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Del passato che resta e del presente che si fa storia

L’immaginazione proletaria di Danilo Montaldi

di Ennio Abate

Recupero e pubblico questo saggio del maggio 2003, che non si trova on line e compare nell’indice del volume “Danilo Montaldi (1929-1975): azione politica e ricerca sociale”, pubblicato con la collaborazione della Fondazione Luigi Micheletti di Brescia (qui

Sintesi: 1. Notizie sul libro; 2. Storia e biografia; 3. Temi degli «Scritti».;4. Sul titolo degli «Scritti 1952-1975»;5. I caratteri dell’immaginazione proletaria di Montaldi; 6. Il riferimento di Montaldi alla rivoluzione russa; 7. I suoi contatti con la Francia; 8. L’immaginazione proletaria di Montaldi ha un suo luogo: Cremona; 9. Montaldi e la cultura di sinistra; 10. Su alcune ombre dell’immaginazione proletaria di Montaldi; 11. Conclusioni: La mia lettura degli «Scritti 1952-1975»

1. Notizie sul libro

È stato pubblicato nel 1994, curato da un collettivo redazionale composto da Cesare Bermani, Gabriella Montaldi-Seelhorst e dal Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano. Accoglie, ordinati cronologicamente, 104 scritti, vari per lunghezza e genere, recensioni, presentazioni di mostre, commenti di documentari, articoli, che erano stati composti da Montaldi fra 1952 e 1975, anno della sua morte, ed erano fino a quel momento inediti. Il volume è completato da una puntuale Cronologia della vita e delle opere di Montaldi e da un’Appendice con 8 documenti del Gruppo di Unità Proletaria di Cremona.

Esaminati per anno, gli scritti più numerosi si concentrano nel triennio 1957-1959 (rispettivamente 11, 22 e 10). Dal 1962 si diradano e per diversi anni (1963, 1967,1968,1970, 1971, 1973) mancano. Si tratta di vuoti dovuti ad altri impegni (Militanti politici di base, ad esempio, è completato nel 1969 e pubblicato nel 1971, anno in cui viene anche finito il Saggio sulla politica comunista in Italia). Poco so dell’effettiva circolazione del volume o della sua ricezione in ambienti militanti o ufficiali.

2. Storia e biografia

Sarà bene ricordare schematicamente lo sfondo del periodo storico in cui vive e opera Montaldi, caratterizzato dal fascismo, dalla Seconda guerra mondiale, dalla Resistenza, dalla fondazione della Repubblica, dalla fine della coalizione antifascista, dal conflitto di classe nelle campagne tra 1949 e 1950 e dalla riforma agraria, dall’egemonia della Democrazia Cristiana, dalla crisi del 1956 nella Sinistra, dal miracolo economico (1958- 63) con la fuga dalle campagne e le profonde trasformazioni sociali dovute all’industrializzazione del paese, dalla crisi del luglio 1960 che avvia il periodo del governo del centro sinistra (1958-68), e poi dal “biennio rosso” (1968-’69) e dalla strategia della tensione.

Ebbene, se per comodità d’analisi, suddividiamo la vita di Montaldi in 4 periodi:

1) quello della formazione giovanile nel cremonese (1929 – 1952) caratterizzata da subito in senso proletario e di militanza comunista,

2) quello dei contatti extra-cremonesi: soprattutto con Parigi e con le riviste italiane (1953 – 1956),

3) quello in cui contatti e ricerche personali confluiscono nella scrittura delle sue opere principali e nella militanza del Gruppo di Unità Proletaria di Cremona (1957 – 1966),

4) quello, infine, che va dalla costituzione del Gruppo Karl Marx alla morte (1966 -1975),

vediamo dove biografia e storia tendono ad incrociarsi e si delineano chiaramente alcuni punti chiave della sua figura che a me paiono i seguenti:

1) Montaldi è rimasto fedele ad un nucleo della sua formazione giovanile, proletaria e comunista (importanti in tal senso sono le origini della sua famiglia, la precoce contrapposizione al regime fascista maturata anche per la persecuzione subita dal padre, il rapporto con Giovanni Bottaioli, suo vero maestro di politica proletaria (1946));

2) egli maturò un suo principio etico e politico di fondo: «stare vicino al proletariato» con coerenti scelte di vita e una selezione accurata (al limite del settario) dei suoi contatti politici e culturali (questi sì: il gruppo olandese Spartacus e Socialisme ou Barbarie ad es.; questi no: Sartre, Camus, “il manifesto” ad es…);

3) con il Gruppo di Unità Proletaria e poi col Gruppo Karl Marx ma anche fondando la galleria d’arte Renzo Botti, riuscì a fare di una certa Cremona dei suoi anni non un «luogo esemplare» ma, sfuggendo ad ogni localismo, un luogo di transito per «una concreta attività proletaria, con i suoi momenti di passione e di crisi», dovunque essa emergesse: nelle campagne, a Parigi, fra gli immigrati della metropoli milanese o in mezzo alla “nuova classe operaia” emersa dalle lotte del ’68-’69.

1) il periodo della formazione giovanile nel cremonese (1929 – 1952)subito caratterizzata in senso proletario e di militanza comunista: non solo sono proletarie le origini della sua famiglia, ma precoce è la sua contrapposizione al regime fascista vissuta direttamente attraverso la persecuzione del padre (1941) e la sua autonomia che lo spinge a studiare da autodidatta quello che gli interessa (abbandona infatti la scuola dopo la prima liceo nel 1946) e ad impegnarsi presto in un apprendistato politico nel clandestino Fronte della Gioventù (1944), nella dissidenza del PCI del dopoguerra e nel fondamentale rapporto con Giovanni Bottaioli, vero suo padre spirituale proletario (1946), mentre già si fa strada la sua passione per la cultura francese (letteraria e cinematografica) (1950);

2) quello dei contatti extra-cremonesi: soprattutto con Parigi e con le riviste italiane a cui comincia a collaborare (1953 – 1956): il primo viaggio a Parigi di Montaldi è del 1953), poi s’intensificano la collaborazione militante a Battaglia comunista, a Prometeo, i contatti con il gruppo olandese Spartacus e Socialisme ou Barbarie (1953), il suo interesse per la poesia operaia (1955), e le collaborazioni con Ragionamenti, Questioni, Opinione e l’Avanti (1956);

3) quello in cui contatti e ricerche personali confluiscono nella militanza nel Gruppo di Unità Proletaria (1957 – 1966): può essere considerato il periodo della maturità di Montaldi. L’azione svolta a Cremona con il Gruppo di Unità Proletaria in collaborazione con il Partito Comunista Internazionalista ma anche con altre formazioni a livello internazionale (1957) è la prova della sua scelta organica di «lavorare coi proletari» (ossia in posizione autonoma rispetto al movimento operaio ufficiale). Ma altrettanto organiche sono altre scelte: una passione per la bellezza, l’arte e la musica (non «perdere il senso della musica di Mozart» (1958), la sua scoperta della pittura di Cosme Tura e Francesco del Cossa(1962), il suo rapporto col pittore Guerreschi); non piegarsi al mito della carriera o della professionalità (il rapporto di collaborazione e poi di redattore alla Feltrinelli, iniziato nel 1960 si conclude per sua volontà nel 1962, anche se pesanti diventano le sue condizione economiche); tenersi a debita distanza dai luoghi «dove si elaborano le riviste politiche come opere d’arte» svelando tutta la sua insofferenza dell’ambiente intellettuale (milanese in particolare)(1959, 1962); entrare invece in contatto con gruppi che fanno agitazione sociale in ambienti proletari (1960); il consolidarsi del suo legame culturale e storico con Cremona («per noi la Lombardia è quella» (1963), dove fonderà la galleria d’arte intitolata a Renzo Botti (1965);

4) quello che va dalla costituzione del Gruppo Karl Marx alla morte (1966 -1975): è un periodo di nuove aperture (al clima di lotta di quegli anni anche sul piano internazionale, la preparazione del lavoro d’inchiesta sulla nuova classe operaia (1974)), ma anche di consolidamento e di studio più appartato: s’intensifica il suo lavoro di traduttore (1965), arrivano le amarezze per i rifiuti della Feltrinelli di pubblicare il Saggi sulla politica comunista in Italia (1973).

3. Temi degli «Scritti».

Li suddividerei, anche se spesso s’intrecciano fra loro, in quattro distinti blocchi:

1) quelli che riguardano la rivoluzione russa e lo stalinismo (che trattano la questione dell’organizzazione di lotta del proletariato);

2) quelli riferibili al suo rapporto con la Francia e la cultura, ufficiale e dissidente, della sinistra francese (si potrebbe parlare di un “risciacquare i panni della sua immaginazione proletaria nella Senna”, che dà slancio al progetto di ricerca militante perseguito nelle sue opere);

3) quelli legati a Cremona e al significato culturale e politico, ma anche intimo e personale, che la città e la sua storia hanno per lui (e qui si dovrebbe parlare di radici “mobili” dell’immaginazione proletaria di Montaldi, attento alle trasformazioni dei contadini che si fanno proletari, immigrati, nuova classe operaia o operaio-massa);

4) quelli (direi ossessivamente numerosi soprattutto negli anni Cinquanta-Sessanta) riferibili alla critica della cultura della sinistra ufficiale, italiana e francese, (che è poi critica, per lui, della cultura nazional-popolare, cioè nazional-borghese, cioè stalinista e ipotesi, complementare e alternativa, di una cultura proletaria).

4. Sul titolo degli «Scritti 1952-1975»

Trovo il titolo del volume, «Bisogna sognare», che sembra suggerire un Montaldi dedito ad un costruttivismo assoluto da «immaginazione al potere», troppo sessantottino, unilaterale e equivoco (Già Baczko, studioso dell’utopia, fece notare che l’immaginazione era da sempre al potere1).

Nella immaginazione di Montaldi hanno, infatti, grande rilievo la memoria storica del proletariato rivoluzionario, i problemi complicati e rimasti irrisolti del rapporto partito-classe operaia, l’inchiesta sociale partecipe, profonda (la raccolta di storie di vita non è un’intervista!) e mirante ad una trasformazione culturale dei soggetti implicati. E la sua concezione proletaria della cultura mi pare sia rimasta esterna e ostile forse ai processi e alle teorie che già si delineavano nell’industria culturale dei suoi tempi e che hanno poi prodotto l’attuale inflazione di immaginario. Non so neppure quanto avrebbe potuto condividere l’enfasi sull’autonomia e la funzione unicamente creativa dell’immaginario sociale di studiosi come Castoriadis, Lefort e Morin, pure a lui vicini e presenti alla sua riflessione.

Non per caso Montaldi riprende quell’indicazione «Bisogna sognare» dal Che fare? di Lenin, che mai e poi mai può essere ridotto a cultore della immaginazione sciolta da ogni vincolo materiale e sociale; e, d’altra parte, in questi stessi scritti, Montaldi dichiara apertamente il suo rifiuto di «giocare una parte di sognatore… suo malgrado»(1956, 73), distingue il sogno della sua generazione da quello della precedente (di un Lombardo Radice) per la quale «dire la verità era diventato antistorico». Egli non intende, cioè, che il pur necessario sognare si riduca ad «un’altra esperienza religiosa, ma si accompagni a un «lavoro nuovo ad ogni livello», a « una opportuna rilevazione di dati, condotta spregiudicatamente, nella tal fabbrica», a «una seria elaborazione della cultura di sinistra su basi scientifiche» (e siamo nel 1965).

Troppo forte è, infine, in lui il sospetto per l’ estetismo, per i modi letterari di concepire la vita, la politica e la società, anche se apprezza il surrealismo (Teniamo presente però che in quegli anni siamo lontani dall’inflazione di quel “surrealismo di massa” o “snobismo di massa” che Fortini stigmatizzerà alla fine degli anni Settanta).

5. I caratteri dell’immaginazione proletaria di Montaldi

L’immaginazione proletaria di Montaldi (insisto sul proletaria) ha perciò caratteri storici specifici di quell’epoca. Innanzitutto è legata ad una realtà sociale dove le contrapposizioni di classe erano più verificabili (da chi voleva farlo ovviamente); e c’era davvero una classe operaia numericamente in crescita e sindacalmente in ripresa, che s’imponeva anche come problema culturale all’attenzione pubblica. Allora forse si poteva davvero sognare con qualche speranza in più e qualche rischio di delirio in meno, rispetto all’oggi lin cui siamo immersi in un’enigmatica moltitudine (termine che so controverso, ma che assumo almeno per intendere che non c’è più la classe operaia come la si pensava allora), di cui non sappiamo se e in cosa sia erede di quella classe operaia o se sarà invece un suo surrogato, sintomo del declino di un’alternativa di liberazione in dimensione mondiale.

L’immaginazione proletaria, che emerge in questi scritti, ha dunque una base reale per tutto il periodo che va dagli anni ’50 al ’68-’69; e Montaldi può polemizzare con ottime ragioni – da posizioni quanto si vuole minoritarie ma non fragili – con la sinistra e la sua (potremmo dire) immaginazione borghese (patriottica, stalinista, burocratica).

Essa ha due caratteristiche: non è individualistica ed è giovanile, vigorosa, aperta all’utopia. Non è, infatti, quasi mai solitaria (tranne in uno degli scritti e ne parlerò più avanti…). Scrive: «mi accorgo che in tutte le cose che ho fatto ho sempre favorito l’espressione degli altri, dei vicini, dei compagni che sono andato a cercare» (cfr, pag. XXV) e le prove di questo primato del contatto cooperativo con gli altri informa le sue stesse opere, da Autobiografie della leggera a Milano, Corea, è documentata dal fittissimo epistolario e ha segnato la storia del Gruppo di Unità Proletaria e del Gruppo Karl Marx.

Se, come ha di recente scritto Sergio Bologna, rifacendosi al sociologo tedesco Hans Speier, «non si è automaticamente proletari, si vuole esserlo, non si è ceto medio, si vuole esserlo. Il problema dell’identità è un problema di abitudini mentali, che solo in parte hanno a che fare con “condizioni oggettive”, quantificabili»2, la volontà di Montaldi di essere proletario assieme ad altri proletari (un proletario colto, un proletario che si costruiva le sue basi culturali nella memoria rivoluzionaria), bisogna dire senza cadere in vecchi determinismi, che essa ha anche una base materiale reale e specifica. Si potrebbe dire che, a partire dalle stesse condizioni familiari e dai contatti che egli intesseva sia a Cremona che altrove (e in quelli che rifiutava…), a lui riesce “più facile” essere proletario, a differenza di tanti intellettuali della sinistra del tempo; e quindi gli riesce “più facile” sfuggire alla lusinga del nazional-popolare stalinista, scegliere per maestro un Bottaioli, cioè un ex bracciante e piastrellista che un Lukács o un Adorno, non cadere nell’identificazione partito-classe che rimproverava ad un Lombardo Radice, ad una Rossanda, ad un Sartre.

Montaldi, morto purtroppo abbastanza giovane, pur avendo una memoria da elefante e avendo digerito altre sconfitte, innanzitutto quella della Resistenza, è stato esentato però dal vedere la degenerazione di tutta la cultura “dissidente” del ’68-69, ma anche la marcescenza dell’Urss e il trionfo – imperiale o imperialista – del “turbocapitalismo”. Avrebbe, anche adesso, ribadito quella sua fiducia nella classe «che sa sempre riprendere il filo e ricreare la propria avanguardia, e sa trasformare alla fine ogni sconfitta in una nuova ragione per continuare»? (160)

Non possiamo dirlo, ma la sua tenacia e il suo entusiasmo andrebbero salvati in qualche modo dallo scetticismo della nostra vecchiaia. Non è detto che l’immaginazione proletaria non possa fermentare sicuramente, in altre forme e in altre lingue, anche nella nuova dimensione imperiale o neoimperialista.

6. Il riferimento di Montaldi alla rivoluzione russa

Da questi scritti emerge quanto il mito positivo della Rivoluzione russa si sia conservato intatto in Montaldi. Montaldi accoglie persino nel linguaggio quella che possiamo definire senza giri di parole una retorica proletaria, quasi majakovskiana. Tre stralci a mo’ di esempio: «Violentemente sgomberata da mani proletarie da quel macabro parassitismo «versagliese» (130?); «L’operaio, anche singolo, che è il prodotto di questa trasformazione sente soprattutto se stesso come massa che ha un mondo da conquistare»(118); «la democrazia esiste ma là dove le masse proletarie dai milioni di teste prendono esse stesse nelle loro mani callose il martello del potere per picchiarlo sulla nuca della classe dominante» (1955, 54). La rivoluzione russa sembra poter entrare di peso nella misera storia italiana com’è entrata nell’immaginazione e nella stessa biografia di Montaldi. Egli manifesta più volte entusiasmo nella possibilità di «ricominciare tutto dalle fondamenta», come gli pare stia accadendo in Polonia o in Francia «presso quei gruppi marxisti» di cui cerca di portare conoscenza in Italia (145).

Certo dà sostanza alla sua immaginazione con tanti riferimenti teorici e storici (Lenin , il Partito Comunista d’Italia, la critica al trotzkismo, il richiamo a Rosa Luxemburg). La stessa sconfitta della Resistenza, letta in coerenza col suo pensiero come «fatto di classe» (1955,56), pesa su di lui, ma non gli impedisce di pensare che la possibile rivoluzione proletaria debba avvenire nel solco della rivoluzione russa. Da qui il suo proposito tenace: «Rimarremo vicini al proletariato, a continuare nella resistenza quotidiana ad opporci a coloro che hanno ingannato e tradito gli operai i soldati i contadini» (1955,58).

Oggi, in tempo di revisionismo storiografico e memori dei toni caricaturali e tragici che assunse quel mito negli anni Settanta , è fin troppo facile sorridere di questo insistere di Montaldi sui soviet, Lenin, il partito.

Le pagine degli Scritti dedicate all’argomento appaiono sicuramente datate. Tuttavia sottolineerei la differenza fra le prese di posizione di Montaldi sulle questioni della Rivoluzione russa e quella dei gruppi postsessantottini che pure vi si richiamarono (differenza che smentisce – mi pare – il tentativo compiuto a suo tempo da Stefano Merli di fare di Montaldi da una parte il continuatore del filone socialista e dall’altra il padre spirituale della nuova sinistra italiana).

Il richiamo a Lenin di Montaldi non è mai, infatti, diventato “leninismo” (Cfr. pag, 168). Il Lenin che affiora negli Scritti è quasi capovolto rispetto a quello che serviva al PCI di allora e ai gruppi dirigenti delle formazioni extraparlamentari per imporre “la linea”. Parlando della questione della disciplina, Montaldi ricava da Lenin l’insegnamento che non si deve mai impedire e soffocare la discussione (1958,168). Oppure sottolinea: «dice Lenin che il socialismo dev’essere introdotto nella classe operaia dall’esterno; ma non dice dall’alto, dice dal basso» (1958, 191). Montaldi poi in questi Scritti lascia capire che il rapporto partito/masse è qualcosa di ambiguo, importante e non del tutto importante. Il partito per lui è una «una forma contingente necessaria finché esiste la società borghese»(83), ma scrive anche che «per gli operai [il partito] è molto di più, e anche molto di meno», poiché «oggi gli operai possono occupare le fabbriche credendo di farlo in nome del partito ma l’importante, diceva Marx, è ciò che gli operai fanno, non quello che credono di fare (83)». Insomma, pur datato nel linguaggio, resta il fatto che la pratica di ricerca di Montaldi mal si concilia con il pedagogismo da partito o partitino e che la sua riflessione si arrestava prudente di fronte alla schematica riproposizione negli anni Settanta del partito “rivoluzionario”. Ciò vuol dire che quel mito non operava necessariamente a senso unico e che dall’esperienza proletaria e sociale Montaldi sapeva trarre correttivi per la sua immaginazione pur così fortemente proletkult.

7. I suoi contatti con la Francia

Il viaggio a Parigi che Montaldi ventiquattrenne compie nel ’53 non è un viaggio di formazione, ma di consolidamento dal vivo di precedenti contatti e di riconferma del suo muoversi in una dimensione internazionale, pur rimanendo a Cremona luogo centrale e vitale del suo lavoro militante [le radici mobili …]. A Parigi Danilo legge, s’informa, vede gente, è attento a certe riviste francesi del dissenso, che pongono l’esigenza di tornare ai principi fondamentali del marxismo: sono posizioni degli anni ’60 forti e vive e comuni a minoranze, che stavano uscendo dall’isolamento.

L’influsso di quella cultura è senz’altro determinante in generale, ma da essa Montaldi seleziona con cura i riferimenti e le posizioni coerenti con la sua visione. Apprezza Naville, che «riafferma la validità della prospettiva marxista» (1957, 131), si conferma nel pensiero dialettico contro ogni metafisica che vede «da una parte tutto il bene e dall’altra tutto il male», estende la sua critica alla cultura della «Gauche», sorella della Sinistra italiana con cui egli già era ai ferri corti (1956,74), esaminando l’opera dei «mandarini» (come Sartre, Camus, Jeanson, Merlau-Ponty) e «prendendo «il partito delle masse» (75).

Conferma dunque quel suo taglio proletario d’intervenire nel mondo degli intellettuali, che a volte è anche posa, diciamocelo, ma in lui è pratica coerente di vita, al limite del sacrificio che sempre comporta ogni militanza.

In questo Montaldi è vicinissimo al costume morale se non al pensiero religioso della Weil, di cui riprende, come fossero sue, le parole di Riflessioni sulla guerra:«l’impotenza in cui ci si trova a un dato momento non può mai essere considerata come definitiva, non può dispensare dal rimanere fedeli a se stessi, né scusare la capitolazione davanti al nemico, di qualunque maschera si vesta. E sotto tutti i nomi che può assumere, fascismo, democrazia o dittatura del proletariato, il nemico principale resta l’apparato amministrativo, poliziesco e militare; non quello dall’altra parte, che non è nostro nemico se non in quanto è il nemico dei nostri fratelli, ma quello di questa parte che si dice nostro difensore mentre ci rende schiavi. In ogni circostanza, il peggiore dei tradimenti possibili consiste sempre nel sottomettersi a questo apparato e nel calpestare, in se stesso e negli altri, tutti i valori umani per servirlo» (1957,120)

E un altro suo strumento per prendere le distanze da Sartre è ancora una volta la memoria: contro il Sartre (‘56?) che «nega una memoria di classe del proletariato», Montaldi, che a quella è fin da ragazzo legato, insiste sul valore della «memoria attiva per la quale basta solo un vecchio operaio per atelier, o la lettura di un vecchio articolo o un racconto orale, e di cui si è perso il senso». Crede al ruolo delle «minoranze rivoluzionarie» che «esistono dentro e fuori i sindacati e i partiti, che consapevolmente o inconsapevolmente cercano di superare»(84).

La memoria è per lui campo di battaglia (come per noi oggi alle prese col revisionismo storiografico). Si perde e si tratta di riconquistarla. Scriveva nel 1958: «I fatti storici del passato sono visti come avvenimenti archeologici, che non ci appartengono, che fanno parte di qualcosa d’altro che non siamo noi: la Comune, la Rivoluzione russa, la Rivoluzione spagnola non vengono ricordati come fatti delle classi, quindi continui, quindi impliciti nello sviluppo della classe, quindi ripetibili in altre, adeguate forme anche in un avvenire di cui si affronti la prospettiva; sono considerati come
”passato”, come passato remoto»(1958,190).

Sottolinea poi anche l’astrattezza di quel pensiero di Gauche che «quasi mai tende a diventare azione» (75), è una cultura che «non si fa momento di una politica», «se mai la Gauche vuole influenzare solo coloro che nell’azione già si trovano immersi», «se mai solidarizza con certe manifestazioni della vita proletaria, ma altre più particolari, più interne, le sfuggono e non le comprende».(76)

Sarebbe opportuno oggi – fatte le debite differenze di epoca e di problemi – confrontare questo “risciacquare i panni nella Senna” di Montaldi con altri risciacqui fatti successivamente da quanti hanno partecipato ai movimenti del ’68-’69 e del ’77. C’è da dire che l’ipotesi di abbandonare il marxismo in Montaldi è del tutto assente, mentre noi siamo stati posti di fronte a questo problema. Si può supporre che sarebbe rimasto estraneo a tutti gli sviluppi che vanno da Foucault a Deleuze e Guattari, al Negri di Marx oltre Marx? Non so. Il problema di quanto abbia inciso il rapporto con la cultura francese su Montaldi e quanto la sua immaginazione proletaria si sia difesa dalle posizioni dominanti d’allora (Sartre innanzitutto) o quanto egli avrebbe condiviso, se non fosse morto, gli sviluppi “postmoderni” dei membri di Socialisme ou Barbarie è una questione interessante e complessa ma che non può essere qui affrontata.

8. L’immaginazione proletaria di Montaldi ha un suo luogo: Cremona

Ma dove in questi scritti davvero l’immaginazione proletaria mostra tutto il suo fondamento materiale e vissuto è nel lavoro che il Montaldi maturo ha svolto a Cremona, luogo – ribadisce ancora nel 1965 (in una lettera a Monica Suter) – non felice, semmai tragico come «quel paesaggio solitario di lunghe spiagge tagliate dalla corrente del fiume» che però è « un mondo nel quale mi piace vivere».

Negli Scritti troviamo importanti testimonianze di questo legame personale, politico e culturale: la ricerca su «La Pignone» (36), Una inchiesta nel Cremonese (1956,90), I contadini della Valle padana (1958,161), Miglioli, Grieco e il contadino (1958, 226), il blocco di documenti su «La matàna del Po» (1959, 323), La cascina (1966, 433), Quelli del Po (1966, 442).. Sono esempi del montaldiano e attivo «stare vicino al proletariato», in dialogo, attraversando assieme la memoria, criticando con la discussione il metodo adottato, sottoponendo ad analisi la «prefigurazione», cioè l’immaginazione (91), esplorando i «luoghi dove si fosse manifestata una concreta attività proletaria, con i suoi momenti di passione e di crisi».

Il «gruppo esterno»(97) che a Cremona nasce è l’eco intelligente (da “linea lombarda”, politicamente parlando) per quegli anni e non la scimmiottatura del partito di Lenin. Così, nel cogliere dal vivo permanenze e divenire delle forme di vita contadina, anteriori e posteriori all’industrializzazione delle campagne, Montaldi può polemizzare da posizioni di forza con la letteratura che in quegli anni ci occupava del mondo contadino e dell’immigrazione, che era ancora orientata dal modello neorealistico ma in modi sempre più estetizzanti (si vedano le sue critiche a Carlo Levi e a Zavattini e, per il cinema, la sua polemica col Visconti di Rocco e i suoi fratelli (382…). Egli è critico verso le «presunte immutabili costanti del mondo agrario, il quale invece come qualsiasi altra realtà storica si sviluppa, si afferma, entra in crisi, si trasforma»(201); e si potrebbe vedere nella sua ricerca un percorso che «dalla saggezza contadina» va all’«ideologia proletaria» o che vede già l’ideologia proletaria in quello che altri chiamano saggezza contadina, folklore (202).

La sua attenzione è alle trasformazioni del lavoro, che stacca i giovani dagli anziani e riduce l’importanza della comunità familiare, per cui «saggezza contadina», «dono», «racconto», miti vengono continuamente rielaborati. Tutte da studiare (ma esula dal mio intervento) sono le due presentazioni di Autobiografie della leggera (196) e, quasi in contemporanea, di Militanti politici di base (199), dove insiste sulla contrapposizione fra mitologia e storia.

9. Montaldi e la cultura di sinistra

La fittissima serie di considerazioni spesso contingenti e frammentarie sulla cultura di sinistra degli anni Cinquanta Sessanta (l’arte, il cinema, la letteratura) presente negli Scritti è volontà di contrapporre una cultura proletaria all’ottica prevalente del nazional-popolare. Ancora ritroviamo l’empito tutto giovanile «per una vita proletaria che diventi pienamente umana» e per un’azione d’avanguardia, alla quale «una falange di scrittori-operai deve contribuire, purché sia illuminata non nostalgica» (62).

Le preferenze e i rifiuti di Montaldi sono coerenti con la sua visione e la sua pratica politica e sociale.

Le preferenze vanno innanzitutto al grande cinema di Ejzenštein, alla letteratura e al cinema francesi, che sanno trattare i personaggi-operai, mentre in Italia non c’è spazio per un’«una originale creazione proletaria» (61), alla poesia di protesta (61), al lavoro delle riviste controcorrente come «Discussioni»(175) e «Ragionamenti», alla raccolta di autobiografie (60), strada che presto Montaldi imboccherà, non limitandosi a raccogliere del mondo proletario solo i documenti «corali», quindi di sfondo, ma anche i monumenti, spingendosi dunque verso una «valutazione letteraria del documento» (Il suo riferimento allora era il Rocco Scotellaro dei Contadini del Sud (61), un libro di biografie scritte e orali di uomini del Meridione), alla sociologia, che egli pensa di usare come disciplina contro la burocrazia (1958,290) e contro la letteratura neorealistica diventata «fregio e ghirigoro».

I suoi rifiuti colpiscono il cinema italiano, di cui parla come «un mucchio di rovine» dalle quale spicca la «miseria di piccoli borghesi piagnucolosi» (51), l’uso regressivo del dialetto in letteratura, gli «esami di coscienza» degli intellettuali (bersaglio ancora Lucio Lombardo Radice come esemplare di un «ampio settore della cultura di sinistra»), le false commozioni «per le riabilitazioni del XX Congresso», il «togliattismo come stalinismo puro»(179), le mitologie del proletariato come «buon selvaggio». Completamente ignorate o snobbate sono il formalismo della neoavanguardia e i raffinati giochi combinatori e fiabeschi di Calvino. Impressiona la serie degli intellettuali di sinistra ufficiale e critica bersagliati dalle critiche di Montaldi in tutto l’arco che va dal dopoguerra alla sua morte; e mi risparmio l’elenco o gli esempi.

10. Su alcune ombre dell’immaginazione proletaria di Montaldi

In genere, e non solo nella critiche all’intellettualità di sinistra, Montaldi sembra condividere in pieno l’idea marxiana che il proletariato non ha bisogno di farsi delle illusioni su se stesso, né logicamente di nascondere o di abbellire i suoi interessi e i suoi obbiettivi e che la critica delle ideologie condotta a fondo farà del proletariato una classe perfettamente trasparente a se stessa. Che questo poi sia avvenuto nella storia fra Otto e Novecento non possiamo certo affermarlo. Lo scivolamento fra reale e immaginario, fra mito e storia è costante sia per i dominatori che per i dominati.

Oggi, dunque, nella rilettura degli Scritti, terrei più presente la zona d’ombra che, suo malgrado, Montaldi mutua dalla visione marxiana, ancora fortemente illuminista e a tratti positivista. Anche questo è forse un condizionamento d’epoca per la sua generazione. Freud (nomino lui per indicare un simbolo di un atteggiamento più avvertito di questi problemi) è nominato una sola volta e en passant negli Scritti.

Faccio tre esempi dove, secondo me, la sua immaginazione proletaria tocca queste zone d’ombra senza avvertire che le aggira invece di penetrarvi a fondo o contraddicendo, in un caso, il suo stile profondamente antiromantico.

Primo esempio: sulla rivoluzione russa

La preminenza che ha per lui il mito della Rivoluzione russa comporta una rimozione degli effetti profondi dello stalinismo. Montaldi coglie che nello stalinismo c’è fede e sacralizzazione del partito e del capo. Ma vi contrappone solo – sottolineo questo solo – la critica e il metodo scientifico. Non so se Montaldi potesse condividere l’idea di molti antropologi che un mito si combatte solo con un altro mito. Ma mi pare che l’aspetto più oscuro di quella “religione” stalinista non gli riuscisse di afferrarlo (come invece ha potuto fare di più un Moshe Lewin, che ha mostrato quanto l’immaginazione proletaria degli operai sovietici si fosse purtroppo “compromessa” con lo stalinismo e che il “tradimento” della rivoluzione non implicava solo i dirigenti o il partito).

Montaldi, nel caso dello stalinismo, era frenato dalla diffusa mentalità dei militanti del tempo e forse anche delle conoscenze storiche di allora. Ma in effetti la sua critica si attesta sul piano ideologico. È soprattutto polemica contro l’ideologia del nazional-borghese.

L’unico di questi scritti esplicitamente dedicato a Stalin tocca una questione davvero secondaria, come quella delle posizioni di Stalin sulla lingua.

Quando accenna alla «degenerazione» (159-60) del partito o del sistema sovietico, Montaldi si ferma a considerazioni generali ma generiche: «La degenerazione del partito, a giusta ragione, porta oggi il nome di Stalin. Ma questo non significa che un patrimonio ideologico come quello bolscevico sia da dimenticare. Non ci sono mai state garanzie perché un partito non degenerasse; né ve ne sono per qualsiasi altro organismo della classe» (160); e anche i pochi riferimenti a Victor Serge si fermano all’apologia del rivoluzionario, ma non interrogano da vicino l’esperienza che Serge ebbe della involuzione staliniana.

Secondo esempio: «Su alcuni paesaggi» (1957, 134)

Questo, fra gli scritti dedicati al Cremonese, mi ha impressionato proprio perché scopre di più una sensibilità romantica verso un passato perduto (non dissimile mi pare da quella che rimproverava a Bosio ed altri), una sensibilità meno “proletaria”, meno “trasparente”, marxiana solo per uno scatto finale tutto verbale.

In questo saggio, infatti, [inviato per lettera anche a Fortini, non so se nella medesima stesura] Montaldi s’abbandona allo sguardo del promeneur: Se ne va in giro per la campagna, con un «un piccolo Goethe rilegato e di traduzione ottocentesca, che porto sempre con me» aggiunge (135); mostra d’essere un conoscitore minuzioso della storia locale dei monumenti; costruisce analogie sottili fra le sue letture e l’ambiente circostante («aspirazione gotica di certi paesaggi locali»,137). Sembra, insomma, affascinato dalla mentalità locale («la tetraggine del temperamento basso-lombardo»), dallo « sfondo pagano» che fa persistere paure secolari «soprattutto nelle donne anziane», copie – dice – di «quelle che dovettero essere le primitive abitatrici del fiume»137.

Qui una predilezione per il “popolare” («le preziose notizie trasmesse in tono paesano ci guadagnano, non ci perdono» (134) e un’attenzione acuta a «tutto un mondo patriarcale, militarista, paternalistico e cattolico che se n’è andato, [142]» e ai suoi residui ottocenteschi lo conduce a un’esperienza puramente estetica, altre volte respinta («Staccatomi dagli amici, mi diressi da solo verso quel romitorio, che sapevo,…per poterne fare una privata verifica, e godermela tutta da solo», 140; «Né si può dimenticare la bellezza degli stendardi feudali»,142).

Siamo nel 1957 e Montaldi ha 28 anni, si dirà. Ma il gusto per il diroccato e il funebre («Le chiese più vecchie, i torrioni, questi cimiteri, sono le cose da vedere in queste campagne»,135), rafforzato da commossi «ricordi di letteratura inglese» (136) e pensieri di morte («e mi ricordava che più di un anno fa io volevo scrivere qualcosa a proposito del sentimento della morte che si ha qui, nelle campagne» (136) è quello romantico.

L’attenzione è proprio alle permanenze dell’arcaico («E pertanto io ci passo attraverso a queste enormità di campagna, come mi capitava di promanarmi al museo dell’uomo del Palais de Chaillot tra i monumenti della civiltà africana e oceanica. Che questa non è meno Africa e Preistoria di quella» (138). E non manca l’accoppiata di amore e morte: la storia della «nobile P.», una signora lesbica (141).

Solo a tratti o alla fine rispunta il marxista, lo scatto materialistico e marxiano, che dal riferimento alla ««gramezza» (veramente cristiana) della vita che vi si conduce (che genera appunto quel sentimento) passa, come un pistolotto finale e improvvisato, all’affermazione: «poiché sappiamo ciò che i proletari sanno: che c’è un mondo, cioè, che è ancora tutto da guadagnare» (143).

Terzo esempio: Il rapporto Montaldi-Fortini

Vorrei accennare – anche per una questione personale di stima e di affetto per la memoria di entrambi – alla necessità di un confronto Fortini-Montaldi.

Preciso subito: non è confronto fra un periferico e uno «scrittore europeo» (come si è detto di Fortini). Montaldi aveva i suoi circuiti europei diversi da quelli di Fortini (non casualmente sartriano).

Sono due figure che, pur sapendo in contrasto [e gli Scritti mi hanno provato ancor più la loro distanza], continuo a sentire storicamente complementari, come se entrambe contenessero elementi essenziali della crisi che abbiamo vissuto lungo il secondo Novecento.

Sono due volti di quella crisi – diciamo pure – uno proletario e l’altro piccolo-borghese, uno proletkult e l’altro ammantatosi della «sublime lingua borghese», l’uno aperto all’ operaismo del ‘69 e l’altro alle controverse dinamiche dell’intellettualità di massa del ’68.

Ci sono pochi elementi per approfondire questo confronto. L’avvicinamento dei due avviene negli anni Cinquanta-Sessanta. Purtroppo il rapporto s’interrompe bruscamente. Il carteggio fra i due è limitato: iniziato attorno al ’55, per iniziativa di Montaldi che vedeva nell’esperienza de Il Politecnico un modello per sé e i suoi giovani compagni, si conclude già attorno al ’63, con una lettera in cui Montaldi rivendica orgogliosamente il fatto di non frequentare i luoghi «dove si elaborano le riviste politiche come opere d’arte» e rimprovera così Fortini a cui ha mandato dei bollettini del Gruppo di Unità proletaria: «non ci hai mai rivolto una critica, non ci hai mai detto che avevi qualcosa da dare, da scrivere, nemmeno un’indicazione sugli argomenti da trattare, da sviluppare, non un indirizzo cui mandarlo..-»(Lettera di Montaldi del 9 marzo 1963 ).

Di fronte alla vastità del processo d’industrializzazione e massificazione della cultura e della scuola di quegli anni, l’emissione di polemica sia da parte di Montaldi che dei suoi avversari appare oggi tanto più esorbitante quanto più sterile. La critica alla politica censoria del PCI da una parte e la difesa attardata del nazional-popolare dall’altra si lasciava passare sotto gli occhi l’offensiva capitalista condotta attraverso scuola e mezzi di comunicazione di massa.

A quei processi, in quegli anni Sessanta, si reagiva o con l’opera anarchicheggiante di Bianciardi o con la difesa e il tentativo di sviluppare la cultura proletaria di Montaldi o con il tentativo di Fortini di salvare l’insegnamento del Politecnico ponendosi in senso gramsciano il problema dell’organizzazione della cultura dal suo interno, proponendo una una manualistica molto ben fatta, tentando di elaborare una «scrittura comunicativa media» (Fortini, 440), sperando di influire «attraverso il linguaggio negli strumenti di comunicazione di massa» – tentativo dichiarato poi fallimentare dallo stesso Fortini (« questa idea si rivelava buona per il Manzoni, non per noi. L’immenso flusso di informazione-comunicazione avrebbe distrutto completamente una simile possibilità» (Fort,440 …). Non era più questione di censura politica esercitata dal Pci ( tramite Antonio Giolitti) che colpiva l’opera di Trockij o faceva uscire Serge nella Nuova Italia, ma era – come dice ancora Fortini – che le case editrici «diventavano sempre più organi che veicolano mode» e si andava formando (anche coi tascabili)un ‘intellettualità di massa (Fortini dice «di secondo rango»).

Di fronte a quei processi tutte le varie culture della sinistra, sono risultate perdenti o hanno dovuto in qualche modo piegarsi. Ma anche l’ipotesi montaldiana della cultura proletaria non ha retto all’urto.

Anche in questo caso, perciò, penso che l’immaginazione proletaria di Montaldi è rimasta prigioniera del mito, che ha fatto ombra ad un’analisi più spregiudicata sulla capillarità e intensità dei processi che avvenivano nell’industria culturale. Ed è strano non trovare contributi in proposito da parte di Montaldi, che pure faceva il traduttore per Einaudi, Feltrinelli e Mondadori, ed era implicato in qualche modo in questi processi dell’industria culturale, subendone anzi conseguenze sul piano personale (La vicenda del rifiuto della Feltrinelli di pubblicare il Saggio sulla politica del PCI non è irrilevante andrebbe oggi indagata a fondo).

[lettera sull‘uso della scuola] Come se egli non vedesse quanto si andasse preparando e che a noi ci aveva già coinvolto in pieno.

Perciò, ritengo particolarmente esasperate e forse mal indirizzate le accuse rivolte a Fortini, specie rispetto alla traiettoria successiva da lui compiuta fino alla sua morte del ’94, che è verificabile oggi se si leggono le sue amare (e anche autocritiche diagnosi sulla politica culturale tentata in quegli anni):

«Una volta si pensava che le idee determinassero delle conseguenze: oggi il margine delle conseguenze è stato eliminato nel pluralismo totale, e la democrazia delle idee spinte all’estremo, come in quelle sette protestanti dove nel coro ognuno canta un salmo per conto suo, secondo che lo spirito detta. Così ognuno di noi canta la sua nota, e tutto finisce lì, nessuno mira alle conseguenze. Allora quando mi domandano se esista una cultura d’opposizione , io rispondo: no esiste, ed è meglio così. Finora la cultura d’opposizione è stata essenzialmente una cultura d’opposizione interna. Le uniche vere culture d’opposizione della prima metà del secolo, paradossalmente, sono state da un lato quella di origine leninista, dall’altro quella nazista. Le quali, beninteso, non hanno alcun rapporto tra di loro e rappresentano cose diversissime, ma entrambe sono d’opposizione sul serio, e prevedono certe conseguenze. Oggi darsi da fare per una cultura d’opposizione è ridicolo, perché i temi di quelle che erano le parti in conflitto sono oggi distribuiti nel magma dell’informazione-comunicazione attuale» ( Fortini, Interviste 1952-94, pag. 446),

Certo Montaldi non si è chiuso come Fortini nella «sublime lingua borghese» e era fuori dalla sua logica tentare dall’interno dell’editoria, del giornalismo, del mondo universitario di contrastare questi processi.

Il suo tenersi legato – l’abbiamo visto più volte – al mondo proletario in termini concreti ha significato per lui anche non “far carriera”. Il suo antiaccademismo (non antintellettualismo, egli è intellettuale raffinato ma proletario) che lo distingue dagli altri intellettuali della Sinistra (il convinto rifiuto di professionalizzarsi di Montaldi è un sintomo) a me risulta sicuramente più simpatico e congeniale.

Questo restare vicino al proletariato (ma memore della storia delle lotte proletarie) gli permette di essere sicuramente più attento di altri alle trasformazioni del mondo proletario. Rispetto ad un Pasolini, ad es., è politicamente molto più agguerrito, evita perciò il suo populismo e d’altro canto non ritengo neppure sbagliato essersi distanziato anche dal lucaccianesimo o l’adornismo di Fortini.

Ma – ripeto – questa fedeltà al mondo proletario ha avuto anche i suoi risvolti negativi. Certe trasformazioni proprio sul lato che oggi chiamiamo dell’”immateriale” quel proletariato le ha – come abbiamo visto noi in questi oltre 25 anni dalla sua morte – poi subite. Con quella cultura proletaria non era più possibile intervenire per fronteggiarle o avvantaggiarsene almeno in parte.

Questo dobbiamo dircelo, se non vogliamo abbandonarci al culto amicale. La “disattenzione” di Montaldi sul ’68 studentesco mi pare sveli una sua difficoltà. Questi fenomeni toglievano spazio alla sua visione proletaria: l’emergere di un’intellettualità di massa era qualcosa di abbastanza estraneo alla sua immaginazione, ma la storia successiva ci dice quanto le nuove figure (movimento del ’77, ecc. ) avessero il vento in poppa, vento ambiguo capitalista e postcomunista come si è poi detto, e quanto oggi ne siamo coinvolti nolenti o volenti.

La polemica con la Sinistra si è svuotata, non perché si possa giustificare quella politica, ma perché anche quella è venuta meno, si è dissolta. Il tenace riferimento proletkult di Montaldi è stato fertile sul piano della sua ricerca, ma oggi dobbiamo dirci che Autobiografia della Leggera e Militanti politici di base per non ridursi a letteratura dovranno aspettare che si riaffacci il bisogno di qualche nuova forma di memoria che possa aver bisogno delle verità che contengono.

11. Conclusioni: La mia lettura degli «Scritti 1952-1975)

Dopo aver trattato il tema che mi sono proposto, voglio accennare al sentimento contraddittorio che ha accompagnato questa mia rilettura degli scritti di Montaldi. Avevo conservato di lui in tutti questi anni un ricordo congelato dalla sua morte e subito dopo dagli strascichi amari e spesso tragici del periodo di quella militanza politica che era stata occasione e ragione del nostro incontro.

L’avevo espresso in questa poesia a lui dedicata che mi permetto di leggere:

Milano, Corea

a Danilo Montaldi

E qui ammutoliti stemmo:
i corpi sfibrati di fatica
le sopraccoperte a fiorami sulle brande
le collezioni di tiepide bamboline
nelle credenze vetrate.

La sterpaglia, i cantieri guardammo
come nuotatori
che all’improvviso restringersi del mondo
spengono sul vuoto d’aria attorno
occhi, cuori e volere
e sprofondano
con la muscolatura serrata
trattenendo in un unico spasimo
persino l’azzurro respirato dai loro padri.

Nel riprendere in mano ora questi scritti, due fatti mi si sono imposti:

1) il ribaltamento dell’immagine personale che avevo di Montaldi a causa del tempo passato: se, giovane immigrato e militante politico di base nell’hinterlad milanese, quando lo conobbi attraverso alcuni incontri e lo scambio di poche lettere tra 1973 e 1975, egli mi appariva un possibile compagno-maestro-fratello maggiore, oggi mi sono ritrovato nella posizione del vecchio, che fa i conti con un giovane e sotto certi aspetti con la propria giovinezza (la mia). E mi si è posto il problema di non far pesare oltremodo questo mio invecchiamento, di difendere oggi attraverso quella di Montaldi anche la mia giovinezza e salvare criticamente però quella dimensione proletaria presente nel suo/mio “tempo perduto”;

2) la consapevolezza della fine di quell’epoca e di una situazione attorno a noi completamente mutata. Nel passaggio – come si dice – “dal fordismo al postfordismo”, tutto è diventato più “immateriale”, i soggetti sociali e politici a cui facevamo riferimento allora sono stati emarginati, altri più indistinti o “mutanti” li vanno sostituendo; siamo tutti meno “proletari”, più “intellettuali”, più “ceto medio” o “moltitudine”. Siamo tutti di fatto più distanti da Montaldi.

Questo profondo cambiamento nel reale e nel nostro modo di pensarlo mi ha suggerito di guardarmi da una lettura degli Scritti solo simpatetica o basata su un’ottimistica continuità.

Al di là della possibilità di ripresa di aspetti decisivi dello stile di Montaldi (un nuovo tipo di memoria, l’inchiesta fra gli strati del lavoro informatizzato o fra i nuovi immigrati), il tentativo che dobbiamo fare è quello di tradurre il senso alto e nobile che Montaldi ebbe della condizione proletaria per questo nuovo ceto medio o neoproletario o moltitudine di oggi.

Ennio Abate 9 maggio 2003

Note

1 B. Baczko, Immaginazione sociale, Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino, 1979, pag.55.

2 S. Bologna, Per un’antropologia del lavoro autonomo, in Il lavoro autonomo di seconda generazione, Feltrinelli, Milano, 1997, pag.99.

Su “Dolore e furore” di Sergio Luzzatto

Un oggetto di speculazione storiografica:
le Brigate rosse

di Eros Barone

Continua la lettura di Su “Dolore e furore” di Sergio Luzzatto

Guerra o pace?

Tempi sempre più bui. Non precipitarsi a parlare senza studiare i mutamenti in corso.

Conferenza organizzata da Centro Filippo Buonarroti e Casa della Cultura. Intervengono: Claudio Vercelli (Storico: autore del libro “Storia del conflitto israelo-palestinese”, Ed. Laterza) Carlo Antonio Barberini (Centro Filippo Buonarroti)

a cura di Ennio Abate

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Anni ’70. Sulla sconfitta della lotta armata.


Il problema della violenza nella storia (irrisolto? irrisolvibile in termini assoluti?) si ripropose nell’Italia degli anni ’70 del Novecento in termini di “falsa guerra civile” (Fortini)? Il principio pacifista avrebbe potuto suggerire pratiche che avrebbero evitato morti, sofferenze e  il “tramonto della politica” (Tronti)?  In “Aperte lettere” (2023) di Rossana Rossanda, di cui pubblicherò uno stralcio nei commenti, si legge una recensione ad “Extrema ratio”, libro di Fortini pubblicato nel 1990, dove la questione  dei “giovani delle lotte armate italiane” degli anni ’70, di cui torniamo a discutere  in Poliscritture, è posta nei termini in cui io pure credo di averla posta. E che Lorenzo Galbiati  non condivide e contesta. Forse nelle mie e nelle sue parole  – lui nato nel 1970,  io che sono del 1941 – ricompare uno scarto di cultura politica generazionale sul quale è bene riflettere. [E. A.]

di Lorenzo Galbiati

Raccolgo qui, schematicamente, alcuni pensieri spero ben ordinati che mi sono sorti leggendo l’articolo “Anni’70. Sconfitti sì, pentiti no.” (qui) e la lunga risposta a punti, sempre di Ennio Abate (qui), a un mio primo, improvvisato e soggettivo commento (qui). Continua la lettura di Anni ’70. Sulla sconfitta della lotta armata.

FOIBE, GIORNATA DEL RICORDO Ripasso di storia invece che polemichette

a cura di Ennio Abate

Raul Puppo, Trieste ’45. Dalla risiera alle foibe, Laterza 2022 pagg.254-257

 

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Il «giorno del ricordo» e la memoria corta degli italiani
di Enzo Collotti

Nella canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili, la cosa più sorprendente è l’incapacità dei politici della sinistra di dire con autorevolezza ed energia: giù le mani dalle foibe! Come purtroppo è già avvenuto in altre circostanze, l’incapacità di rileggere la propria storia, ammettendo responsabilità ed errori compiuti senza per questo confondersi di fatto con le ragioni degli avversari e degli accusatori di comodo, cadendo in un facile ed ambiguo pentitismo, non contribuisce a fare chiarezza intorno a un nodo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini.

A parte la incomparabilità dei numeri – poche migliaia contro sei milioni – sono la logica e la storia che rendono incomparabili i due fenomeni. Fenomeno locale le foibe, fenomeno universale la Shoah. Anche dal punto di vista temporale il problema foibe si esaurì nel giro di poche settimane, al di là del perdurare della memoria, la Shoah si consumò nel corso degli anni della Seconda guerra mondiale, annullando confini ed ambiti territoriali, distanze sociali e stabilendo nuove gerarchie nazionali e sociali.

Continuare a deprecare le foibe senza porsi l’obiettivo di contestualizzarne l’accaduto contribuisce a fare della retorica, ad alimentare il vittimismo e a offendere ulteriormente la memoria di chi è stato coinvolto in una atroce vicenda e soprattutto di chi ha pagato, innocente, per responsabilità altrui. La vicenda delle foibe ha molte ascendenze, ma certamente la più rilevante è quella che ci riporta alle origini del fascismo nella Venezia Giulia. È una storia nota e arcinota, su cui hanno lavorato storici della mia generazione, (…), con posizioni diverse tra loro ma tutti impegnati a costruire le linee interpretative di un passato storico che, tenendo conto della complessità della situazione di un’area crocevia di culture diverse, contribuisca a creare una nuova cultura politica capace di fare uscire i comportamenti politici e culturali dalle secche dello scontro frontale fra gli opposti nazionalismi, la cui cecità si alimenta a vicenda delle speculari pretese di esclusione.

Sin quando si continuerà a voler parlare della Venezia Giulia come di una regione italiana senza accettarne la realtà di un territorio abitato da diversi gruppi nazionali e trasformato in area di conflitto interetnico dai vincitori del 1918, incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi, si continuerà a perpetuare la menzogna dell’italianità offesa e a occultare (e non solo a rimuovere) la realtà dell’italianità sopraffattrice. Non si tratta di evitare di parlare delle foibe, come ci sentiamo ripetere quando ragioniamo nelle scuole del giorno della memoria e della Shoah, ma di riportare il discorso alla radice della storia, alla cornice dei drammi che hanno lacerato l’Europa e il mondo e nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro Paese.

Ma che cosa sa tuttora la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo nei confronti delle minoranze slovena e croata (…), addirittura da prima dell’avvento al potere? Della brutale snazionalizzazione (proibizione di uso della propria lingua, chiusura delle scuole, chiusura delle amministrazioni locali, boicottaggio nell’esercizio del culto, imposizione di cognomi italianizzati e cambiamento di toponimi) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze e della distruzione della loro memoria storica? I paladini del nuovo patriottismo fondato sul vittimismo delle foibe farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della razza italica, che vedevano un nemico e un complottardo in ogni straniero (…) Che cosa sanno dell’occupazione e dello smembramento della Jugoslavia e della sciagurata annessione della provincia di Lubiana al Regno d’Italia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediati nel Litorale Adriatico, sullo sfondo della Risiera di San Sabba e degli impiccati di via Ghega?

Ecco che cosa significa parlare delle foibe: chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell’arco di un ventennio con l’esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari, sociali concentratesi in particolare nei cinque anni della fase più acuta della Seconda guerra mondiale. È qui che nascono le radici del l’odio, delle foibe, dell’esodo dall’Istria. Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti. (…) Da sempre nella lotta politica, soprattutto a Trieste e dintorni, il Movimento sociale un tempo e i suoi eredi oggi usano e strumentalizzano il dramma delle foibe e dell’esodo per rinfocolare l’odio antislavo; rintuzzare questo approccio può sembrare oggi una battaglia di retroguardia, ma in realtà è l’unico modo serio per non fare retrocedere i modi e il linguaggio stesso della politica agli anni peggiori dello scontro nazionali stico e della guerra fredda.

I profughi dall’Istria hanno pagato per tutti la sconfitta dell’Italia (da qui bisogna partire ma anche da chi ne è stato responsabile), ma come ci esorta Guido Crainz (in un prezioso libretto: Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa, Donzelli, 2005) bi sogna sapere guardare alle tragedie di casa nostra nel vissuto delle tragedie dell’Europa. Non esiste alcuna legge di compensazione di crimini e di ingiustizie, ma non possiamo indulgere neppure al privilegiamento di determinate categorie di vittime. Fu dura la sorte dei profughi dall’Istria, ma l’Italia del dopoguerra non fu sorda soltanto al loro dolore. Che cosa dovrebbero dire coloro che tornava no (i più fortunati) dai campi di concentramento, di sterminio, che rimasero per anni muti o i cui racconti non venivano ascoltati? E gli ex internati militari – centinaia di migliaia – che tornavano da una prigionia in Germania al limite della deportazione? La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta soltanto del silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte ri mozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d’Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.

* Questo testo del grande storico italiano è parte dell’introduzione al libro “Dossier Foibe” di Giacomo Scotti, uscito per Manni editori – che ringraziamo – nel, 2022 (con sua introduzione e post-fazione di Tommaso Di Francesco).
https://ilmanifesto.it/il-giorno-del-ricordo-e-la-memoria-corta-degli-italiani

Odio tutte le guerre

Breve sunto  del libro che Raffaella  ha pubblicato  in Inglese su Apple Books: Tales Of Love and War. https://books.apple.com/us/book/tales-of-love-and-war/id6475421848  [E. A.] Continua la lettura di Odio tutte le guerre

Cominciando dalle vittime

Appunti su “Storia del conflitto israelo-palestinese” di Claudio Vercelli (1)

Ho appena finito di leggere questo libro e ci tornerò su a più riprese, perché tratta in modo chiaro e puntuale una questione che, come un tarlo, è da tempo presente nelle mie letture sulla storia del Novecento. (Cfr., ad esempio, qui, qui o qui). In questo primo appunto propongo una nota, apparentemente secondaria, del suo ultimo capitolo, che considero un punto ineludibile da cui partire per  riflettere su qualsiasi conflitto sociale e politico: Continua la lettura di Cominciando dalle vittime

Una ricerca storica sulla Basilicata tra 1740 e 1860

La Basilicata verso l’Unità d’Italia
– origini della Questione Meridionale – 1740 – 1860

E’ uscito con un ritardo di decenni –  segno sintomatico del degrado culturale  italiano dagli anni ’80 del Novecento ad oggi e della cancellazione della cultura della sinistra in questo Paese –  un libro di storia sulla Basilicata. L’ha scrittodi Giuseppe Natale – amico e studioso e, di recente, anche collaboratore  di Policritture -, il cui percorso di vita e di lavoro in varie occasioni si è incrociato in passato con  il mio. Lo segnalo volentieri proponendo  due brani: uno dalla presentazione di Giovanni Caserta – scrittore, storico, critico letterario e autore di una Storia della letteratura lucana (1993); e un altro con la spiegazione che l’autore dà sia della nascita della sua opera nel clima  di grandi speranze spuntate con il movimento studentesco del ’68 nella fucina intellettuale che fu l’Università Statale di Milano  in quegli anni – Franco Della Peruta e Lucio Gambi, ricordati da Giuseppe, furono tra l’altro anche miei professori –  e  sia della (forse paradossale e per me più incerta) attualità della gramsciana questione meridionale. Le vecchie botti del ’68  contengono ancora del buon vino. Assaggiatelo. [E. A.] Continua la lettura di Una ricerca storica sulla Basilicata tra 1740 e 1860

L’immigrazione italiana in Svizzera dal dopoguerra agli anni ’80

di Alessandro Le Goff

I brani qui pubblicati sono tratti da un’accurata e ben documentata tesina di maturità  di Alessandro Le Goff, uno studente svizzero figlio di immigrati (padre francese e  madre italiana). In essa ha trattato vari aspetti dell’emigrazione italiana in Svizzera  dal dopoguerra agli anni ’80 del Novecento: condizioni di vita e di lavoro, la fatica del viaggio, le difficoltà di integrazione, la costrizione delle rigide regole di ingaggio, specie degli stagionali, la condizione di clandestinità in cui erano tenuti i bambini dei lavoratori immigrati. Sono temi ben approfonditi dalla più recente storiaografia sulle migrazioni, ma  è importante vedere come  sono accolti e  rimodulati in un linguaggio chiaro e puntuale da un giovane che se ne serve per chiarire il suo passato familiare e la propria identità in costruzione. E anche i possibili legami (nonché le differenze) con le nuove migrazioni intercontinentali. [E.A.] Continua la lettura di L’immigrazione italiana in Svizzera dal dopoguerra agli anni ’80

Non solo banchieri. Ebraismo e proletariato a fine ‘800

di Salvo Leonardi

Di quel “sinistro miscuglio di semiverità e confuse superstizioni” (Arendt), che fra Otto e Novecento ha animato l’immaginario antisemita europeo, due miti – più di altri – si sono rivelati straordinariamente radicati e virulenti; l’attribuzione agli ebrei di uno abnorme potere nella sfera finanziaria da un lato, e il mito del bolscevismo giudaico dall’altro, agente internazionalista della sovversione rivoluzionaria e antinazionale. A saldarli nella loro pur eclatante contraddittorietà, il tradizionale refrain di un cosmopolitismo apolide e cospirativo, foriero – fra i cittadini di “razza ebraica” – di separatezza interna e scarsa lealtà nazionale, sino all’infamante estremo del tradimento, secondo un’insinuazione che nel successo mondiale di un colossale falso come i “Protocolli dei Savi di Sion”, e nell’affare Dreyfus, avrebbe ricevuto le sue più clamorose ed epocali testimonianze. Continua la lettura di Non solo banchieri. Ebraismo e proletariato a fine ‘800