sempre disinteressati intenti nel mondo culturale. Vuoi, per favore, farci capire come intendi distinguere – per dirla nel modo più rozzo – tra poesia esodante bella e poesia esodante brutta?

Ti dico subito, e con una formula, la mia tesi: La poesia (esodante o meno) è bella e brutta, ma nella poesia esodante quello che conta/conterà è la fluidità del rapporto tra i due poli del bello e del brutto. Un certo pensiero estetico trascura questo punto per me decisivo; e contrappone i due poli, gerarchizzandoli, facendone degli assoluti, cedendo a una subdola ottusità elitaria. Ed esso risulta anche convincente per il senso comune, perché, a livello empirico, le differenze di qualità (fra testi riusciti o non riusciti ma anche fra le facoltà mentali, intellettuali e corporee degli individui) saltano all’occhio, sono evidenti, accertabili, innegabili.

Se però ci riflettiamo, questo pensiero estetico ha due gravi difetti:

  1. come una maschera nasconde una sorda resistenza contro  quelle ricerche poetiche e artistiche veramente non canoniche, che riescono dinamicamente a mescolarsi con il comune, il molteplice e persino col banale, il brutto, il non riuscito;
  2. dimentica e fa dimenticare che la gerarchia – presente in ogni giudizio estetico – fissa a livello simbolico (e quasi sempre a vantaggio di pochi, che però parlano in nome di tutti) un valore, il quale – attenzione! – è anche un segno di violenza e non solo di razionale o impersonale evidenza. Non voglio scandalizzare, ma mi sento di affermare: c’è un bello che “violenta” il brutto, lo mette fuori gioco, lo esclude, impedisce  la sua funzione, irrinunciabile per me, di negazione della pericolosa “dittatura” del Bello assoluto. Questo non mi va. In ogni campo, anche in quello estetico, posso accettare, sì, una gerarchia includente, mai una gerarchia escludente. Qui il mio giudizio si fa politico-estetico: stabilire  una gerarchia escludente (ad es. Croce: poesia e non poesia) ha avallato, sul piano simbolico-linguistico, inaccettabili soprusi, che sono omologhi a quelli storici sedimentatisi, con violenze materiali smisurate, nelle nostre società diseguali e conflittuali. Continuo, dunque, a immaginare che eccellenza e mediocrità, bellezza e bruttezza potrebbero avere un altro senso: includente appunto e non escludente. Di più: che bellezza e bruttezza – per me valori e disvalori provvisori, storici e dunque rimodellabili in sempre nuovi ordini, anche gerarchici, però nuovi e fluidi – debbano dialogare tra loro per trasformarsi anche conflittualmente. L’atto giudicante, che separa il bello dal brutto, l’eccellente dal mediocre, il riuscito dal non riuscito,  è per me umano, soggettivo; deve cioè restare sempre rivedibile, mai presentarsi come oggettivo e definitivo. Non mi arrischio ad ipotizzare una base comune tra bello e brutto. Più praticamente sento fecondi  gli scambi, le contaminazioni,  le dialettiche (non a senso unico).

Non mi pare che il giudizio sull’opera bella e opera brutta sia solo estetico, né mi sentirei di condividere una sospensione del medesimo, ammesso che sia possibile; però comprendo il desiderio di ribellione contro le rigide strutture che oggi e in Italia “decidono” quale poesia sia bella e degna di essere scritta e letta e quale no. Vogliamo finire l’intervista parlando del valore, o “senso” se preferisci, della poesia? Vuoi raccontarci quale possa essere il “risultato” della poesia esodante come tu la immagini. Insomma, vorrei sapere quale possa essere l’effetto di quei versi, in che modo insegnino a guardare e ragionare, cambino lessico e prospettive, operino “criticamente” nell’universo contemporaneo.

Concordo con te. Ed infatti ho voluto sottolineare che si fa politica (e violenza) anche attraverso l’estetico. Anche quando non lo si riconosce. Anzi la maschera dell’estetico funziona di più, perché nasconde bene certi volti politici indecenti e così trova più facilmente il consenso passivo del senso comune. Il quale è attratto dall’estetico e si ferma appunto alla sua evidenza, senza interrogarla. Non dimentichiamo mai, però, che decidere quale poesia sia bella (e cioè poesia, e cioè valore) è  in fin dei conti un potere quasi irrilevante rispetto a quello di chi decide la distribuzione in una società del lavoro e del reddito o il flusso dei capitali o le notizie che devono circolare. O di chi decide una guerra. Eppure che la poesia – questa minima tessera del mosaico sociale dei saperi – si armonizzi con il colore che domina nel mosaico complessivo o lo contraddica, evocando “altro”, conta, eccome.

Se, dunque, la poesia diventasse esodante, se quella tessera si staccasse dal resto, se cominciasse a cambiare colore, se – invece di stimolare  atmosfere sognanti, abbandoni panici o mistici, elucubrazioni solipsistiche orgogliose o disperate – inducesse la gente comune a fissare l’orrore della storia non con l’occhio paralizzato e compiacente predisposto dalla TV e dai mass media, se allenasse i lettori a ragionamenti meno aridi di quelli fatti da troppi politici, filosofi, scienziati, economisti, si ricostituirebbe un noi non più costretto a nuotare  solo sott’acqua, ma capace di arrivare in superficie, dove forse ci sono cieli più azzurri,  venti più respirabili, e ci si potrebbe  orientare verso qualche meta.

Bene, direi che abbiamo finito. Grazie per la pazienza.

 

 

* Ennio Abate (Baronissi, Salerno 1941) vive a Milano dal ’62 e ha insegnato nelle scuole superiori. Finalista al Premio di poesia Laura Nobile dell’Università di Siena nel 1991 presieduto da Franco Fortini, ha pubblicato cinque raccolte di poesia: Salernitudine (Ripostes, Salerno 2003), Prof Samizdat (E-book Edizioni Biagio Cepollaro 2006), Donne seni petrosi (Fare Poesia 2010), Immigratorio (CFR 2011), La polìs che non c’è (CFR 2013). Ha tradotto dal francese e curato manuali scolastici sulla Commedia di Dante. È coautore con Pietro Cataldi ed altri di DI FRONTE ALLA STORIA (Palumbo 2009). Suoi testi di poesia, disegni, saggi e interventi critici sono apparsi su varie riviste, tra cui Allegoria, Hortus Musicus, Inoltre, Il Monte Analogo, La ginestra.  Dal 2006 al 2012, all’interno delle iniziative della Casa della Poesia di Milano presieduta da Giancarlo Majorino, ha condotto il Laboratorio MOLTINPOESIA. Condirige con altri la rivista Poliscritture (semestrale cartaceo + sito: www.poliscritture.it) e cura il blog  POESIA E MOLTINPOESIA (http://moltinpoesia.wordpress.com/)

* Ezio Partesana è nato a Milano nel 1963. Laureato in filosofia con una tesi su Adorno, vive tra la sua città e Venezia e lavora  come traduttore e autore di testi per il teatro. Tra le sue pubblicazioni Critica del non vero (La Nuova Italia, 1995)

45 pensieri su “Sulla poesia esodante. Intervista (2013) di Ezio Partesana a Ennio Abate

  1. Traspare il forte richiamo alla responsabilità individuale ( dei poeti), che non può essere detta individualismo se rivolta anche all’interesse di altri o di molti, ma sociologicamente parlando, dirsi monadi o individualisti, esodanti o narcisisti, che differenza fa se è venuta a mancare la parte che servirebbe per parlare ancora di rapporti di forza, quindi di ideologia e di prassi? Sparite le masse, organizzate e almeno capaci di dire la loro (all’unisono se grazie ad una rappresentanza), non resta che l’individuo, che a me pare sia l’unico caposaldo per qualsiasi resistenza.
    Il messaggio a tu per tu stabilito dalla poesia agisce in questa direzione. Anche per questo ho letto con attenzione, direi con avidità, la parte dell’intervista dove Ennio parla del suo rapporto con la metrica, col bello e della sua poiesi:
    “Punto alla “cosa” (l’immagine-pensiero, la figura), ma senza averla chiara in mente o intravvederla attraverso un modello approssimativo o regolativo che inforco come fosse un paio di occhiali. La costruisco man mano: per approssimazioni, correzioni, cancellazioni, ripensamenti a distanza di giorni. E, quando la raggiungo, vedo che metrica è venuta fuori e di quanto s’avvicini o s’allontani da quelle altrui. (E allo stesso modo opero in pittura, che pratico: raramente ho fatto “copia dal vero”, parto sempre da uno “scarabocchio” di linee o colori). Questo è il mio modo di stare in poesia. Ad esso, negli ultimi decenni, ho dato il nome di poesia esodante, supponendo di poter riconoscere pratiche somiglianti alla mia in altri e ipotizzando un possibile incontro/confronto dei vari percorsi”.
    In pratica la poesia esodante non avrebbe contenuti di novità, a meno che non ci si soffermi, appunto, su quel “poter riconoscere pratiche somiglianti alla mia”, purché a “pratiche” venga dato anche un connotato semantico. Vale a dire, non scrivo per me ma per quelli come me, che mi possono capire, quelli che possono condividere quanto vado dicendo; e con questi dialogare, che è cosa recente se si considera il web in maniera opportuna, cioè almeno rivedendo alcune modalità dell’intellettualismo.
    La prassi dei poeti manca, o non consentirebbe, la presenza di presupposti ideologici in quanto l’esito delle loro operazioni non può essere anteposto: va solo meditato, e in poesia esplorato, ma non forzatamente accordato. Poeti come Fortini di questo hanno sofferto.

  2. @ Mayoor

    Intervengo su un punto del tuo commento:

    «dirsi monadi o individualisti, esodanti o narcisisti, che differenza fa se è venuta a mancare la parte che servirebbe per parlare ancora di rapporti di forza, quindi di ideologia e di prassi? Sparite le masse, organizzate e almeno capaci di dire la loro (all’unisono se grazie ad una rappresentanza), non resta che l’individuo, che a me pare sia l’unico caposaldo per qualsiasi resistenza». (Mayoor)

    Non penso che l’individuo possa restare inalterato nella crisi che stiamo vivendo (ma in genere nel tempo e nella storia più generale, che lo va trasformando assieme al resto: le cose, le società, la stessa natura).
    Che possa essere « l’unico caposaldo per qualsiasi resistenza» è una scommessa, non una certezza. E fa anche una certa differenza se l’individuo dice di sé o crede di essere monade, individualista, esodante o narcisista.
    Non è un caso che per il poeta *esodante* io parli di «io/noi»: «la scelta di muoversi in una zona lirico-politica, che io chiamerei dell’«io/noi», evitando sia il puro lirismo, sia il discorso politico diretto». Cosa che mi pare abbastanza diversa dall’io-io monade o individualista o narcisista. E in più che io veda questo «io/noi» come prodotto di mutamenti storici che investendolo “gli fanno cambiare idea” o la percezione che ha di sé (= quel che crede di essere)[1]

    [1]
    In uno dei numerosi interventi sul tema della poesia esodante che si trovano sul vecchio blog «Moltinpoesia» avevo scritto proprio appellandomi alla mia esperienza (interpretata a posteriori e dunque soggettivamente, certo…):
    «Ho tentato varie volte di definire cosa intendere per poesia esodante. L’ho fatto partendo da alcune mie poesie, e in particolare da un testo, *Ultimo dialogo tra il vecchio scriba e il giovane giardiniere (2002-2009)*, dove ho fissato il passaggio dal mio giovanile, fiducioso, accostamento alla cultura umanistica (unica stella osservabile e accostabile allora per me dal Sud d’Italia) a una fase successiva di contestazione delle idee ricevute e di ricerca poi di un tipo di poesia che tenesse in conto l’esperienza “demitizzante” fatta da immigrato in una città moderna e industriale come Milano (e la sua periferia). Potrei riassumere il percorso come un passaggio da una (istintiva) poetica dell’io a una (meditata) poetica dell’io/noi».

    1. Caro Ennio,
      è la situazione totalizzante che si è creata (economica, culturale, politica) , forse come mai prima nella storia, che mi porta a dire Non resta che l’individuo. Anche se è vero che non si può agire soli contro l’ingiustizia sociale, è altrettanto vero che ciascuno dovrà difendersi, solo, dal cancro dell’amnesia che gli entra in casa ormai da ogni spiffero della socialità.
      In fondo l’arte, la poesia, è un dialogo one to one tra le coscienze, è rivolta all’individuo. Anche se in tal sproporzione di mezzi contribuisce a combattere l’amnesia, in chi ne fa e in chi la riceve. E’ per sua natura rivoluzionaria, ma come lo sono tutte le persone che riescono a mantenersi sagge e intelligenti.
      L’estetica fa la sua parte quando non si discosta dall’individuo, come ogni cosa quando la si idealizza. Mi sa che siamo d’accordo.

  3. Lancio una provocazione, o meglio mostro un paradosso: esodare vuol dire uscire, andare fuori da, ma la situazione, la crisi generale che richiama EA è di suo un fuori, è una galassia esplosa (sia pure di parti consistenti), ma tutto è fuori da tutto, quindi con una poesia e una critica esodante si punta in realtà a costruire un dentro, un nuovo dentro possibile intanto per chi lo vuole ma capace di collegare e far “entrare” rapporti crescenti.
    E’ la poetica dell’io/noi di EA, e riguarda il nesso molti/pochi.
    Ora si tratta di analizzare questo rapporto molti/pochi: per esempio che mediazioni si possono porre perchè i pochi raggiungano, scompongano e ricompongano i molti in nuovi legami?
    Per fare questo non si possono evadere le questioni che ripropongono Rita Simonitto -il rapporto dinamico tra bellezza e orrore entro il lavoro creativo del singolo- e il messaggio stabilito a tu per tu dalla poesia, di Mayoor.
    Mi hanno colpito nell’intervista di Partesana queste frasi di E A: “A me preme una cosa: partire da un ‘garbuglio’ iniziale, da parole venute fuori ‘di getto’ … Punto alla ‘cosa’ (l’immagine-pensiero, la figura), ma senza averla chiara in mente”.
    L’inizio è “inconscio”, se posso usare in modo generico questo termine. Rita Simonitto dice che lo stumento di espressione poesia sembra essere quello e solo quello che va al cuore del rapporto dinamico tra bellezza e orrore, perchè permette di misurarsi con “l’inespugnabilità’, l’unicità del sentire soggettivo espressa proprio in quella ‘esattezza di un verso'”, e tocca in questo modo la radice profonda e il lavoro preciso della lingua (Ulisse e le sirene).
    L’inizio inconscio è un “garbuglio”. Ennio scrive: “Penso, tra l’altro, che l’esodo sia oggi (per me, per altri) proprio un ritrovarsi in un ‘garbuglio’. Perché è imposto da situazioni d’emergenza; e, dunque, non è un percorso programmabile e, come detto, non ha (per ora?) una meta. I modelli sedimentatisi nella memoria ‘oscuri fantasmi o ricordi più netti’ possono sia agevolarci che ostacolarci. La ‘cosa’ da afferrare, da costruire, alla quale dare forma, è innanzitutto l’esodo stesso.”
    Il garbuglio diventa subito esodo. Il momento inconscio diventa programma: ma non copre troppo presto il rapporto tra bellezza e orrore, e la esattezza del verso di Mayoor?
    Se è così, se il nesso proposto da EA è stretto come mi sembra, a me occorre un di più di riflessione. Devo chiedermi, ma credo che valga per ciascuno: com’è l’esodo per me?
    (Qualcosa so già, ma alla prossima nota.)

  4. Aggiungo una riflessione alle interessanti considerazioni di Cristiana, a proposito di bellezza e orrore: riguarda la metafisica, che è un tema comprensibilmente assente nel programma di Ennio.
    Anche chi indaga nella metafisica ha a che fare con l’orrore, se non altro per contrasto, o per avvalorare l’indagine sul senso altro delle cose. In genere la metafisica si occupa di valori assoluti, tra filosofia e teologia, tra essere, tempo, spazio ecc. che in definitiva sarebbe terreno comune per le arti come per le scienze. Dico subito che non se ne può fare a meno, ogni essere pensante prima o poi rifletterà, se non sul senso della vita, almeno sulla propria morte. L’esodante delimita il campo dei suoi interessi, sembra per ragioni di emergenza, di priorità. Infatti Ennio così scrive:
    “L’esodo, poi, non può essere solo quello immaginabile e praticabile dai poeti, spesso portati ad un utopismo astratto o semplicemente capriccioso. In questo mi sento ancorato al vecchio Marx che non voleva sprecare tempo a immaginare la futura società comunista”.
    In una società che ci vorrebbe impegnati a dare i numeri, a guardarci nel borsellino l’un l’altro, quasi fossimo tutti degli amministratori di condominio ( non si parla d’altro), a me sembra non sarebbe una perdita di tempo immaginare una futura società, sia pure comunista, d’alternativa. Per me non sarebbe utopismo astratto, parliamo di legittime aspirazioni…

  5. …l’inizio per tutti, credo, ma Ennio ha il merito di avercelo mostrato, è il “garbuglio-scarabocchio”, come una seconda pelle cucita su di noi, dentro la quale cerchiamo grame posizioni di sopravvivenza schiava, finchè non la sentiamo stretta e impropria e ne proviamo orrore, allora sopraggiunge a scuoterci un anelito di libertà…a volte può essere la poesia, quella in grado di trasmettere un fremito, esodante, bussa e apre dei varchi…arriva alla coscienza dell’individuo, ma poi coinvolge i molti, non è solo poesia…
    Qual è l’esodo per me? Qual è l’esodo per noi?

  6. La poesia è sempre stata esodo. La poesia induce a… non conduce a…

    Fa un caldo terribile e non riesco a scrivere di più… chissà se qualcuno mi potrà capire

  7. Pare che siamo tutti esodanti. Ma è davvero così? Per Emilia addirittura la poesia è esodante da sempre. Io mi volevo addirittura al quadrato, perchè da bambina ho rifiutato di essere quella che mi volevano in quanto femmina, e ho assunto una separazione di fondo da un mondo maschile. Per Rita Simonitto la poesia esodante “rappresenterebbe un continuo tessere legami … anche attraverso la gestione del conflitto estetico”.
    Per Mayoor “In pratica la poesia esodante non avrebbe contenuti di novità, a meno che non ci si soffermi, appunto, su quel ‘poter riconoscere pratiche somiglianti alla mia’, purché a ‘pratiche’ venga dato anche un connotato semantico. Vale a dire, non scrivo per me ma per quelli come me”
    Ma Annamaria Locatelli introduce un passaggio: la poesia, che può rappresentare un anelito di libertà, “bussa e apre dei varchi… arriva alla coscienza dell’individuo” poi, in un secondo momento, coinvolge i molti “non è solo poesia…”
    Un secondo tempo che è nella impostazione di Ennio: “Potrei riassumere il percorso come un passaggio da una (istintiva) poetica dell’io a una (meditata) poetica dell’io/noi”.
    Ecco, poesia esodante ha, negli esempi che ho fatto, due sensi diversi. In un caso è la poesia come tale che esprime un momento di individuazione e di separazione, e solo in un secondo momento (lo dico in senso astratto non necessariamente temporale) ricerca una comunicazione, un riconoscimento in altri. Oppure da subito l’atto iniziale di condensazione, il garbuglio di EA, cerca la realizzazione di sè in modalità comuni ad altri.
    Spero di essere chiara. La poesia (l’arte) nasce già come se stessa (anche se non intera e perfetta) in un singolo e poi si socializza, o nasce appena come potenzialità, embrione, e ha bisogno degli altri per diventare se stessa come poesia?
    Anche se le due idee di poesia si incrociano e prevalgono, l’una piuttosto che l’altra in diversi momenti, non sono la stessa idea.

  8. SEGNALAZIONE

    bifo convegno ottobre a mi

    Non riesco per ora a replicare ai vari e interessanti interventi che andate pubblicando, ma vi segnalo questo scritto di Bifo, Vie di fuga:

    http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=122682&typeb=0&vie-di-fuga

    Non perché lo condivida nel suo insieme, ma perché ci vedo alcune istanze simili a quelle che mi fanno parlare da tempo di *poesia esodante*; e anche perché riporta con sincerità il discorso di una possibile via d’uscita o di fuga al terribile contesto storico segnalato anche dalla sconfitta della Grecia e del tentativo di Tsipras.

  9. Sono d’accordo con quanto scrive Bifo, tranne sulle conclusioni perché già da tempo ho espresso il mio parere favorevole al M5S italiano, pensandolo in alleanza con quel poco o tanto di nuovo di sta creando anche in altri paesi. Spero che presto riusciremo ad avere elementi sufficienti per spiegare il ripiegamento di Tsipras e la sua sconfitta dopo il referendum (pensavo avesse altre carte da giocare, tipo un’alleanza con Putin). Un duro colpo per tutti, non c’è che dire, ma conferma quanto avevo scritto a proposito del crollo dei vecchi intendimenti. Per venire alla poesia esodante: anche in seguito alla vicenda Tsipras si conferma la necessità da parte delle arti e delle scienze umanistiche – che di economia a ne sanno poco, e ancor meno di novelle tecniche di guerra – di tentare una più degna comunicazione individuale, vale a dire intelligente ma meno teorica o legata a vecchi schemi; appassionata, confidenziale, veritiera, che abbia valore di testimonianza (come in guerra! )… ma va anche detto e considerato il fatto che la Merkel non è Hitler, che in Germania esistono dissensi sulla nazifinanza, tanti come ce ne sono nel resto d’Europa ( su questo non siamo informati, ma sulla rete ho visto circolare parecchie trasmissioni televisive tedesche che confermano quanto sto dicendo). Per quanto riguarda il M5S: non vorrei si proponessero solo come sceriffi della legalità, anche se qui da noi, con la mafia al potere e lo strapotere dei partiti, sarebbe la prima cosa da fare. Ma su questo non insisto, dico solo che vi aspetto con pazienza.

  10. Da La trilogia di Valis, di Philip K. Dick (autore di fantascienza, scrisse la storia di Blade Runner, il famoso film di Ridley Scott):

    41. L’Impero è l’istituzione, la codificazione, della pazzia; è folle e impone la sua follia su di noi mediante la violenza, dal momento che la sua natura è violenta.

    42. Combattere l’Impero significa essere contagiati dalla sua follia. Questo è un paradosso; chiunque sconfigge un segmento dell’Impero diventa l’Impero; esso prolifera come un virus, imponendo la sua forma ai suoi nemici. In tal modo diventa i suoi nemici.

    43. Contro l’Impero combatte l’informazione vivente, il plasmato o medico, che noi conosciamo come Spirito Santo o Cristo scorporato. Questi sono due princìpi, il buio (l’Impero) e la luce (il plasmato). Alla fine la Mente darà la vittoria al secondo. Ciascuno di noi morirà o sopravviverà a seconda della parte con cui si mette e dall’indirizzo dei suoi sforzi. Ciascuno di noi contiene una componente di ciascuna delle due parti in lotta. Alla fine, una o l’altra componente trionfa in ciascun essere umano (…)

  11. PRIME REPLICHE A VARI COMMENTI SULLA POESIA ESODANTE

    Non ci siamo. Vi ringrazio delle buone intenzioni, ma non si tratta di « aiutare Ennio nella definizione di Poesia esodante»( Mayoor) o di stirare il concetto fino a fargli perdere quel tanto di spessore conflittuale che credo abbia, ma di confrontarsi per capire quanto davvero siamo d’accordo e quanto no.
    Ora, escluso l’intervento di Luca Chiarei, che mi pare colga appunto l’elemento “conflittuale” che io sottolineo nella proposta di poesia esodante («Se crediamo che in nome della poesia siamo tutti nello stesso fiume e che in fondo le differenze sono solo caratteriali e non di impostazione e visione della realtà»), quasi tutti gli altri interventi sono oieni di tante (e rispettabili) riserve, che della proposta respingono proprio gli elementi che a me più tenacemente stanno a cuore. E perciò così replico:

    @ Mayoor

    Non ha senso, effettivamente, aggiungere l’aggettivo ‘esodante’ a poesia, se la poesia è sempre esodante (come sostiene anche Emilia Banfi:« La poesia è sempre stata esodo. La poesia induce a… non conduce a…») o ogni poesia che uno scrive «sia brutta o bella» già si sforza «naturalmente» di *esodare”( ed in fondo è «buona poesia») o , come tu dici, si sforza già di “fare il bene”, « aiutare gli altri, per amore (comprensione, solidarietà, necessità comuni ecc.» (azioni che associ, troppo frettolosamente per me, alla politica).
    Allora ha ragione Fischer a dubitare:« Pare che siamo tutti esodanti» o a ridurre la proposta, con Locatelli, a semplice «anelito di libertà»
    Ora è proprio questa “naturalezza” che io metto in discussione. È proprio questa fiducia in una poesia “naturale” e buona o santa o progressiva o capace di cavarsela sempre meglio di altri saperi (umanistici o scientifici) sui problemi dell’essere o «dell’universo e del modo in cui ci piacerebbe di viverci» che io metto in discussione. Vedi quanto detto nell’intervista a Partesana:
    « E perciò, più terra terra, partirei da alcuni versi finali di una mia poesia, intitolata appunto Esodo: «Nell’esodo dunque. / La tana di sempre sfondata. / La gabbia approntata da secoli / aperta, finalmente deserta…». Non li commento o spiego. M’interessa quella immagine della gabbia. In essa vedo adagiata anche una certa poesia: quella cortigiana che produce la merce-poesia, mentre la poesia più inquieta – romantica o critica – ha tentato sempre di uscirne. E, in certi momenti eccezionali, ha persino, come tu dici, voluto uscire «dalla poesia in quanto tale». Verso cosa? Più di un trentennio fa, azzardando, avrei ancora dato un nome alla «cosa». Avrei detto: comunismo. Oggi il nome manca.»
    Come non accetto più quella pretesa della poesia di riflettere su «quel che può fare per tutti» o di parlare «per tutta l’umanità» e di trovare in essa quasi un surrogato in grado di riempire « il vuoto lasciato dalla lotta (di classe)». (Problema quest’ultimo che ora salto ma che s’è completamente eclissato dal “discorso tra poeti”).
    Come non accetto, infine, che l’essere molti in poesia equivalga ad essere poeti…

    @ Fischer

    Anche nelle tue pur simpatizzanti e a tratti mimetiche osservazioni («nessuno può alzarsi per il codino e esodare sulla luna»; «allora esodare in altre terre, o meglio, negli intermundia dissimulati dalle plumbee coperture della finzione, del senso comune, dell’ideologia. Poesia esodante come critica, corrosiva, demistificante») mi pare che la poesia esodante sia in pratica qualcosa che già c’è: appunto la semplice critica corrosiva, demistificante, che per me è solo un aspetto…). Oppure, accostandoti a quanto detto da Locatelli, verrebbe a coincidere con un generico « lavoro di riordino delle idee e di trasformazione, mai concluso verso, si spera, una realtà collettiva dal volto più umano”, poesia esodante è -anche- incontro, rivolgersi, legarsi.»
    Anche il complicato rapporto io/noi (in poesia) mi pare posto con una certa rigidità e genericità: «La poesia (l’arte) nasce già come se stessa (anche se non intera e perfetta) in un singolo e poi si socializza, o nasce appena come potenzialità, embrione, e ha bisogno degli altri per diventare se stessa come poesia?». E in fondo sembri accettare le perplessità di Mayoor e Simonitto: «Per fare questo non si possono evadere le questioni che ripropongono Rita Simonitto -il rapporto dinamico tra bellezza e orrore entro il lavoro creativo del singolo- e il messaggio stabilito a tu per tu dalla poesia, di Mayoor.

    @ Simonitto

    Ho riletto sul vecchio blog “Moltinpoesia” le tue «Osservazioni su “Per una poesia esodante”
    di Ennio Abate» (mercoledì 1 agosto 2012). Le tue preoccupazioni davanti alla mia ipotesi di poesia esodante riguardavano – mi pare – allora:

    1. una presunta sottovalutazione da parte mia «dell’enorme peso del passato, del gigantesco bagaglio culturale che ci portiamo dietro»;

    2. Il rischio (“sociologico”), nel parlare del molti o dei tutti,«di fermarsi alle apparenze (di status economico-sociale-culturale)» (e infatti scriveva: «Mi risulta difficile pensare oggi all’esistenza di un Ceto Medio, nemmeno nei termini di un Ceto Medio Mediatico», riferito in particolare ad un interlocutore come G. Linguaglossa, allora ancora attivo su quel blog e poi staccatosi per fondarne uno con un approccio alla poesia molto diverso) e di « annientare le differenze (legate invece alle singole storie), che a volte sono sostanziali e determinanti»;

    3. una insufficiente o mancata comprensione della crisi dell’io o dell’individuo. Per cui, a parlare di poesia esodante, si rischiava non solo di trascurare che «la poesia è fatta, concepita, da un ‘io’ più che da un ‘noi’», di avallare «individualismi che non hanno nulla dell’individuo inteso come persona che sta in relazione dinamica e conflittuale (ovvero, non piagnona ma ‘interpretativa’) con il tempo in cui vive» ma anche una sorta di «regressione al branco selvaggio» (anche per assenza di ‘padri’ in grado di fermarla questa regressione), poiché , rispetto al passato “borghese”, è chiaro che oggi «ognuno fa parte a sé non come individuo ma come frammento che necessita di altri frammenti» senza alcuna possibilità perciò di arrivare ad un ‘noi’, come io continuavo e continuo ad auspicare;

    4. un atteggiamento che a me pareva di sospetto eccessivo verso (qualsiasi) tentativo di ricostruire un qualche ‘noi’, visto che esso si era « arrogato nel passato il diritto di ‘possedere’ la Verità della cultura, autoinvestendosi quindi del potere culturale di egemonizzare (a fin di bene, si sa!!) le ‘masse incolte’»;

    5. un atteggiamento altrettanto dffidente verso una poesia che non badasse esclusivamente e prioritariamente a difendere la sua «essenza», che per te consisteva (e consiste) nel «contatto con l’ignoto che sta dietro il noto» e dunque in una «ricerca» aperta a tutto (e dunque – dedurrei – senza aggettivi, manco quello di ‘esodante’, per cui anche il mio accenno al «bisogno di polis» sarebbe stato un «mettere il carro davanti ai buoi», poiché – scrivevi – «che ne sappiamo di che cosa troveremo, quale sarà il ‘noi’ con cui ci dovremo confrontare?».

    Tre anni dopo trovi l’ipotesi di poesia esodante «più sostenibile», ma a me pare che divergiamo tuttora sul rapporto poesia/orrore. In sintonia con il punto di vista di Cristiana («Cristiana introduce dunque qualche cosa che può appartenere alla poesia ma che non è ‘orrore’. Che ha a che vedere con la bellezza di un lascito, di una eredità») per te basterebbe «oscillare tra la bellezza e l’orrore senza rimanerne travolti, come fece Odisseo quando si imbatté nel canto delle Sirene.».
    Sembri cioè negare la mia volontà di chiedere alla poesia di contrastare (coi suoi modi che sono anche conoscitivi e certamente diversi da quelli politici e vicini a quelli scientifici) l’orrore storico e di non limitarsi a contemplarlo. ( Sintomatico quel: « Ma mi secca dare l’impressione di investire su chissà quali capacità ‘rivoluzionarie’ della poesia»). Altre riserve vedo nel tuo ribadire che, se scelte si devono fare, esse « non possono che essere personali», anche se sembri più disponibile a lavorare alla costruzione di un ‘noi’ («si procede… e si impara proprio da questo ‘noi’ che si presenta qui, volta per volta, pronto alla discussione. Non si tratta di un noi astratto né di una nostra proiezione».

    P.s.
    Ho l’impressione che l’idea di poesia esodante debba fare ancora molta strada. E il mio tentativo di precisarla non sia stato finora sufficiente. Anche perché, come si nota dall’autorevole esempio che qui sotto riporto, la tendenza che va per la maggiore indirizza i poeti ad un generico (per me) umanesimo aconflittuale:

    UN INEDITO DEL NOBEL POLACCO
    Milosz: «Poesia e speranza, questo è il mio ‘900»
    Czeslaw Milosz
    3 giugno 2013

    http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/milosz-nobel-polacco-poesia-e-speranza.aspx

    È probabile che sia in atto una specie di scontro tra l’azione vivificante e quella distruttiva dei batteri della civiltà, sin qui capaci di equilibrarsi a vicenda. Quale esito esso avrà in futuro è un’incognita. Non c’è computer capace di calcolare tanti pro e contro, così il poeta con la sua intuizione rimane l’unica, per quanto incerta, fonte di sapere. Metto ora da una parte economia e politica e ritorno entro i limiti che mi competono, cercando di indagare a fondo i motivi per cui, se pure non sono ottimista, quanto meno mi oppongo all’assenza di speranza.

    Possiamo rendere giustizia al nostro tempo solo se lo confrontiamo con quello dei nonni e bisnonni. È accaduto qualcosa di cui non e facile rendersi pienamente conto, tanto ci pare normale, ma che ha e avrà un’importanza enorme. Non sono i jet usati come mezzi di trasporto, non è la riduzione della mortalità infantile, né la pillola anticoncezionale a determinare la straordinarietà del Novecento. È piuttosto l’emergere dell’umanità come forza elementare compatta, là dove, finora, esisteva solo un’umanità divisa in caste distinte per abiti, mentalità e costumi. È una trasformazione osservabile per ora solo in alcuni Paesi, ma che si sta gradualmente compiendo ovunque, e che porta alla scomparsa di certe concezioni mitiche, molto diffuse nel secolo scorso, sui connotati che caratterizzerebbero in modo permanente categorie quali il contadino, l’operaio, l’intellettuale. […]

    Azzardando una profezia, dirò che nel XXI secolo mi aspetto un rapido e radicale distacco dalla visione del mondo definita in primis dalla biologia, e ciò grazie a una riacquistata coscienza storica. Anziché presentare l’uomo attraverso ciò che lo accomuna alle altre forme superiori della catena evolutiva, come si usa fare oggi, verranno evidenziate la straordinarietà, la stravaganza e la solitudine di una creatura incomprensibile a se stessa e che non cessa mai di andare oltre le proprie possibilità. L’umanità si alimenterà sempre più di se stessa, contemplerà sempre più il passato, cercando in esso una chiave del proprio mistero e penetrando per empatia l’anima delle passate generazioni e persino delle civilta ormai scomparse.

    Un presagio di ciò si può trovare nella poesia del Novecento. Ai primi del secolo l’istruzione, in verità appannaggio di una ristretta élite, comprendeva ancora l’apprendimento di latino e greco, lascito dell’ideale umanistico: di qui una certa familiarità, almeno tra le élite, con i poeti dell’antichità, letti in originale. Quel periodo à ormai chiuso, il latino è sparito persino dalla liturgia cattolica, e chissà se sarà mai possibile risuscitarlo. Al tempo stesso, però, stando a quanto testimonia la poesia, il passato dell’area mediterranea – ebraico, greco, latino – è presente nella nostra coscienza in maniera forse persino più intensa, anche se diversa, rispetto ai nostri colti predecessori. Ne troviamo conferma in molti poeti. È più viva che mai e anche la presenza di figure mitiche o leggendarie attinte dalla letteratura europea: Amleto, Re Lear, Prospero, François Villon, Faust. […]

    Rendere presente ciò che è passato. Ancora oggi siamo inclini a credere che il poeta riceva in sorte più di una vita proprio perché è capace di camminare per le vie di città esistite duemila anni prima. Ma ciò caratterizza anche la ricerca del passato che emerge con sempre maggiore evidenza dall’interesse per le riproduzioni di arte antica, dall’architettura, dalla moda, dalle visite in massa ai musei. L’uomo a una dimensione vuole acquistare spessore, assumendo maschere, abiti, modi di sentire e di pensare provenienti da altre epoche.

    In gioco sembrano entrare anche questioni più serie. «Da dove potrà venire a noi la rinascita, a noi che abbiamo svuotato e imbrattato tutto il globo terrestre?», s’interroga Simone Weil. E risponde: «Solamente dal passato, se l’amiamo». A prima vista è una risposta enigmatica e non è facile capirne il significato. L’aforisma acquista un senso solo alla luce di altri suoi pensieri, sul tempo e sulla bellezza. Altrove, per esempio, Simone Weil afferma: «Due cose irriducibili a ogni razionalismo: il tempo e la bellezza. È da qui che occorre partire». Oppure: «La distanza è l’anima del bello». Il passato per lei è «tempo che ha il colore dell’eternità». A suo avviso l’uomo fa fatica a penetrare la realtà perché in ciò gli sono d’impaccio il suo «ego» e l’immaginazione che all’ego è asservita. Solo la distanza temporale ci consente di vedere la realtà senza colorarla delle nostre passioni, di vederla del «colore dell’eternità». E, vista così, la realtà è bella. Per questo il passato ha tanta importanza. «Il sentimento della realtà e allora puro; ed è questa la gioia pura. E questo il bello. Proust». Non nascondo che, citando Simone Weil, ripenso a ciò che, personalmente, mi ha reso sensibile alla sua teoria della purificazione. Non l’opera di Marcel Proust, a lei tanto caro, ma il Pan Tadeusz di Mickiewicz, letto molto tempo prima, durante l’infanzia, e da allora mio compagno inseparabile; un poema in cui gli avvenimenti più comuni della vita quotidiana, proprio perché descritti come lontani nel tempo, si trasfigurano in una trama fiabesca, e il dolore è assente perché colpisce solo noi, i viventi, non i personaggi evocati da una memoria che tutto perdona.

    L’umanità si alimenterà di se stessa anche nel senso che cercherà una realtà purificata, cercherà il «colore dell’eternità», ossia semplicemente il bello. Forse era proprio questo che voleva dire Dostoevskij, scettico sulle sorti della civiltà, quando affermava che la bellezza salverà il mondo. La crescente disperazione per la discrepanza tra la realtà e le aspirazioni del nostro cuore sarà così scongiurata e il mondo che esiste oggettivamente – come forse appare agli occhi di Dio e non come è percepito da noi, con i nostri desideri e le nostre sofferenze – sarà accettato in tutto il suo bene e in tutto il suo male. […]

    Non è questo il luogo per predire che cosa accadrà domani, come fanno gli indovini e i futurologi. La speranza del poeta, quella che io difendo, che promuovo, non è circoscritta da alcuna data. Poiché la disintegrazione è in funzione dello sviluppo e lo sviluppo in funzione della disintegrazione, lo scontro potrebbe benissimo concludersi con una vittoria della disintegrazione. Anche duratura, forse, ma non definitiva. Qui entra in gioco, appunto, la speranza, che però non è chimerica né folle. Al contrario, ogni giorno si possono vedere segnali che testimoniano come ora, in questo preciso istante, stia nascendo qualcosa di nuovo, e su una scala mai conosciuta prima: un’umanità che si configura come una forza elementare conscia di trascendere la Natura – perché solo l’uomo ha ricevuto in eredità quel tesoro che è la memoria, ovvero la Storia.

    1. Hai ragione sulle mie osservazioni “simpatizzanti”: nel senso che mi sono sforzata al massimo di afferrare la “chiave” della tua posizione, e mi sono dovuta fermare. Fermare su due blocchi del ragionare oltre cui non ho potuto procedere.
      Il primo blocco riguarda la natura critica e demistificante di molta poesia (aggiungendo però che smontare i meccanismi del finto e del verosimile non è semplice critica, in quanto nel verosimile ci abitiamo, spesso senza saperlo e volerlo). Oltre questo opporsi alla falsità, all’inganno e all’autoinganno, parte distruttiva, non mi si delinea una prospettiva costruttiva per la poesia esodante, e su questo torno più in giù nel testo.
      L’altro blocco riguarda quella oscillazione che tu hai riportato: l’arte nasce, nel nucleo, come se stessa (è l’io) o è solo una potenza che non si è ancora distesa in una forma che è il noi a fornire?
      E se è la seconda opzione quella giusta, allora il discorso si sposta qui. La forma offerta dal passato è, tu hai detto e ripetuto, offerta da una cultura elitaria e padronale. Invece il noi a cui rimandi lo hai spesso proiettato sull’orizzonte dei nuovi che sopraggiungono e frammentano il mondo e la cultura occidentale, se ho capito bene. “Più di un trentennio fa, azzardando, avrei ancora dato un nome alla «cosa». Avrei detto: comunismo. Oggi il nome manca.»
      Non solo il nome. Non si è formata una nuova cultura, in senso molto lato, non si riesce ancora a pensare, sia pure abbozzando, il nuovo insieme, il nuovo mondo come si sta costituendo, un collegamento tra questo rimescolamento di popoli e le contraddizioni sociali ed economiche che si sono accese. Per fare questo abbiamo ancora i vecchi materiali stesi davanti, un po’ frammentati in sè e tra loro: umanitarismo, buona volontà, cultura (tradizionale), l’io creativo (il pensiero poetante integrale di cui scriveva Lucini), e naturalmente ognuno sceglie e si attacca a cosa può e gli si confà.
      Ma come chiedere -e qui deve entrare la pars construens- che questo inaudito fermento, che questo impensato “disordine” (il tuo garbuglio, credo) offra una forma, cioè dei pensieri, dei temi, dei movimenti mentali significabili e espressivi?
      Rompere il confine tra il bello e il brutto, dici a Partesana, lasciare che entri il concreto e (cosiddetto-)disordine nella poesia, poi si vedrà quanto al risultato estetico, ma intanto la realtà viene detta, e questo richiede una diversa estetica.
      Se è così, se cioè ho capito bene, quella “potenza” poetica si deve distendere in una forma che si adatti al “disordine”, al non collegato, al non compiuto al non ancora posseduto. Una forma ancora non-forma che però potrà diventarlo. Un io poetico che si rischia in un non-io non ancora posseduto, non consueto, non padroneggiato e non padronale.
      E’ così, ho capito? Ti chiedo di confermarmelo o di disconfermare, da qui può partire un altro piano di ragionamento. Per esempio se si vuol fare o no.

      Stamattina ho trovato nella posta il tuo intervento e insieme un articolo su Economia e politica http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/oltre-il-sogno-leuropa-possibile/ e mi è parso che si rispondessero in modo incredibile quanto al problema che ponevano. Nell’articolo di Luigi Pandolfi la UE è una costruzione pensata in base a presupposti errati, si regge su una ideologia falsificante (cioè verosimile ma contro la realtà effettiva) con il risultato che è smembrata al suo interno perchè organizzata su un duro e reale sfruttamento di una parte su altre. Pandolfi scrive che il tema oggi è quello di salvare l’Europa “da un’inesorabile regressione verso forme imprevedibili di conflittualità tra gli stati.”, che può voler dire guerra in Europa (non nella lontana Ucraina, più vicina, qui da noi). Il disordine, mi sono detta, ha raggiunto livelli davvero impensabili.
      Se ho ricostruito abbastanza bene la “tua” poesia esodante, allora la realtà è andata ancora più avanti.

      1. Come può un “io” poetico che vive in una società politicamente in grave regressione riuscire a “riordinare” il disordine , se non ricorrendo , alla memoria, ad una storia del passato (anche personale) che ci ricorda ideali e lotte che hanno dato svolte anche importanti al nostro Paese e al nostro modo di vivere. Già , certo , la contestazione non muore mai, giustamente, ma non ricorrere al passato potrebbe voler dire annullare il proprio io/noi.
        Scusate , molti non saranno d’accordo , ma la spiritualità e se vogliamo anche la sacralità dell’arte , restano sempre la vera importante bellezza che lega l’artista alla sua opera senza tempo.
        Rivoluzionando il tutto rimangono idee senza arte o arte senza idee, ma potrebbe essere anche questa una nuova forma d’arte?
        Grazie ad Ennio per le molto interessanti repliche.

  12. Alla biennale di Venezia, All the world’s futures . Al padiglione greco, uno stanzone vuoto delimitato da mura pericolanti, sventrate, in un angolo hanno ricostruito meticolosamente l’interno di un negozio che oggi non esiste più. Realismo che lascia senza parole, o dovrei dire che il futuro non ha parole… viene da piangere se si considera il contrasto col concettualismo tutto estetizzante dell’ennesima installazione proposta al padiglione giapponese; in altro spazio, non ricordo ora di quale paese, sono raccolti schedari, ben allineati, di cartoni grigi su cui non è scritto nulla. Spesso, molto spesso, mi sono imbattuto nell’azzeramento di ogni discorso, quasi a dire che per guardare al futuro dovremmo fermarci qui dove siamo, e solo poi, ma proprio volendo, guardare al passato… direi per fame, per pura necessità di nutrimento. Bellezza e orrore stanno agli antipodi, questo ho pensato, e noi stiamo nel mezzo: bellezza e orrore non sono vie d’uscita, sono pareti invalicabili; e ho pensato che non basta guardare in faccia la realtà, bisogna entrarci in profondità, viverla, percorrerla in lungo e in largo, sopra e sotto; che non c’è evasione possibile, che siamo imbottigliati, ingabbiati; che la nostra sola possibilità sta nell’aprirci con sensibilità e intelligenza, cercare il sentiero di quell’umanità intera di cui parla Milosz, non più interclassista; cercare, avviare un dialogo fatto di molte voci, di eco, di sentimenti; di rabbia e dicatezze, non di una voce all’unisono, non la voce di una sola mente.

  13. Scrive Ennio: *Ho l’impressione che l’idea di poesia esodante debba fare ancora molta strada*.
    Ma certamente, e proprio perché il concetto per me sta nel movimento, nel confrontarsi con una realtà che è in dinamismo continuo, sennò sarebbe una poesia ‘esodata’, una poesia che ‘collassa’ troppo sulla realtà, replicandola tout court, e diventerebbe una nuova *tana*, una nuova *gabbia* da cui bisognerebbe esodare.
    E poi non avrebbe valore quanto invece ho sottolineato e sottoscritto della precisazione di Ennio: *La poesia esodante sa che la sua eticità e politicità sono da costruire e da controllare su un terreno più ignoto, non su quello di una qualche rassicurante tradizione* […] *una poesia che non si ferma alla poesia*.
    O, a dire meglio, non si ferma alla poesia che fa di se stessa un assioma.

    Quanto agli altri riscontri di Ennio, ne è passato di tempo dal 2012 ad oggi. Non sto parlando di un tempo numerabile in anni, ma di un tempo qualitativo, di esperienze; e l’esperienza con Moltinpoesia per me è stata (e continua ad essere con Poliscritture) molto significativa, mi ha fatto imparare molte cose, una fra queste di non prendere di petto le situazioni, rispondere per partito preso, anche se pare che nei Blog si usi fare così. A quel tempo avevo delle prevenzioni sull’intendimento del ‘noi’ proposto da Ennio: lo percepivo troppo impastato dall’idea di un ‘noi’ universale di matrice cattolica e comunistica (o anche comunitarista). Adesso ho ancora delle riserve, nonostante le quali mantengo il tentativo di capire la differenza che ci sta tra il ‘noi’ che intendo io (un ‘noi’ che si costituisce e si precisa all’interno di specifiche relazioni e che si differenzia dal ‘noialtri’ – visti dal basso -, o dal ‘todos caballeros’- visti dall’alto) e quello che mi sembra intendere Ennio. Continuo a pensare che la frammentazione, il break down, cui è stato sottoposto l’Io in quest’ultima metà del novecento abbia reso ancor più problematico il formarsi di un ‘noi’ ‘sano’, il quale, anziché affossare le spinte individuali tacciandole di ‘bieco individualismo borghese’, le esaltasse invece in una reciprocità creativa. Come sosteneva W. R. Bion nei suoi studi sulla gruppalità, l’individuo ha bisogno del gruppo tanto quanto il gruppo ha bisogno dell’individuo. Ma non sempre questa ‘reciprocità’ porta alla creatività: può portare alla perversione, modalità cui oggi stiamo assistendo alla grande.
    Per queste ragioni il mio intento non è tanto quello di capire se siamo d’accordo oppure no (*…stirare il concetto fino a fargli perdere quel tanto di spessore conflittuale che credo abbia, ma di confrontarsi per capire quanto davvero siamo d’accordo e quanto no*. EA), bensì di far emergere dialetticamente le conflittualità che ci possono essere nell’esplicare questo concetto relativo al ‘noi’, ad un ‘noi’ che esiste nel ‘qui ed ora’ dell’esperienza di Poliscritture ovvero, lo ribadisco, *(«si procede… e si impara proprio da questo ‘noi’ che si presenta qui, volta per volta, pronto alla discussione. Non si tratta di un noi astratto né di una nostra proiezione»).
    Né tantomeno di una ‘proiezione desiderante’.
    Non voglio negare il tuo desiderio o *la [..] volontà di chiedere alla poesia di contrastare (coi suoi modi che sono anche conoscitivi e certamente diversi da quelli politici e vicini a quelli scientifici) l’orrore storico e di non limitarsi a contemplarlo*. Anch’io vorrei che si producesse qualche cosa che sovverta questo macabro precipitare verso la regressione più cupa. Ma, come scrive Cristiana: *Non si è formata una nuova cultura, in senso molto lato, non si riesce ancora a pensare, sia pure abbozzando, il nuovo insieme, il nuovo mondo come si sta costituendo, un collegamento tra questo rimescolamento di popoli e le contraddizioni sociali ed economiche che si sono accese*.
    E, pertanto, è difficile dare un ‘nome’ (che sia anche ‘comunismo’ come scrivi tu); perché dare un nome, pur essendo importante, diventa restrittivo, ipostatizza e ciò è in contrasto con il concetto di poesia esodante.
    Molto più pregnante la tua idea di ‘groviglio’, da sgomitolare o, nel progetto di una poesia esodante , contemplare *quella “potenza” poetica [che] si deve distendere in una forma che si adatti al “disordine”, al non collegato, al non compiuto al non ancora posseduto. Una forma ancora non-forma che però potrà diventarlo. Un io poetico che si rischia in un non-io non ancora posseduto, non consueto, non padroneggiato e non padronale*, come scrive sempre Cristiana.
    E si corre il rischio, è ovvio, che non appena una certa forma ha acquisito un certo potere, questa diventi padronale. Nulla di nuovo sotto il sole. Basta saperlo e non vivere di illusioni, evitando possibilmente quelle più perniciose.
    Perché le illusioni sono quelle che hanno permesso lo scempio nel progetto dell’Europa Unita, dando da credere che i più ricchi avrebbero dato ai più poveri!!!
    Cosa succedeva? Eravamo d’un botto, senza nemmeno accorgerci, già nel comunismo?
    Come leggo nell’articolo di L. Pandolfi: *Non certo ciò che enfaticamente veniva indicato come obiettivo nei trattati, ovvero lo «sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche» in ambito comunitario. Al contrario, lo scenario che abbiamo davanti è quello di un “mercato unico” profondamente squilibrato, diviso tra potenze “creditrici” e periferie indebitate (debitocrazia)*.
    E allora? Ma che si aspettava? Ma chi ha firmato quei trattati? E’ o non è malafede? E perché alcuni Stati si sono tenuti prudentemente fuori mantenendo una parte di autonomia (se non altro monetaria) e chi invece – per ragioni che gli economisti ‘seri’ dovrebbero spiegarci e non far finta di essere caduti oggi dal pero – si è trovato incaprettato?
    Pandolfi, prima ci dovrebbe ‘spiegare’ il senso politico di quegli antefatti e poi chiamare di nuovo a raccolta i mentecatti che ancora credono di potersi liberare dai gioghi senza sapere da chi sono guidati (* sarà la mobilitazione dal basso dei cittadini nei prossimi mesi*). Quali colori mancano, o quali stagioni mancano a celebrare le nuove rivoluzioni ‘rigorosamente’ dal basso? Perché di nuovo sollecitare questa illusione quando i tempi dei conflitti interni tra potenti non sono ancora giunti a maturazione? Perché farsi convincere, in un ‘dagli all’untore’, a convogliare tutti gli strali verso la ‘solita Germania’ che se ne approfitta della situazione (ma non siamo in regime capitalistico?) dicendo *quali strumenti ha l’Europa per imporre alla Germania politiche deflattive, atte a favorire l’importazione di beni e servizi dai paesi della periferia? Più precisamente, come si potrebbe obbligare (o persuadere) la Germania ad investire di più in infrastrutture pubbliche, ad aumentare i salari dei lavoratori e la stessa spesa pubblica, per aiutare i paesi in deficit?* Facciamo una guerra di Secessione?
    Allora, tornando alla poesia, la ‘rivoluzionarietà’ di essa consiste nell’individuare ciò che è assente e pure è presente ma non si vede; e non si riferisce tanto alla ‘rosa che non colsi’, la bellezza perduta ecc. ecc. E’ il continuo movimento tra bellezza e orrore che non sono *pareti invalicabili* o *un di qua e un di là* (Mayoor) ma che si imbricano continuamente e il poeta vive sia questo imbricamento sia la difficoltà a tenere separate le due istanze.
    A chi è capitato di vedere “Il trionfo della volontà” girato nel 1934 dalla regista Leni Riefenstahl in cui si celebrava il Congresso Nazista a Norimberga, e ha vissuto l’impatto emotivo per tutto quello che l’artista tedesca era riuscita a mettere in scena, (i rapporti della popolazione con il partito e la parata militare), può capire che cosa intendo quando metto assieme bellezza e orrore.
    Il senso epico di potenza di sterminate masse di uomini, i loro volti diversi ma presi in questo mito che li faceva sentire un sol uomo, facenti parte di una sola patria e di un solo destino, il passaggio continuo dalle inquadrature del singolo a quelle panoramiche delle masse in movimento (le masse!!!), la loro marcia in formazioni rigidamente inquadrate accompagnate da una musica wagneriana travolgente hanno fatto di “Triumph des Willens” un monumento estetico alla bellezza. Ma anche all’orrore se lo sguardo andava, come Leni lo faceva andare, al podio dove stava Hitler assieme ai suoi gerarchi. Masse che potevano dimenticarsi delle loro spicciole singolarità perché si identificavano con la potenza che avevano proiettato in quell’uomo, in quel partito, in quell’ideale.
    Alcuni lo videro, il film, e ne rimasero estasiati (fra l’altro, vinse molti premi). Altri lo videro, e ne rimasero così spaventati da non volerne sapere. In fondo si trattava solo di propaganda, dissero! Pochi lo videro e rimasero angosciati nel dover tenere assieme bellezza e orrore.
    Che *l’umanità si alimenterà di se stessa anche nel senso che cercherà una realtà purificata, cercherà il «colore dell’eternità», ossia semplicemente il bello*, come scrive Czeslaw Milosz nel testo sopra pubblicato, o, come scrive Emy *ma la spiritualità e se vogliamo anche la sacralità dell’arte , restano sempre la vera importante bellezza che lega l’artista alla sua opera senza tempo*, non salvano la poesia, dal suo essere una grande puttana, come la parola della quale è figlia.
    Anche se G. Carofiglio in “La manomissione delle parole” aveva scritto: “Le parole sono come vecchie prostitute che tutti usano, spesso male e al poeta tocca restituire loro la verginità” non dobbiamo dimenticare che la poesia non si scrive da sola, ma è scritta da un poeta che, per quanto si sforzi nella sua ricerca di verità e bellezza (o di purezza) è pur sempre un mortale; anche se lo chiamano ‘divino’, ‘vate’, ‘maestro’ è sempre l’espressione di quel ‘taglio’ che la sua parola ha fatto di lui, gettato nel mondo.

    R.S.

    1. Prima di tutto: avevo fatto riferimento all’articolo di L Pandolfi su Economia e politica non per indicare concrete e immediate prospettive politiche (magari!) ma per indicare il livello di rottura del mondo ricevuto a cui ci stiamo avvicinando.
      Perchè infatti l’idea di poesia esodante delineata da Ennio, alla fine dell’intervista di Partesana, esprime una consapevolezza di rottura radicale, di fine reale di una tradizione. La esprime bene anche la poesia di Fortini: la verità cade fuori della coscienza
      La sola cosa che importa è
      il movimento reale che abolisce
      lo stato di cose presente.
      Tutto è divenuto gravemente oscuro.
      Nulla che prima non sia perduto ci serve.
      La verità cade fuori della coscienza.
      Non sapremo se avremo avuto ragione.
      Si discute di superarmento del postmoderno. In effetti se moderno era il mondo occidentale nella sua consistenza e nella sua espansione, il postmoderno è consapevole della crisi (del potere coloniale e imperiale), ma non esce dalla Tradizione: la scompone la interroga la scombina in bricolage, ma non ne esce.
      Quanto a me sono certa che il femminismo mi ha messa fuori da una cultura che origina da una violenza originaria, sono quindi già esodata non solo oltre la conservazione postmodernista ma anche oltre ogni razionalismo conservatore.

      Cos’é? Finivo giusto ora di leggere una intervista di G Fronzi a Elio Franzini nominato da poco presidente della Società Italiana d’Estetica http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/04/12/l%E2%80%99estetica-aujourd%E2%80%99hui-conversazione-con-elio-franzini/
      Per chiarire cosa intendo per razionalismo conservatore riporto alcuni brani della stessa: “è necessario un atteggiamento critico: un atteggiamento che non solo comprende il senso più profondo della crisi – sociale, culturale e dunque filosofica – che attraversa il pensiero moderno e contemporaneo, ma che espliciti come sia in tale funzione che si delinea il concetto di ragione come strumento essenziale per il pensiero … non si deve solo parlare dei luoghi della confusione … ma guardare alle cose che sono intorno a noi, alle loro intrinseche possibilità, alle immagini con cui si presentano: guardare al loro senso metafisico, dove metafisica è ‘tacita esortazione’ e ‘profonda saggezza’ “.
      L’intento non è certo quello di esodare, è quello di analizzare per ricomporre, senza neanche il dubbio che la crisi NON sia ricomponibile!)

      Rottura radicale, fine reale di una tradizione, epperò “tutto è divenuto gravemente oscuro”.

  14. Oh Rita!
    Anche una puttana ha la sua sacralità e spiritualità, quando piange da sola o quando ride . Allora le trova le parole , magari le urla , le stringe a se come un figlio…ma le trova, e sono le più belle. Non hanno bisogno di giudizi , ma di finissimo ascolto.

    1. Questa è per Ennio:

      La frusta

      E’ un’infezione ormai
      la voglia di ridere di sognare
      senza guardare il fondo
      gli sguardi tutti uguali segnano
      il tempo in un turbine di pensieri
      Nulla resta
      nelle tasche le mani a pugno
      e un riso idiota sulla bocca
      segnano il tempo della mensa
      della notte
      di un mattino freddo praticamente
      morto
      Qualcuno scrive e spinge il pensiero
      oltre il debito oltre il sonno
      scopre donne e uomini che aspettano
      e allora la frusta di ferro
      sulle schiene troppo vestite
      lascia segni metamorfosi di rabbia
      e veglia su coloro che scappano
      cercando fiori.

      Emy

  15. …”sfondare la gabbia”, esodare…da una parte mi richiama una sorta di folgorazione, come quella di Paolo sulla via di Damasco, dall’altra una goccia d’acqua che, ripetutamente cadendo, spacca le sbarre di acciaio di una orribile prigione…In tutti i modi si fugge da un’umanità frantumata- e penso che i frammenti ci accompagneranno a lungo: “…coloro che scappano/cercando fiori”- ed anche ingarbugliata, perchè non è semplice neanche capire da cosa fuggire; un noi informe, spaventato, che segue le tracce convergenti in un sentiero fuori dai percorsi battuti, al lume di una poesia disadorna…capace di vanificare gli incantesimi, di svelare i raggiri dei potenti, di sventare la guerra tra i poveri, che sempre ci divide…

  16. Commento per dovere, perché fui io a fare l’intervista a Ennio, ma ho pochissimo da dire, e anche quel poco sarebbe, temo, sgradevole.
    Leggo di troppi “io”, di troppi “individuo” e di troppa “poesia”; pare di essere tornati a quando Montale si difendeva dall’accusa di essere solo (o troppo) intimista citando Foscolo, e tutto quello che avremmo dovuto imparare negli anni trascorsi da allora è misteriosamente (ma non poi così tanto) scomparso.
    E a dir tutta la spiacevole verità, non sto capendo benissimo quale sia il contenuto della discussione. È come se la storia fosse scomparsa e si facesse ricorso alla retorica dell’eroico individuo, tutto solo contro il feroce “sistema” che cerca di annullarlo. Vi siete accorti che il “sistema” di noi non sa proprio che farsene?
    Un tempo Fortini scrisse che ogni scelta lessicale, ogni regola grammaticale, ogni sintassi, sono storiche (e cioè sociali) fin nelle loro più intime fibre e connessioni; ecco, se non si parte da qui per me non c’è proprio nulla da dire.
    Un abbraccio a tutti,
    Ezio.

    1. Ma è quel che accade. Pensiero collettivo e pensiero individuale sono concatenati, o dovrebbero esserlo: pena la perdita di coscienza. Forse non ha grande importanza per gli storici, per i sociologi, per i politici, ma per me, come spero anche per lei, una certa importanza dovrebbe averne. Dire che il sistema non sa che farsene (di noi) sarebbe come dire che non gl’importa di vendere le sue merci, di avermi come contribuente, o se preferisce come gallina da spennare. E poiché non esiste fronte o barriera, non esistono schieramenti, mi sa dire, oggi, quale può essere l’argine sul quale porre difese o cannoni?
      Il poeta non è un venditore di libri… forse un po’ lo diventerà, col tempo, quando i libri riavranno valore, in un mercato fatto con altri criteri. Ma intanto, per usare un linguaggio imprestato, forse dovremmo fare un ripasso di sogni e bisogni. Perché questi sono perduti, e da parecchio tempo.

      1. Pensiero individuale, da intendere come alternativa al pensiero unico, del liberismo (ma c’è pensiero nel liberismo? ). I Molti sono individui, non masse, numeri della storia. Ma si tratta anche di scelte personali, non necessariamente ideologiche, modalità diverse del cosa dire, come e a chi. Anche i pensieri hanno fondamenta, è vero, ma le case non sono tutte uguali. Né mai lo saranno. Il Noi è tutto sommato una singolare derivazione dell’io, il quale, non avendo corpo, e di fatto nemmeno sostanza sociale, acquisisce significati che quasi sempre non gli corrispondono. Se togliamo alle poesie di Pasternak quelle non rivoluzionarie, resterebbe un libretto. Eppure Majakovskij lo adorava.

        1. E anche qui quanto a quod erat demostrandum non scherziamo mica: “Pensiero individuale, da intendere come alternativa al pensiero unico”…

          1. « Che cos’è il pensiero unico? È la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale. »
            (Ignacio Ramonet) – Wikipedia, ebbene sì.

    2. “ogni scelta lessicale, ogni regola grammaticale, ogni sintassi, sono storiche (e cioè sociali) fin nelle loro più intime fibre e connessioni”:
      “storiche e sociali” sulle gambe e nelle teste dei singoli, no?

      1. “Ognuno ha messo sul tavolo i suoi pensieri. Non ho percepito nei commenti questa sopravvalutazione dell’ ‘io’”.
        Come si dice, quod erat demostrandum?

        Nota di E.A.
        Mi pare che il commento sia indirizzato a Rita Simonitto (18 agosto 2015 alle 20:26).
        Per errore o per complicazioni tecniche su cui non sono in grado d’intervenire a volte alcuni commenti non rispettano la cronologia o risultano spostati.
        Pregherei di usare la @ + il nome.

        1. Innanzitutto mi complimento della velocità di risposta al mio post delle 20.26: otto minuti… è bravissimo.
          Ma è bravissimo anche in altro.
          *Quod erat demonstrandum?* è la domanda. Già. Ma a chi viene fatta?
          Perchè la formulazione è ambigua e può essere letta nei due sensi:
          a) Ezio: come si evince da ciò che lei replica, e cioè, *Ognuno ha messo sul tavolo i suoi pensieri. Non ho percepito nei commenti questa sopravvalutazione dell’ ‘io’”*, lei (R.S.) non fa altro che ribadire ciò che io ho detto ab initio, vale a dire *leggo di troppi ‘io’*.
          Ed effettivamente, letta in quest’ottica, ha ragione.
          Ma,
          b) quando lei Partesana scrive: * Leggo di troppi “io”, ………, pare di essere tornati a quando Montale si difendeva dall’accusa di essere…..* compie quelli che si chiamano omissis (e che io ho appunto sostituito con dei puntini).
          Lei butta là, non mostra o dimostra nulla né rispetto alla sua percezione di quegli ‘io’ – che, messi così, all’arrembaggio di se stessi, sembrano starle molto antipatici (anche se della cosa dubito assai) – né, tantomeno rende edotto il lettore delle ambasce di Montale ecc. ecc. Detto in altri termini, lascia dei vuoti e se qualcuno, forse un po’ troppo volonteroso, cerca di riempirli viene tacciato con un “ha visto? che dicevo io!”
          Pertanto ribalto la domanda: “quod erat demontrandum?”. Perché c’è ancora un’altra lettura.

          R.S.

          p.s. Anch’io sono sufficientemente veloce nelle risposte… ma in compenso ho lasciato scuocere la pasta!!

  17. REPLICHE 2.1

    @ Fischer

    Sapessi quanti blocchi trova un atteggiamento esodante in poesia ( e non solo)!
    I due che rilevi li vedo io pure:

    1. siamo tutti costretti a insistere nella parte dei “distruttori” (tante sono le falsità, gli inganni e gli autoinganni che c’impongono o ai quali per stanchezza finiamo spesso per cedere e adattarci) e «una prospettiva costruttiva per la poesia esodante» (o semplicemente per la poesia) non viene fuori e chissà se verrà fuori da noi che pur ci poniamo il problema;

    2. piuttosto che scommettere o sull’’io’ (come pare si deduca dal commento di Mayoor 4 agosto 2015 alle 11:33 ) o sul ‘noi’, a me pare giusto interrogarsi tenacemente su quanto ‘io’ e quanto ‘noi’ (o meglio ancora su quanto ‘io-noi’) possiamo avere ancora a disposizione per capire in questa crisi storica inedita quale nuova relazione potremmo stabilire tra questi due poli – il “privato” e il “pubblico” – del sentire, del pensare, del fare. (Anticipo o ripeto: non sono d’accordo con una semplice cancellazione dell’’io’).

    Questa seconda questione (il rapporto io-noi) mi pare la più delicata e problematica (come Rita fa presente anche nel suo ultimo commento che poi esaminerò…). Ho già detto, rivolgendomi a Rita, che sono dubbioso sulla possibilità di ricostituire un ‘io’ autonomo (e libero) in grado di collegarsi ad altri ‘io’ altrettanto o quasi autonomi ( e liberi) per costituire un ‘noi’ che non elida o incorpori o amalgami o faccia scomparire i singoli ‘io’ in un ‘noi’ anche potente ma idealizzato e mistico. (Che è poi, se ci si ricorda di qualcosa di Marx, la visione generalissima di un comunismo che non doveva essere da caserma ma di libere individualità pienamente realizzate: «Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni.»).

    Per cautela nella ricerca e/o per scottature novecentesche della storia io non non me la sento di parlare di un ‘noi comunista’. Che non so se più possibile: definitivamente o per chissà quanto tempo. E questo è altro complicato discorso su cui non so dire o non posso qui fermarmi. E perciò ‘esodante’ per me non equivale più, come detto, a esodo verso un termine (della storia) o, in una visione religiosa, a Terra promessa e certa (per fede). Ma un *noi esodante* non lo identifico neppure nei «nuovi che sopraggiungono e frammentano il mondo e la cultura occidentale», come tu dici. Questo ‘noi’ potrebbe far pensare troppo facilmente ai migranti (o agli esodanti per ragioni materialissime: miseria, guerre, ricerca di libertà costi quel che costi o ai “fratelli migranti”); e magari a una sorta di nuovo soggetto rivoluzionario o neoproletariato o moltitudine, che surroghi quello della nostra giovinezza.
    Starei calmo. Non mi arrischio su questi terreni apparentemente più “costruttivi”. Non intravvedo qualche tratto chiaro di Nuovo Mondo, ma solo appunto « rimescolamento di popoli e le contraddizioni sociali ed economiche che si sono accese». Sì, manca proprio il nome per designare la forma (o, se vuoi, la «nuova cultura») a cui la storia sta portando le società “liquide” e gli Stati.
    Eppure sono deciso a smarcare la pars destruens del mio discorso da quella destruens tipo Lega e Salvini e anche dalle forti tendenze sovraniste emergenti dalla crisi. Non mi pare che questi umori e idee di arroccamento su una cultura occidentale o europea (difesa della “Fortezza Europa”) o delle “patrie” nazionali abbiano a che spartire con la pars destruens di un atteggiamento esodante.
    Che pure c’è ma non dev’essere annacquata e generica: «ognuno sceglie e si attacca a cosa può e gli si confà» mi pare una massima iperindividualistica o anarcoide, se possibile – cioè se non disperati – da evitare. E perciò applico senza esitazioni la critica anche a molte forme di « umanitarismo, buona volontà, cultura (tradizionale)» e anche all’«io creativo». E perciò – insisto – anche ai discorsi correnti e più “naturali” sulla poesia.

    Infine, no, dobbiamo internderci su cosa tu intenda quando dici che la «“potenza” poetica si deve distendere in una forma che si adatti al “disordine”, al non collegato, al non compiuto al non ancora posseduto». Il disordine, il “garbuglio”, il caos sta lì, ma io mica devo imitarlo o portarlo tale e quale nella lingua o nel pensiero.

    Proprio in questi giorni ho letto questa dichiarazione di Linguaglossa sul suo blog “L’Ombra delle Parole”: « Se la lingua italiana, quella parlata dal popolo, si è «anestetizzata», bene, il poeta non ha il diritto di intervenire con interventi «estetici» o di micro chirurgia migliorativa. Il poeta deve essere incorruttibile: deve prendere quello che la lingua gli dà, non deve abbellirla, non deve vestirla di orpelli».
    Ma una cosa sono gli abbellimenti, che possono falsare quello che cerchiamo di rappresentare o dire. Altra per il poeta (m anche per chi parla o scrive) «prendere quello che la lingua gli dà». Ora, se la lingua italiana si fosse veramente «anestetizzata» o “ingarbugliata” che fanno i poeti? Si adattano ad essa? Io ho parlato di “garbuglio” ma nel senso di partire da esso per arrivare a una qualche forma, che ne tenga conto, che ne porti anche i segni, ma che non sia riduzione della lingua a “garbuglio”.
    Qui dunque d’accordo con il richiamo di Partesana a Fortini. E vorrei ricordare che anche in passato di fronte a poeti pur affermati e di buon livello avevo questa posizione. Infatti, chi andasse a rileggere la lunga e attenta analisi che feci nel 2010 del «Viaggio nella presenza del tempo» di G. Majorino (http://www.backupoli.altervista.org/IMG/E._Abate_SUL_VIAGGIO_DI_MAJORINO.pdf) troverebbe in una nota (la 86) le seguenti precisazioni sul tema forma/informe:

    « La recensione al Viaggio di Alfonso Berardinelli è stata pubblicata su Avvenire (28 feb. 2009) ed è, pur nella sua brevità, esemplare di una reazione molto diffusa oggi verso la ricerca di Majorino. Coglie verità evidenti e immediate: è un «poema senza limiti e senza confini: versi e prosa, politica, idee, incontri, sogni, filosofia, appunti»; «il libro ha un “carattere difficile”, chiede troppo al lettore, e non si fa capire». Ma arriva alla diagnosi di una «sconfinata, incurabile patologia», per cui il Viaggio sarebbe un esempio della «paralisi dell’immaginazione e della costruzione letteraria di fronte al mostruoso grigiore del mondo». Il poema – egli sostiene – non avrebbe né forma né luce poetica perché il suo oggetto (la«Milano impiegatizia, commerciale, bancaria, operaia, militante, manageriale, europea») non merita sublimazioni. Majorino sbaglierebbe, dunque, a voler fare testardamente i conti, da poeta, con questo «mostruoso grigiore del mondo» e così «chiede troppo al lettore, e non si fa capire». A me pare, invece, che Berardinelli sia arrivato al rifiuto di leggere le trasformazioni in corso. Avviatosi anche lui sulla strada della contemplazione estatica o disperata del mistero insondabile del mondo, la “realtà” per lui si è ridotta a «un enorme, indomabile inconscio biologico, un inconscio preumano e postumano, dove tutto è in metamorfosi». Ma, per questo, illeggibile o negata ai poeti? Sarebbe da discutere poi se la poesia, come egli pare sostenere, debba essere sempre o necessariamente sublimazione. Può essere anche desublimazione. Ma soprattutto sarebbe da discutere se il Viaggio abbia assunto questa “forma informe” «senza limiti e senza confini» per semplice mimesi del mondo confuso (o complesso?) d’oggi. Non lo credo. Anche se a volte certe dichiarazioni di Majorino tendono a giustificare la complessità del proprio linguaggio rimandando alla complessità del mondo. A me vengono in mente vecchi discorsi di Benjamin e di Fortini sulla caoticità apparente o reale del mondo (o della “realtà”) e sull’arte, che non ne è mai la semplice mimesi. Per me il Viaggio non è “difficile” solo perché la “realtà” d’oggi lo è ed esso ne ricalchi fedelmente gli ardui contorni. La “realtà” sarà pure complessa o difficilissima da intendere, ma non comanda automaticamente le scelte linguistiche di un poeta. Nel caso di Majorino, queste discendono da preferenze culturali, da modelli di scrittura assorbiti (quelli delle avanguardie novecentesche), dall’influenza della psicanalisi, dall’abbandono dell’opposizione a favore dello spostamento, ecc. Tra la scelta di mantenere la facciata delle forme unitarie della tradizione (la «sublime lingua borghese» di Fortini), magari parodiandole o riempiendone gli “interni” di contenuti moderni o comunque più frammentari e quella di partire dall’esperienza qualsiasi e soggettiva che si ha del mondo costruendo forme, il cui grado di compattezza o frantume non è codificato a priori (o è meno codificato delle forme classiche), Majorino mi pare abbia scelto questa seconda strada, con qualche nostalgia della tradizione, che nel caso del Viaggio l’ha portato a scrivere un poema/non poema, come ho detto.»
    Insomma avesse pure il disordine «raggiunto livelli davvero impensabili» non è che il linguaggio debba adattarvisi. Né per finta né sul serio.

    P.s.
    Risponderò mano mano agli altri nuovi commenti (Mayoor, Simonitto, Locatelli, Partesana, ecc.)

    1. Solo per precisare. Dove tu dici “Infine, no, dobbiamo intenderci su cosa tu intenda quando dici…” mi riferivo a questa tua posizione “La poesia (esodante o meno) è bella e brutta, ma nella poesia esodante quello che conta/conterà è la fluidità del rapporto tra i due poli del bello e del brutto. Un certo pensiero estetico trascura questo punto per me decisivo; e contrappone i due poli, gerarchizzandoli, facendone degli assoluti, cedendo a una subdola ottusità elitaria.”
      Con la “potenza” della poesia che si deve distendere in una forma che non sia già intera e costituita intendevo riferirmi alla “fluidità del rapporto tra i due poli”, non travasare il disordine reale in una non-forma ma, per esempio, l’oscurità di cui hai a volte scritto.

  18. @ Ezio Partesana

    Non si preoccupi, Partesana, per la sgradevolezza.
    Se concordiamo con quanto disse Fortini (e io concordo) e stiamo ai tempi storici, e quelli di oggi sono di m…a *fin nelle loro più intime fibre e connessioni* – anche se non del tutto, sennò non ci saremmo noi a scriverne qui -, pur anche di quella ci dovremmo occupare.
    E purtroppo oggi sembra invalso l’uso – diseducativo – che uno sporchi e poi un altro pulisca: vedi i recenti proclami per Milano e Roma, fatti i distinguo necessari.
    Ma a parte queste (s)piacevolezze, non tutti sanno tutto, anzi ognuno ha messo sul tavolo i suoi pensieri. Non ho percepito nei commenti questa sopravvalutazione dell’ ‘io’ che si erge come dominus e decreta o questo o quello sulla poesia; non tutti – almeno io no – sanno del problema di Montale, che lei pur segnala ma non dispiega di modo che noi almeno ne siamo messi al corrente e che quindi, storicamente, facendo le differenziazioni, possiamo imparare *tutto quello che avremmo dovuto imparare negli anni trascorsi [e che] da allora è misteriosamente (ma non poi così tanto) scomparso*.
    * E a dir tutta la spiacevole verità, non sto capendo benissimo quale sia il contenuto della discussione*: nulla di preoccupante. Stiamo parlando di poesia esodante con tutte le perplessità che nel merito ci sono concesse; non stiamo costruendo un ponte per cui è necessario capire precisamente i termini del discutere. Anche se, pure in quel campo lì , pare si possano trovare degli escamotages per tirarsi fuori dai pasticci, come abbiamo visto a Venezia per il ponte dell’architetto Santiago Calatrava.
    E poi, perché si devono fare le cose per dovere? L’intervista che lei ha fatto ad Ennio è ben articolata e molto utile; forse non ha preso la piega che lei avrebbe voluto; forse ci vorrà del tempo (se uno ce l’ha!) per chiarire che:
    a) al momento non si affaccia all’orizzonte nessun eroico individuo (anche se in cuor mio un Odisseo che intanto mi sgomina i Proci e poi dice alla balia: “non esultare: non è pietà su uomini uccisi far festa”, mi andrebbe più che bene!);
    b) affermare che * il “sistema” di noi non sa proprio che farsene?* e nel contempo sostenere che vi siamo imbricati fino al midollo, significa segnalare una contraddizione che dovrà pur tramutarsi in conflitto! Ci sarà pure un senso in questo essere tirati dentro?! Sennò che bisogno ha il sistema per farlo e che bisogno abbiamo noi per caderci!
    Fare le cose per dovere crea equivoci (ma non credo sia il caso suo) perché si immagina una cosa e se ne produce un’altra. Non molto tempo fa ne abbiamo visto un esempio proprio su questo Blog: una signora(?) aveva fatto un intervento ‘per dovere’ (o compiacere) ma poi, non trovando tappeti rossi, se ne è andata sbattendo la porta. Questo è un modo ‘stupido’ di buttare via le risorse. Eppure è anche lì che si compiace l’io; anche in questo, sia pur vecchio, concetto di dépense di Bataille: mostrare di avere la libertà di fare quello che si vuole dei propri talenti in una illusoria idea di liberarsi così dalla sottomissione all’altro, di non dipendere.
    Mi rendo conto che anch’io adesso mi sto atteggiandomi in modo spiacevole per cui chiudo qui (anche perché dopo a pulire sarà, come al solito, Ennio).
    Ma siamo già in pochi e se ci facciamo guerra fra di noi….
    Un abbraccio a tutti…

    R.S.

    p.s. @ Ennio

    velocemente:
    a) quanto alla *possibilità di ricostituire un ‘io’ autonomo (e libero) in grado di collegarsi ad altri ‘io’ altrettanto o quasi autonomi ( e liberi) per costituire un ‘noi’ che non elida o incorpori o amalgami o faccia scomparire i singoli ‘io’ in un ‘noi’ anche potente ma idealizzato e mistico* sono PERFETTAMENTE d’accordo con te nel rigettare questa ‘ipotesi’. Così come condivido il tuo mettere un freno rispetto all’idea di un ‘noi’ che faccia pensare *troppo facilmente ai migranti (o agli esodanti per ragioni materialissime: miseria, guerre, ricerca di libertà costi quel che costi o ai “fratelli migranti”); e magari a una sorta di nuovo soggetto rivoluzionario o neoproletariato o moltitudine, che surroghi quello della nostra giovinezza.
    Starei calmo. Non mi arrischio su questi terreni apparentemente più “costruttivi”.*
    b) Quando replichi a Cristiana: * Infine, no, dobbiamo intenderci su cosa tu intenda quando dici che la «“potenza” poetica si deve distendere in una forma che si adatti al “disordine”, al non collegato, al non compiuto al non ancora posseduto». Il disordine, il “garbuglio”, il caos sta lì, ma io mica devo imitarlo o portarlo tale e quale nella lingua o nel pensiero*. Certo che non lo devi imitare, ma Cristiana sta dicendo un’altra cosa che piano piano emergerà da queste discussioni.
    c) Quello che sostiene Linguaglossa è un’affermazione ambigua, e nelle acque dell’ambiguità ci sa nuotare non certo chi è anestetizzato : « Se la lingua italiana, quella parlata dal popolo, si è «anestetizzata», bene, il poeta non ha il diritto di intervenire con interventi «estetici» o di micro chirurgia migliorativa. Il poeta deve essere incorruttibile: deve prendere quello che la lingua gli dà, non deve abbellirla, non deve vestirla di orpelli».
    Anche se rispetto il “ubi major minor cessat”, purtuttavia noto queste incongruenze:
    a) *Il poeta deve essere incorruttibile*.
    Il poeta E’ corruttibile e deve esserlo per poter capire dove si maschera la corruzione;
    b) *prendere quello che la lingua gli dà*.
    Ci sono due equivoci. Il primo ha a che vedere con il fatto che la lingua è in continuo movimento ed ipostatizzarla è già un intervento: se il poeta fa questa operazione di ‘violenza’ deve avere la consapevolezza di ciò che lo spinge a farlo.
    Il secondo riguarda il rapporto. Per quanto il linguaggio sia prostituibile, ovvero serve tutti, c’è sempre una relazione specifica, che lo si voglia o no. C’è una relazione anche nell’assenza della relazione. Il poeta quindi deve ‘stare nella lingua’, seguirne le presenze e, perché no, anche le anestetizzazioni.
    Infine: *Il poeta deve essere incorruttibile: deve prendere quello che la lingua gli dà, non deve abbellirla, non deve vestirla di orpelli»*: è una immagine molto suggestiva che, chissà perché, mi rimanda, alla vita dei ‘casini’ di un tempo e a tutte le elucubrazioni che nel merito venivano fatte, sull’abbellimento (gli orpelli) e la realtà, nuda e cruda.
    Ma la realtà non è mai nuda e cruda proprio per tutte le incrostazioni storiche e individuali che la compongono. Sennò diventa un ‘feticcio’: il lavoro che ci è difficile fare è quello di passare dal generale (che pur ci serve), al particolare, all’individuo.

    R.S.

  19. SEGNALAZIONE: POESIA/LETTERATURA E “NOI”

    Stralcio questo lungo brano di Romano Luperini dal suo blog “La letteratura e noi” (ma invito ad una lettura completa) per due ragioni: – molte delle cose che egli dice sulla crisi della letteratura d’oggi potrebbero essere ripetute (con poche variazioni) per la crisi della poesia d’oggi; – è in primo piano anche nella sua ricerca la questione del ‘noi’, che egli affronta riconoscendo e non cancellando la criticità e la problematicità del passaggio (irreversibile) da una dimensione nazionale ad una dimensione planetaria. [E.A.]

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    Insomma, a partire da Kant, si pone un nodo di problemi – particolarmente nel rapporto fra particolarità e universalità – che è assolutamente attuale. Per quale noi cerchiamo il significato delle opere? Il «tutti» di cui parla Kant, l’universale umano che egli presuppone, in quale orizzonte si definisce?

    Penso che la critica debba tornare a porsi queste domande, che d’altronde, in modo implicito e talora anche esplicito, sono state sempre al centro della riflessione teorica sulla letteratura e della concreta attività dei critici. La particolarità e il noi di De Sanctis, per esempio, sono diversi da quelli presupposti da Said e a loro volta quelli di Said sono assai diversi da quelli del suo collega Harold Bloom. Quando De Sanctis scrive per i suoi studenti la Storia della letteratura italiana il proprio punto di vista parziale coincide con quello generale di una comunità nazionale in formazione: il noi di De Sanctis era quello romantico-risorgimentale di un popolo particolare (o, se si vuole, del suo gruppo dirigente borghese) che stava diventando nazione. In nome di questa parzialità De Sanctis conduceva una lotta contro la vecchia cultura classicistica e contro le tendenze politiche reazionarie che contrastavano in Italia il processo risorgimentale. Nel medesimo tempo, però, la sua opera superò agevolmente i confini nazionali e venne riconosciuta come un capolavoro in Europa perché seppe interpretare un movimento di riscossa e di formazione dello spirito nazionale che era largamente condiviso dalla cultura europea. De Sanctis parla a una comunità, intreccia un dialogo e insieme conduce un conflitto. Nel suo lavoro particolarità e universalità sono insomma strettamente intrecciate. E analogamente inseparabili sono dialogo e conflitto.

    Neppure un secolo dopo, il noi di Auerbach è già molto diverso. Basta pensare al processo genetico di Mimesis di Auerbach, scritta a Istambul, dove il grande critico ebreo si era rifugiato durante la guerra per sfuggire al nazismo. Auerbach descrive i lineamenti della letteratura occidentale nella sua vocazione alla rappresentazione del reale stando sulla soglia dell’Occidente, anzi già fuori da esso e in esilio, comunque, dalla sua cultura. Si trovava cioè in una situazione che, nonostante la privazione di informazioni e la mancanza di biblioteche specializzate in studi europeistici, e anzi forse proprio per questo, si prestava particolarmente ad assumere quella prospettiva di cui Auerbach stesso parla nel saggio Filologia della Weltliteratur: la prospettiva che muove sì dalla cultura e dalla lingua nazionali, ma che è capace anche di separarsi da esse e di trascenderle. Anzi, come scrive Auerbach, ed è affermazione a mio avviso memorabile, «la nostra casa filologica è la terra, non può più essere la nazione» (E. Auerbach, Filologia della Weltliteratur, in San Francesco Dante Vico ed altri saggi di filologia romanza, De Donato, Bari 1970, p. 191). Per Auerbach particolare e universale, ormai, non possono essere più quelli di De Sanctis.

    La situazione odierna è assai più simile a quella in cui si trovava Auerbach durante la seconda guerra mondiale che a quella di De Sanctis. Quando Auerbach scrive che Mimesis non sarebbe stato scritto in condizioni normali, e aggiunge «è possibilissimo che il libro debba la sua esistenza proprio alla mancanza di una grande biblioteca specializzata» (E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1984 [1956], vol. II, p. 343), non compie solo una affermazione di modestia, ma getta luce su un processo genetico non privo di interesse. Il filtro di una biblioteca specializzata è anche quello di una ottica già compromessa. Quanto sta accadendo oggi nel mondo – terrorismi contrapposti, guerre per il petrolio e per l’acqua, nuova precarietà della vita quotidiana dell’Occidente, spostamenti di masse umane e invasioni di popoli spinti dalla fame – richiede un nuovo sguardo planetario anche sul nostro stesso patrimonio culturale. Dovremmo ricordarci, con il Benjamin di Tesi di filosofia della storia, che «non c’è mai un documento di cultura senza essere nello stesso tempo documento di barbarie» (W. Benjamin, «Tesi di filosofia della storia», in Angelus novus, Einaudi , Torino 1982 [1962], p. 79 e cfr. anche W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 31, con traduzione solo lievemente diversa e testo tedesco a fronte). E forse non è un caso se l’ultimo Said si è ispirato esplicitamente all’insegnamento auerbachiano, immedesimandosi in questa figura di esule che scrive dalla soglia dell’Occidente e che ha visto, per così dire, da fuori, in una situazione di emergenza e di rischio imminente, l’intera nostra tradizione letteraria e culturale.

    D’altronde il noi in questione non riguarda solo i critici e gli insegnanti di letteratura; riguarda anche il loro pubblico, a partire da quello che frequenta le nostre scuole e che in Italia proviene ormai in misura crescente dal Sud e dell’Est del mondo. Si tratterà di conservare e trasmettere la nostra determinata identità culturale e nello stesso tempo di metterla in gioco cogliendone la particolarità attraverso una visione contrappuntistica delle differenze. D’altronde l’atto stesso della comprensione ermeneutica sembra richiedere una tolleranza che dovrebbe – ha scritto Adorno – «pensare la condizione migliore […] come quella in cui si può esser diversi senza timori» ( Th. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1979, p. 114)
    Può esistere un nuovo racconto della letteratura?

    E’ giunto il momento di concludere tornando alla domanda implicitamente posta all’inizio. Può esistere un nuovo racconto della letteratura, e dunque un nuovo senso della storia, dell’etica e dell’impegno civile, in una epoca in un cui le morali precostituite sono poste in discussione e il popolo-nazione si dissolve in unità più vaste ma ancora indistinte?

    La grande letteratura moderna non fa che rendere più evidente e radicale qualcosa che era percepibile anche nella letteratura antica e medievale: e cioè che il discorso letterario è sempre aperto, in fieri, e si realizza solo attraverso la collaborazione del lettore che, dandogli senso, ogni volta torna a ridefinire insieme il significato dell’opera e quello della vita. Le opere, soprattutto ma non solo quelle moderne, sono sempre costruzioni da completare. Da questo punto di vista ridurre la critica a specialismo asettico, a descrizione retorica o tecnico-formale, è non meno esiziale – per la critica ma anche per il senso della letteratura – che ridurla ad autobiografismo narcisistico o a una mistica oracolare. Indossare il camice bianco dello scienziato o il manto del critico-vate e dell’artifex additus artifici significa rinunciare alla nostra funzione, e cioè alla produzione sociale di senso attraverso la lettura, la interpretazione e il ri-uso critico dei testi letterari.

    Insomma il nuovo racconto della letteratura riguarda un significato da costruire, non qualcosa che è stato già costruito. D’altronde, per secoli, non è stato così anche per l’identità nazionale? Non è questa la differenza che separa il Petrarca della canzone All’Italia, il Machiavelli della conclusione del Principe, il Foscolo dei Sepolcri – tutte opere che preparano qualcosa che deve ancora realizzarsi – da Carducci, Pascoli e d’Annunzio che nelle loro poesie civili si sono ormai trasformati in vati retoricamente volti a esaltare qualcosa che già esisteva?

    Voglio dire che oggi fare i critici letterari e insegnare la letteratura richiede l’idea di una sua nuova attualità. A sua volta questa ha a che fare con il modo con cui il significato della letteratura si è andata concretamente sviluppando e precisando a partire dal modernismo e poi soprattutto negli ultimi decenni. Nel corso del Novecento, il senso della vita è sempre più quello della nuda vita, senza più pesanti diaframmi ideologici. Il momento problematico, riflessivo, etico, emotivo, è balzato in primo piano. La stessa passione politica e civile ha acquistato, nell’ultimo mezzo secolo, una dimensione nuova, ricca più di domande che di risposte, e capace di coinvolgere una prospettiva che va al di là della nazione per riguardare il destino di ogni uomo o anche del genere umano nel suo complesso. Si pensi alle conclusioni di scrittori eticamente e politicamente impegnati come Primo Levi di Se questo è un uomo e La tregua, o il Pavese di La casa in collina, o il Fenoglio che intitola il suo capolavoro sulla guerra partigiana Una questione privata.

    La grande scommessa problematica, etica ed esistenziale della letteratura moderna, la sua ricerca inquieta e inconclusa di senso, la sua apertura, le sue domande e il suo bisogno di risposte definiscono una prospettiva di significato da elaborare insieme; non raccontano un’identità data, ma scommettono su un’identità futura, da costruire con il lettore. Nello stesso tempo questa letteratura richiede una passione civile di tipo nuovo, volta non già a narrare un mito del passato, ma a delineare un nuovo possibile racconto, non più nazionale, ma planetario. La marginalità del critico letterario, rappresentando il destino di tutti i marginali, può allora diventare una forza e, insieme, una ragione di nuova identità.

    (da http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/201-che-cosa-resta-da-fare-a-noi-insegnanti-di-letteratura.html)

    1. (la critica) “ridurla ad autobiografismo narcisistico o a una mistica oracolare”.
      A differenza del critico, chi scrive poesia non sempre può decidere l’ampiezza delle proprie vedute, che gli sono date per attitudine, cultura e storia personale. Ma è vero che i poeti inseguono la visione planetaria, anche quando scrivono di dettagli, di minuzie. Tra i poeti, gli esempi di narcisismo e mistica oracolare bisogna proprio andarseli a cercare, e non sono certo la maggioranza. La critica incalza l’autore, mentre l’autore guarda la critica in trasparenza, ponendola tra sé, la propria abatjour… e il planetario che comprende l’uno e l’altro. Il lettore completa l’opera dandogli significato, ma il senso non gli compete. L’autore sa della propria responsabilità: è il suo rischio quotidiano.

      1. Per quel minimo
        della formica che porta
        della farfalla che si posa
        della cicala che canta
        del gatto che rincorre
        del topo che scappa
        per tutti quei minimi
        è grande il sogno
        di chi può distruggere.

        Emy

    2. Dare un significato planetario.
      Grandissima riflessione. Ieri all’expo ho visto sforzi nell’attuare questo significato
      risultato: una buffonata pazzesca, altro che scopo umanitario!
      Accettare tutte le etnie che man mano incontriamo durante la nostra esistenza , lingue a noi sconosciute, modi di vivere così diversi dai nostri, richiedono sforzi enormi da ogni parte si considerino, ma certo noi pensiamo a noi a come affrontare il problema , a come trovare un mezzo anche in poesia per arrivare a questo tutto che aumenta di giorno in giorno, e loro ,questi altri, avranno il tempo e la voglia di capire e di trasmetterci le loro idee e i loro sogni? Riusciremo noi ad accettare anche le loro convinzioni sull’arte compresa la poesia? Riusciremo a criticare con l’occhio di chi sta dentro le cose?
      Ecco, il nuovo noi che se vogliamo lo possiamo anche chiamare planetario ma resta sempre e comunque voglia di accettare il diverso , in ogni campo.
      A proposito, il sig. X vicino di casa di una mia amica, è morto. I figli si sono accorti di questa perdita a seguito del fatto che il padre non rispondeva da due giorni ai loro whatsapp. Anche qui il planetario ci sta…

  20. SEGNALAZIONE: “NOI” CETOMEDIO?

    In “Repliche 2.1” 18 agosto 2015 alle 18:19 (@ Fischer) per sottolineare la difficoltà di passare dalla pars destruens alla pars costruens dei nostri discorsi ( sulla poesia, ma anche sul mondo che si va trasformando) ho scritto: “Starei calmo. Non mi arrischio su questi terreni apparentemente più “costruttivi”. Non intravvedo qualche tratto chiaro di Nuovo Mondo, ma solo appunto « rimescolamento di popoli e le contraddizioni sociali ed economiche che si sono accese». Sì, manca proprio il nome per designare la forma (o, se vuoi, la «nuova cultura») a cui la storia sta portando le società “liquide” e gli Stati”.
    E perciò segnalo questo passo di G. La Grassa che, pur movendosi sul terreno scientifico e non poetico-letterario, mi pare in sintonia con la mia posizione problematicamente “esodante” [E.A.]

    ————————————————————————————————————————————

    Oggi non è proprio più possibile pensare in modo dualistico. Lasciamo perdere quanto di ideologico e vecchio sussiste nella divisione tra dominanti e dominati. Ho cercato di migliorare le cose consigliando di definirli semmai decisori e non decisori. Pochi i vantaggi. Gli ambiti decisionali sono diventati molto meno definibili e dividibili nettamente rispetto a passate forme di società. E poi, nella misura in cui i ritmi “naturalistici” (e in qualche misura deterministici) sono stati sconvolti, quella che chiamiamo politica – e che pur essa deve essere meglio definita – interviene nettamente nel modificare, di fase in fase, l’articolazione dei settori decisionali con i loro differenziati spazi e tempi e i diversi gradi delle decisioni. Non possiamo decantare questo coacervo definito ceto medio alla stessa guisa del Terzo Stato. C’è troppo di ormai lontano dalle cadenze naturalistiche per poter procedere con quella che allora diverrebbe in un certo senso ingenuità o magari semplicismo. Siamo in difficoltà.
    Resto convinto della giustezza dell’intuizione di Marx relativamente alla necessità di individuare la forma specifica (sempre con realismo e non con la pretesa di riprodurre la realtà) dei rapporti sociali di cui gli individui “sono creatura” (come scritto nella Prefazione alla sua massima opera). Non possiamo però procedere alla sua stessa guisa e non dobbiamo subito cercare gli antagonismi irriducibili che condurrebbero verso formazioni sociali immaginarie e, alla fin fine, solo fantasticate. In tutta franchezza, credo di riuscire ad individuare con una certa facilità, e con buona dose di realismo, dove si situa l’errore di Marx, per non parlare poi del marxismo; e mi sembra proprio di afferrare l’enormità delle sue conseguenze nel XX secolo, quello delle “grandi illusioni” ormai sbrecciate da tutti i lati. Tuttavia, sono prigioniero delle categorie teoriche di tutta una vita. Sto indicando ai più giovani dove mettere le mani per cominciare a vederci più chiaro. Io non sono però in grado di realizzare effettivamente tale obiettivo. Devono muoversi loro.
    E allora? Allora ecco quella che ho indicato come mossa puramente contingente, “tattica”, diciamo. Non mi convince proprio per nulla affatto la geopolitica con le sue manie territoriali, il fatto della terra o dell’acqua che circonda dati paesi, e via dicendo. So che è necessario giungere alla struttura sociale di questi paesi. Non posso però inventarmela. E allora, poiché delle scelte, cioè delle prese di posizione sono in questo momento improrogabili, mi attengo a considerazioni assai rozze ecc., ma non prive di una certa efficacia; basta avere il senso della loro “contingenza di fase”, nel senso di una fase di pensiero che sconta le macerie delle illusioni novecentesche. E non certamente solo quelle del marxismo. Io sono però stato marxista; e di lì parto per la critica a tali illusioni, di cui mi faccio carico (spero con una certa radicalità).
    Quindi, in definitiva, non ho nulla a che vedere con la geopolitica. Provengo da tutt’altre origini. Ritengo inoltre piuttosto semplicistica questa scienza (vera o pretesa che sia). Resta dentro di me l’esigenza e la consapevolezza di quanto sia decisiva l’analisi dei rapporti, della loro articolazione in una determinata formazione sociale storicamente data. Sono convinto che, fin quando non si giungerà a effettuare l’analisi in questione, resteremo in una condizione di precarietà anche nella pratica (politica) da condurre. Tuttavia, non intendo fare forzature e diffondermi con finta sapienza su ciò di cui non ho sufficienti idee, salvo che in negativo, così come le ho mostrate per sommi capi in questo scritto. Intanto, liberiamo definitivamente il campo da tutte le “conoscenze” che ormai hanno fatto il loro tempo. E soprattutto cerchiamo di capire dove principalmente era situato l’errore.
    All’ingrosso, sembra di poter dire che il fulcro della società, su cui meglio dobbiamo dipanare l’indagine, è quel vasto agglomerato denominato ceto medio o ceti medi. Questi non riguardano principalmente la sfera produttiva così com’era per la borghesia e per il proletariato o classe operaia. I ceti medi non sono da assimilare, in modo largamente improprio, al Terzo Stato (per i motivi già addotti); ma dalla loro decantazione – che dovrà essere anche un “fatto teorico” – sembra comunque probabile l’originarsi di una nuova realistica visione della struttura sociale (sempre ricordando la differenza tra realismo e “realtà”).
    Non so quanto tempo ci vorrà per arrivare a qualche punto fermo. Non penso di poterci giungere io; sono semplicemente un pensatore “di transizione”. Meglio esserne consapevoli.

    (DA http://www.conflittiestrategie.it/noioso-ripetere-ma-obbligatorio-data-lignoranza-imperante)

  21. REPLICHE 2.2

    @ Simonitto

    1.
    Sì, una poesia esodante non «‘collassa’ troppo sulla realtà, replicandola tout court», non dev’essere «una nuova *tana*, una nuova *gabbia*». Eppure nel pensare ad una poesia esodante bisogna che teniamo conto della “realtà” e magari almeno un po’ di “realtà” deve entrarci nel nostro modo di pensarla. E ci può entrare – purtroppo per i più pretenziosi, necessariamente per chi ragiona ( e cioè seleziona e non se ne fa invadere totalmente, come capita ai folli, credo) – solo come forma. E la forma – diciamocelo – è un po’ gabbia, da accettare consapevolmente. E, per stare alla poesia, se sono state gabbie le terzine o i sonetti, lo sono stati anche i versi liberi. Gabbie diverse. Gabbie necessarie (magari provvisorie) che permettono però di rifiutare gabbie riconosciute ormai insopportabili (in un’epoca, per quei poeti, per quelle loro passioni o intelligenze) e approssimarsi a quel qualcosa di ignoto, di sperato, di immaginato, di delirato persino che chiamiamo “realtà” o “inconscio” o “mistero” o “Dio”.

    2.
    Sul ‘noi’. Davvero oggi è il punto più spinoso della nostra ricerca. Come dev’essere? Mi manterrei su un terreno variegato e che faccia riferimento ad esperienze individuali, generazionale e storiche. Per quanti hanno fatto – nel bene e nel male, travolti o appena sfiorati – l’ambivalente esperienza della trasformazione avvenuta in questo Paese dal dopoguerra ad oggi, con un alternarsi rapido di momenti – chiamiamoli così – “poetici” (Resistenza, ’68-’69) e momenti “prosastici” ( primi anni ’50 e anni Settanta con la loro coda tragica-grottesca- farsesca che si prolunga) è più facile capire che il ‘noi’ che servirebbe non dev’essere, come tu dici, « di matrice cattolica e comunistica (o anche comunitarista)».
    Ma come dev’essere allora? E qui siamo tutti per forze di cosa vaghi o meglio prudenti.
    Chiedi: quale «la differenza che ci sta tra il ‘noi’ che intendo io (un ‘noi’ che si costituisce e si precisa all’interno di specifiche relazioni e che si differenzia dal ‘noialtri’ – visti dal basso -, o dal ‘todos caballeros’- visti dall’alto) e quello che mi sembra intendere Ennio»? E non solo lui, aggiungerei?
    Non un noi “populistico” (il «‘noialtri’ – visti dal basso»). Non un noi “democraticistico” («‘todos caballeros’» o tutti poeti o tutti consumatori o tutti sani e felici). Dunque, « un ‘noi’ ‘sano’, il quale, anziché affossare le spinte individuali tacciandole di ‘bieco individualismo borghese’, le esaltasse invece in una reciprocità creativa»? (Come diceva Bion « nei suoi studi sulla gruppalità, l’individuo ha bisogno del gruppo tanto quanto il gruppo ha bisogno dell’individuo», ma consapevole che « non sempre questa ‘reciprocità’ porta alla creatività: può portare alla perversione»?) E magari da applicare al possibile «‘noi’ che esiste nel ‘qui ed ora’ dell’esperienza di Poliscritture» ( e perché no di altre «gruppalità» sperimentate sul Web, su FB e magari nella concretezza più o meno sincera di associazioni, laboratori, riviste che operano a livello locale?

    3.
    A me pare che un nome magari provvisorio (come ‘Poliscritture’ o come ‘poesia esodante’, ad es.) bisogna pur darlo a questi tentativi di definire e definirsi. Anche se « dare un nome […], diventa restrittivo, ipostatizza». Darlo, formalizzare, dunque. A meno che non si voglia restare nella informalità o all’anarchismo più assoluti che in pratica escluderebbero ogni forma (in arte e poesia ma anche in politica), perché come tu dici « appena una certa forma ha acquisito un certo potere, questa diventi padronale».

    4.
    Dei miei sospetti nei confronti di « una forma che si adatti al “disordine”, al non collegato, al non compiuto al non ancora posseduto» e della mia volontà di *partire dal groviglio* ma non di *restare al groviglio*, ho già detto rispondendo a Fischer ( REPLICHE 2.1 18 agosto 2015 alle 18:19 )

    5.
    Un altro rischio è un certo cortocircuito che colgo tra il discorso sulla poesia esodante e il discorso più o meno direttamente politico. Quando, infatti, scendi sul piano dell’esemplificazione politica commentando il testo di Pandolfi proposto da Fischer, il discorso sul ‘noi’ a mio parere evapora o si fa più impreciso e umorale. Di quale ‘noi’ parli quando ti sposti bruscamente sul terreno politico generale?
    Sembra di capire che il «progetto dell’Europa Unita» proprio perché progetto (= forma) non poteva che finire «padronale». E che – «nulla di nuovo sotto il sole» (una massima davvero paralizzante per me) – importante non sia scommettere, fare, rifiutare di fare, ecc., ma « non vivere di illusioni, evitando possibilmente quelle più perniciose […] perché le illusioni sono quelle che hanno permesso lo scempio nel progetto dell’Europa Unita, dando da credere che i più ricchi avrebbero dato ai più poveri!!!».
    Su questo terreno non riesco a seguirti. Non mi pare che le illusioni abbiano tanto peso nei processi politici reali. Non considero quelli « che ancora credono di potersi liberare dai gioghi senza sapere da chi sono guidati» dei semplici «mentecatti», ma, se proprio, dei *coatti* per assenza di prospettiva politica, per assenza di un ‘noi’ davvero autorevole.
    Perché, in effetti, il ‘noi’ dei poeti che qui si cerca di delineare parlando di poesia esodante è ancora squinternato, sfilacciato (siamo in quattro o cinque a commentare con un certo impegno e si fatica a dialogare!) e, appena si affaccia all’orizzonte il nuvolone ingarbugliato delle questioni di strategia politica (Europa, Germania, Grecia, Russia, Israele, etc.), è un fuggi fuggi, un balbettare, un ritrarsi a riccio in qualche Fede o Convinzione profonda.
    O, permettimi la battuta un ripiegamento che, sia pur angosciosamente, dovrebbe «tenere assieme bellezza e orrore» ( e io non riesco a capire perché mai, a meno di non rassegnarsi appunto al mondo com’è, cioè bello e orrido assieme). O ancora a puntare tutto sul «colore dell’eternità», ossia semplicemente e solo sul *bello*, come scrive Czeslaw Milosz. O, infine, sulla «spiritualità e se vogliamo anche la sacralità dell’arte » (Banfi) o sulla «verginità» da restituire alle parole “ manomesse”. E a me queste soluzioni proprio non vanno.

  22. …entrando un po’ nel dibattito, ritorno sul concetto “Noi” cetomedio” di G. La Grassa, che, secondo l’autore, sembra delineare una condizione di persone in possibile movimento dallo stallo sociale in cui sprofondiamo: da una parte non sono tra gli “sfruttatori”, non sono neppure interamente tra gli “sfruttati”, certamente tra i manipolati, come lo siamo tutti, ma con qualche strumento per una acquisizione di consapevolezza…I più poveri in realtà, un tempo proletariato contadino ed operaio, oggi giovani disoccupati, chi perde il lavoro, i migranti , sono travolti dalla necessità di dover affrontare i bisogni contingenti di sopravvivenza e spesso dallo stesso mito consumistco, che vedono come traguardo desiderabile e non come causa di sventure…In mezzo ci sarebbe il “Noi” cetomedio” a raccogliere i cocci di un passato che non è tutto da buttare, di valori da recuperare, a cercare dentro al garbuglio un nuovo volto, non certo perchè migliore ma perchè in un certo qual senso “privilegiato”…Eppure penso che anche i più poveri, giovani e migranti, arrivano a dare il loro contributo di esodanti…poesie comparse sul blog lo dimostrano…Domande e dubbi si rincorrono…

  23. Nel testo di Luperini si trova: “Quanto sta accadendo oggi nel mondo – terrorismi contrapposti, guerre per il petrolio e per l’acqua, nuova precarietà della vita quotidiana dell’Occidente, spostamenti di masse umane e invasioni di popoli spinti dalla fame – richiede un nuovo sguardo planetario anche sul nostro stesso patrimonio culturale (…) La grande letteratura moderna non fa che rendere più evidente e radicale qualcosa che era percepibile anche nella letteratura antica e medievale: e cioè che il discorso letterario è sempre aperto, in fieri, e si realizza solo attraverso la collaborazione del lettore (…) Insomma il nuovo racconto della letteratura riguarda un significato da costruire, non qualcosa che è stato già costruito. D’altronde, per secoli, non è stato così anche per l’identità nazionale? Non è questa la differenza che separa il Petrarca della canzone All’Italia, il Machiavelli della conclusione del Principe, il Foscolo dei Sepolcri – tutte opere che preparano qualcosa che deve ancora realizzarsi – da Carducci, Pascoli e d’Annunzio che nelle loro poesie civili si sono ormai trasformati in vati retoricamente volti a esaltare qualcosa che già esisteva?”
    Mi pare un buon esempio di ragionamento fondato sul meccanismo dell’hysteron-proteron: proiettare sull’ordine temporale del passato una acquisizione che è venuta ad appartenere – per ragioni da indagare – solo al presente. E’ vero che Carducci ha collegato a sè poeta e politico Petrarca e Machiavelli, ma si può dare per scontato che qualcuno nel futuro collegherà noi? è pensabile una futura continuità? Luperini sembra scommettere su un futuro anteriore, Noi Cercatori del Presente saremo stati dei precursori o dei visionari.
    Una scommessa che non si può avallare semplicemente. E’ pensabile una continuità tra noi e il futuro? Il “fatto” che la cultura occidentale stia perdendo il suo ruolo che era dominante, culturale e materiale, per mille anni, non mi fa pensare a una continuità tra il nostro presente e il “nostro” futuro, ma se mai a un cambiamento come quello di cinque-seicento anni prima del mille.
    Annamaria Locatelli volge in senso positivo quanto ha scritto G. La Grassa: “All’ingrosso, sembra di poter dire che il fulcro della società, su cui meglio dobbiamo dipanare l’indagine, è quel vasto agglomerato denominato ceto medio o ceti medi. Questi non riguardano principalmente la sfera produttiva (…) ma dalla loro decantazione – che dovrà essere anche un ‘fatto teorico’ – sembra comunque probabile l’originarsi di una nuova realistica visione della struttura sociale”. E Annamaria con speranza scrive: “In mezzo (tra sfruttati e sfruttatori) ci sarebbe il ”Noi’ cetomedio’ a raccogliere i cocci di un passato che non è tutto da buttare, di valori da recuperare, a cercare dentro al garbuglio un nuovo volto, non certo perchè migliore ma perchè in un certo qual senso ‘privilegiato'”. Forse ha ragione, almeno nel breve periodo.
    La stessa positività concreta nella Replica 2.2 di Ennio Abate a Simonitto: “Sul ‘noi’. Davvero oggi è il punto più spinoso della nostra ricerca. Come dev’essere? Mi manterrei su un terreno variegato e che faccia riferimento ad esperienze individuali, generazionali e storiche. Per quanti hanno fatto – nel bene e nel male, travolti o appena sfiorati – l’ambivalente esperienza della trasformazione avvenuta in questo Paese dal dopoguerra ad oggi … A me pare che un nome magari provvisorio (come ‘Poliscritture’ o come ‘poesia esodante’, ad es.) bisogna pur darlo a questi tentativi di definire e definirsi”.
    Evitando un rischio di cortocircuito tra poesia esodante e discorso politico “perché, in effetti, il ‘noi’ dei poeti che qui si cerca di delineare parlando di poesia esodante è ancora squinternato, sfilacciato”.
    Restando sempre su un terreno concreto di progettualità futura (anche se io immagino scenari più lunghi, come vengono fatti nel discorso religioso e in alcuni femministi) credo che sarebbe interessante individuare tra i molti della poesia possibili consapevoli poeti esodanti.

  24. @ Ennio

    Mia madre mi insegnava che per fare una buona frittura (che fosse di pesce o di patate o di verdure impanate) bisognava mettere in padella poca quantità per volta e in tanto olio bollente; mentre la mia compulsione a fare presto mi avrebbe spinta a buttare dentro la pentola il massimo possibile della cosa da friggere.
    Se prendiamo i ‘temi’ di ‘realtà’, di ‘noi’ e di poesia ‘esodante’, ci accorgiamo che non sono soltanto spinosi ma anche molto complessi e, per quanto si voglia arrivare subito con il piatto pronto in tavola, ciò al momento non è possibile. Si creano imprevisti in una realtà che non è certo manovrabile da noi e che ci impongono di rivedere le nostre prospettive.

    **Realtà**
    Ennio scrive: *Eppure nel pensare ad una poesia esodante bisogna che teniamo conto della “realtà” e magari almeno un po’ di “realtà” deve entrarci nel nostro modo di pensarla. E ci può entrare – purtroppo per i più pretenziosi, necessariamente per chi ragiona ( e cioè seleziona e non se ne fa invadere totalmente, come capita ai folli, credo) – solo come forma. E la forma – diciamocelo – è un po’ gabbia, da accettare consapevolmente.*
    Certamente. Sono d’accordo. Con una precisazione. E’ vero che la forma *è un po’ gabbia* ma solo se questo lo vediamo in termini statici. Se lo vediamo in termini ‘dinamici’, ovvero come espressione di relazioni (un po’ come quando si parla di ‘forme capitalistiche’) vediamo che qualche apertura alla gabbia c’è. E nella realtà è importante ‘vedere’ quelle aperture, anche se non sono presenti nel campo visivo. La poesia, con la sua capacità immaginativa, può rappresentare un buon ausilio: è che essa è imprigionata in ben altre gabbie, la prima fra queste una continua svalutazione che di essa viene fatta, complici anche i poeti stessi che confondono la frustrazione per non trovare audience nel pubblico con l’inutilità della poesia.

    ***Noi***
    Scrive Ennio: * Davvero oggi è il punto più spinoso della nostra ricerca. Come dev’essere? Mi manterrei su un terreno variegato e che faccia riferimento ad esperienze individuali, generazionale e storiche.
    Ma come dev’essere allora? E qui siamo tutti per forze di cosa vaghi o meglio prudenti.*
    Partiamo dall’esperienza: così come la costituzione dell’io risponde ad un processo lungo, tortuoso e faticoso (ma anche gratificante), la stessa cosa avviene per la costruzione del ‘noi’ che risponde, anche lì, ad un processo relazionale. Perché nella costituzione dell’io c’è un continuo passaggio dal me all’altro, un continuo incrocio di proiezioni e introiezioni.
    C’è un ‘noi’ in Poliscritture, che mostra di ‘tenere’ anche attraverso rocambolesche avventure, e ciò nonostante i vari ‘io’ di questo ‘noi’ mantengono la loro individualità.
    Ma si tratta di un ‘noi’ particolare, che si è aggregato su un compito, diciamo, quello della poesia, e pertanto con delle motivazioni abbastanza ‘specifiche’. Ora, quel ‘noi’ può essere trasformato in un ‘noi’ politico?
    Infatti, riferendoti a me, scrivi: * Quando, infatti, scendi sul piano dell’esemplificazione politica commentando il testo di Pandolfi proposto da Fischer, il discorso sul ‘noi’ a mio parere evapora o si fa più impreciso e umorale. Di quale ‘noi’ parli quando ti sposti bruscamente sul terreno politico generale?*
    Quindi tu stesso recepisci una difficoltà, un inceppo a trasferire un discorso da un ‘noi’ ad un altro ‘noi’! Questo ti dice che ci sono tanti ‘noi’ che non si sa come ‘legare’.
    Una volta c’erano le ideologie (istituzioni, partiti o chiese che fossero) a gestire questo. Oggi è più difficile, per lo meno ad un certo livello.
    Per queste ragioni, mi va bene, come dici tu, che *un nome magari provvisorio (come ‘Poliscritture’ o come ‘poesia esodante’, ad es.) bisogna pur darlo a questi tentativi di definire e definirsi* [personalmente preferirei Poliscritture. Su ‘poesia esodante’ devono essere fatti ancora tanti pensieri. E’ un campo, giustamente, aperto!]. O, perlomeno, rappresentare un punto di riferimento.

    **Bellezza e orrore**
    Anche qui, come per il discorso della forma che si adatta al disordine, bisognerà procedere per piccoli passi. In fondo siamo in un blog e non in un convegno.
    Non si tratta di affermare che, come si può supporre, ‘ bello e brutto’ possono anche stare assieme, oppure, più banalmente, ‘dopo la pioggia viene il sereno’.
    Mi riferisco a stati emotivi molto forti inerenti a queste due ‘passioni antitetiche’ che sono radicate nel nostro profondo ancestrale, non sempre accessibili e che però smuovono sentimenti altrettanto forti di fascino e di terrore. E che, soprattutto, non sono eliminabili così facilmente con una battuta.
    Ma non perché dobbiamo ridare la verginità alle parole, quanto dare il significato che loro compete, dotarle di una storia. E ciò è importantissimo in un periodo di grandi trasmigrazioni, ovvero fornire i pilastri della propria identità perché altrimenti ogni confronto è impossibile. La scuola, al sapere “leggere, scrivere, fare di conto” ha aggiunto la “capacità di esprimersi” e dove questa ‘capacità’ significa ‘saper parlare’, anche se si tratta di strafalcioni, chi se ne importa, tanto ‘verba volant’ (la ‘manomissione delle parole’ di cui parla Carofiglio). Non che ‘scripta manent’ abbia seguito un percorso diverso, ma oggi chi scrive più? Tutt’al più ‘messaggia’.

    Dulcis in fundo.
    La poesia ci insegna che, a volte, le parole si chiamano tra di loro “quali colombe dal disìo chiamate” (Dante, Inferno, Canto V).
    E che poesia chiama poesia.
    A me è venuta in mente questa

    “Tutto ciò che trascorre
    rimane come impronta.
    Ciò che è inafferrabile
    si mostra qui come presenza.
    Ciò che è indefinibile
    ritrova qui la sua parola.
    Ciò che si fa eterno
    ci astrae qui dal mondo”. (Goethe, Faust, ultimo atto)

    R.S.

  25. Copincollo parte della mia risposta a Selly, mia nipote, trent’anni, che vuole iniziare a scrivere il suo primo romanzo:
    Philip K.Dick, lo scrittore di fantascienza, autore di Blade Runner, così scrive: “Se riesci a mettere in circolazione una quantità sufficiente di disinformazione, annulli i contatti di tutti con la realtà, probabilmente anche i tuoi”. Non aggiungo altro, ma è chiaro che siamo nella merda. Bisogna quindi ritrovare contatto con la realtà. Questo non vuol dire fare riti propiziatori al Diluvio, sia chiaro (Nota: prima accennavo a sogni e premonizioni, temi del suo romanzo). Socialmente parlando, i ricercatori, di ogni specie e appartenenza, partono dal presupposto che cambiando l’individuo cambierà anche la società. Nel frattempo la Merkel conquista senza colpo ferire la compagnia aerea greca… dunque il nemico è nella Merkel? Ovviamente sì, ma per il fatto che la disinformazione s’è fatta informazione, sogni perversi e squilibrati sono diventati realtà. In altre parole, secondo me, si tratta di un errore tecnico, un incidente di percorso con conseguenze planetarie.
    Sai che io non credo in Dio, quindi nemmeno nel Diavolo. Però riconosco che fanno ormai parte della storia (sottosviluppata) del genere umano. Per prima cosa toglierei di mezzo questi due.

  26. SEGNALAZIONE

    COME ALTRI PARLANO DI POESIA OGGI. MARGINALITA’ BUONA O CATTIVA? BOTTA E RISPOSTA.

    Giorgio Mascitelli

    Insomma potrebbe succedere che alcuni canali artigianali di circolazione della poesia vengano visti a un certo punto da una parte del pubblico come i luoghi di verità perché solo lì circolano quelle domande sul senso, che sono alla base dell’esperienza artistica. Per rendere realizzabile un’ipotesi del genere occorre, però, che la poesia accetti a pieno il proprio status di paria sociale e non cerchi di nasconderlo tramite giochi di prestigio mediatici o accademici. Ogni parola di verità o di senso, se si preferisce, può venire soltanto da chi non si fa illusioni circa la propria condizione ( sociale, perché su altre condizioni personali bisogna ammettere che può essere più complicato smettere di nutrire illusioni su di sé).
    Nella società attuale il vecchio proverbio medievale homo sine pecunia imago mortis rappresenta la mentalità dominante amplificata dall’apparato mediatico con l’aggravante che oggi ai tabù dei discorsi sul sesso si è sostituito quello dei discorsi sulla morte. E nel suo biglietto da visita ogni poeta, in quanto poeta, porta scritto questo proverbio. E’ da qui che la poesia può cominciare a parlare in maniera sensata lontano dal non senso dell’estetica del profitto; poi naturalmente servono belle poesie, ma questo mi sembra superfluo aggiungerlo.

    Renata

    Eppure a me sembra che di poesia veramente strana, libera, storta, deviata (per parafrasare Adorno), non se ne faccia tanta quanta il suo tasso di impresentabilità sociale parrebbe consentire. Certo, come ben dici tu, in una situazione in cui non c’è orizzonte condiviso e tutto è possibile, tutto diventa normale, anzi normalizzato, e va a far valere la “libertà d’artista”, o la novità di ognuno, o il dirlo obliquo, in questa bolgia. Ma ci sono tanti modi per farlo strano (alcuni anche con una loro tradizione e non necessariamente implicanti il denudamento alla Ginsberg o la combustione alla Mendieta). Mi sono posta il problema in molte occasioni. Perché i poeti non approfittano della loro irrilevanza? Del loro non aver nulla da perdere? Si tratta di volontà più o meno inconsce di evitare ogni estetizzazione, di rimanere sobri, di non cedere a collusioni con il rumore bianco in cui siamo immersi, di non lasciarsi andare all’art pour l’art, il gioco delle pure forme ecc.? Volontà di incarnare l’ultimo avamposto di senso, di integrità, di verità, di comunicazione pura al di là dell’impero della comunicazione di massa, di espressione autentica, ecc.? O non è questa stessa trafila di buoni propositi un segno di cedimento all’estetica del successo? Non si tratta forse di interiorizzazione della propria marginalità e di tentativo di fare branding di quel che rimane (residuati di aura, culto del viandante illuminato, denuncia civile, circolo chic ecc.)? Quando non, addirittura, di cannibalizzare la marginalità (propria o altrui) a fini di, chiamiamolo, ‘intrattenimento’? Mi pare che nel vastissimo territorio di inascolto (da parte del ‘pubblico’, dell’informazione, degli intellettuali, dell’accademia allo stesso modo – sfido a contare i corsi monografici sulla poesia che si sono tenuti quest’anno in Italia: io dico una manciata) in cui si aggira la poesia, chi la scrive non si senta poi così ‘libero’, insomma. Nel nulla nessuno si sente a suo agio, a quanto pare

    (da http://www.nazioneindiana.com/2015/06/02/note-in-margine-al-manifesto-piu-breve-del-mondo/)

  27. L’idea di poesia di Mascitelli e di Renata mi appare complessivamente piuttosto misera.
    Per Mascitelli può accadere “che alcuni canali artigianali di circolazione della poesia vengano visti a un certo punto da una parte del pubblico come i luoghi di verità perché solo lì circolano quelle domande sul senso, che sono alla base  dell’esperienza artistica” , parrebbe che sia la marginalità di per sé ad assicurare la produzione di verità e di senso.
    Renata considera però che spesso poeti “non così liberi”, si rivelino subalterni a un'”estetica del successo” interiorizzando la marginalità e facendone un branding.
    Ma nell’idea di poesia esodante per me è implicata una forte presa conoscitiva sulla realtà, l’epifania di cui scrive oggi Mayoor: “a ben vedere io NON sto dalla parte degli umili, dei poveri, degli emarginati: io SONO umile, povero, emarginato. Non parlo di loro, SONO uno di loro” e non dice affatto: sono un poeta emarginato!
    E una pretesa di lettura sul mondo in Rita Simonitto il 23 agosto alle 16.26: “Non si tratta di affermare che, come si può supporre, ‘ bello e brutto’ possono anche stare assieme, oppure, più banalmente, ‘dopo la pioggia viene il sereno’.
    Mi riferisco a stati emotivi molto forti inerenti a queste due ‘passioni antitetiche’ che sono radicate nel nostro profondo ancestrale, non sempre accessibili e che però smuovono sentimenti altrettanto forti di fascino e di terrore. E che, soprattutto, non sono eliminabili così facilmente con una battuta.
    Ma non perché dobbiamo ridare la verginità alle parole, quanto dare il significato che loro compete, dotarle di una storia. E ciò è importantissimo in un periodo di grandi trasmigrazioni, ovvero fornire i pilastri della propria identità perché altrimenti ogni confronto è impossibile.”

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