Modelli energetici e conflitti internazionali

 Una analisi ecologista oltre i luoghi comuni del mediatico quotidiano

di Luca Chiarei e Mario Agostinelli

Questa mia intervista a Mario Agostinelli, dal 2011, presidente dell’Associazione Energia Felice (http://www.energiafelice.it/) associata all’ARCI  al servizio della conversione ecologica, è stata  raccolta nel febbraio 2016. Non può perciò tener conto degli ultimi sviluppi della storia contemporanea: da una parte l’elezione di Trump e la sua dichiarata volontà di  rovesciare gli accordi di Parigi sul clima, sottoscritti dalla precedente amministrazione Obama; dall’altra l’acuirsi delle tensioni internazionali con il ventilato ricorso all’arma nucleare nel confronto tra Corea del Nord  e gli USA. Tuttavia  una serie di questioni di fondo vi sono lucidamente affrontate e le idee espresse sono senz’altro meritevoli di discussione. [L. C.] 

 In questi anni il tuo impegno si è concentrato sulle questioni ambientali e energetiche che, dalla prima crisi petrolifera del 1973 passando per la rivoluzione iraniana e arrivando fino ad oggi sono diventate il fulcro della conflittualità internazionale. La green economy nel suo significato più ampio, istituzionale e di movimento, è una possibilità reale per una strategia di prevenzione dei conflitti? L’Italia come e dove si colloca in questo

Continuo a riflettere su una esperienza, anche sindacale, di politica industriale dove ho colto l’inadeguatezza di affrontare le politiche settoriali senza tener conto del modello energetico da cui dipendono. Noi siamo in una fase dell’evoluzione storica in cui i mutamenti del modello energetico comporteranno un cambio strutturale dell’economia, della politica, della cura della terra e dell’ambiente (l’ha colto molto bene l’enciclica del Papa nella quale si è ben compreso che la questione ambientale non è una azione morale, etica, ma un fatto costitutivo dell’esistenza. Si rivolge per questo a credenti e non credenti e rompe lo schema del volontarismo rispetto alla cura del futuro). In questo cambiamento così profondo scompariranno completamente alcuni dei centri della concentrazione finanziaria, economica e anche militare che hanno avuto come riferimento il possesso delle energie fossili, concentrate in luoghi precisi e accumulate in quei luoghi da milioni di anni di lavoro del sole. Noi ci siamo dimenticati, utilizzando le energie fossili, del fatto che usavamo una densità energetica sconosciuta in natura. Quella che è distribuita dal sole e tutto ciò che è legato al vivente sta in una finestra energetica molto, molto, ridotta. Invece noi oggi siamo in grado di consumare in un tempo rapidissimo un processo energetico per il quale sono stati necessari, per la sua formazione, milioni di anni. Pensiamo ad esempio alla fissione nucleare. Gli aspetti se si vuole di lungo tempo della distribuzione energetica vengono improvvisamente vulnerati e modificati dalla combustione, la parola chiave, di una densità energetica molto molto elevata. Naturalmente chi possiede questa densità energetica, costituita da petrolio, carbone, gas, è titolare di una potenzialità per sostituire il lavoro e produrre enormi trasformazioni a costi sicuramente inferiori a quelli che sono invece contemplati dalla rinnovabilità della natura. L’energia densa è in grado di creare un tempo artificiale rispetto al tempo naturale e di dare alle facoltà umane una potenza totalmente estranea alla loro natura. Perché questa lunga premessa? Perché avere a disposizione a prezzi non reali ma definiti dagli scambi, e quindi all’interno del mercato capitalistico, queste risorse è stato per tutta l’evoluzione dell’industria nel secolo della rivoluzione industriale un elemento chiave che non è stato pienamente colto. Questo elemento invece spiegava le ragioni delle espansioni coloniali: non si andava a prendere le colonie, come ci si racconta, per le spezie. Sì andavano a prendere in quei territori perché c’erano grandi giacimenti che potevano essere scambiati con i prodotti finiti. La novità straordinaria è che oggi la tecnologia, quindi non uno sguardo indietro nella storia ma in avanti, e la più grande trasformazione della fisica, quella einsteniana e quella quantistica, consentono di procurare direttamente energia utile e al più alto livello: da quella elettrica alla termica, senza avere bisogno di combustione, trasporto, una centralizzazione e una ulteriore distribuzione. In ogni luogo della terra la somma di vento acqua e sole come mix di energia è praticamente equivalente. Quindi in ogni luogo della terra si può ricorrere non all’estrazione con il possesso sancito dai confini, ma alla fruizione delle energie naturali. Questo comporta un decentramento delle fonti, una trasformazione delle fonti in beni comuni non commerciali e naturalmente la possibilità di uno scambio cooperativo per riprendere il controllo dell’energia al di là del valore economico dello scambio. Allora non c’è più bisogno di accaparramento e di guerra in questo modello. In Africa il sole arriva dovunque… La svolta è a portata di mano ed è urgente, perché la combustione comporta un cambiamento così profondo nel clima da mettere in discussione la sopravvivenza.

Dunque mi stai dicendo che la green economy è una delle strategie per la

Sicuramente l’economia delle fonti rinnovabili, con tutto quello che comporta anche nel cambiamento del consumo e della distribuzione (tutti i concerti del chilometro zero e tutti gli aspetti che si collegano anche alle questioni organizzative), porta a non dovere più esercitare rapporti di potere per la conquista della produzione di energia. E’ una energia di pace. Il culmine del processo precedente è stata l’energia nucleare, cioè il massimo della concentrazione che consisteva nella possibilità di costruire dei reattori e come scarto alimentava addirittura le stesse bombe con cui si manteneva la supremazia. Questo collegamento energia-guerra con le rinnovabili e con l’economia verde viene meno. Questo se vuoi è il fatto più straordinario ma anche quello più conflittuale. Oggi le multinazionali, quelle che guidano i processi, reagiscono per la conservazione del modello precedente. Il nostro governo sta naturalmente dalla parte della concentrazione, mentre il referendum No Triv chiarisce che non c’è bisogno di andare a rovinare il mare se non per alimentare un sistema di concentrazione e di distribuzione del gas. Non è un caso che il governo punti sul fatto che noi dovremmo diventare una sorta di sito di interscambio del gase si rifanno i gassificatori e le trivelle, per soddisfare il bisogno di una economia concentrata. L’ultima cosa che volevo dire in questo quadro riguarda il fatto che la transizione richiederà ovviamente ancora tempo. Non puoi trasformare in poco tempo un sistema così potente, dove ci sono tra l’altro il 47% di tutti i derivati nel settore energetico. Per poterlo fare il conflitto deve essere un conflitto che coinvolge le popolazioni del mondo che non hanno più rappresentanza. In questa prospettiva dello scontro ci sono stati due eventi molto rilevanti: da una parte l’enciclica del Papa, che piomba su cop21; dall’altra un accordo come quello di cop21 avanzato sul piano delle dichiarazioni ma non dal punto di vista dei vincoli: non è un accordo giuridicamente rilevante. E’ Il riconoscimento della necessità di decarbonizzare, di cambiare il sistema, perché l’hanno fatto in 196 paesi che non potevano sottrarsi, ma immediatamente dopo si riunisce il club di Davos dove vanno tutti e tutte le tempistiche vengono spostate. Poichè siamo in crisi decidono che dobbiamo andare per la riduzione della combustione al di là dei tempi e obiettivi fissati per il  

In questo senso cosa pensi della scomparsa totale dai mass-media dei temi di cop21?

È impressionante che a Parigi ci sia stata la più grande concentrazione di rappresentanti istituzionali mai avvenuta in tutta la storia del pianeta. Una cosa analoga era avvenuta a Pechino in occasione della riunione sulle donne. Da questo punto di vista, della rappresentazione istituzionale politica e sociale del potere, è stato estremamente rilevante. Pensiamo che a Kyoto erano presenti la metà dei paesi… La pressione a mio giudizio più elevata è stata fatta, in maniera estremamente lucida ‒e lo devo riconoscere da laico ‒ da parte del Papa, che è andato al Congresso. E’ stata invece abbastanza al di sotto la pressione dei movimenti, che infatti sono in crisi. Da una parte si mobilitano sulla questione locale delle trivelle, dall’altra non sono riusciti ad organizzare una manifestazione a Parigi nel momento in cui gli è stata proibita. La cop 21 ha registrato degli aspetti che saranno rilevanti solo nel momento in cui ci sarà una pressione popolare, cosa che al momento purtroppo non è all’orizzonte. I detentori del potere che sono andati a cop21 fanno di tutto perché questo non avvenga, e pertanto ora l’hanno fatta sparire dai media. Sui media si parla di tutto quello che fa il governo, dell’Isis e della guerra ma non si affronta la questione che ci sta dietro. Dunque cop21 non ha un valore giuridico vincolante, allontana i tempi del picco del petrolio e allontana al 2023 i tempi della decarbonizzazione. Questo vuol dire che da qui al 2023 può succedere di tutto facendo ancora una volta prevalere la crisi economica sulla crisi ambientale e per me questo è pazzesco. Assume l’aspetto volontario delle dichiarazioni dei singoli paesi come il massimo contributo per la riduzione della CO2 sulla base di una specie di disponibilità a ridurre le emissioni entro certi contesti e livelli. Sostanzialmente l’accordo è un accordo inadeguato: la Banca Mondiale ha pubblicato il riassunto di questo sforzo e dice che si arriverà a 3 gradi e mezzo a fine secolo e quindi l’obiettivo di 1,5 non c’è. L’unico aspetto, se si vuole innovativo, riguarda il fatto che di vincolante c’è un meccanismo che chiamano di cricchetto, una traduzione dall’inglese forse non corretta che esprime il concetto della catena della bicicletta che non torna indietro. In pratica tu denunci una riduzione e sali su una scala con il vincolo a ridurre di più che ti viene assegnato, poi sali su un’altra scala e questo così avanti fino al 2050. Quindi la volontarietà e l’allontanamento del picco in parte potrebbero essere corretti da questo meccanismo. Esempio: voi del Suriname non avete fatto questo e allora dovete fare questo entro una certa data. Questo insieme con dei meccanismi verificabili con i quali si possono valutare una serie di fatti. Sono tutti fatti per i quali si usa molto di più will che share e senza una pressione popolare ne condizioni il giudizio, di una grande potenzialità ma anche di una grande mistificazione. Su questo punto c’è conflitto tra i governi ed i popoli, tra l’economia presente quella di transizione, la salvezza del pianeta e il

La redazione di Poliscritture ha affermato in premessa al n. 12 cartaceo che «le guerre sono diventate “una caratteristica strutturale dell’ordine globale”. Sappiamo che studiare “il pensiero strategico contemporaneo, in massima parte americano”, non significa condividerlo, farlo proprio. Anzi conoscerlo, è il modo migliore per combatterlo». Ti senti di condividere questa premessa? Come ti spieghi la scomparsa pressoché totale di un ampio movimento per la pace di massa come abbiamo conosciuto negli anni ’80?

Credo che la sconfitta dei movimenti per la pace non avvenga mai nel profondo. La Talpa, intesa anche in senso marxiano, continua a scavare. Si è perso però nella dimensione della crisi il prezzo da pagare alla guerra, questo è il fatto. La guerra viene considerata come una spesa risolutiva per la stabilizzazione e la ripresa, questo è il meccanismo infernale che è passato. Cioè i governi ma anche la gente in giro giustificano le barriere agli immigrati, giustificano i bombardamenti, giustificano le azioni feroci nei confronti degli immigrati in quanto sono una spesa che dà la possibilità di andare oltre la crisi. Spendo questi soldi, bombardo, moralmente verrò catalogato negativamente, magari avrò problemi con i miei figli ma alla fine funziona… Insomma credo che quello che la gente pensa è che un po’ di schifo lo si deve agire. Non possiamo ritenere che Salvini sia una persona che pensa al futuro ed è questa la novità: tra il presente ed il futuro non c’è la speranza del cambiamento ma l’idea che la guerra risolva i nostri problemi. È stato così anche tra le due guerre e questo deve molto preoccupare. La mancanza di informazione e di percezione di quelli che sono i problemi reali non costruisce futuro. Il primo problema è quello dell’integrazione in uno spazio mondiale della vita reale delle persone e delle culture. Se pensiamo al calo delle nascite che abbiamo noi in Occidente e all’esplosione che accade dall’altra parte, quello dell’emigrazione è uno dei pochi problemi che si possono ricomporre. Se pensiamo ai 4 milioni di individui in meno che abbiamo avuto negli ultimi 20 anni in Europa veramente non si capisce quale sia il problema. Quello che non si comprende è che l’apprendimento di professioni, di cultura, di organizzazione da parte degli immigrati è un incentivo al ritorno nei loro paesi. Non ritengo sia vero che dobbiamo andare nei loro paesi ad insegnargli. La mia esperienza è che quelli che vengono qui imparano e poi ritornano e quando tornano costruiscono. Tornando sulle guerre, quanto appena detto deve preoccupare e allarmare in modo enorme, in quanto ormai è la terza/quarta volta che si parla di possibilità di uso del nucleare. Lo fa l’Isis dicendo che può fare la bomba, lo fa Israele, lo fa la Russia, lo fanno anche gli americani, aumentando l’allerta complessiva di questo sistema. Da questo punto di vista siamo tornati al punto di precarietà che sussisteva tra le due guerre. Basterebbe un colpo di testa di uno di questi due vettori di potenza e allo stesso tempo di irrazionalità: pensiamo ad elementi come l’etnia, la religione o la semplice voglia di dominare che possono rompere gli equilibri. Adesso però ci troviamo di fronte a guerre quasi sempre esclusivamente combattute per la penuria di energia. Noi continuiamo a pensare all’aspetto della CO2 e continuiamo a sottovalutare che le fonti fossili, al consumo attuale, le stiamo esaurendo. Quindi gli arabi hanno messo 1200 miliardi per potere tenere basso il prezzo del petrolio e lo hanno fatto per mettere in difficoltà gli investimenti del Gas, ma adesso il petrolio ricomincia a salire. Sono meccanismi così complessi e il punto di fondo è che le guerre, al di là di ogni mistificazione sulla diffusione della democrazia e sul fatto che alcuni aspetti della religione sono atroci (come peraltro è stato anche nella nostra), si combattono per la penuria delle fonti fossili, che sarebbe rotta dalla possibilità di sostituirle con il solare. La penuria di alcuni elementi essenziali come, mi sembra, il clima e l’acqua è all’origine dello scontro geopolitico. Non è più uno scontro geopolitico tradizionale, però i concetti a cui lo puoi riportare sono i due o tre concetti di sempre.

Il dramma dei rifugiati è stato usato emotivamente per alimentare nelle politiche dei paesi europei reazioni xenofobe, paure e timori a volte ancestrali, nell’opinione pubblica. Quale messaggio, anche a livello emotivo, è possibile attivare a “sinistra” affinchè questo inevitabile fenomeno attivi una solidarietà razionale che è nell’interesse degli stessi paesi coinvolti dai flussi?

A mio parere il rifugiato non è distinguibile appropriatamente tra quello politico e quello economico. Sono tutti sostanzialmente immigrati ambientali, rifugiati ambientali, questo è quello che io penso. All’origine delle espulsioni e delle guerre c’è il degrado ambientale, che noi abbiamo provocato, che porta le loro terre a non essere più fertili. Penso al Mali, alla Siria, alla desertificazione di tutta l’area del Marocco, a quello che succede in Libia. Il problema principale non è il petrolio, come continuano a dire, ma l’acqua. In Libia c’è il più grande giacimento di quasi tutta l’area mediterraneo pre-sahariana. Si tratta di un enorme giacimento sotterraneo che, appena finita la guerra, ha visto l’arrivo della Siemens e della Deutsche Bank. Esse hanno costruito una rete di pompaggio che porta l’acqua negli orti nelle fabbriche ecc…, in modo che questi avessero la rete idrica tedesca. Naturalmente quando l’acqua diventa di proprietà ‒ con Gheddafi non lo era ‒ chi è lì o scappa o spara. Dentro questo c’è ovviamente il fenomeno religioso dell’Isis, che però è un po’ più complicato di quanto ci raccontano. Non dimentichiamoci dello scontro di tipo religioso e terroristico, come nel Kosovo dove avevamo ortodossi contro cristiani e musulmani, e anche lì praticavano lo sgozzamento e le bombe. La componente religiosa è senz’altro importante ma non è la componente fondamentale. Il cambio di modalità di consumo e di produzione energetica favorisce la pace. Le energie alternative derivanti dall’energia solare sono invece energie di pace.

Non posso non collegarmi alla tua esperienza sindacale per chiederti se oggi è ancora pensabile che le Organizzazioni sindacali, e la CGIL in particolare, possano essere un veicolo di solidarietà internazionale nei conflitti contemporanei, oppure la dimensione locale e nazionale è ormai quella prevalente e la politica sindacale non può prescinderne?

Per quanto riguarda la mia esperienza sindacale c’è stata tutta una fase che ho vissuto, anche come segretario regionale della Cgil, in cui il rapporto tra i movimenti e la Cgil, ma anche Cisl e Uil, in Lombardia era un rapporto di autentica contaminazione politica e culturale. Non reggeva la separazione della difesa del diritto al lavoro dalla difesa del contesto e dalla prospettiva generale della società. Oggi mi sembra che il sindacato abbia una natura più corporativa di prima, nel senso che ognuno si occupa della sua categoria, c’è meno confederalità e c’è soprattutto uno sguardo poco lungimirante su questi temi e sul futuro in generale. A me colpisce molto che ad esempio su cop21 il sindacato non abbia detto nemmeno una parola. Non so nemmeno se avesse lì delle delegazioni, non vengono prodotte delle iniziative e nei luoghi dove mi trovo a discutere e confrontarmi il sindacato non c’è mai. Ci sono incontri di amministratori locali che parlano di accoglienza agli immigrati, di come preservare l’ambiente e raramente vedo rappresentanti sindacali. Penso ad una riunione che si è tenuta recentemente qui nel contesto dove abito, una riunione su questi temi con circa 200 amministratori della zona e non era presente nessun sindacalista a porre il tema del lavoro. Io credo invece che la Cgil in particolare debba coltivare subito un’idea che se occorre lottare per il clima occorre cambiare le filiere della produzione e modificare le caratteristiche dei prodotti. E’ un compito straordinario che comporta dei riflessi sulla occupazione, sulla organizzazione del lavoro e sui tempi di lavoro. Facessi ancora parte del sindacato troverei che c’è uno spazio enorme nella politica industriale e nella politica dei servizi orientati al cambio di paradigma sia energetico che ambientale che mai come oggi sono oltre che urgenti, praticabili e forieri di alta occupazione. Ad esempio dal mio punto di vista un passaggio da affrontare è il problema dell’orario di lavoro. Non puoi avere una produttività per singolo così elevata con i robot e con le macchine e un consumo energetico sempre crescente e contemporaneamente un orario di lavoro che cresce sempre di più. Con il supporto dei lavoratori bisogna cambiare questo modello di organizzazione. Non si può dare al padrone due cose convergenti come la saturazione dei tempi del lavoratore e l’allungamento dell’orario perché in un minuto un operaio fa 30 volte quello che faceva prima. Giacché che il lavoro è un prodotto dato dall’energia per il tempo, o riduco l’energia o riduco il tempo. Credo pertanto che la politica sindacale non possa prescindere dal contesto di cui abbiamo parlato. Non è che nel sindacato ci dev’essere l’ambientalista ma qualcuno che dice che siamo di fronte ad una nuova era, che qualcuno chiama 4.0 come i manager e gli industriali, da rinominare anche noi magari in un altro modo. Capiamo che cosa significa questa era per i lavoratori e contrattiamola. Ho l’impressione che su questi temi anche molti bravi compagni non ci siano e questo è un errore perché quello che in questo contesto si deve trovare è uno sbocco non difensivo.

1 pensiero su “Modelli energetici e conflitti internazionali

  1. ….colpisce molto l’intervista che Luca Chiarei rivolge a M. Agostinelli per l’emergervi in termini concreti di una tematica pesantissima: la ormai dubbia possibilità che ha l’essere umano, e non solo, di sopravvivere nel suo stesso pianeta, essendo arrivati ad un punto di devastazione ambientale che si teme di non ritorno…Solo un cambiamento radicale di rotta circa le fonti di energia che la società industrializzata utilizza al massimo, passando dalle fonti di energia combustibili, compresa quella nucleare, a quelle rinnovabili e rispettose della natura può ancora offrire “un fatto costitutivo per l’esistenza” (M. Agostinelli) e non solo una speranza, un vago atto di fede…L'”urgenza” di accaparrarsi le prime, infatti, ha scatenato una lotta ormai decennale e globale da parte delle potenze, costi quel che costi in termini di vite umane…Vittime risultano sia le migliaia di persone che abitano nei territori contesi da guerre sanguinose con armi sempre più micidiali, sia quelle dei paesi che solo apparentemente ne beneficiano, in realtà contaminate da inquinamento ambientale e da un cambiamento climatico che colpisce anche la biodiversità, la più indifesa e innocente, insieme ai bambini, di tanto orrore…Nessuno trae reale giovamento dalla distruzione del pianeta e delle tante specie viventi , compresa la nostra, ma le leggi ferree del capitalismo calpestano ogni cosa, ogni forma di buon senso, la vita non vale il profitto e il potere…Qualsiasi iniziativa di contrasto risulta ben poco efficace , come già la recente dichiarazione cop. 21 nella conferenza di Parigi per la riduzione dei gas serra, approvata e, ormai da molte voci, inascoltata …gli stessi movimenti per la pace hanno sempre meno voce in capitolo…per ultimo i mass-media in generale sembrano voler sorvolare e sottovalutare il problema…Circolano voci allarmanti sul futuro di tutti, ma sono come le grida manzoniane…

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