Da “La Notte delle Croci e delle Morti”

di Mauro Mazzucchelli e Danilo Oggionni

Mondiali di calcio 2006, concerto metal, festa, personaggi freak e borderline, attrazioni «animalesche e depravate», linguaggio «crudo e diretto» ( cazzo e figa a tutto spiano in numerose pagine), colpi di scena, un percorso che parrebbe di «discesa interiore» nell’animo del protagonista di nome Brando, «dialoghi alla Tarantino», «valzer di droghe, donne e sangue». Così i due giovani autori presentano questo loro romanzo…. Che sia lontanissimo dalla mia sensibilità non m’impedisce di segnalarlo su Poliscritture pubblicandone un capitolo. [E. A.]



capitolo 22

Ogni volta ci entro e sono con la faccia nella neve fresca, steso a terra. Fiocchi di neve mi si fermano sulle ciglia ed è notte. Vedo la notte da terra, orizzontale, la guancia destra sprofondata nella neve. Ma è una notte illuminata artificialmente. Con la coda dell’occhio vedo bagliori intermittenti, si muovono. Rumori elettrici e aspirati, un roboare sommesso ma immenso. Poi, come ogni volta, mi giro a pancia in su a fatica, cerco di torcermi infagottato in una giacca a vento ingombrante, la testa, avvolta in un cappuccio, sprofonda nella neve. Nel cielo si stagliano grattacieli immensi, come appendici di astronavi di cui riesco solo a immaginare le estremità e nel cielo, colore del cobalto più scuro, si intersecano a infiniti livelli mezzi di trasporto luminosi, visti da qui sotto sono solo strati ordinati di luci che volano, che si mischiano insieme a tutto il mosaico delle luci delle dei palazzi, così lontane che non si distinguono ma si perdono, formando come un tessuto cangiante che pulsa e vibra tra gli spettri cromatici di blu, rosso e giallo. Cerco di muovermi, ma è come se fossi schiacciato a terra. So che farò fatica a rialzarmi, ma ci riuscirò. I fiocchi cadono vorticando e danzando, si stagliano candidi sullo sfondo scuro del cielo. Sono miliardi, si fanno sempre più fini, ma la loro immagine non si sfalda, non si mischia. Per un attimo mi sembrano tutti delle piccole croci bianche che ruotano. Ognuno di essi è visibile e distinguibile. E’ un vorticare pallinato. Mi permea la sensazione di trovarmi all’esterno di qualcosa, al di fuori, di dover ancora raggiungere il posto dove sono diretto. Come se finalmente avessi trovato il coraggio di muovermi, di spostarmi, di lasciarmi alle spalle quello che non mi soddisfa, anche se si tratta della mia quotidianità. Percepisco l’assenza della pressione cieca di tutte le piccole cose quotidiane che caratterizzano la mia vita, percepisco l’essere da un’altra parte, il voler far parte di quel mosaico di esistenze che da qui sembra palpitare come una cosa sola e unica. Poi d’un tratto, ogni volta, ricordo tutte le volte precedenti che sono stato qui, ma senza ricordare cosa mi aspetta. Lo sento che ogni volta è così. Da qui percepisco anche la mia stessa vita come diversa. Una vita cieca, bendata, instupidita.

Mi alzo. Stando in piedi è come se tutto questo mondo gravasse con tutto il suo peso sulle mie spalle. Ma non cambia niente. Inizio a camminare nella neve immacolata e brillante, verso la base del condominio più vicino, che si staglia sfaccettato sopra la mia testa. Arriva a graffiare il cielo, lo incide, lo seziona. Come sezioni di rocce di ere geologiche diverse, limate ed erose dal vento, sezioni di palazzi che si allungano e sporgono più alte, come se si dovessero incastrare da qualche parte, come componenti di un meccanismo infinitamente più grande. Seguo le impronte lasciate nella neve da qualcuno che mi ha preceduto. Possono essere le scarpe di Luis. Mi chiedo che fine abbia fatto, non so quantificare quanto tempo sia passato da quanto è andato a pisciare, mi sembrano passati anni. Seguo le sue impronte fino alla base del palazzo. Non ci sono ombre. Non ci sono pozzanghere o anfratti oscuri. C’è solo la neve ammassata dal vento, affilata, limata, smerigliata. Sono davanti a una porta di metallo grigio che si confonde nel grigio del cemento armato di queste fondamenta anonime, senza numeri né scritte. La apro con fatica ed entro. Mi ritrovo in una specie di androne, di atrio. Non è una hall, non è un ingresso. È come sempre. Seguo le impronte di bagnato misto neve ha lasciato Luis fino all’ascensore che sta dall’altra parte di questa stanza 5 metri per 5. Cammino sulle pietre levigate del pavimento e schiaccio il pulsante per chiamarlo, si illumina di rosso e inizia a lampeggiare, poi i rumori di cavi, funi e pulegge si fanno più vicini. Sempre. Non ci sono altri rumori, non ci sono odori. Dietro le porte chiuse grigie qualcosa si blocca e si assesta, le porte poi si aprono. Salgo e mi giro verso la porta. Noto che le impronte lasciate da Luis sono identiche alle mie, la consistenza dei grumi di neve nelle micro pozzanghere mi dice che deve essere appena salito. Poi vedo un pannello di comando con un numero infinito di pulsanti, come la tastiera di una fisarmonica. Sui tasti neri non ci sono numeri o indicazioni dei piani, solo tante croci bianche, una uguale all’altra. Mi chiedo Luis a che piano si sia fermato. Ne schiaccio uno a caso. Non è a caso. Schiaccio sempre lo stesso, ma già non so più dire quale. Le porte si chiudono e inizio a salire. Dietro di me lo specchio dell’ascensore. Salendo non mi sono guardato e adesso non voglio girarmi. È come se avessi paura di quello che potrei vedere. Sì, ho paura di quello che potrei vedere. Sento ciò che c’è dentro lo specchio pulsare alle mie spalle. La risalita è pneumatica, compatta nella meccanica e nel tempo, estesa nella distanza percorsa, nel concetto di movimento, come un decollo e un atterraggio. Poi il movimento si arresta. Le porte si aprono. Pneumatiche. Davanti a me il muro di un corridoio perpendicolare al mio asse visivo, è ricoperto da una tappezzeria con un disegno che riconosco, andava di moda negli anni ’30. Mi sporgo fuori dall’ascensore solo con la testa. A destra e sinistra, si susseguono infinite e anonime porte bianche, come in un albergo, ma senza numero o altre indicazioni. Sulle porte ci sono solo croci. Una per ogni porta. La moquette sembra usurata dal tempo, tutto quello che ho visto fino adesso lo sembra. Ma è semplice dismissione, non rovina; la patina che ricopre le cose e gli spazi quando funzionano ma non vengono utilizzate. I due lati del corridoio sono dritti e infiniti. Non c’è niente alle pareti, niente fuori dalle stanze. Nessun rumore, nessun odore, eppure sono tutte stanze che funzionano. Mi chiedo se Luis sia andato a destra o a sinistra, in che diavolo di stanza possa essersi cacciato. Sulla moquette ci sono leggere impronte di bagnato che si dirigono verso destra. Le seguo, anche se dopo cinque passi scompaiono perché si stanno tutte asciugando. Cammino lungo il corridoio, mi lascio alle spalle decine di porte tutte uguali, senza nessun segno che mi possa far decidere di fermarmi e aprirne una. In fondo ancora non si vede la fine del corridoio. Prima o poi dovrò decidermi ad aprire una di queste porte, altrimenti potrei camminare per sempre e perdermi lungo questo singolo e dritto corridoio. Così afferro la maniglia di una porta alla mia destra e la giro. La porta è chiusa. Provo con quella alla mia sinistra. È chiusa. Provo con le successive due, vado avanti così per una decina di porte, ma nessuna si apre. Inizio a picchiare pugni, a urlare il nome di Luis. Poi d’un tratto mi sembra di sentire il mio nome echeggiare alle mie spalle. Mi fermo, resto in silenzio. Mi dico che mi sono sbagliato, ma poi:

        «Brando…»

Non è la voce di Luis, ma so di conoscerla. Così torno sui miei passi.

        «Vieni qui Brando, è aperto.»

Inizio quasi a correre finché vedo una porta socchiusa. Mi blocco lì davanti. Osservo lo spicchio di luce proiettato sulla moquette.

        «Entra Brando.»

Decido di obbedire. È una semplice stanza di albergo. C’è della moquette, ci sono tonalità diverse di marrone. Un corridoio di un metro e mezzo circa, un armadio sulla destra e la porta del bagno a sinistra. Arrivo fino al bordo della stanza, povera. Nell’angolo opposto, su di una poltrona sta seduto Lupo, con l’immancabile sigaretta tra le labbra. Dietro di lui, oltre la finestra, i fiocchi di neve che danzano nella notte.

        «Lupo…»

        «Beh Brando, non vorrai mica dare tutta la colpa a me di quello che è successo a quel povero fedele, vero?»

        «Non capisco.»

        «Beh capisco io invece, ma con me il tuo giochetto non funziona. Non penserai di dare la colpa a me come hai fatto con il tuo nuovo amico Luis, per il casino al baretto, vero?»

        «Dimmi dov’è Luis.»

        «E che cazzo vuoi che ne sappia, Brando? Non so neanche che faccia abbia quel relitto.»

        «Lo devo trovare altrimenti-»

        «Sì sì, lo devi trovare, mi sembra di averla già sentita questa storia, ma prima lascia che ti rinfreschi la memoria su quello che è davvero successo quel pomeriggio nel retro della discoteca.»

Lupo spegne la sigaretta nel posacenere, è il primo movimento che gli vedo fare. Poi butta fuori il fumo, lo libera sopra la sua testa come una nube.

«Io a quel coglione gli ho semplicemente mollato due pizze, giusto il necessario per farlo andare al tappeto. Se tu che ti sei accanito, che hai iniziato a prenderlo a calci come se fosse un sacco della spazzatura… hai capito? Quello che ho fatto io è stato sollevarti di peso e trascinarti via prima che lo ammazzassi.»

        «…» 

        «Lasciatelo dire Brando, sei uno strano esemplare di essere umano, uno strano mix, un misto tra uno psicopatico e un coniglio…»

        «…»

        «Non hai niente da dire? Beh allora levati dai coglioni, vai a cercare quel disastro del tuo amico.»

        «Lupo…»

        «Ho detto di levarti dai coglioni, non hai molto tempo.»

Mi fa un gesto con la mano, seduto a gambe incrociate, come se stesse congedando il suo maggiordomo. Così gli volto le spalle ed esco sul corridoio, senza voltarmi, senza richiudermi la porta alle spalle. Mi ritrovo su questo nastro infinito di stanze e per un attimo non mi ricordo da che parte sono arrivato. Mi sento risucchiato dentro una vertigine, dentro una spirale senza tempo e senza termine, perso. Poi vedo, una ventina di metri sulla destra, vedo il vano dell’ascensore ancora aperto e Luis di spalle che si infila dentro. Urlo il suo nome e mi metto a correre, ma le porte si chiudono prima che arrivi e l’ascensore inizia a salire. Schiaccio forte e ripetutamente il pulsante come se potesse servire a farlo tornare più velocemente. Si ferma non so quanti piani più in alto, le porte si aprono. Dopo pochi secondi si richiudono e l’ascensore inizia la sua discesa. L’attesa è infinita. Mi volto a guardare verso la stanza di Lupo, ma non ci sono porte aperte, è ritornato tutto uguale a prima, ogni porta è identica a quella che la precede e a quella che la segue. Ho il respiro accelerato, non riesco a calmarmi. Rivedo la scena nel retro della discoteca, sento la stessa rabbia e frustrazione che mi scorreva nelle vene, il sangue caldo che mi pulsava nelle tempie, i calci dati con la massima potenza, il vaporizzarsi del sangue nell’aria, la mani forti di Lupo che mi cingono le spalle e mi sollevano da terra e mi sbattono contro il muro in mattoni a vista. Rivivo quella scena per la milionesima volta, come se non me ne fossi mai scordato. Finalmente l’ascensore si ferma al mio piano, le porte si aprono e sono sorpreso di trovarlo vuoto. Ci entro. Ancora una volta non mi guardo allo specchio, gli volto subito le spalle, ma lo sento come friggere. Schiaccio il pulsante che dovrebbe corrispondere all’ultimo piano. L’ascensore ora inizia a viaggiare con più propulsione. Scorro decine di questi infiniti corridoi al secondo, mi lascio sotto i piedi infinite e povere stanze di albergo dietro a infinite porte bianche, infiniti Lupo con infinite varianti della stessa storia da raccontarmi. Perché mi ha detto che non ho molto tempo? Perché Luis sta scappando? Dove cazzo sta andando? Dopo qualche attimo eterno l’ascensore rallenta la sua corsa e inizio a sentire sempre più calore alle mie spalle. L’ascensore si ferma. Sto aspettando di correre fuori per inseguire Luis, sono con la faccia a meno di un centimetro dalla porta, sono quasi in punta di piedi, ma quando le porte si aprono faccio un salto indietro per la paura e mi ritrovo con la schiena contro lo specchio. Lo sento vibrare attraverso il giubbotto. Appena fuori sul ballatoio c’è un uomo. Vedo solo i capelli crespi, quasi ricci, gli occhi rossi con le pupille inesistenti e sulla bocca un ghigno maligno, le gengive spesse e alte, i denti marci, ma tutto il viso è confuso, come se vibrasse tutto. Mette un piede dentro all’ascensore per evitare che le porte si richiudano, mi fissa senza sbattere le palpebre, il suo respiro è affannoso, un rantolo. Faccio fatica a respirare, non riesco a parlare. Lui dice qualcosa, ma non si capisce nulla, la sua voce gorgoglia. Non smette di fissarmi. Gli dico che non capisco cosa sta dicendo. Così fa un ulteriore passo dentro. Trascina i piedi, le ciabatte, mi schiaccio di più contro lo specchio, le vibrazioni aumentano, qualsiasi via di fuga mi è preclusa. Il ghigno permane sulla sua bocca. Le labbra sono secche, a brandelli.

«È questa la notte.»

La voce non è una voce. È un grattare, uno sfregare.

«Tu sei…»

Ho paura di dirlo, di chiederlo. I suoi occhi non hanno niente dietro. Le gengive sembrano pronte a sanguinare, a suppurare.

        «Sei il Santo…»

Appena sente questo nome scatta indietro e scompare dalla mia vista.

Mi butto fuori e nel corridoio che va verso sinistra, già a una cinquantina di metri di distanza vedo Luis e il suo cazzo di tupè rosso correre via.

«Luis!»

Poi mi giro verso destra e non c’è nessuno. Mi rigiro verso sinistra ma Luis è scomparso. Esco dall’ascensore e inizio lo stesso a corrergli dietro. Corro, senza sapere verso dove, so solo che devo riportarlo indietro il prima possibile, perché questa è la notte. Corro, le porte scorrono affianco, finché inizio a vedere un bagliore lattiginoso, notturno. Muovo le gambe all’impazzata, ma non mi manca il fiato, mi sembra solo di fare fatica, di correre in salita, sempre di più in salita. Mi ritrovo su un altro ballatoio, simile a quello del piano terra dal quale sono entrato, solo che a definirlo non ci sono delle pareti ma delle vetrate a tutta altezza. Non c’è nessuna uscita ma di Luis non c’è traccia. Muovo dei passi verso le vetrate. Fuori vedo la notte e i fiocchi di neve vorticare distinti e definiti, disinfetti. Man mano che mi avvicino percepisco il pulsare dei bagliori di tutto quello che sta sotto. Sento la vita pulsare sotto i miei piedi. Voglio vedere la stessa cosa che vedevo da sotto, solo al contrario. Faccio un ultimo passo e quando vedo quello che succede sotto, di fuori, devo aggrapparmi all’infisso della vetrata. Penso a quello che vedevo quando ero sotto, a terra. Che vedo sempre quando sono sotto, sempre. Quante volte ho pensato che guardare le cose da un punto di vista opposto non vuole assolutamente dire vedere le cose opposte. A terra sono cieco, bendato, relegato in una posizione in cui non mi è possibile vedere quello che mi circonda, che c’è sopra, e anche ciò che c’è “attorno”. A terra sono sempre cieco, mentre adesso mi trovo in cima a uno degli infiniti palazzi che si librano a raggiera, tanti quanti sono le opportunità e le scelte che una singola vita porta con sé. Ho una vertigine, ma adesso è liberatoria, quasi come se stessi iniziando a capire e questo fosse un processo chiarificatore. Quassù non nevica. Le piccole croci di neve si formano una manciata di piani sotto i miei piedi e iniziano a scendere. Sopra di me è tutto sereno, ma non c’è una notte con delle stelle, ci sono altre città/astronavi capovolte. Queste costruzioni, queste appendici, sono come infiniti bastoncini di shanghai esplosi a raggiera e per ognuno di essi ci sono infiniti piani senza numero, e per ogni piano infinite stanze senza numero, e per ogni palazzo c’è una versione di me che cerca una versione di Luis che corre all’impazzata lungo i corridoi di ogni piano. Tutto pulsa, tutto si muove attorno a essi, la neve, le luci, il traffico regolare delle luci nella notte, segmentato e sezionato. Le appendici dei condomini/astronavi è come se fossero petali di una rosa deflagrata non nello spazio ma nel tempo, scoppiata nelle dimensioni. Sono affacciato alla vetrata, ci appoggio le mani. Mano a  mano che le guardo tutte, che le lego le une alle altre, scovo un altro disegno che le comanda. Un disegno superiore. Come se questa detonazione di palazzi nel tempo e nelle dimensioni fosse un singolo punto di una singola linea di uno di quei disegni ornamentali, come se l’esistenza stessa fosse solo una forma d’arte puramente decorativa. Ogni volta che arrivo qui sopra, mi sembra di conoscere questo posto da milioni di anni, da ere, e di ritornarci dopo le fatiche e i dolori di una vita intera. E come ogni volta sento aprirsi la porta dell’ultima stanza del corridoio. La raggiungo, ci entro, mi chiudo la porta alle spalle e-

10 pensieri su “Da “La Notte delle Croci e delle Morti”

  1. Direi che lo stile – anche perché il senso complessivo da un capitolo si evince poco – è ancora un po’ acerbo, ma le capacità per maturare le possiedono appieno

    1. Grazie per il commento Roberto. Posso chiederti in quali aspetti ci vedi acerbi? Vorrei lavorarci sopra… Grazie ancora

  2. Domanda che potrebbe giovare anche agli autori di “La Notte delle Croci e delle Morti”: come si colloca il loro romanzo nell’attuale produzione narrativa italiana?
    Non saprei rispondere, ma segnalo due spunti attuali, che ho colto al volo su “Le parole e le cose”:

    1. La prima videoconferenza sul romanzo de “Gli Stati Generali della letteratura italiana” (titolo pomposo ma che non deve distrarre). La potete seguire partendo da questo link: http://www.leparoleelecose.it/?p=35879;

    2. Il bilancio della Commissione giudicatrice del Premio Campiello, che mi pare bene impostato e da un quadro delle tendenze narrative d’oggi: http://www.premiocampiello.org/confindustria/campiello/istituzionale.nsf/($linkpreview)/8556B2C892DFCEE0C125840E002D985E?opendocument

    1. Mah, Ennio, non saprei bene come rispondere. In realtà sia io che Danilo non siamo dei fan di questo tipo di letteratura, più che altro siamo dei fan di questo stile, che credo abbia più sbocchi a livello cinematografico.
      L’intento era sicuramente quello di creare qualcosa di non originale ma almeno fuori dal coro, diverso da quella che è l’offerta letteraria italiana media.

      1. @ Marco Mazzucchelli

        Il mio commento non aveva lo scopo di indirizzarvi ad un certo tipo di letteratura. Era un invito a guardar e e a guardarsi attorno, a informarsi sul dibattito in corso sul romanzo o più in generale sulle varie strade che la narrativa va prendendo. L’influsso dei mass media sembra oggi preponderante. Scrivi che tu e Oggionni siete fan di una narrativa che “abbia più sbocchi a livello cinematografico”.
        Scelta legittima ma è l’unica possibile? Quali effetti ha sulla produzione del testo? A quali lettori si rivolge? Che messaggio gli manda?
        A me sembrano domande ineludibili da porsi, ma posso anche ammettere che siano “vecchie” o “sorpassate”.

        1. Sì e no. Non ho scritto che siamo fan di una narrativa che ha sbocchi cinematografici, ma che siamo fan di questo stile specifico e quindi abbiamo fatto questa scelta, egoistica perché mirata in primis al soddisfare il nostro piacere di creare una narrazione che avesse queste qualità. Il fatto poi che questo stile abbia, fattualmente, più sbocchi cinematografici, non ha influito sulla nostra scelta iniziale.
          Come dici tu comunque (e come ho sentito nel dibattito che hai linkato) è vero che la narrativa sta subendo l’influenza dei mass media. Forse perché si tende a semplificare la letteratura come una semplice narrazione, e dunque una storia, generando una confusione, una sovrapposizione, anche una rivalità forse, tra le storie raccontate nei libri e le storie raccontate al cinema o in tv. Ma non è la stessa cosa e soprattutto, a livello di immediatezza di fruizione, non ci può essere gara, la letteratura è destinata a sottostare alle regole dettate dal cinema, dalle serie tv, per essere accattivante e non scomparire del tutto. Questa situazione mi sembra il frutto di atteggiamento troppo accondiscendente che gli editori hanno verso il lettore, gli danno semplicemente quello che vogliono, non educano più, non indirizzano più, mi sembra che oggi guardino solo al fatturato. Stiamo assistendo alla vittoria della mediocrità.
          Questa è la mia idea, come semplice lettore.

          Su queste tue domande (Scelta legittima ma è l’unica possibile? Quali effetti ha sulla produzione del testo? A quali lettori si rivolge? Che messaggio gli manda?) ci devo ragionare un attimo…

  3. “Questa situazione mi sembra il frutto di atteggiamento troppo accondiscendente che gli editori hanno verso il lettore, gli danno semplicemente quello che vogliono, non educano più, non indirizzano più”

    Ben detto. Nella discussione che ho linkato questa critica viene mossa da Cortellessa (cfr. video a 3.13.42) e contestata da un certo Grossi, organizzatore o patron dell’incontro, se ho ben capito (cfr. 3.48.51).

    1. Ho visto (è interessante anche la differenza tra mass cult e mid cult).
      Entrambi i punti di vista portano delle verità, io credo che la strada giusta sia una via di mezzo, un punto di incontro, ovvero una letteratura che possa essere allo stesso tempo di qualità e di intrattenimento. L’intrattenimento è una parte importante, soprattutto se l’autore vuole arrivare anche ai lettori meno acculturati, non si può pretendere di venire ascoltati a prescindere (banalmente, non dobbiamo nemmeno dimenticare che per leggere un libro vengono sborsati dei soldi). E’ difficile saper bilanciare questi due ingredienti, ma io credo sia fondamentale. Mi sembra l’unico modo per affrontare questa diatriba tra letteratura alta e letteratura media.

      Seguendo questo approccio, avendo questa accortezza, credo che in automatico il testo ne venga condizionato, e si possa arrivare a una ampia gamma di lettori (per rispondere alle tue domande di ieri).
      Se poi vogliamo parlare di messaggio, la prima cosa che mi viene in mente è che può essere completamente slegato dai generi letterari e che si può giocare molto abbinando messaggi e generi letterari che a prima vista possono essere contrastanti.

  4. …il racconto si dispiega in una realtà artificiosa che mi richiama la consuetudine un po’ compulsiva di oggi, tra i giovani e i meno giovani, di maneggiare oggetti tecnologici, dai cellulari ai videogiochi, dove per mano solitaria si aprono e si chiudono infinite porte, i personaggi compaiono e velocemente scompaiono, le conversazioni sono brevi e oscure, come i cambi di prospettiva, sotto o sopra…Le immagini veloci riportano, secondo me, a una possibilità di traduzione cinematografica fumettistica: si fa riferimento al disegno decorativo…Un interessante esperimento di Danilo Oggioni e di Marco Mazzucchelli che ibrida tecnologia e letteratura, certo rivolto alle nuove generazioni…Ma dice anche qualcosa a tutti, vuole essere ascoltata

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