Il paesaggio reinventato

di Angelo Australi

Alcuni anni fa mi è capitato di andare per lavoro a Padova con il responsabile dell’Ufficio Ambiente del Comune di Fiesole. Si chiama Mario. Mario Cantini. Geometra Mario Cantini.

Il viaggio di andata, poiché siamo partiti alle sei del mattino, è stato livellato dai suoni e dalle voci alla radio nel paesaggio della pianura Padana, dal sonno e da interminabili file di auto e di camion incolonnate sul tratto appenninico Firenze-Bologna dell’autostrada del sole, al ritorno invece, nel parlare della nostra comune passione per la letteratura, siamo finiti a spiegare noi stessi. E’ davvero interessante raccontare se stessi, quando il clima è quello giusto sembra quasi che le parole si compongano musicalmente in un racconto. Per esempio, solo grazie a questo viaggio, nonostante ci conoscessimo per motivi di lavoro da un decennio, Mario aveva elaborato una capacità di parlarmi sfogliando le stratificazioni dei suoi ricordi in rapporto al paesaggio come si è trasformato nel tempo sulla collina di Fiesole. Questa sorta di enciclopedia vivente fra non molto – al tempo del nostro viaggio – sarebbe andato in pensione, ma proprio per questo il paesaggio a lui più familiare si presentava come un terreno dove riordinare situazioni su situazioni, avvenimenti su avvenimenti, per riuscire a scoprire una propria idea della vita, costruita in massima parte su lavoro e famiglia.

Alla prima impressione una conversazione del genere, fatta in auto, può apparire solo un insieme di elementi non amalgamabili nella colloquialità del viaggio, invece finì per rivelare una sorta di linea sottile capace di imparentare i vari passaggi all’immaginazione, era la linea di chi, avendo dato la stura, riusciva a riportare un succedersi di fatti legati al territorio, alla sua conoscenza lavorativa, partendo e tornando a se stesso in una circolarità impressionante.

Quando al ritorno lo ho riaccompagnato verso casa era ormai un tardo pomeriggio affogato nel sole prossimo a tramontare. Sulla strada che salendo da Firenze a San Domenico conduce a Fiesole, con brevi accenni delle dita appoggiate al vetro della macchina Mario è riuscito a farmi vivere il senso di bellezza del paesaggio che si affacciava prospetticamente sopra di noi. Come individuo lui si stava cancellando in questa capacità di raccontare. Non sentivo neanche il bisogno di accostare l’auto al margine della strada, riuscivo a seguire benissimo, le sue parole mi entravano dentro anche con i più piccoli dettagli. Luci e colori accentuati nel contrasto netto con l’ombra degli alberi o smorzati dal bagliore del sole sugli occhi, mi facevano comunque recepire fino alla più sottile e anonima punta di un cipresso. Era come se stessi leggendo un libro, assorto in poltrona. Mario ha cercato di farmi notare le poche modifiche urbanistiche subite negli ultimi quarant’anni da quel tipico paesaggio della collina che sovrasta Firenze. Otto, massimo dieci nuove costruzioni, rispetto ad altri scempi ben più evidenti, e tutte che sentono di inserirsi nel contesto paesaggistico. In sostanza, grazie a questo suo modo di raccontare, stavo guardando il paesaggio anche con gli occhi di un visitatore che saliva da Firenze verso Fiesole negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, e tutto questo senza distrarmi dalla guida.

In questo incipit spero di essere riuscito a farvi comprendere come a volte l’arte di raccontare possa esistere anche in individui che riescono a trasmetterti oralmente gli elementi di una storia, quanto di artigiano poi possa esistere in un narratore vero, che si esprime scrivendo. Mi viene in mente “Il viaggiatore incantato” di Nikolaj Leskov, ed il bel saggio di Walter Benjamin. “ La narrazione, come fiorisce nell’ambito del mestiere – contadino, marittimo e poi cittadino -, è anch’essa una forma in qualche modo artigianale di comunicazione. Essa non mira a trasmettere il puro << in sé >> dell’accaduto, come un’informazione o un rapporto; ma cala il fatto nella vita del relatore, e ritorna ad attingerlo da essa. Così il racconto reca il segno del narratore come una tazza quello del vasaio …”

Il paesaggio che ho provato a scorgere successivamente alla chiacchierata in auto con Mario, non sembrava più lo stesso di quel giorno. Lui ormai era tornato nel suo mondo di delibere e di atti, io in quello dei tanti rifiuti prodotti dai residenti nel comune, da riciclare e/o smaltire. Vivevano nella mente frasi, anche gruppi di sole parole sopra quegli stessi scorci. Il paesaggio era già stato reinventato dentro di me, con altre aspettative finali, rispetto alla quotidianità dei problemi da gestire.

Forse se lego gli autori al paesaggio toscano non gli sto rendendo un buon servigio, eppure quello che voglio dire è che gli scrittori espressi da questa terra in qualche modo sono riusciti a viverne il succo, sono riusciti a ricondurlo ad un messaggio più propriamente universale. Non voglio affermare che Federico Tozzi non avrebbe potuto scrivere se fosse vissuto in un diverso contesto, in un diverso luogo, quando la scrittura è una necessità prepotente non può sentirsi trattenuta da niente e da nessuno, ma certamente la sua arte è molto più vicina di quanto si può pensare al luogo, allo spazio d’azione di cui è stato testimone. Ecco dove inizia e termina, a mio avviso, il carattere di una letteratura nei legami con la propria terra, non c’è da provare a spingersi oltre però, altrimenti finiremmo per rischiare di ridurre gli scrittori toscani a qualcosa di più piccolo rispetto all’importanza che hanno avuto nel panorama della letteratura italiana.

Tutt’oggi molti paesaggi tipicamente toscani sono in grado di sopportare un confronto con il passato ancora così evidente, palpabile, e tuttavia in questo adattamento sono destinati a vivere la moderna centrifugazione di emozioni della contemporaneità dove non è semplice ricondurre certe schegge di passato al proprio posto. Il paesaggio visto in questa chiave può tentare di essere il punto di unione tra diversi elementi della realtà, anche conflittuali, e siccome oggi siamo propensi a misurare la vita come una linea retta che ha un punto di inizio ed uno di fine, tutto quello che possiamo comprimere all’interno della traccia è l’insieme di quelle modifiche avvenute gradualmente in una cultura di origine contadina trasformatasi poi in cultura operaia e piccolo borghese, che già all’inizio del XX secolo si affacciava conflittualmente sulla scena, dimostrando molti limiti, e tante crepe. Questo non dà solo il là alla nostra vita quotidiana, ma è in grado di suggerire alcune riflessioni che aderiscono in senso storico alle trasformazioni avvenute nella società toscana, e conseguentemente a capire il motivo per cui oggi certi scrittori calati fortemente nel quotidiano finiscono per non avere l’attenzione, o i favori del mercato.

Alcuni scrittori italiani degni di essere messi a confronto con altre esperienze europee sono stati capaci di fare emergere, nel bisogno di recuperare una propria coscienza, i conflitti della società calandoli nella quotidianità. Con essi quindi il paesaggio non è solo diventato personaggio, è stato reso parte integrante di un tutto che condiziona la vita degli esseri umani, ha rispettato, amalgamando gli elementi di frattura e di simbiosi, tutte le aspettative di un’epoca appena iniziata evidenziando anche i sintomi di una futura decadenza. Questa importante intuizione è stata fatta nel periodo tra le due guerre mondiali del secolo scorso, da autori in parte toscani ed in parte formatisi nel contesto culturale fiorentino così fertile in quegli anni. Quello che fino a quel periodo non poteva considerarsi ancora tradizione del romanzo in Italia, finisce per nascere proprio in questo contesto, con una realtà contadina che, pur essendo immutata da secoli, iniziava a sgretolarsi, e dall’altra con il fascismo. E’ a Firenze che in quel periodo vivono Montale e Gadda, Ungaretti, Landolfi, Vittorini, tanto per fare dei nomi, ed è sempre a Firenze che in quel periodo si producono riviste come “Solaria”, da dove si riesce a gettare le basi di una letteratura nazionale riscoprendo autori come Svevo, Tozzi e, perché no, lo stesso Verga. Tozzi, Pea, Bilenchi e Pratolini, Tobino e Cassola, tra ermetismo, espressionismo e realismo esistenziale, sono quegli scrittori toscani che meglio riescono ad interpretare il proprio tempo, a raccontarci, con una scrittura originale e rigorosa, tutto quello che già iniziava a barcollare intorno a loro.

Il paesaggio in un contesto del genere, anche se non è l’unica prerogativa, contribuisce a tracciare il carattere di una letteratura, ne può rendere visibile il ritmo interiore che fa sentire l’anima delle cose e precisare il profilo della realtà anche geograficamente. Scrittori come Enrico Pea, ma soprattutto come Federico Tozzi e Romano Bilenchi, sono stati determinanti per la letteratura italiana del Novecento, e lo sono tutt’oggi per il semplice motivo che insegnano, grazie alla capacità di circoscrivere con sincerità un proprio spazio d’azione, a ricondurre tutti gli elementi della vita a simboli e metafore concretamente reali. Sono scrittori che hanno conquistato un posto importante nella letteratura italiana pur non avendo sacrificato niente del mondo reale da cui attingevano nel bisogno di trasferirci dentro le loro storie. Essi mantengono una sincerità di fondo che a volte, vista oggi fa paura, prima di tutto con se stessi, dal momento che la voglia di ricerca riesce a darsi una percezione di sensibilità anche nella produzione letteraria. Toccano infine corde universali, dove la loro terra a questo punto è geograficamente capace di esplodere, disintegrarsi e reinventare mille altri scorci di paesaggio in grado di tradurre le sensazioni emotive dei loro personaggi così umani.

A mio giudizio è Romano Bilenchi l’autore che riesce a raccontare in modo completo e complesso tutte le aspettative, i limiti, i sintomi evidenti di declino di una società che si portava appresso la cultura contadina da una parte, e dall’altra quella piccolo borghese che legittimava il fascismo, una cultura e un regime che per creare consenso faceva i primi tentativi di costruire un prodotto letterario ideologico, di larga diffusione popolare. Scrive Romano Bilenchi in “Vittorini a Firenze”: “… Elio era generoso e sapeva vivere anche attraverso gli altri. Apprezzava i miei racconti. Diceva che rappresentavano l’equivalente italiano di alcuni scrittori americani ed era importante che a quei risultati fossi arrivato da solo senza conoscere quegli scrittori, né volle allora farmeli leggere. Avevo preso una strada nuova e giusta: continuassi con le mie forze. Un pomeriggio Vittorini venne a prendermi per andare al caffè. Cominciavo a scrivere “Conservatorio di Santa Teresa”. Lo pregai di attendere un po’: volevo finire un periodo. Sul tavolo c’era un mucchietto di cartelle. Elio si mise a leggerle. – Ma questo è un racconto bellissimo – disse. – Cerco il romanzo – gli risposi: – Codesto era un inizio, poi ho preso un’altra strada -. – Qui ci sono novità importanti per te ed è un racconto concluso. C’è il paesaggio che prima in te non esisteva – … “ .

Il racconto di cui si parla in questo brano è “Anna e Bruno”. Vittorini ha proprio ragione, basta l’intensa descrizione iniziale del paesaggio intravisto dalla strada di campagna dove madre e figlio amano passeggiare per comprendere quanto ormai tutto ciò sarà indispensabile all’evolversi della storia nel loro rapporto affettivo, e nel racconto poi ne diventa elemento che ritorna come interpretazione accerchiante dei sentimenti di Bruno verso la madre, ne struttura il ritmo narrativo. Tutte le emozioni del ragazzo, a scandenze precise, verranno misurate intimamente con il ritorno a quel paesaggio. I fatti costringono Bruno ad una dolorosa maturazione, ma il paesaggio è sempre pronto ad accoglierlo e a darci una chiave di lettura di volta in volta diversa, ma mai rassicurante, rispetto ai sentimenti provati.

Siamo nel 1936. Romano Bilenchi, come scrive in “Amici”, in quel periodo cercava il romanzo, comunque nelle parole pronunciate da Elio Vittorini c’è tutto il senso della sua ricerca, della qualità di un lavoro e di un risultato raggiunto con le proprie forze. Il paesaggio poi nelle opere di Bilenchi è diventato quell’elemento da cui il racconto non può prescindere, e riesce a far risaltare con la sua scrittura asciutta, rigorosa, tutta la coerenza del suo stile che cerca di mantenere una credibilità autentica dei personaggi, immersi in un preciso contesto storico. Ecco perché lo ritengo uno dei più importanti scrittori italiani del ventesimo secolo. Le sue storie esprimono lo stesso malessere di una società che ritroviamo in altri scrittori della sua generazione, ma lui riesce a restare coerente nel ricondurle allo spazio da dove esse si sviluppano. Io lo trovo attualissimo, soprattutto se lo confrontiamo con quegli scrittori di oggi inadeguati a scrollarsi di dosso per pigrizia o peggio, per puro calcolo, la semplificazione dei contesti in cui una scrittura può tornare a vivere, crescere, sperimentare, fare insomma una coerente ricerca. In una società sempre più portata ad esasperare per immagini la contrapposizione lacerante tra il possibile e l’impossibile, per assurdo le storie raccontate sui libri dove deve sempre succedere qualcosa di eclatante e/o di scandaloso, sono sempre più conformiste e banalmente scontate. Si va sempre più incontro al lettore per fargli capire che sta gingillandosi con una materia che conosce bene, mentre il concetto di limite, di capire quando non è più possibile spingersi oltre, ha necessariamente bisogno di trovare un riscontro prima nella vita che sulla pagina scritta. La forza e l’attualità di Romano Bilenchi è tutta in questo rigoroso bisogno di scomparire come individuo, per dare alla sostanza dei suoi libri la possibilità di essere storie in grado di vivere autonomamente.

Attualmente la maggior parte degli scrittori italiani rifugge il confronto con i paesaggi della quotidianità, non so quanto per sottostare a precise leggi di mercato o semplicemente per incapacità di annullarsi nelle storie da scrivere, partendo con in mente già l’abbozzo di una sceneggiatura da trasportare in un film, che gli permetterà con costanza di essere presente nelle librerie, dove altrimenti un libro dopo pochi mesi è già vecchio. Aspettative modeste e un po’ provincialotte. Personalmente resto dell’opinione che i simboli che sorreggono la letteratura sono gli stessi da migliaia di anni, la scommessa è solo quella di reinventarli in un nuovo contesto, prima di tutto umano.

 

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