di Ennio Abate
Su AA.VV., Ebrei arabi: terzo incomodo, a cura di Susanna Sinigaglia, Zambon editore 2012
… mentre torno verso il mio albergo tra vie scurissime e deserte, di case spente e in macerie, di spazi abbandonati (come non rammentavo più dalla Gerusalemme del 1949) lungo quella che più di vent’anni or sono fu la linea del fuoco fra le due Gerusalemme, è una sorta di vergogna per essermi lasciato coinvolgere dalla “vertigine che emana da questa città. La parola, la avrei poi trovata, proprio per Gerusalemme, nel profeta Zaccaria. Probabilmente questo è solo l’epicentro fugace di una tanto più grande menzogna che soffoca ormai tutto il mondo. Non sempre è stato così. Non deve essere necessariamente così
( F. Fortini, Extrema ratio, p. 68)
18 novembre 2012. Avevo ultimato questa riflessione il 18 ottobre 2012. I nuovi bombardamenti israeliani su Gaza di questi giorni, la loro approvazione da parte degli USA di Obama, il silenzio della cosiddetta Europa e l’impotenza dei movimenti pacifisti inducono non più all’indignazione soltanto ma al disprezzo, sia pur impotente, della civiltà in cui purtroppo sono vissuto. Nel gennaio 2009 davanti al precedente massacro, sempre a Gaza, avevo scritto un poesia.[1]Oggi posso solo rileggermela e pensare che quello sdegno trattenuto attenderà ancora a lungo atti politici veri.
1.
Parto dai contenuti. Si tratta di una raccolta di diciotto saggi abbastanza eterogenei, accompagnati da un utile glossario e un’appendice di vari documenti. Alcuni hanno un taglio più sociologico-storico-teorico, altri sono di testimonianza diretta.[2] Nell’introdurli al pubblico italiano, la curatrice, Susanna Sinigaglia, partecipante dal 2002 della rete Eco (Ebrei contro l’occupazione), elenca i principali: politiche di divisione etnico-territoriale in Israele, radici storiche della “questione mizrachi”[3] nello scontro tra destra e sinistra israeliane e in rapporto (potenziale) con quella palestinese; e si riallaccia allo spirito militante di due lettere pubblicate in appendice: quella, drammatica, del figlio del rabbino Meshulan, vittima assieme al padre di pesanti ritorsioni per il loro impegno sul caso della scomparsa di centinaia se non migliaia di bambini yemeniti negli anni della grande immigrazione in Israele; e quella, del 2011, di un gruppo di ebrei mizrachi indirizzata «ai protagonisti delle rivolte arabe». Vengono così richiamati immediatamente due elementi antitetici: la durissima repressione presente in Israele anche nei confronti degli ebrei dissidenti; le speranze suscitate in alcune minoranze ebraiche dai recenti sconvolgimenti politici avvenuti nel Maghreb.
2.
Diamo una scorsa ad alcuni dei più importanti saggi del libro. Oren Yiftachel[4] si sofferma sulla «ebraicità» dello Stato di Israele, che – egli ricorda – è uno stato e una comunità politica senza confini definiti (p. 59).[5] Da ciò discendono due pesanti conseguenze: – le leggi sulla migrazione (Legge del ritorno e della cittadinanza) fanno di ogni ebreo del mondo un potenziale cittadino israeliano ma negano al contempo tale possibilità ai tanti palestinesi nati nel paese (p. 51); – i processi di «giudaizzazione e dearabizzazione» che il carattere ebraico dello stato legittima hanno portato all’emarginazione dei mizrachi, venutisi a trovare in mezzo, dopo l’emigrazione, a mezza strada tra l’élite askenazita israeliana e i palestinesi e gli arabi ostili, tra un passato orientale “arretrato” e un futuro occidentale “progressista” (p. 68). Questi processi che hanno coinvolto gli ebrei arabi (mizrachi) Yiftachel li giudica sostanzialmente non democratici. Ne fanno le spese sia i palestinesi sia gli stessi mizrachi, che però – egli riconosce – pur hanno partecipato alla costruzione della nazione ebraico-palestinese, prendendo attivamente parte all’oppressione dei primi [i palestinesi] (p. 68).
2.1.
Smadar Lavie[6] pone l’accento sul «razzismo intraebraico», un fenomeno occultato a causa della severa censura askenazita (p. 78). Lavie fa l’esempio delle «femministe askenazite per la pace», le quali, pur volendo la fine dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi e la parità dei diritti civili per i palestinesi d’Israele, chiudono gli occhi sull’«oppressione razziale ed economica» che colpisce la maggioranza dei cittadini ebrei di origine non europea, i mizrachi, che sono il 63% della popolazione ebraica e il 50% della popolazione israeliana.[7] La sua critica si rivolge in particolare alle Ong femministe professionalizzate, che l’autrice ritiene portatrici di un «femminismo askenazita» o di un «sionismo illuminato e di sinistra» (p. 80). Queste Ong sono quasi tutte finanziate attraverso il New Israel Fund (Nuovo fondo israeliano, NIF) e il Women-to-Women (donne per le donne) Usa-Israele. E nascondono «le differenze di colore e di classe delle donne mizrachi […] dietro la maschera della sorellanza ebraica» (p. 82). Più in generale Lavie accusa tutta la sinistra askenazita di aver «arianizzato gli ebrei più della destra» e di attribuire «un’aura romantica ai palestinesi» solo perché non riesce a «”digerire” i propri arabi, i mizrachi» (p. 84), trascurando di operare politicamente nei loro confronti e lasciandoli in balia del razzismo (askenazita) e in una condizione di emarginazione.
2.2.
Ammiel Alcalay,[8] prende spunto dal cinquecentesimo anniversario della cacciata degli ebrei dalla Spagna ricordato nel 1992 con conferenze, mostre e festival per stabilire un paragone: come allora l’Europa in preda a un delirio di purezza (religiosa) costrinse all’esilio «migliaia e migliaia di musulmani e ebrei» (p. 112), seppellendo «ottocento anni di cultura “eurosemitica”», qualcosa del genere oggi avviene negli studi ebraici, che sottovalutano sistematicamente l’apporto culturale dei sefarditi (ebrei arabi o mizrachi). Secondo Alcalay, centinaia di autori, che hanno scritto tra il decimo e il ventesimo secolo, non hanno alcuna influenza sul presente a causa della difficoltà di accesso ai loro lavori (p. 115). La trascuratezza verso questa letteratura «ebraico-levantina» è da lui imputata sempre all’egemonia del «”discorso sionista” (con il suo retaggio di ibrido illuminismo, romanticismo, rivoluzione e colonialismo, e con gli assunti sulla storia ebraica e la diaspora che ne conseguono)» (p. 116). Alcalay critica tutta quella letteratura israeliana che si muove, a suo parere, al seguito della letteratura europea o è segnata da «una sensibilità euroamericana» (p. 118). Il prestigio, di cui essa gode e che permette ad alcuni autori, sostenuti dalle politiche editoriali israelo-statunitensi, di essere noti internazionalmente e molto tradotti (fa i nomi di David Grossman, Amos Oz e A.B. Yehoshua), oscura ingiustamente l’influenza di altri modelli (libanesi, iracheni, palestinesi, egiziani, turchi o greci) su scrittori significativi come Shimon Ballas[9] o Moshe Sartel[10] e rende quasi del tutto inaccessibili i romanzi iraniani, libanesi, marocchini, turchi (p. 125).
2.3.
Elia Shohat[11] interviene sulla crisi d’identità vissuta dagli ebrei arabi al momento del loro ingresso in Israele. Essi per la prima volta nella loro storia, furono costretti ad affrontare il dilemma di scegliere tra l’essere ebrei e l’essere arabi (p. 148). Persero le loro precedenti «identificazioni multiple» (p. 136) e subirono l’imposizione di una «identità totalizzante» (p. 137). Vennero a trovarsi in una condizione di ambivalenza, soffrendo sia per il loro sradicamento sia per la mancanza di consapevolezza di ciò che avrebbe comportato per loro la modernizzazione in cui venivano immessi (p. 143). Una modernizzazione tutta eurocentrica e arrogante nei loro confronti, se si pensa alle dichiarazioni antisefardite dei maggiori leader israeliani degli anni ’50 (Ben Gurion, Abba Eban, Golda Meier), che giudicavano gli ebrei orientali come «fuori della storia» (p. 150). Come del resto facevano gli stessi documentari etnografici del tempo, presentando i mizrachi «come rimasti in un’”età dell’innocenza” immune dalla tecnologia e dalla modernità»[12] (p. 151).
2.4.
Shoshana Madmini-Gerber[13] analizza, invece, le mistificazioni dei mass media israeliani sul caso della scomparsa, tra 1948 e 1950, ai tempi della immigrazione di massa verso Israele, di centinaia se non migliaia di neonati di ebrei yemeniti (p. 173). Testimonianze successive hanno riferito che i bambini venivano dichiarati malati dalle autorità sanitarie locali, separati dai genitori e portati dai campi di raccolta in ospedale. Successivamente ai genitori veniva annunciata la loro morte. Le autorità israeliane si sono rifiutate a lungo e tenacemente di indagare su questi fatti, malgrado numerose e circostanziate testimonianze di chi sosteneva che i bambini erano stati rapiti e adottati da ebrei askenaziti o venduti a famiglie ebree all’estero (p. 175). L’unica tardiva protesta è stata organizzata nel 1994 dal rabbino Meshulan e dalla sua organizzazione «Mishkan Ohalim», creata agli inizi degli anni ’90 proprio per far luce sul caso. Essa è stata però repressa con la violenza dalla polizia israeliana: fu ucciso un giovane aderente al gruppo; Meshulan venne presentato dai mass media come un pazzo paranoico a capo di una setta di esaltati; e dopo quasi cinque anni di carcere, fisicamente distrutto, rimesso in libertà. (L’episodio viene ricostruito nella appendice 3 del libro, alle pagg. 355-366, dal figlio del rabbino rifugiatosi in Canada, p. 187).
2.5.
David Shasha[14] affronta un altro caso di razzismo intraebraico, quello dei «bambini con la tigna» (p. 193), documentato poi, nel 2004, dal film The ringworm children trasmesso in Israele da Channel. Negli anni ’50, sempre nei campi di transito per immigrati, circa 100.000 bambini, tutti figli di sefarditi, affetti da tricofizia, una malattia della pelle prodotta da un parassita detto comunemente tigna, vennero sottoposti, per decisione del dottor Chaim Sheba, allora ministro della sanità (definito da Shasha il «Josef Mengele israeliano», p. 196), a dannosi trattamenti radioattivi, che procurarono a distanza di tempo «tumori al cervello e diverse forme di cancro, epilessia, sterilità, paralisi cerebrale e […] altri disturbi gravi e invalidanti» (p. 198). Perché vennero usati su di loro dosaggi da 350 RAD, quando già nel 1952 la commissione atomica internazionale raccomandava al massimo dosi di non più di 3 RAD. Shasha vede in questo episodio un esempio estremo del «razzismo antisefardita, radicato e perpetuo, che pervade la comunità askenazita in occidente e in Israele» (p. 199). E giudica il film «un capolavoro di militanza sociale che racconta una storia collocata al centro politico ed esistenziale del progetto sionista» (p. 202).
2.6.
Omar Kamil[15] si occupa dello Shas, il partito religioso sefardita. Fondato nel 1983, ha acquistato una crescente influenza sociale e politica in Israele, adottando «strategie politiche affini a quelle utilizzate dai movimenti islamisti nel mondo arabo» (p. 221). Fa, cioè, ricorso a un sistema di istituzioni educative e di servizi sociali. Tra gli anni ’80 e la metà dei ’90 ha partecipato a tutti i governi israeliani (p. 227). Il suo obiettivo è quello di ridefinire l’ideologia sionista, epurandola degli elementi laici e fondandola esclusivamente sull’interpretazione sefardita dell’ebraismo (p. 227). Kamil esclude che la linea pragmatica dello Shas sia inquadrabile in uno schieramento di destra o di sinistra, non essendo un partito etnico con un messaggio separatista (tipo da noi la Lega) ma religioso. Esso è, dunque, interno all’ebraismo, ma ostile alle componenti «laiche e non ebraiche» del sionismo askenazita (p. 228). La sua ideologia, definita «del “latte al cioccolato con rotolo della Torà»(p. 234), dispone di un potente network educativo non controllato dallo stato, il «Ma’ayan haninuch Hatorani» (Sorgente dell’educazione alla Torà), con un budget di circa 50milioni di dollari e più di 40mila alunni. Esso è in grado di competere col sistema educativo statale, poiché offre scuole a tempo pieno con tasse molto basse e trasporti gratuiti attraenti agli occhi dei genitori che lavorano (p. 235). E nelle sue scuole gli studi religiosi hanno la priorità: gli studenti si dedicano agli studi laici (inglese, matematica, scienze naturali, geografia e storia, ma non sociologia e filosofia) solo dopo un’intera giornata di studi religiosi (p. 236).
2.7.
Moshe Behar,[16] riallacciando ad Edward Said,[17] che aveva trattato la questione dei sefarditi, polemizza anche lui col mito sionista di una emigrazione ebraica presentata come «felice raccolta degli esiliati» (p. 265). Fu il bisogno di «forza lavoro “nera”» a spingere necessariamente Israele ad assorbire quelle popolazioni, che neppure gli «”illuminati” stati occidentali» volevano (p. 269); e ricorda che nell’importazione di 800.000 ebrei dai loro paesi d’origine vanno considerate con attenzione anche le colossali interazioni avvenute sopra le loro teste tra il sionismo askenazita e il nazionalismo arabo (p. 270). Contro quanti fanno notare con insistenza l’appoggio degli israeliani sefarditi al Likud, il «partito ultrasciovinista e ultrasionista» (p. 263), Behar sostiene che negli anni ’40 e ‘50 la maggior parte degli ebrei mediorientali non era sionista e, anzi, una significativa percentuale di loro era antisionista di matrice marxista o liberale o religiosa (p. 270). Per lui, perciò, i mizrachi, pur essendo cresciuti «nel sistema israeliano di apartheid [e avendo] pesanti obblighi nei confronti delle vittime del sionismo, i palestinesi» (p. 274), potrebbero essere a pieno titolo promotori di «una comunicazione tra gli esseri umani dissenzienti dell’intera regione – fra tutti i palestinesi, fra tutti i tipi di anti, non e post sionisti ebrei e anche tra i nazionalisti arabi progressisti» (p. 276).
2.8.
Reuven Abarrjel e Smadar Lavie[18] fanno invece il punto sulle difficoltà di una militanza mizrachi non sionista (p. 290) e sulla ancora incerta coscienza che sta nascendo nelle comunità mizrachi (p. 291). Queste difficoltà sono evidenti: i mizrachi hanno in maggioranza posizioni antiarabe, anche se sempre più spesso sono disposti ad ammettere che il regime israeliano è decisamente razzista nei confronti degli ebrei non askenaziti (p. 290). Una prova di tali difficoltà la danno le Ong “sociali” mizrachi (p. 291). Esse non riescono a coalizzarsi con le organizzazioni non governative arabe ed esitano a denunciare «il razzismo intraebraico» per paura di perdere i finanziamenti statali (p. 293). Anche il revival culturale mizrachi, che si esprime nella crescita di teatri indipendenti, dove vengono rappresentati spettacoli in dialetto arabo-giudaico iracheno, marocchino, yemenita o in farsi, o il proliferare di produzioni cinematografiche mizrachi underground (p. 295), devono comunque appoggiare pubblicamente il progetto sionista askenazita per ottenere i finanziamenti.
2.9.
A insistere, in contrasto con Moshe Bear, su una pesante subordinazione di Shas e mizrachi al discorso nazionale sionista è il saggio di Erez Tzfadia e Oren Yiftachel.[19] Essi hanno studiato tensioni etniche tra immigrati vecchi (i mizrachi) e nuovi (gli immigrati “russi” arrivati in Israele negli anni ’90) e leggono i comportamenti dei mizrachi come tipici di una «identità “intrappolata”» (p. 309). I mizrachi si sono venuti a trovare in mezzo: tra un centro, occupato dai «fondatori» askenaziti dello stato d’Israele che godono di autorità e benessere, e la periferia dei marginali e degli esclusi (gli «indigeni» o «nativi esclusi» palestinesi, p. 317). Ora coi nuovi flussi migratori si è arrivati allo scoppio di «agitazioni etniche» (p. 312), più o meno incanalate da nuovi partiti e movimenti sociali, in quelle devolepment town, centri urbani periferici di medie dimensioni abitati unicamente dagli immigrati mizrachi (p. 318) e svantaggiati sotto ogni punto di vista (materiale, sociale, politico e culturale). Essi erano sorti tra il 1948 e il 1952 secondo le direttive del «Sharon Plan», il programma nazionale di sviluppo urbanistico diretto da Aryeh Sharon, allora responsabile dell’autorità di pianificazione nel consiglio dei ministri (p. 317). I due studiosi rendono conto delle proteste antigovernative dei mizrachi nelle development town. Tra il 1960 e il 1998 – più numerose nei periodi di difficoltà e ristrutturazione economica – sono state 345, ma non hanno mai rappresentato una sfida al «regime etnocratico coloniale» fondato sull’egemonia sionista askenazita (p. 320). Perché hanno toccato esclusivamente problematiche di carattere economico e mai hanno sfiorato i temi di politica nazionale (guerre arabo-israeliane, occupazione dei territori palestinesi, rapporti tra laici e religiosi). Mai i mizrachi hanno protestato contro i continui insediamenti ebraici nei territori occupati (alture del Golan, Cisgiordania, Gaza) e da parte loro la colonizzazione ebraica «è stata pienamente appoggiata, sebbene essa privasse le development town di capitale e materiale umano» (p. 322). Tzfadia e Yiftachel ritengono che la mancata politicizzazione delle lotte sia dovuta alle condizioni di dipendenza e insicurezza in cui vivono i mizrachi delle città periferiche, che mostrano un forte desiderio di assimilarsi e integrarsi con la “cultura israeliana che conta” e un pervasivo senso d’inferiorità di fronte al centro nazionale (pp. 322-323). L’egemonia sionista askenazita ha, secondo loro, distrutto la cultura dei mizrachi collocandoli in regioni di frontiera (p. 323) e ha lasciare loro come unica alternativa la protesta contro la discriminazione e deprivazione nell’accesso alle risorse materiali (p. 323). Tra fine 1989 e 2001 lo stato sionista askenazita è così riuscito a gestire senza pesanti contraccolpi anche l’inserimento nelle development town (che hanno così perso «il loro carattere distintivo mizrachi», p. 325), di ben 911.000 immigrati provenienti dai paesi dell’ex Unione sovietica. La convivenza forzata tra russi e mizrachi è sfociata in una competizione per le risorse economiche già scarse e ha prodotto, nelle elezioni comunali del 1998, una perdita di potere dei grandi partiti e un aumento di consenso per i partiti settoriali, etnici, locali o indipendenti (p. 327). In una città, Kiryat Gat, ci sono stati anche scontri violenti tra mizraki e “russi”. Ma i primi, appoggiandosi sullo Shas, il partito ultraortodosso mizrachi, hanno avuto la meglio sui secondi. Ed è sintomatico che abbiano usato proprio «il discorso nazionale sionista», puntando cioè sulla «ebraicità», sulla religione, i valori tradizionali, la memoria e la solidarietà etnica (mizrachi) (p. 339). Si è così dimostrato ancora una volta, secondo i due studiosi, l’«intrappolamento» dei mizrachi: «non avendo il potere di contrapporsi frontalmente all’ideologia sionista pro immigrazione (su basi etniche), estremizzano il discrimine legato alle questioni religiose per ritagliarsi un prestigio su basi morali all’interno di un progetto nazionale che, tuttavia, continua a emarginarli» (p. 337).
3.
Cerco ora raccogliere i miei pensieri sui materiali di questo libro. Premetto che il mio è un punto di vista partecipe emotivamente e intellettualmente ma “esterno”. Non sono uno specialista. Non sono mai stato in Israele. La mia attenzione ai conflitti che lì si svolgono o più in generale al Medio Oriente è stata alimentata nel tempo da letture storico- politiche e si è espressa più di recente nella stesura di un’unità didattica sul conflitto israelo-palestinese.[20] Sono stato orientato anche dagli scritti di Franco Fortini, in particolare da I cani del Sinai e da Un luogo sacro,[21]quest’ultimo una sorta di consuntivo del suo pensiero sul tema stilato dopo un viaggio in Israele nel 1989. È con queste bussole, parziali ma non del tutto invecchiate, che cerco ancora di capire vicende storiche oggi precipitate in un punto talmente oscuro e senza sbocchi[22] da indurre molti al silenzio; e di dire la mia sui problemi del libro curato da Susanna Sinigaglia senza lasciarmi intimorire dalle accuse di scarsa informazione in materia.
4.
A lettura ultimata, trovo interessante lo sforzo d’indagare le divisioni etnico-sociali di Israele e approvo l’intento degli autori di sfuggire al dualismo che ci induce a pensare a due fronti compatti: israeliani da una parte palestinesi dall’altra. Simpatizzo pure con il tentativo dei mizrachi dissidenti di riaprire un discorso su altre fondamenta. Però a me pare che i saggi e le testimonianze non riescano a delineare una nuova prospettiva politica e talvolta qualcuno di essi rischi di riportare il discorso sui piani scivolosi e ambigui dei conflitti etnici e religiosi.
5.
Constato questo rischio senza ergermi presuntuosamente a critico degli studiosi presenti nel libro o dei militanti che lottano in Israele contro il sistema repressivo sionista. Anzi, pur con la consapevolezza che oggi anche quella tradizione marxiana, a cui Fortini ancora faceva testardamente riferimento e che io non voglio cancellare a cuor leggero, si è vieppiù logorata, ai miei occhi essa ha ancora il merito di mettere decisamente in vista il nocciolo duro dei problemi economico-sociali-politici che riguardano israeliani, palestinesi e tutto il Medio Oriente; e che è presente anche in buona parte di queste analisi.
6.
I mizrachi, gli ebrei arabi, il soggetto socio-politico che, sia pur problematicamente (non è casuale, credo, il punto interrogativo nel titolo del libro), a questi studiosi parrebbe un «terzo incomodo» nel conflitto tra palestinesi e israeliani, a me appare però ancora fin troppo “comodo”, sottomesso com’è culturalmente e politicamente all’egemonia dell’élite sionista e al sistema di potere che essa ha saputo organizzare. E dunque trovo più convincente e realistico il giudizio di Erz Tzfadia e Oren Yiftachel e troppo utopistico e idealista quello di Moshe Behar.
7.
Centrale a me pare perciò ancora oggi – storicamente e politicamente – la irrisolta questione palestinese; e ho il timore che sollevare il problema degli ebrei arabi o porre come problema principale il «razzismo intraebraico» rischi di circoscrivere agli ebrei (o peggio ancora all’ebraismo religioso) un discorso che ha nessi inestricabilmente internazionali e può essere sciolto solo a livello internazionale. Personalmente, memore delle posizioni di Fortini e condividendole ancora oggi, sono poi diffidente verso quelle critiche al sionismo che liquidino con esso anche le sue originarie componenti laico-illuministiche). Temo, anzi, che una lotta contro il «razzismo intraebraico» condotta da posizioni “democratico-religiose”, anche se risultasse produttiva, sortirebbe al massimo un ampliamento della (falsa) democrazia (sionista) per una fetta più ampia di mizrachi e non è detto che si salderebbe con la questione palestinese.
8.
Con questo non voglio dire che, siccome oggi «i mizrachi considerano i palestinesi come i primi, potenziali concorrenti nella conquista di beni scarsi (posti di lavoro, case, risorse naturali ecc.» (p. 35), hanno finora votato “a destra” e appoggiano oggi lo Shas, un partito religioso sostanzialmente ortodosso (o ultraortodosso), i tentativi di andare al di là della superficie ideologica e di leggere in una prospettiva innovativa la “questione mizrachi”, come tenta di fare il Mizrachi Democratic Ranibow (Arcobaleno democratico mizrachi), l’organizzazione politica pacifista nata nel 1997, vadano respinti o derisi. Ma di essi va indicato il limite. E a me pare che gli organizzatori della embrionale dissidenza mizrachi e la stessa Susanna Sinigaglia, che proprio con questo libro si è fatta loro portavoce, pur vedendo quant’è schiacciante il predominio del sionismo, e come i vari filoni della cultura ebraica diasporica siano stati ridotti a un fenomeno di tipo folkloristico, possano illudersi di contrastarlo su un terreno religioso-progressista, che resta ancora troppo in comune con il loro avversario e non esce dalla cornice politico-religiosa della «ebraicità» che il sionismo impone.
9.
L’insistenza sullo schiacciamento della cultura mizrachi, la sua riduzione a cultura subalterna e la denuncia della violenza modernizzatrice, a cui l’élite sionista askenazita ha sottoposti i mizrachi, fa pensare ai tanti tentativi di valorizzare o rivitalizzare le cosiddette “culture subalterne”. Ci sono stati in passato e oggi riaffiorano anche qui in Italia, ma – bisogna dirlo – essi sono andati sempre incontro a un fallimento. Per certi aspetti i movimenti che puntano soprattutto su culture emarginate o subordinate sono un sintomo di (incipiente) indebolimento dell’ideologia dominante, ma non ritengo tali spinte capaci – da sole e di per sé (per l’energia residua che ancora conservano) – di una autonoma capacità di crescita, di una fuoriuscita dalla subordinazione culturale e politica, di misurarsi coi problemi materiali e ideali che il capitalismo (tiriamola fuori questa parola del tutto assente, mi pare, dai saggi del libro) ha posto all’intera umanità. In Italia, poi, abbiamo sotto gli occhi i fenomeni leghisti (compresi i vari fermenti di “leghismo meridionale”, che potrebbero avere più analogie con certi modi di porre la “questione mizrachi”). E, in occasione del 150° anniversario dell’unificazione d’Italia, sono state riprese pure le tesi sulla “piemontesizzazione” del Meridione, le denunce della repressione del cosiddetto “ brigantaggio” o dei sacrifici imposti ai meridionali (emigrazione, depauperamento del territorio, ecc.) per portare avanti l’industrializzazione del Paese. Le analogie con la “questione mizrachi” ci sono. Anche se, rispetto alla situazione israeliana molto più complessa, ci sono pure – soprattutto sul piano etnografico e religioso – le differenze. Ma non mi pare che la globalizzazione – il fenomeno mondiale che sta condizionando o sconvolgendo le dinamiche interne, conflittuali o di cooperazione, degli stati nazionali esistenti e che in parte suscita anche reazioni “localistiche”, “regionalistiche”, “populistiche” o persino “fondamentaliste”, come in Israele queste dei sefarditi e dello Shas, siano una realistica e buona alternativa agli “estremismi” (o fondamentalismi) degli Stati più potenti a livello mondiale, i quali restano decisivi e possono condurre anche a guerre (mondiali?) tra loro. E lo dico con una certa disperazione, soprattutto quando vedo l’obnubilamento indubbio (se non la scomparsa) dei conflitti di classe non solo in Israele, ma anche in Europa e altrove. Persino le cosiddette “primavere arabe”, che in prospettiva, secondo alcuni autori di questo libro, dovrebbero diventare le alleate di un eventuale movimento di emancipazione dei mizrachi, appaiono, come si è visto, indecise, immature nel loro svolgimento e presto rimesse sotto controllo.
10.
Voglio però valutare con occhio militante e speranzoso la “questione mizrachi”. Sono convinto che chi è sottomesso oggi non è che lo sarà per sempre. Ma per puntare sulle rivolte delle classi subordinate o delle etnie subordinate, ci vorrebbe qualcosa che oggi di sicuro manca: una visione da parte dei militanti della cornice generale in cui queste lotte, come pure quelle della cosiddetta «primavera araba», avvengono. Anche se posso capire che il libro è centrato su una singola questione, quella dei mizrachi appunto, un suo limite grave mi pare proprio questo: il silenzio sul ruolo geopolitico che Israele svolge nel Medio Oriente e il suo strettissimo legame – condizionato/condizionante[23] – con la politica statunitense. La cornice in cui si iscrive perciò la questione mizrachi è perciò troppo nazionale, troppo legata alle dinamiche sociopolitiche (e religiose) interne ad Israele.
11.
Questo fa sì che la critica “culturale” all’influenza askenazita ed occidentalizzante rischia sempre di rimanere sul piano etnico-religioso. E mi chiedo: se definiamo lo Stato di Israele una etnocrazia (è come se dicessimo, semplificando, che nello Stato italiano ai posti di comando prevalgono i “settentrionali”), che cosa apporta in più questo attributo rispetto alle analisi tradizionali dello Stato questa definizione? Lo facciamo solo per dire che in Israele non c’è vera democrazia tra i suoi stessi cittadini? (O, come si scrive a pag. 61, che Israele «non ottempera al requisito fondamentale della democrazia»?). Ma, se al sionismo “antidemocratico” contrapponiamo lo Shas e le spinte etniche mizrachi, che pur esse «mettono i valori democratici al di sotto dell’ebraicità dello Stato» (p. 65), mi pare che non si esca affatto dalla tipologia dei conflitti etnico-religiosi (in questo caso) e non ci si distingua nemmeno troppo dai “fondamentalisti” islamici.
12.
Queste mie perplessità su Ebrei-arabi: terzo incomodo? aumentano quando metto a confronto tali posizioni con la posizione di Fortini espressa in particolare nel già citato Un luogo sacro. Egli non ha una visione delle cose certo oggi attuale e ho espresso la mia preoccupazione sulla corrosione degli strumenti marxisti, ma indubbiamente egli evita i rischi connessi al discorso sulla «etnocrazia» e non si lascia sfuggire soprattutto quegli intrecci internazionali che in questi saggi appaiono “velati”:
Quel che sorprende e, alla fine, indigna è che a destra come a sinistra, tra i “falchi” come fra le “colombe”, fra gli israeliani come fra i palestinesi, la controversia non sia mai preceduta da un accenno alle strutture della produzione, al sistema economico e ai rapporti di classe. Il discorso politico porta sul conflitto nazionale o etnico o religioso, riguarda la guerra e la pace, le possibilità di convivenza, il potere dei gruppi di pressione dell’estremismo religiso o islamico, i rapporti internazionali. Quel che nella sua fretta il visitatore vede è quel che la situazione mostra. L’apparenza coincide con la realtà. Mi si dice (chi lo assicura è una persona competente) che, secondo pubbliche statistiche, dopo gli Stati Uniti i maggiori importatori di prodotti israeliani erano i Territori Occupati. Non diversamente dagli indios delle miniere andine, quel che guadagnavano con lavoro pagato la metà di quel che viene pagato a un israeliano i palestinesi dovevano spenderlo acquistando prodotti degli occupanti. Non occorre fare professione di marxismo per capire che c’è da capire qualcosa che i media tacciono e le parti in conflitto sembrano concordi a passare sotto silenzio (p. 42 Extrema ratio).
13.
Non so se sia oggi possibile mettere l’accento sulle «strutture della produzione» e pensare quel conflitto in Israele come «un momento del processo mondiale di emancipazione dei popoli in senso anticapitalistico» (p. 57). Il testo fortiniano, però, morde ancora. Ci ricorda cose apparentemente elementari ma oggi taciute. Che la vita produttiva ed economica di Israele era ed è «determinata da un rapporto improprio con gli Stati Uniti» (Egli scriveva: «Bastava guardare i pullman turistici degli ebrei americani, che vengono a vedere come sono stati spesi i loro soldi. Tutti lo sanno, quasi tutti lo dimenticano o lo tacciono», p. 41). Che anche da noi e in buona parte d’Europa «accade la medesima cosa, cui i dizionari davano nome di sfruttamento. Con la differenza che da noi non si accompagna alla occupazione armata» (p. 42). Che stava sopraggiungendo «una condizione generalizzata di sporcizia spiritualistica e mistica» (p. 45). La definiva così per indicare quanto essa «si accorda col potere, anzi […] tende ad identificarsi con quello per ricevere benefici» (p. 45). (E ciò che in questo libro Omar Kamil scrive sullo Shas sembra rientrare in pieno in questa diagnosi). La sua posizione mi pare lungimirante proprio perché vedeva e osteggiava le «forme “arretrate”, mediovaleggianti, antilluministiche, fondate su conflitti “religiosi” [che] non riescono e neanche vogliono occultare il loro turpe compito di maschere (e, in questa parte del mondo [in Israele, in Medio Oriente], conquistare quanto basta dell’opinione per controllare scelte politiche importantissime)». Né faceva sconti agli europei: anche in Europa, infatti, dopo il «declino delle forze tradizionali del conflitto sociale e l’ingresso di tutti noi in una età che sta ancora, ma ciecamente, cercando di identificare le nuove forme e forze schierate» (p. 47) stavano maturando processi simili, coperti dalla stessa «finzione razional-democratica» (p. 61). Fortini teneva fermo che bisognasse porre «un limite alla spiritualizzazione» (p. 46). In assenza di tale limite nella storia dell’Occidente era accaduto che l’”interiorità” aveva sostituito l’”esteriorità”; e «il carico rituale» era stato gestito dallo Stato Etico. Si arriva così – egli diceva allarmato – alla teocrazia, ai sacerdoti armati (p. 46). Di fronte alla «immobilità ripetitiva e distruttiva del tardo capitalismo (che non esclude, anzi, innovazione tecnologica, eccidi e genocidi) (p. 60) o a chi ratificava un presente «definitivo» con l’aiuto della «nozione di “complessità”»(p. 61), che a suo avviso spiegava anche «il largo e diffuso interesse per il Giudaismo» (p. 61), non ci si doveva arrendere. E proprio a Gerusalemme egli aveva colto questa «sovrapposizione incessante di un conflitto politico-militare e di una immagine mitologica». Lì aveva percepito «corporalmente il conflitto politico, etnico e religioso fra gli israeliani e gli arabo-palestinesi e ancor più l’aura della generale e diffusa menzogna in buona fede che in ogni momento mascherava le ragioni sociali ed economiche del conflitto a favore di quelle politiche, etniche e religiose» (p. 46). Egli sentiva che il fanatismo in Israele non era «parola e idea di tempi remoti», ma«lezione del “presente come storia”» (p. 48). E respingeva «l’enfasi che la informazione manipolata pone sui caratteri religiosi, etnici, nazionalistici del conflitti. Non perché quei conflitti non ci siano ma perché sono la maschera di altri, dei quali si preferisce non parlare, o parlare meno o parlare per il mondo cifrato degli specialisti» (p. 49)».
14.
A differenza di Fortini non ho la sicurezza che gli faceva scrivere: «Per quanto è di me, non ho dubbi che quel conflitto rientri in un momento del processo mondiale di emancipazione dei popoli in senso anticapitalistico». (p. 57). Eppure accolgo ancora in pieno il suo aut aut:
«Per me, stare dalla parte dei palestinesi, quindi contro la politica militare del governo israeliano, vuol dire ricordare ai miei connazionali – non dunque solo agli ebrei, anzi e soprattutto non a costoro ma a chi, nella sinistra italiana è loro amico – che esistono cause (di giustizia o di solidarietà, di lotta anticolonialista o antimperialista internazionale; e ognuno scelga fra queste quella che meglio gli si confà) per le quali può essere necessario rompere i legami più cari e più ardui; ossia scegliere che cosa mettere al primo posto: la fedeltà a una patria, a una etnia, a una cultura, a una tradizione religiosa o familiare, ai propri morti oppure altro. Questo “altro”, io che scrivo l’ho messo al primo posto, ogni volta che mi si è presentato un conflitto di doveri e fedeltà. Non vorrei che si scambiasse, ancora una volta e secondo l’andazzo pseudo democratico oggi di moda, il rispetto per l’espressione del pensiero altrui col rispetto per un pensiero, o per azioni, che si ritiene sbagliate o false» (58).
18 ottobre 2012 / 18 novembre 2012
APPENDICE
Ebreo, israeliano, sionista; arabo, islamico, palestinese
Per diradare confusioni, equivoci ed errori, in cui è frequente incorrere quando si parla del conflitto in Medio Oriente, è bene aver chiaro il significato dei nomi stessi dei popoli implicati nella questione. Diciamo allora che: 1) “ebreo” è chi appartiene al popolo ebraico[24] o chi professa la religione ebraica, che ha radici storiche antichissime; 2) “israeliano” è un nativo o un abitante dello stato d’Israele, proclamato nel 1948; 3) “sionista” è il seguace o il fautore del sionismo; 4) “arabo” è un nativo dell’Arabia, l’attuale penisola che si affaccia sull’oceano Indiano, ma anche chi vive nei tanti paesi di lingua araba, lingua documentata fin dal II sec. d.C. e che ha assunto forma letteraria con il Corano divenendo lingua colta della civiltà islamica, tramandatasi fino a oggi; 5) “islamico” è il seguace dell’islamismo, cioè della religione monoteistica fondata da Maometto in Arabia nel VII sec. d.C. e basata sui precetti contenuti nel Corano; 6) “palestinese” è un nativo o abitante della Palestina, che oggi è il territorio sul quale si estende l’odierno stato d’Israele e comprende pure i «Territori occupati» e la striscia di Gaza, più o meno formalmente amministrati dall’Anp (Autorità nazionale palestinese) prima guidata da Arafat e poi da Abu Mazen. Va poi chiarito che le singole identità sociali dei popoli implicati nel conflitto in Medio Oriente sono in realtà ben più complesse e, a volte, miste o contraddittorie; e facilmente sfuggono al nostro sguardo di europei. Bisogna allora tener presente che, per la complessa storia del popolo ebraico, gli ebrei non sono presenti in un unico stato, come per lo più avviene per altri popoli. Li troviamo perciò a milioni in Israele, ma anche nel Nordamerica, nei paesi dell’ex-Unione Sovietica, in America Latina; mentre, dopo la Shoah, sono oggi poche migliaia in Polonia, Romania o Ungheria. E la parola “ebrei” copre realtà diverse tra loro. Indica sia gli aderenti al giudaismo (o religione giudaica) sia i discendenti del giudaismo, divenuti atei o agnostici o convertitisi ad altra religione o divenuti cittadini di un’altra nazione (e tuttavia considerati dagli altri comunque ebrei per la loro origine). Altrettanto complessa è l’identità di chi vive nel mondo arabo. Facciamo l’esempio di un arabo algerino. Egli è o può essere allo stesso tempo: 1) un cittadino dello Stato algerino (dell’Algeria), divenuto nel 1962 indipendente dalla dominazione coloniale francese; 2) un algerino del Maghreb e cioè di un’area geografica con caratteri storico-geografici precisi; 3) un arabo, cioè un membro della comunità linguistica e culturale con radici antiche e una storia gloriosa, anche se finora non esiste una «nazione araba» (condizione simile a quella degli italiani prima dell’unificazione politica della penisola nell’Ottocento); 4) infine, un musulmano, e quindi partecipe della comunità vastissima (oltre un miliardo di persone) che prega lo stesso Dio e segue determinati riti. Possiamo avere allora i casi di identità miste o plurime, come quelle di un ebreo arabo, di un arabo israeliano (che vive in Israele, è cittadino israeliano e magari condivide i valori dello stato d’Israele), di un palestinese cristiano (che parla arabo ma ha aderito alla religione cristiana) o di un islamico non arabo (che cioè è musulmano, pur non parlando l’arabo). Esempi che dovrebbero indurre più che mai a non considerare queste identità fisse e immutabili, dati di natura e non di storia.
(da P. Cataldi, E. Abate, S. Luperini, L. Marchiani, C. Spingola, Di fronte alla storia, Palumbo editore, Palermo 2009).
[1] Ballata dei massacrati di Gaza di Ennio Abate
Fratelli umani Israeliani nostri ben educati carnefici per l’amara e breve vita che lasciammo nell’unico modo da voi consentito non incolpatevi. Ad esploderci correndo incontro al piombo fuso che per il futuro suo Bene regalaste dai cieli a Gaza l’ingrata fummo noi, da soli. E voi Europei, brava gente non affrettatevi. Aspettate che il lavoro ben fatto sia ultimato: mamme e sorelle nostre debitamente sventrate, i bimbi fantocci impalliditi, abbruciati i vecchi come tronchi secchi, gli arti troppo svelti dei giovani divelti. Alle rovine di Gaza l’ingrata veniteci dopo religiosamente silenti come ad Auschwitz i turisti svagati e compunti. Veniteci dopo e comprate le reliquie di Gaza l’ingrata: i bambolotti insanguinati, le coperte da sporcizia escrementi e freddo solidificate, eppure intatte, di allora. E le pietre, le povere fionde, le terribili armi di distruzione di massa con cui fingemmo di offendervi classificatele meticolosamente in lindi musei della memoria.
[2] Noto un forte squilibrio tra i saggi più mossi da scrupoli scientifici e le testimonianze militanti. Quella ad es. del figlio del rabbino, coinvolto in una vicenda pesante e difficile da raccontare mi pare troppo inerme, frammentaria e carente nella documentazione dei dettagli e rischia di prestare il fianco ad attacchi di avversari politici o di parlare poco ai lettori esterni ai fatti…
[3] Ma chi sono i mizrachi? Si legge in Wikipedia: I Mizrahi o Mizrahim (dall’ebraico misrach, “oriente”) o le “Adot Hamizrah” (le comunità dell’Oriente) sono gli ebrei orientali provenienti dai paesi del mondo arabo (Iraq, Marocco, Tunisia,Libia, Egitto, Siria, Yemen ecc.); fra le Adot Hamizrah sono inclusi anche gli ebrei persiani, curdi, georgiani, di montagna, baghdadini, dell’India e di Bukhara. Essi si ritengono discendenti di quegli ebrei che subirono la deportazione e l’esilio babilonese.
[4] Etnocrazia. La politica di giudaizzazione di Israele-Palestina.
[5] «Israele non ha, dopo quarant’anni, una costituzione (mi è stato spiegato da un magistrato ebreo) perché non potrebbe averla senza definire i propri confini e ha assunto la legislazione britannica dei tempi del mandato: la distruzione delle case [dei palestinesi] rientra in quelle pratiche di occupazione militare» (F. Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, , pag. 67, Garzanti, Milano 1990).
[6] Il femminismo mizrachi e la questione della Palestina.
[7] Si ricordi che non tutti gli ebrei vivono in Israele. Cfr. Appendice.
[8] L’esplosione delle identità: note su etnicità e storia della letteratura.
[9] Shimon Ballas (Ballas, è nato il 6 marzo 1930 ) è uno scrittore israeliano e professore emerito presso il Dipartimento di Lingua e letteratura araba pressol’Università di Haifa . Vince Premio del Presidente per la Letteratura (2006).
[10] Moshe Sartel (nato nel 1942, Istanbul, Turchia) è arrivato in Israele come un bambino piccolo, e vive a Petah Tikva. Sartel conseguito una laurea in filosofia ebraica, letteratura e Kabbala, e un master in biblioteconomia presso l’Università ebraica. Ha studiato Storia Militare all’Università di Tel Aviv e diretto una rete di biblioteche in Petah Tikva. Nel 1997 ha fondato una casa editrice specializzata in libri sul giudaismo. Ha ricevuto il Premio Bernstein.
[11] Cesura o ritorno? Un punto di vista mizrachi sul discorso sionista.
[12] Viene alla memoria per la situazione italiana del Sud il Primo Levi di Cristo si è fermato ad Eboli.
[13] Come occultare la storia: i mezzi d’informazione israeliani e la vicenda dei bambini yemeniti.
[14] Il sionismo dal punto di vista delle sue vittime ebree.
[15] La sinagoga come società civile, o In che modo possiamo intendere lo Shas.
[16] È ora d’incontrare i mizrachi?
[17] Edward Wadie Saïd (1935 – 2003) è stato uno scrittore palestinese naturalizzato statunitense. Anglista, docente di inglese e letteratura comparata alla Columbia University, teorico letterario, critico e polemista, è particolarmente noto per la sua critica del concetto di Orientalismo.
[18] Un anno dopo la Seconda guerra del Libano: come “onghizzare” i paradossi arabo-mizrachi e la visione di uno stato unico per la Palestina/Israele.
[19] Tra scale urbane e nazionali: la mobilitazione politica dei mizrachi nelle devolepment town israeliane.
[20] Cfr. P. Cataldi, E. Abate, S. Luperini, L. Marchiani, C. Spingola, Di fronte alla storia, Palumbo editore, Palermo 2009.
[21] In Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano 1990.
[22] Ecco le notizie “fresche” che Janiki Cingoli del CIPMO ha raccolto da Mark Heller, Direttore delle ricerche presso l’Institute for National Security Studies (INSS) di Tel Aviv: «Quanto ai palestinesi, il giudizio dell’analista è drastico: la gente nel mondo ne ha abbastanza del conflitto israelo-palestinese. C’è disillusione. Lo stesso Obama, se verrà rieletto, non è detto che farà molto: è stufo di tutto il Medio Oriente. L’esperto israeliano non vede vie d’uscita, almeno a breve termine. Per certi versi secondo lui lo status quo è meglio della ricerca di soluzioni non praticabili, ricerca che può creare contraccolpi destabilizzanti.
Netanyahu, osserva, potrebbe fare al massimo delle piccole concessioni. Ma Abbas non andrà al tavolo, porrà precondizioni. È troppo debole per fare altrimenti. Quanto alle trattative sulla riconciliazione interpalestinese, esse sono speculari a quelle israelo-palestinesi, in qualche modo sono antitetiche, perché se andassero avanti Netanyahu bloccherebbe ogni negoziato. Gaza, in realtà, è destinata ad entrare nell’orbita dell’Egitto. Ma l’atteggiamento del Cairo dipenderà dai suoi equilibri interni. i Fratelli musulmani sono più solidali verso l’organizzazione gemella che governa la Striscia, mentre l’Esercito è contro una eccessiva integrazione e contro la piena apertura delle frontiere. Netanyahu e Barak, conclude, non sanno valutare se Morsi è meglio o peggio di Mubarak. Ma in realtà Israele non ha strumenti per influenzare gli sviluppi della situazione, se non dà risposte al problema palestinese». ( da http://www.cipmo.org/editoriale/2012/netanyahu-superstar.html).
[23] Leggo ancora in Fortini: «Secondo una guida Hachette 1987, che non è un libello antisemita, tutti gli anni i contribuenti americani versano più di mille dollari per ogni israeliano. Come dire che, in media, ogni israeliano riceve dagli USA una consistente “tredicesima” e che il budget di una famiglia di quattro persone è per un terzo coperto dagli americani. Dati che tutti conoscono e non entrano mai nel discorso. Se non per ricordare che le funzioni politiche, economiche, militari cui gli israeliani adempiono in congiunzione agli interessi americani (soprattutto eseguendo le operazioni che per gli USA sarebbero politicamente troppo “indecenti”; tutti siamo l’arabo di qualcuno) sono ormai tante e così ramificate che – com’è avvenuto e tutti ne parlano come di cosa risaputa – i “servizi” israeliani possono minacciare di passare, o magari aver già venduto, ai colleghi dell’Est migliaia di pagine di documenti sottratti a quelli degli Stati Uniti. (Come ha detto un rabbi molto noto per il suo umorismo: «Stiamo diventando una nazione di agenti segreti»). E tanto basta per togliere ogni illusione di efficaci pressioni americane sul loro “agente” gerosolimitano in Medio Oriente»» (F. Fortini, Extrema ratio, p. 43, Garzanti, Milano 1990).
[24] Tengo a precisare contro spiacevoli equivoci che il termine ‘popolo’ lo uso usato in termini generici (e dunque senza le connotazioni nazionalistiche del sionismo). E non sono il solo a farlo. Lo fa Robert Wistrich nel suo Hitler e l’olocausto. Scrive ad esempio: «La Torah, completata attraverso i secoli dal Talmud e dagli insegnamenti dei rabbini, divenne la costituzione e la “legge di vita” del popolo ebraico, che lo ha tenuto unito per due millenni di diaspora. Era la loro “patria portatile”, nelle profonde parole del poeta ebreo tedesco Heinrich Heine, ed era il contrassegno della loro vocazione di popolo distinto in mezzo alle nazioni» (p. 31). E, proprio in questi giorni, rileggendo per caso uno scheda su «Marxismo e “questione ebraica” del 1969 di Cesare Cases (in Il testimone secondario) trovo usato senza problemi il termine: «.. ma in seguito alle persecuzioni religiose si sarebbero dovuti limitare al commercio, costituendo un esempio di economia “innaturale” in un popolo..»(p.435); mentre l’autore da lui recensito, Abram Leon, trockista e morto ad Auschwitz a ventisei anni, usa per gli ebrei pure lui un termine affine: «popolo-classe» (p.436).